I friulani W.I.N.D. sono, da anni, una delle realtà rock più importanti d'Europa. Il power trio si è costruito un seguito internazionale basato su serietà e personalità che ha pochi eguali in Italia. Il loro ultimo disco Walkin' in a new direction è uscito nel 2010 ed è uno dei migliori dischi rock usciti nel nostro paese negli ultimi anni. Fabio Drusin, bassista, cantante e fondatore, parla del loro ultimo lavoro, della stabilità trovata dalla nuova formazione e dell'attività live in giro per il mondo, vero punto di forza dei W.I.N.D.
Ad un anno di distanza dall'uscita di Walkin' In A New Direction, quali sono le soddisfazioni maggiori che vi ha dato il disco, a tutti i livelli? Riuscite a trarre un primo bilancio di questa nuova avventura per la band?
Fabio Drusin: L'album è andato molto bene come vendite e come recensioni, ha ottenuto ottimi consensi dalla stampa e addetti ai lavori ed attualmente è l'album che ha venduto di piu dei nostri precedenti, essendo vicino alla quarta ristampa nel giro di un anno. Anche perchè supportato da parecchi concerti un pò ovunque negli ultimi due anni, ed un buon lavoro dal nostro management ed etichetta discografica.
Quali sono stati i più grandi cambiamenti umani e musicali con l'entrata nella band,( ormai quattro anni fa, se non sbaglio) di due nuovi elementi come Anthony Basso alle chitarre e Silver Bassi alla batteria?C'è stato da subito un ottimo feeling tra di noi, umano e musicale, siamo partiti subito per dei concerti una settimana dopo le prime prove. Direi che siamo maturati molto, assieme, ed abbiamo portato al nostro sound una ventata d'aria fresca, guidata dalla nostra compatibilità e anche dal fatto che abbiamo vissuto assieme per lunghi periodi in Tour, cosa molto importante, perchè solo lì riesci a capire se il motore gira; l'attitudine che devi avere per fare un mestiere come questo è una cosa fondamentale, oltre alla dote della musica, questo è il motivo per cui molte bands partono ma poi si fermano, per diversi motivi. Gli ostacoli da saltare sono molti e non tutti sono disposti a farlo. Noi ci reputiamo fortunati in questo,vuoi perchè nel corso degli anni abbiamo portato avanti un discorso serio, riuscendo a dare un certo peso e storia al nostro nome, vuoi perchè siamo un trio unito e motivato, che ha un'unico obiettivo. Ora per le bands emergenti è tutto piu difficile in questo businness, molto difficile e a mio parere manca anche una certa unità. Musicalmente parlando, con Anthony e Silver c'è stato un salto di qualità e professionalità, più aperture musicali, più orizzonti esplorati, due voci soliste e i molti concerti che abbiamo fatto hanno aiutato a maturare il nostro sound, che ripeto, risente positivamente per la nostra compatibilità musicale e anche umana. Dividiamo stessi gusti, stesse idee riguardo il nostro lavoro e progetti ed andiamo d'accordo rispettandoci a vicenda.
Come riportato sul retro copertina, il disco è stato registrato live in studio. Come siete riusciti ad ottenere questo suono strepitoso?Semplicemente cercando di portare sul disco il nostro suono naturale, il nostro feeling del momento, appunto registrando in maniera live in studio, con i nostri strumenti, microfoni d'ambiente vintage e l'occhio e orecchio attento del nostro produttore Stefano Amerio,.
che rispetto i dischi precedenti ha lasciato piu spazio al suono e all'ambiente, con pochissime sovrancisioni lasciando volutamente anche qualche imperfezione del momento, che fa parte dell'anima della musica, specie quella Rock. Poi la nostra personalità ha fatto il resto, il suono di una band, di uno strumento, nasce da quello che sei.
Volendo fefinire la vostra musica, ci si trova in difficoltà: blues, jam band, psichedelia, southern, hard blues. Il vostro range musicale è ampio. Qual'è la definizione che più vi aggrada o che riesce a rendere meglio la musica che suonate?Una parola: ROCK. Non amo particolarmente le etichette, che non dovrebbero essere date dai musicisti, i generi sono stati inventati dai giornalisti, per meglio etichettare una o l'altra band, che ovviamente è comodo e in certi casi serve; nel Rock, specie quello di un tempo, trovi un pò di tutto: il Blues, il Soul, il Funk. Mi piace ricordare una frase di Gregg Allman: "Non siamo una Jam Band, siamo una band che fa Jam".Un tempo tutti igrandi gruppi erano a loro modo jam bands: Traffic, Jethro Tull, Zeppelin, Cream, Hendrix, per citarne alcuni. Io personalmente sono un grande fan della musica Soul di un tempo ad esempio, genere che adora anche Anthony, ma ascolto anche musica Indiana, etnica, Jazz, Blues ovviamente, musica classica, il Funk di New Orleans.Tutti generi che puoi trovare in una sola parola, il Rock. Silver è un batterista atipico, ascolta principalmente musica dove il batterista non necessariamente è in prima linea, è molto musicale e il suo modo di suonare riflette questa sua particolarità. Oggi molti batteristi ascoltano principalmente bands dove il batterista è molto tecnico, limitando l'ascolto principalmente al solo strumento, cosi succede spesso anche per i chitarristi, mentre Anthony ascolta molti cantanti ad esempio, essendo cantante anche lui, e questo lo si sente nel suo modo di suonare. Tutto ciò aiuta ad amalgamare il nostro suono. Diciamo che lavoriamo naturalmente alla "Tutti per uno, uno per tutti", è questo che crea la personalità di una band
Ad esempio Deja Vu with the Blues è una canzone molto eclettica. Come è nata?E' nata durante un nostro ritiro in montagna qualche anno fa, appunto per scrivere le canzoni per il disco. L'ho scritta partendo dal riff di basso e pensando al Rhithm ad Blues vecchio stampo, poi nella parte centrale c'è un'impennata jam con solo di Anthony per poi finire con un solo di Trombone di Mauro Ottolini. Ho pensato al trombone perchè è uno strumento che adoro e perche pensavamo ci stesse bene in quel contesto un po "Funk Jam". Mauro lo ha inciso dopo un solo ascolto del brano, alla prima take. Lui è uno dei migliori qui in italia e non solo ed anche un grande fan dei Led Zeppelin, tornando al discorso di prima..
Il vostro nome all'estero è conosciuto ed apprezzato. Fate Festival e Tour ogni anno. La situazione in Italia com'è, notate grandi differenze rispetto agli altri paesi europei? Insomma l'Italia vi va stretta?E' un discorso lungo e complicato.Stretta non direi, anche perchè abbiamo suonato molto in Italia, e nel tempo abbiamo costruito un discreto seguito. Va un pò di moda dire che qui la situazione è peggiore che in altri posti, ma non sono completamente d'accordo, anche perchè avendo girato molto ho visto situazioni simili un pò ovunque. C'è qualcosa di positivo e qualcosa di negativo in ogni stato, dipende dal tuo giro, dai tuoi contatti, dalle scelte che fai. Se parliamo di certi programmi televisivi certo è un disastro, ma non dimentichiamo che sono programmi che vengono dall'America e dall'Inghilterra, è un marcio e una politica di media un po "lava cervelli", viviamo in un mondo globale che dovrebbe tornare all'analisi singola e alla liberta di scegliere. Negli Stati Uniti ad esempio, dove ho diversi amici musicisti, è piu dura che da noi, suonano per le mance, a volte pagano pochissimo, a parte i grandi, ma che anche loro dagli stadi sono passati ai clubs e vanno di moda i tours a doppio nome per richiamare piu persone, oltre al fatto che molti di loro aspettano di venire in Tour in Europa, dove li pagano meglio e il pubblico è ancora piu vergine e curioso.Vige un clima di disinteresse delle persone, bisognerebbe fare molti passi indietro, il consumismo e anche la tecnologia, paradossalmente non hanno aiutato molto. Non sono contro la tecnologia, internet e iTunes, se sono usati in maniera corretta e se non intaccano incosapevolmente la nostra curiosità ed entusiasmo, cose fondamentali per la musica, che però possono perdersi con i vari youtube, facebook etc. Voglio dire, Facebook e Myspace sembravano una svolta, invece hanno creato un mare troppo grande, dando anonimato. Quando c'è troppo tutti diventano troppo poco e la visibilità che dovrebbe dare, invece porta a sterilità e invisibilità, facendo calare l'interesse e la curosità. I ragazzi dovrebbero staccare un pò di più il computer e l'iPod e prendere in mano più spesso gli strumenti e suonare, parlare, confrontarsi, discutere, conoscere...
Spesso girate il mondo in compagnia di Alvin Youngblood Hart. Quali sono i ricordi più belli di questi tour, dove siete stati?Il primo concerto che abbiamo fatto con lui fu nel Maggio del 2008, in un Festival in Olanda, senza prove, ci trovammo in aereoporto ad Amsterdam e dopo qualche ora eravamo sul palco:-), da lì poi moltissimi altri concerti e Tours: in Inghilterra, Danimarca, Francia, Svizzera, Italia, Germania e anche Brasile. Ricordi bellissimi per tutti i Tours, incontri, lunghi spostamenti in Van, diverse Jams con artisti di rilievo, Anthony ci ha seguito per parte dei tours, suonando con noi, a formazione due chitarre. Ho imparato moltissimo da lui, Alvin è uno che suona ininterrottamente dai primi anni '90, ha vinto un Grammy, partecipato a due films, suonato e girato in compagnia di Eric Clapton, Neil Young, Ben Harper, Taj Mahal (colui che lo ha scoperto), Allman Brothers, Gov't Mule, Black Crowes, Bonie Raitt, solo per citarne alcuni. E' un musicista vero e persona molto semplice e umile, di aneddoti ne potrei raccontare a centinaia, ma diventerebbe lunga:-). Ricordo con piacere la registrazione alla BBC di Londra, nello stesso studio dove Led Zeppelin e Free registrarono i loro "Live at BBC", questo durante il Tour Inglese del 2010, dieci date una dietro l'altra, ho visitato città bellissime e posti in cui mai sarei stato se non per la musica. Come ad esempio lo scorso Tour Europeo che abbiamo fatto con W.I.N.D. assieme a Johnny Neel, 17 date tra Germania, Austria, Belgio, Polonia, Calabria, posti e gente meravigliosi, ricordi indelebili, come anche la recente jam che io e Anthony abbiamo fatto assieme alla Warren Haynes Band in Polonia, lo scorso Agosto.
Anche se l'ascolto di una canzone come "Demons" potrebbe dire il contrario, recentemente (3 Dicembre) avete affrontato anche un concerto, completamente unplugged. Come è andata? Esperienza da ripetere?Demons è nata sempre durante il nostro ritiro in montagna, Anthony ha accordato la chitarra in modo aperto, poi un riff e io ci ho aggiunto la melodia, è nata subito e dal vivo ci piace riproporla anche in elettrico. Suoniamo a volte anche in acustico, lo scorso 3 Dicembre non era la prima volta, quando si presenta l'occasione ideale per un concerto unplugged, ci piace riproporre la musica che amiamo, il Soul, il Gospel, il Blues e anche il nostro Rock, spoglandoci dalla potenza dell'elettrico e concentrandoci sul calore e l'emozione dell'acustico, tornando alle radici.
Pensate che la formazione a tre sia la migliore per la vostra musica? Quali sono i power trio "indispensabili" nella storia del rock?Con la formazione a tre andiamo a nozze, vuoi perchè lascia spazio e dinamiche, vuoi perchè ci troviamo ad occhi chiusi e ci conosciamo molto bene musicalmente,avendo iniziato così. Ovviamente ci piace suonare anche in quartetto, con Johnny è stato bellissimo, ma il trio format si sposa benissimo con la nostra musica e la nostra personalità. Spesso invitiamo ospiti ai fiati, alle tastiere, qualunque strumento, abbiamo suonato adirittura con due batterie, con Gandhi, cercando di inserire l'ospite nel contesto giusto, ma il trio, se dinamico, vario e articolato musicalmente, ci da molta soddisfazione. Riguardo i power trios "indispensabli" direi Cream, Mountain, Hendrix, ZZ Top.
I 5 dischi che riescono a mettervi d'accordo?Ce ne sono molti che ascoltiamo tutti e tre. Ti potrei dire Led Zeppelin III, Blind Faith, Free, Ray Lamontagne, Crosby. Ma anche molte altre cose, vecchie e nuove: Hendrix, Cream, Derek and The Dominos, James Brown, Gov't Mule, Black Crowes, Bob Seger, Mountain...Ricordo che lo scorso tour eravamo tutti molto eccitati da "In The Jungle Groove" di James Brown, ma ascoltavamo anche Neil Young, Bob Marley.
Vorrei chiudere, ricordando un grande artista. Il 6 Febbraio scorso è morto Gary Moore. Secondo me, almeno qui in Italia non è stato celebrato a dovere. Concordate? Qual'è il ricordo più grande che avete di lui?Gary Moore era un gentleman, con lui abbiamo praticamente vissuto per dieci giorni, quando aprimmo il suo tour in tedesco di dieci date con Alvin Youngblood Hart's Muscle Theory come Special Guest, nel Marzo del 2009. Un'esperienza indimenticabile che mi ha insegnato ed arricchito molto, lui era molto discreto, invitava Alvin a bere la Guinness nel suo camerino prima dello show e guardava sempre i nostri concerti, ogni sera, dal backstage.
Suonammo in tutte le principali città della Germania, ed era quasi sempre sold out. Gary amava la musica, non ha perso con gli anni il suo entusiasmo, aspettava paziente tutto cio che in tour devi aspettare, anche perchè girava con cucina, catering, produzione, audio e luci e tutto il suo staff al seguito, e non andava quasi mai in Hotel per lungo tempo, se ne stava nel backstage, a suonare e a parlare, seguiva i lavori con interesse, curava molto bene il sondcheck, cenava assieme a tutti noi, alla sua band e allo staff. Porto un bel ricordo di lui, come musicista ed essere umano, parlava spesso di chitarre, il resto lo interessava poco.
Walking In A New Dirction avrà presto un successore?
Sì, ci stiamo lavorando, abbiamo già diverse idee e dei brani abbozzati, contiamo di registrarlo nel 2012.
Ti ringrazio molto per la tua intervista, ogni mattina quando mi sveglio mi rendo conto di quanto fortunati siamo a fare ciò che facciamo, a poter dividere amore e emozioni con la musica e con chi ci ascolta. L'emozione è tutto e l'amore la cosa che fa girare il mondo. La muisca è una cosa meravigliosa, che da forza, amplifica ed attenua le pene. Comporre musica, creare i versi è come fare un'incontro di pugilato e se alla fine del match hai qualche bella parola significa che ne hai prese tante.
Foto by Alessandro Laporta-FotoCesco
vedi anche RECENSIONE: W.I.N.D. - Temporary Happiness (2013)
lunedì 12 dicembre 2011
venerdì 9 dicembre 2011
RECENSIONE: TINARIWEN (Tassili)
TINARIWEN Tassili (ANTI Records, 2011)
Da alcuni anni, quando voglio ritrovare purezza nella musica, vado a cercare, almeno una volta all'anno, in luoghi lontani dove suonare rappresenta ancora qualcosa di magico e veramente mistico.
Chi è stato almeno per una volta nell' Africa sahariana e ha avuto modo di percorrere alcune strade lontane dai centri turistici, ha trovato un mondo al rallentatore, fatto di persone che camminano, apparentemente senza meta, lungo infinite strade polverose e altre, ferme, a gruppetti ai bordi di queste strade ad aspettare non si sa chi o cosa. Qualcosa di inconcepibile nella nostra assurda frenesia giornaliera. E' qui che pensi : a volte ci sarebbe bisogno di un lungo passo indietro.
Quello che i Tinariwen, originari del Mali, con Tassili sembrano voler fare, rispetto ai precedenti dischi che li hanno visti protagonisti, osannati ed incessati dai più grandi e disparati artisti occidentali.
Pur non abbandonando totalmente i contatti con il mondo musicale "evoluto", grazie soprattutto ad una manciata di ospitate di tutto rispetto, vi è la voglia di tornare a quella semplicità che i loro luoghi e la loro lingua madre (Tamasheq) impongono. Uno staccare la spina delle chitarre date in pasto al numeroso pubblico di un concerto, per preferire il calore acustico di un falò acceso in una fredda notte sahariana.
Chitarre, anche elettriche, ma soprattutto tante percussioni e battiti di mano ad accompagnare canzoni che fanno dei luoghi( il deserto ), la fede e l'appartenenza una ragione di vita, ma anche il rapporto con il sesso femminile non viene tralasciato(Tamiditin Tan Ufrawan e Tiliaden Osamnat).
Ibrahim Al Alhabib sembra voler guidare i suoi nomadi alla ricerca di una nuova compattezza dopo le rivoluzioni che hanno toccato i paesi nordafricani durante questo anno, che rimarrà impresso nei libri di storia."..Miei amici del Sahara, la nostra libertà non c'è più, restiamo uniti..." canta nella coralità di Imidiwan win sahara. Tutti valori che fuoriescono anche dai solchi di Tameyawt, nome degli abitanti di Timyawin, villaggio nel deserto sahariano, al confine tra Algeria e Mali. Dopo tutto, prima di essere musicisti, furono anche combattenti.
Un legame alla loro terra che rimane intatto, anche dopo aver viaggiato il mondo. TenereTaqhim Tossam lo spiega bene. Anche dopo aver visto luoghi ben più accomodanti, il richiamo della sabbia, dove l'acqua scarseggia e il caldo uccide, è forte e il ritorno assume ancora più magia e bellezza.
Se a Neil Cline dei Wilco è affidato l'onore di aprire l'album con la sua chitarra , nel crescendo di Imidiwan Ma Tenam, ai fiati dei dei The Dirty Dozen Brass Band, spetta il compito di colorare d'America Ya Messinagh.
I Tv On the Radio, nelle voci di Tunde Adebimpe e nelle chitarre di Kyp Malone sono ospiti in Walla Illa, Imidiwan win SaharaTenere Taqhim Tossam.
Un disco quasi ipnotico nel suo incedere, psichedelico, disintossicante e futuristico. L'essenzialità primordiale del blues. Perchè il mondo intero dovrà fare i conti con mamma Africa anche nella musica e i Tinariwen non sono altro che l'aspetto più esposto di un esercito di nomadi che vogliono far uscire le loro voci. C'è qualcuno che vuole riprendersi i diritti musicali che gli spetta. Difficile, non riuscire ad immedesimarsi , ascoltando le dodici canzoni del disco. Per cinquanta minuti si percorrono quelle strade polverose e solitarie , si cammina lentamente con la mente, senza una meta da raggiungere se non per (ri)prendersi una piccola e consolante disintossicazione giornaliera. Quasi una droga, pura e vitale, come il loro amato tea.
vedi anche: RECENSIONE/REPORT Live TINARIWEN live@Hiroshima Mon Amour, Torino 14 Aprile 2012
Da alcuni anni, quando voglio ritrovare purezza nella musica, vado a cercare, almeno una volta all'anno, in luoghi lontani dove suonare rappresenta ancora qualcosa di magico e veramente mistico.
Chi è stato almeno per una volta nell' Africa sahariana e ha avuto modo di percorrere alcune strade lontane dai centri turistici, ha trovato un mondo al rallentatore, fatto di persone che camminano, apparentemente senza meta, lungo infinite strade polverose e altre, ferme, a gruppetti ai bordi di queste strade ad aspettare non si sa chi o cosa. Qualcosa di inconcepibile nella nostra assurda frenesia giornaliera. E' qui che pensi : a volte ci sarebbe bisogno di un lungo passo indietro.
Quello che i Tinariwen, originari del Mali, con Tassili sembrano voler fare, rispetto ai precedenti dischi che li hanno visti protagonisti, osannati ed incessati dai più grandi e disparati artisti occidentali.
Pur non abbandonando totalmente i contatti con il mondo musicale "evoluto", grazie soprattutto ad una manciata di ospitate di tutto rispetto, vi è la voglia di tornare a quella semplicità che i loro luoghi e la loro lingua madre (Tamasheq) impongono. Uno staccare la spina delle chitarre date in pasto al numeroso pubblico di un concerto, per preferire il calore acustico di un falò acceso in una fredda notte sahariana.
Chitarre, anche elettriche, ma soprattutto tante percussioni e battiti di mano ad accompagnare canzoni che fanno dei luoghi( il deserto ), la fede e l'appartenenza una ragione di vita, ma anche il rapporto con il sesso femminile non viene tralasciato(Tamiditin Tan Ufrawan e Tiliaden Osamnat).
Ibrahim Al Alhabib sembra voler guidare i suoi nomadi alla ricerca di una nuova compattezza dopo le rivoluzioni che hanno toccato i paesi nordafricani durante questo anno, che rimarrà impresso nei libri di storia."..Miei amici del Sahara, la nostra libertà non c'è più, restiamo uniti..." canta nella coralità di Imidiwan win sahara. Tutti valori che fuoriescono anche dai solchi di Tameyawt, nome degli abitanti di Timyawin, villaggio nel deserto sahariano, al confine tra Algeria e Mali. Dopo tutto, prima di essere musicisti, furono anche combattenti.
Un legame alla loro terra che rimane intatto, anche dopo aver viaggiato il mondo. TenereTaqhim Tossam lo spiega bene. Anche dopo aver visto luoghi ben più accomodanti, il richiamo della sabbia, dove l'acqua scarseggia e il caldo uccide, è forte e il ritorno assume ancora più magia e bellezza.
Se a Neil Cline dei Wilco è affidato l'onore di aprire l'album con la sua chitarra , nel crescendo di Imidiwan Ma Tenam, ai fiati dei dei The Dirty Dozen Brass Band, spetta il compito di colorare d'America Ya Messinagh.
I Tv On the Radio, nelle voci di Tunde Adebimpe e nelle chitarre di Kyp Malone sono ospiti in Walla Illa, Imidiwan win SaharaTenere Taqhim Tossam.
Un disco quasi ipnotico nel suo incedere, psichedelico, disintossicante e futuristico. L'essenzialità primordiale del blues. Perchè il mondo intero dovrà fare i conti con mamma Africa anche nella musica e i Tinariwen non sono altro che l'aspetto più esposto di un esercito di nomadi che vogliono far uscire le loro voci. C'è qualcuno che vuole riprendersi i diritti musicali che gli spetta. Difficile, non riuscire ad immedesimarsi , ascoltando le dodici canzoni del disco. Per cinquanta minuti si percorrono quelle strade polverose e solitarie , si cammina lentamente con la mente, senza una meta da raggiungere se non per (ri)prendersi una piccola e consolante disintossicazione giornaliera. Quasi una droga, pura e vitale, come il loro amato tea.
vedi anche: RECENSIONE/REPORT Live TINARIWEN live@Hiroshima Mon Amour, Torino 14 Aprile 2012
mercoledì 7 dicembre 2011
RECENSIONE: The BROWN SPACEBOB ( In The Jam LEM)
The BROWN SPACEBOB In The Jam LEM (Indie, 2011)
Gli amplificatori incandescenti piazzati al centro di Joshua Tree e le corse da inferno su ruote possono benissimo rivivere nel nord del Piemonte, senza che nessuna alterazione sensoriale ci aiuti ad immaginare il tutto.
The Brown Spacebob, sono attivi dal 2009 ma solo ora , dopo anni spesi in altre esperienze arrivano al primo lavoro autoprodotto.
Il loro percorso musicale è una continuazione attuale del movimento stoner che suonato venti/quindici anni fa, poteva apparire "moda", suonato oggi vuol dire totale amore e dedizione verso certi suoni che non hanno mai ottenuto la ribalta che altri movimenti del periodo ottennero(Grunge?), ma che si propagarono nel sottosuolo contaminando ed influenzando tanto quanto il Grunge. Cosa che avviene rappresentata benissimo durante l'ascolto di In The Jam LEM.
Ascoltando gli spazi dilatati dell'apertura John Quijote, dall'incedere psichedelico , con i suoi quasi otto minuti che si concludono sulle note spagnoleggianti di una chitarra; o le frequenze disturbate e il conto alla rovescia che introducono la circolare pesantezza space/psichedelica della strumentale Werner.
Ascoltando le più dirette ed immediate: Mork go to Work con le chitarre a duellare(Cristian Perini e Roberto Tobia), la più immediata Also Floats, guidata dal basso(Roberto Tambone), o gli sprazzi di rock'n'roll saltellante che esce da War.
Il retrogusto blues e settantiano, caro a gruppi come i Clutch, introdotto dalla batteria(Francesco tambone) che apre Monsterlike, con l'ottima coralità delle linee vocali(diverse e cangianti lungo tutto il disco) e il suo finale rallentato o nelle esplosioni che squarciano il lento incedere blues di Tainted che porta alla coda cosmic e jammata finale.
Canzoni che, come Reborn, anche quando chiamano in causa ingombranti riferimenti come l'ormai storico rifferama di Josh Homme e i più recenti QOTSA, riescono a nascondere spunti interessanti come le linee vocali e assoli di chitarra ficcanti.
Scorrevolezza d'ascolto che non guarda all'originalità ma che trasporta a quegli anni novanta fatti di rumore di ampli in saturazione che facevano da introduzione a sfocate e accecanti visioni. Amplificatori che aspettano un contratto discografico per viaggiare anche nel presente, lontani dalle mode, perchè dove c'è il fuoco di una batteria, un basso e due chitarre che suonano, non c'è posto per ciò che fa moda.
Per ascoltare tutto l'album in streaming: http://soundcloud.com/the-brown-spacebob
Per scaricarvi l'album gratis: http://www.tbsb.it/
Gli amplificatori incandescenti piazzati al centro di Joshua Tree e le corse da inferno su ruote possono benissimo rivivere nel nord del Piemonte, senza che nessuna alterazione sensoriale ci aiuti ad immaginare il tutto.
The Brown Spacebob, sono attivi dal 2009 ma solo ora , dopo anni spesi in altre esperienze arrivano al primo lavoro autoprodotto.
Il loro percorso musicale è una continuazione attuale del movimento stoner che suonato venti/quindici anni fa, poteva apparire "moda", suonato oggi vuol dire totale amore e dedizione verso certi suoni che non hanno mai ottenuto la ribalta che altri movimenti del periodo ottennero(Grunge?), ma che si propagarono nel sottosuolo contaminando ed influenzando tanto quanto il Grunge. Cosa che avviene rappresentata benissimo durante l'ascolto di In The Jam LEM.
Ascoltando gli spazi dilatati dell'apertura John Quijote, dall'incedere psichedelico , con i suoi quasi otto minuti che si concludono sulle note spagnoleggianti di una chitarra; o le frequenze disturbate e il conto alla rovescia che introducono la circolare pesantezza space/psichedelica della strumentale Werner.
Ascoltando le più dirette ed immediate: Mork go to Work con le chitarre a duellare(Cristian Perini e Roberto Tobia), la più immediata Also Floats, guidata dal basso(Roberto Tambone), o gli sprazzi di rock'n'roll saltellante che esce da War.
Il retrogusto blues e settantiano, caro a gruppi come i Clutch, introdotto dalla batteria(Francesco tambone) che apre Monsterlike, con l'ottima coralità delle linee vocali(diverse e cangianti lungo tutto il disco) e il suo finale rallentato o nelle esplosioni che squarciano il lento incedere blues di Tainted che porta alla coda cosmic e jammata finale.
Canzoni che, come Reborn, anche quando chiamano in causa ingombranti riferimenti come l'ormai storico rifferama di Josh Homme e i più recenti QOTSA, riescono a nascondere spunti interessanti come le linee vocali e assoli di chitarra ficcanti.
Scorrevolezza d'ascolto che non guarda all'originalità ma che trasporta a quegli anni novanta fatti di rumore di ampli in saturazione che facevano da introduzione a sfocate e accecanti visioni. Amplificatori che aspettano un contratto discografico per viaggiare anche nel presente, lontani dalle mode, perchè dove c'è il fuoco di una batteria, un basso e due chitarre che suonano, non c'è posto per ciò che fa moda.
Per ascoltare tutto l'album in streaming: http://soundcloud.com/the-brown-spacebob
Per scaricarvi l'album gratis: http://www.tbsb.it/
lunedì 5 dicembre 2011
INTERVISTA ai MOJO FILTER
A pochi giorni dall'uscita del loro album "Mrs. Love Revolution", i riscontri sono già molto positivi.
I Mojo Filter, qui rappresentati da Alessandro Battistini (Voce e chitarra)e Carlo Lancini(chitarra) ci raccontano la loro "personale" rivoluzione rock e come è nato un disco "vero, sincero e sofferto".
Avete una definizione o una piccola frase da lasciare a chi non vi conosce per presentarvi?
Alessandro: i Mojo Filter sono una rock and roll band… niente di più, niente di meno.
Il vostro è un disco costruito sull'impatto e sulla spontaneità live. Come è avvenuto il lavoro con Jono Manson e come vi siete messi in contatto con lui?Carlo: ho conosciuto Jono nel 2000, dopo un suo concerto a Chiari. Jono è un artista di talento ed una persona amabile e cordiale. Ad ogni sua tournee ci si incontrava, anche in occasione di qualche show privato. Gradualmente ho introdotto la musica di Jono al resto della band. Quando nel 2009 i Mojo Filter hanno iniziato a lavorare a del materiale originale dopo la classica gavetta, Jono si è interessato alle nostre canzoni e al nostro primo disco, l’ep The Spell, uscito a marzo 2010. Partendo dalle nostre idee, dai riff e dal songwriting di Alessandro abbiamo poi gettato le basi per Mrs Love Revolution, verso la fine dell’estate 2010.
Alessandro: il lavoro con Jono si è sviluppato sostanzialmente a distanza. A settembre-ottobre dello scorso anno gli abbiamo inviato la bozza delle canzoni che avrebbero composto Mrs Love Revolution. Insieme abbiamo discusso sulla direzione da prendere e su alcuni elementi di omogeneità. Non abbiamo avuto il benché minimo dubbio sulla strada da prendere e sul fatto che il disco dovesse essere registrato in presa diretta e con suoni veri. Durante le registrazioni con il tecnico del suono Mauro Galbiati, la direzione di Jono è stata principalmente gestita a distanza, mentre il missaggio è stato fatto nel suo studio di Santa Fe, negli Stati Uniti.
Qual'è la "rivoluzione" del titolo dell'album?
Alessandro: negli anni Sessanta, quando l’intero sistema era in crisi, gli hippie hanno intrapreso una rivoluzione pacifica (“Love Revolution”) a suon di rock and roll… la musica allora era anche un modo per rivendicare la propria identità, difendere l’originalità dei singoli e combattere un piatto e diffuso conformismo… questo disco è un nostro modesto tentativo di rompere con gli schemi attuali e con l’insulsa musica mainstream che le major ci costringono a sentire ovunque… questa è la nostra rivoluzione pacifica.
Carlo: i Mojo Filter sono una band molto unita e coesa, proveniente da background musicali simili, ma con percorsi personali diversi. Mrs Love Revolution arriva ed è stato concepito in un periodo difficile per tutti noi, per motivi differenti. Insomma, la famosa “crisi” c’è e si sente, sia dal punto di vista economico che di tensioni psicologiche… Credo che ognuno attribuisca a questo disco un significato anche intimo, un manifesto di una rivoluzione personale, che può anche rappresentare il primo passo per una svolta. Senza presunzione, non voglio parlare di successo e soldi, quella non è una svolta che ci appartiene, soprattutto in questo mondo e in questa vita. Piuttosto lo vedo come il nostro modo di sentirci parte di un mondo sempre meno popolato e sempre più isolato e pieno di insidie, quello dei musicisti rock, lontano dal mainstream, appunto…
Parole e musica hanno la stessa importanza nell'economia di una vostra canzone?
Alessandro: no, assolutamente. Apprezzo enormemente i bei testi, quelli semplici e pieni di significato, ma la nostra musica è più ritmo, vibrazioni, chitarre distorte… e comunque talvolta il messaggio può arrivare indipendentemente dal testo della canzone… è semplicemente nell’aria.
Carlo: Alessandro è sempre molto diretto ed essenziale, sia nel comporre che nel rispondere alle domande di un giornalista. E’ fatto così! Provo ad estendere il concetto…l’elemento portante è quello musicale, il testo spesso arriva in una seconda fase. Proviamo comunque, a nostro modo, a far passare “il messaggio”. Penso a What I’ve Got: oggi in un battito di ciglia chiunque può volare a Shanghai, ma poi nessuno di noi ha una direzione, è perso. Gli imbonitori oggi ci vendono un sacco di stronzate, ma noi vediamo tensione, disoccupazione, disillusione e smarrimento. Liar (bugiardo), titolo inequivocabile, parla della fede persa…
In molte vostre canzoni, compare una componente molto soul che mi riporta a gruppi come i Creedence Clearwater Revival, in grado di unire soul, country, blues e rock'n'roll. Quali sono le vostre principali influenze?
Alessandro: Creedence, appunto, ma anche Led Zeppelin, Hendrix, Rolling Stones, Cream… ci piace il rock blues degli anni Sessanta, quello grezzo, diretto e senza troppi fronzoli.
Carlo: la nostra formazione è di quattro elementi, tipicamente rock. Ed è giusto che se tu trovi in noi elementi soul, il primo riferimento vada ai Creedence. La forma e la sostanza stanno lì. Ed effettivamente l’elemento soul c’è, e sta anche nella voce di Alessandro, che riesce ancora, ogni volta, a sorprendermi.
Las Vegas, musicalmente si stacca notevolmente dal resto dell'album. Come è nata?
Alessandro: il pezzo vuole essere un momento di rottura nella continuità del disco. La canzone è nata nel deserto dei Mojave, in viaggio verso Las vegas…è incredibile: dal nulla, all’improvviso, salta fuori un luogo assurdo, fuori dal mondo e dal tempo… una vera e propria città dell’oro dove gente da tutto il mondo arriva alla ricerca della propria pepita…magari anche con un sogno da realizzare….
Avete avuto modo di aprire per nomi di tutto rispetto del rock americano (Willie Nile, North Mississippi All Stars...), come sono state queste esperienze e quali segreti siete riusciti a carpire a questi artisti?
Carlo: Onestamente l’incontro con Willie Nile è durato il tempo di consegnargli il nostro primo disco, mentre Luther e Cody Dickinson sono stati molto cordiali e disponibili. Hanno apprezzato il nostro rock e – subito dopo il nostro set - ci han fatto molti complimenti. Luther e Alessandro hanno in comune una bella collezione di chitarre, sulle quali si sono confrontati. E’ stato interessante vedere come Luther le gestiva e come giravano feeling, groove e dinamiche all’interno di un power duo. Credo sia stato uno dei nostri migliori set, abbiamo assistito poi ad uno show intenso e il post-concerto è stato decisamente gratificante ed istruttivo. D’altra parte, sono i figli di Jim Dickinson…
Alessandro: personalmente sono rimasto colpito dalla naturalezza con cui questi musicisti affrontano la scena…
Cosa vuol dire suonare rock'n'roll nella provincia italiana e cosa pensate della scena rock italiana?
Alessandro: qualcuno può considerare assurdo suonare rock and roll in un paese che ne è l’antitesi assoluta, ma il rock è proprio questo: lo fai perché ne hai bisogno, non esistono alternative ne spiegazioni.
Carlo: come già ti ho detto, fare rock and roll vuol dire far parte di un piccolo mondo in estinzione. Un mondo che si arrabatta fra mille difficoltà, spesso ostacolandosi da solo… Purtroppo fare rock originale in Italia vuol dire confrontarsi anche con situazioni che di rock non hanno proprio niente. Spesso si fa confusione: c’è chi tenta di dare un messaggio intimo e personale – noi come tanti altri – e chi si limita a clonare. Purtroppo la gente non è in grado di scindere le categorie. E questa è la cosa peggiore. Frank Zappa diceva “nella lotta fra te e il mondo, stai dalla parte del mondo”. Ma credo fosse un consiglio che neppure lui ha mai seguito. E noi facciamo la stessa cosa. Suonare rock and roll vuol dire soffrire, sudare e fare molti chilometri per cercare la propria “strada”, senza la certezza di trovarla. Stare dei giorni su una canzone, discutere ed arrabbiarsi durante la registrazione di un disco, mangiare in due minuti mentre il fonico è a pisciare e trovare un riff che trasforma una canzone mentre bevi un caffè alle otto di mattina, prima di ripartire con le registrazioni. Ed Alessandro in questo è un maestro.
Quali sono i vostri obiettivi futuri?
Alessandro: suonare il più possibile
Carlo: nell’immediato la cosa che più ci interessa è riprendere l’autostrada e suonare le nostre canzoni ovunque e il più possibile. Come ha detto prima Alessandro, ne abbiamo bisogno…sembra retorica, ma è così ed è una necessità. Sicuramente c’è la voglia, da subito, di continuare la nostra piccola rivoluzione con un nuovo disco. In cantiere ci sono almeno 20 canzoni nuove sulle quali lavorare.
Se poteste scegliere un solo artista italiano o straniero con cui collaborare chi scegliereste e perchè?
Alessandro: Jono Manson a parte, io ne dico due: Dan Auerbach e Patrick Carney, i Black Keys.
Carlo: a questo punto, io dico Jack White e Ethan Johns. Jack White è grezzo e geniale, rigenera il country e il rockabilly, crea i Raconteurs e distrugge i White Stripes. Ethan Johns ha lavorato su dischi importanti.
Tre buone ragioni per avvicinarsi al vostro disco?
Carlo: Mrs Love Revolution è stato una necessità. Uso tre aggettivi per tentare di semplificarlo, anche se è difficile: vero, sincero e sofferto.
Alessandro: me ne viene in mente solo una: è un bel disco.
vedi anche RECENSIONE: MOJO FILTER-Mrs.Love Revolution (2011)
vedi anche RECENSIONE: MOJO FILTER-Roadkill Songs (2013)
I Mojo Filter, qui rappresentati da Alessandro Battistini (Voce e chitarra)e Carlo Lancini(chitarra) ci raccontano la loro "personale" rivoluzione rock e come è nato un disco "vero, sincero e sofferto".
Avete una definizione o una piccola frase da lasciare a chi non vi conosce per presentarvi?
Alessandro: i Mojo Filter sono una rock and roll band… niente di più, niente di meno.
Il vostro è un disco costruito sull'impatto e sulla spontaneità live. Come è avvenuto il lavoro con Jono Manson e come vi siete messi in contatto con lui?Carlo: ho conosciuto Jono nel 2000, dopo un suo concerto a Chiari. Jono è un artista di talento ed una persona amabile e cordiale. Ad ogni sua tournee ci si incontrava, anche in occasione di qualche show privato. Gradualmente ho introdotto la musica di Jono al resto della band. Quando nel 2009 i Mojo Filter hanno iniziato a lavorare a del materiale originale dopo la classica gavetta, Jono si è interessato alle nostre canzoni e al nostro primo disco, l’ep The Spell, uscito a marzo 2010. Partendo dalle nostre idee, dai riff e dal songwriting di Alessandro abbiamo poi gettato le basi per Mrs Love Revolution, verso la fine dell’estate 2010.
Alessandro: il lavoro con Jono si è sviluppato sostanzialmente a distanza. A settembre-ottobre dello scorso anno gli abbiamo inviato la bozza delle canzoni che avrebbero composto Mrs Love Revolution. Insieme abbiamo discusso sulla direzione da prendere e su alcuni elementi di omogeneità. Non abbiamo avuto il benché minimo dubbio sulla strada da prendere e sul fatto che il disco dovesse essere registrato in presa diretta e con suoni veri. Durante le registrazioni con il tecnico del suono Mauro Galbiati, la direzione di Jono è stata principalmente gestita a distanza, mentre il missaggio è stato fatto nel suo studio di Santa Fe, negli Stati Uniti.
Qual'è la "rivoluzione" del titolo dell'album?
Alessandro: negli anni Sessanta, quando l’intero sistema era in crisi, gli hippie hanno intrapreso una rivoluzione pacifica (“Love Revolution”) a suon di rock and roll… la musica allora era anche un modo per rivendicare la propria identità, difendere l’originalità dei singoli e combattere un piatto e diffuso conformismo… questo disco è un nostro modesto tentativo di rompere con gli schemi attuali e con l’insulsa musica mainstream che le major ci costringono a sentire ovunque… questa è la nostra rivoluzione pacifica.
Carlo: i Mojo Filter sono una band molto unita e coesa, proveniente da background musicali simili, ma con percorsi personali diversi. Mrs Love Revolution arriva ed è stato concepito in un periodo difficile per tutti noi, per motivi differenti. Insomma, la famosa “crisi” c’è e si sente, sia dal punto di vista economico che di tensioni psicologiche… Credo che ognuno attribuisca a questo disco un significato anche intimo, un manifesto di una rivoluzione personale, che può anche rappresentare il primo passo per una svolta. Senza presunzione, non voglio parlare di successo e soldi, quella non è una svolta che ci appartiene, soprattutto in questo mondo e in questa vita. Piuttosto lo vedo come il nostro modo di sentirci parte di un mondo sempre meno popolato e sempre più isolato e pieno di insidie, quello dei musicisti rock, lontano dal mainstream, appunto…
Parole e musica hanno la stessa importanza nell'economia di una vostra canzone?
Alessandro: no, assolutamente. Apprezzo enormemente i bei testi, quelli semplici e pieni di significato, ma la nostra musica è più ritmo, vibrazioni, chitarre distorte… e comunque talvolta il messaggio può arrivare indipendentemente dal testo della canzone… è semplicemente nell’aria.
Carlo: Alessandro è sempre molto diretto ed essenziale, sia nel comporre che nel rispondere alle domande di un giornalista. E’ fatto così! Provo ad estendere il concetto…l’elemento portante è quello musicale, il testo spesso arriva in una seconda fase. Proviamo comunque, a nostro modo, a far passare “il messaggio”. Penso a What I’ve Got: oggi in un battito di ciglia chiunque può volare a Shanghai, ma poi nessuno di noi ha una direzione, è perso. Gli imbonitori oggi ci vendono un sacco di stronzate, ma noi vediamo tensione, disoccupazione, disillusione e smarrimento. Liar (bugiardo), titolo inequivocabile, parla della fede persa…
In molte vostre canzoni, compare una componente molto soul che mi riporta a gruppi come i Creedence Clearwater Revival, in grado di unire soul, country, blues e rock'n'roll. Quali sono le vostre principali influenze?
Alessandro: Creedence, appunto, ma anche Led Zeppelin, Hendrix, Rolling Stones, Cream… ci piace il rock blues degli anni Sessanta, quello grezzo, diretto e senza troppi fronzoli.
Carlo: la nostra formazione è di quattro elementi, tipicamente rock. Ed è giusto che se tu trovi in noi elementi soul, il primo riferimento vada ai Creedence. La forma e la sostanza stanno lì. Ed effettivamente l’elemento soul c’è, e sta anche nella voce di Alessandro, che riesce ancora, ogni volta, a sorprendermi.
Las Vegas, musicalmente si stacca notevolmente dal resto dell'album. Come è nata?
Alessandro: il pezzo vuole essere un momento di rottura nella continuità del disco. La canzone è nata nel deserto dei Mojave, in viaggio verso Las vegas…è incredibile: dal nulla, all’improvviso, salta fuori un luogo assurdo, fuori dal mondo e dal tempo… una vera e propria città dell’oro dove gente da tutto il mondo arriva alla ricerca della propria pepita…magari anche con un sogno da realizzare….
Avete avuto modo di aprire per nomi di tutto rispetto del rock americano (Willie Nile, North Mississippi All Stars...), come sono state queste esperienze e quali segreti siete riusciti a carpire a questi artisti?
Carlo: Onestamente l’incontro con Willie Nile è durato il tempo di consegnargli il nostro primo disco, mentre Luther e Cody Dickinson sono stati molto cordiali e disponibili. Hanno apprezzato il nostro rock e – subito dopo il nostro set - ci han fatto molti complimenti. Luther e Alessandro hanno in comune una bella collezione di chitarre, sulle quali si sono confrontati. E’ stato interessante vedere come Luther le gestiva e come giravano feeling, groove e dinamiche all’interno di un power duo. Credo sia stato uno dei nostri migliori set, abbiamo assistito poi ad uno show intenso e il post-concerto è stato decisamente gratificante ed istruttivo. D’altra parte, sono i figli di Jim Dickinson…
Alessandro: personalmente sono rimasto colpito dalla naturalezza con cui questi musicisti affrontano la scena…
Cosa vuol dire suonare rock'n'roll nella provincia italiana e cosa pensate della scena rock italiana?
Alessandro: qualcuno può considerare assurdo suonare rock and roll in un paese che ne è l’antitesi assoluta, ma il rock è proprio questo: lo fai perché ne hai bisogno, non esistono alternative ne spiegazioni.
Carlo: come già ti ho detto, fare rock and roll vuol dire far parte di un piccolo mondo in estinzione. Un mondo che si arrabatta fra mille difficoltà, spesso ostacolandosi da solo… Purtroppo fare rock originale in Italia vuol dire confrontarsi anche con situazioni che di rock non hanno proprio niente. Spesso si fa confusione: c’è chi tenta di dare un messaggio intimo e personale – noi come tanti altri – e chi si limita a clonare. Purtroppo la gente non è in grado di scindere le categorie. E questa è la cosa peggiore. Frank Zappa diceva “nella lotta fra te e il mondo, stai dalla parte del mondo”. Ma credo fosse un consiglio che neppure lui ha mai seguito. E noi facciamo la stessa cosa. Suonare rock and roll vuol dire soffrire, sudare e fare molti chilometri per cercare la propria “strada”, senza la certezza di trovarla. Stare dei giorni su una canzone, discutere ed arrabbiarsi durante la registrazione di un disco, mangiare in due minuti mentre il fonico è a pisciare e trovare un riff che trasforma una canzone mentre bevi un caffè alle otto di mattina, prima di ripartire con le registrazioni. Ed Alessandro in questo è un maestro.
Quali sono i vostri obiettivi futuri?
Alessandro: suonare il più possibile
Carlo: nell’immediato la cosa che più ci interessa è riprendere l’autostrada e suonare le nostre canzoni ovunque e il più possibile. Come ha detto prima Alessandro, ne abbiamo bisogno…sembra retorica, ma è così ed è una necessità. Sicuramente c’è la voglia, da subito, di continuare la nostra piccola rivoluzione con un nuovo disco. In cantiere ci sono almeno 20 canzoni nuove sulle quali lavorare.
Se poteste scegliere un solo artista italiano o straniero con cui collaborare chi scegliereste e perchè?
Alessandro: Jono Manson a parte, io ne dico due: Dan Auerbach e Patrick Carney, i Black Keys.
Carlo: a questo punto, io dico Jack White e Ethan Johns. Jack White è grezzo e geniale, rigenera il country e il rockabilly, crea i Raconteurs e distrugge i White Stripes. Ethan Johns ha lavorato su dischi importanti.
Tre buone ragioni per avvicinarsi al vostro disco?
Carlo: Mrs Love Revolution è stato una necessità. Uso tre aggettivi per tentare di semplificarlo, anche se è difficile: vero, sincero e sofferto.
Alessandro: me ne viene in mente solo una: è un bel disco.
vedi anche RECENSIONE: MOJO FILTER-Mrs.Love Revolution (2011)
vedi anche RECENSIONE: MOJO FILTER-Roadkill Songs (2013)
venerdì 2 dicembre 2011
RECENSIONE: NILS LOFGREN (Old School)
NILS LOFGREN Old School ( Vision Music, 2011)
Il piccolo Nils, l'ultimo entrato nella E Street Band, 27 anni fa,(escludendo il tastierista Charlie Giordano e la violinista Soozie Tyrell ), d'ora in avanti, ne siamo certi, si ritaglierà un posto maggiore alla destra del grande capo(il tour estivo di Springsteen è alle porte). Tutto, suo malgrado. Lui avrebbe continuato volentieri a stare sotto l'ombra del gigante Clarence, fare le sue piroette chitarristiche e proseguire il suo prezioso lavoro di gregario con gli occhi vispi di Federici puntati addosso. Il destino purtroppo non avvisa e in poco tempo riesce a cambiare le carte in tavola, a suo piacimento e poco si può fare se non continuare a portare avanti lo show e fare quello per cui si è nati.
Old School, anche se idealmente nato e progettato prima della scomparsa di Clemons, nel titolo nasconde una piccola dedica a quella vecchia scuola che traina ancora il rock'n'roll, di cui il sassofonista e il tastierista erano buona immagine.
Lofgren vanta una carriera strabiliante all'ombra dei grandi, contribuendo alla fortuna di due delle più grandi rock band americane: i primi Crazy Horse(esperienza breve) e la seconda incarnazione della E Street Band, quella che iniziò a frequentare i grandi stadi. Carriera iniziata appena diciasettenne come pianista e chitarrista di Neil Young e lasciando i suoi contributi sugli imperdibili After the Goldrush(1970) e Tonight's the Night(1975) e sul trascurabile Trans(1982).
Entrato quasi per caso, è in pianta stabile nella E Street Band dal 1984. Non ne è più uscito, ed ora, ne è un senatore tanto quanto i "vecchi" Van Zandt, Tallent, Bittan e Weinberg.
La carriera di Lofgren è anche piena di tanti dischi solisti, spesso passati inosservati. Non so il perchè, ma credo che questo avrà il giusto palcoscenico che si merita. L'ondata emotiva purtroppo ne è complice. Ma Danny e Clarence ne sarebbero contenti, soprattutto perchè è un bel disco, sentito.
Old School presenta tutto il range musicale del sessantenne Lofgren, recentemente, anche lui alle prese con problemi di salute fisica. Una voce non strabiliante ma profonda e credibile(quella che solo i chitarristi possiedono, tra Richards e Wood, ma molto meglio), le sue chitarre acustiche ed elettriche suonano alla grande e il livello di songwritings delle canzoni si attesta su livelli più che eccellenti, andando ad esplorare più territori (particolare, è certamente la riuscita Dream Big, tra fiati e beat elettronici) con un suono molto vero e live, anche se a conti fatti le ballads trionfano. Anni al fianco di mostri come Young e Springsteen si fanno pesare in positivo.
Omaggio al tempo andato e a quello che verrà: Old School tra Rock'n'roll e Jersey Sound. I fiati soul di Greg Varlotta interagiscono con le chitarre e le voci di Nils e dell'ospite Lou Gramm, vocalist dei Foreigner; 60 is the new 18 è un attestato di vitalità e non resa su un tambureggiante garage rock; Miss you Ray è la ballad omaggio a Ray Charles che può tramutarsi in omaggio agli amici Danny e Clarence, siamo sui territori dello Springsteen post 11 Settembre.
Love Stumbles On, il rock teso e chitarristico di Ain't too many Of Us Left con la voce soul di Sam Moore; il bel blues Amy Joan Blues, con le slide e con il sempre giovanile(anche Lofgren comunque non scherza) ex Free, Paul Rodgers a duettare, sono il lato più rock del disco.
L'altro lato si presenta più meditativo e riflessivo. Irish Angel è una delicata canzone scritta dal songwriter Bruce McCabe, When you're Mine è una ballad springsteeniana fino al midollo così come Just Because you love me , sentita dedica alla bella compagna Amy , con un suono che ci riporta ai tempi di Born In the USA.
A chiudere il chitarrismo sognante da grandi spazi di Why Me, questa sulla scia di Young, degna chiusura di un disco piacevole e superiore alle mie aspettative.
Ora lo aspettiamo, lì alla destra di Bruce, attendendo le sue giravolte con una grande ombra e i vispi occhi che lo seguono ancora. Stavolta da un posto molto speciale e privilegiato, lassù.
Il piccolo Nils, l'ultimo entrato nella E Street Band, 27 anni fa,(escludendo il tastierista Charlie Giordano e la violinista Soozie Tyrell ), d'ora in avanti, ne siamo certi, si ritaglierà un posto maggiore alla destra del grande capo(il tour estivo di Springsteen è alle porte). Tutto, suo malgrado. Lui avrebbe continuato volentieri a stare sotto l'ombra del gigante Clarence, fare le sue piroette chitarristiche e proseguire il suo prezioso lavoro di gregario con gli occhi vispi di Federici puntati addosso. Il destino purtroppo non avvisa e in poco tempo riesce a cambiare le carte in tavola, a suo piacimento e poco si può fare se non continuare a portare avanti lo show e fare quello per cui si è nati.
Old School, anche se idealmente nato e progettato prima della scomparsa di Clemons, nel titolo nasconde una piccola dedica a quella vecchia scuola che traina ancora il rock'n'roll, di cui il sassofonista e il tastierista erano buona immagine.
Lofgren vanta una carriera strabiliante all'ombra dei grandi, contribuendo alla fortuna di due delle più grandi rock band americane: i primi Crazy Horse(esperienza breve) e la seconda incarnazione della E Street Band, quella che iniziò a frequentare i grandi stadi. Carriera iniziata appena diciasettenne come pianista e chitarrista di Neil Young e lasciando i suoi contributi sugli imperdibili After the Goldrush(1970) e Tonight's the Night(1975) e sul trascurabile Trans(1982).
Entrato quasi per caso, è in pianta stabile nella E Street Band dal 1984. Non ne è più uscito, ed ora, ne è un senatore tanto quanto i "vecchi" Van Zandt, Tallent, Bittan e Weinberg.
La carriera di Lofgren è anche piena di tanti dischi solisti, spesso passati inosservati. Non so il perchè, ma credo che questo avrà il giusto palcoscenico che si merita. L'ondata emotiva purtroppo ne è complice. Ma Danny e Clarence ne sarebbero contenti, soprattutto perchè è un bel disco, sentito.
Old School presenta tutto il range musicale del sessantenne Lofgren, recentemente, anche lui alle prese con problemi di salute fisica. Una voce non strabiliante ma profonda e credibile(quella che solo i chitarristi possiedono, tra Richards e Wood, ma molto meglio), le sue chitarre acustiche ed elettriche suonano alla grande e il livello di songwritings delle canzoni si attesta su livelli più che eccellenti, andando ad esplorare più territori (particolare, è certamente la riuscita Dream Big, tra fiati e beat elettronici) con un suono molto vero e live, anche se a conti fatti le ballads trionfano. Anni al fianco di mostri come Young e Springsteen si fanno pesare in positivo.
Omaggio al tempo andato e a quello che verrà: Old School tra Rock'n'roll e Jersey Sound. I fiati soul di Greg Varlotta interagiscono con le chitarre e le voci di Nils e dell'ospite Lou Gramm, vocalist dei Foreigner; 60 is the new 18 è un attestato di vitalità e non resa su un tambureggiante garage rock; Miss you Ray è la ballad omaggio a Ray Charles che può tramutarsi in omaggio agli amici Danny e Clarence, siamo sui territori dello Springsteen post 11 Settembre.
Love Stumbles On, il rock teso e chitarristico di Ain't too many Of Us Left con la voce soul di Sam Moore; il bel blues Amy Joan Blues, con le slide e con il sempre giovanile(anche Lofgren comunque non scherza) ex Free, Paul Rodgers a duettare, sono il lato più rock del disco.
L'altro lato si presenta più meditativo e riflessivo. Irish Angel è una delicata canzone scritta dal songwriter Bruce McCabe, When you're Mine è una ballad springsteeniana fino al midollo così come Just Because you love me , sentita dedica alla bella compagna Amy , con un suono che ci riporta ai tempi di Born In the USA.
A chiudere il chitarrismo sognante da grandi spazi di Why Me, questa sulla scia di Young, degna chiusura di un disco piacevole e superiore alle mie aspettative.
Ora lo aspettiamo, lì alla destra di Bruce, attendendo le sue giravolte con una grande ombra e i vispi occhi che lo seguono ancora. Stavolta da un posto molto speciale e privilegiato, lassù.
martedì 29 novembre 2011
RECENSIONE: The BLACK KEYS (El Camino)
The BLACK KEYS El Camino (Nonesuch Records, 2011)
I Black Keys si divertono e noi con loro. Piazzano un minivan vintage(Chrysler) in copertina(...e un'altra ventina tra nuovi e usati nel booklet, degno di una rivista stile "Quattroruote"), intitolano il loro album El Camino come la famosa chevrolet che non c'entra nulla con la foto e registrano l'album a Nashville, patria del country , nuovamente sotto la regia di Danger Mouse, già produttore del loro "Attack & Release"(2008) e con lo zampino anche nel fortunatissimo album "Brothers"(2010), che fece anche incetta di Grammys. Tutte nozioni che potrebbero portare a leggere l'album sotto l'aspetto sbagliato. Perchè i Black Keys sopra al van, sembrano salirci e ripercorrere a ritroso il cammino della loro carriera e Nashville non è altro che la nuova città dove Dan Auerbach abita e dove si è costruito il suo personale studio di registrazione(Easy Eye Studio). Un ritorno alle radici istintive e primordiali del loro essenziale rock'n'roll, rivisto e rivisitato con le esperienze accumulate fino ad ora. Abbandonando, seppur non totalmente, l'impronta soul e black di "Brothers"( tracce di quell'album sono ancora presenti in Stop Stop e disseminate in buona quantità in tutto il disco) per tuffarsi in canzoni più dirette e snelle ma che mantengono tutte quelle sfumature che l'incontro con Danger Mouse(Gnarls Barkley) ha fatto uscire, più tante altre nuove influenze incontrate strada facendo. Tastiere vintage suonate da B.Burton, inoltre, rimpolpano la musica del duo che da minimalista è diventato una calda e revisionistica band con il presente sempre ben focalizzato che sa unire pop e rock mantenendo quel sapore di antico che li rende, oggi come oggi, unici.
El Camino è quindi la strada che i nostri hanno percorso durante gli ultimi due anni di tour, strada che è stata la madre di queste undici canzoni spalmate in quasi quaranta minuti. Già ci avevano avvisato, nelle prime indiscrezioni, che i suoni sarebbero stati figli di The Clash e The Cramps e le promesse sono in parte mantenute, purchè non cerchiate il grezzo blues dei primi dischi perchè di esso non vi è più traccia se non nei loro infuocati set live. Il primo singolo Lonely Boy, già da qualche settimana era entrato in circolo con i suoi riff di chitarra che sembravano sbucare dai riccioloni glam di Marc Bolan e i suoi T.Rex e un appeal soul che furiusciva dai chorus femminili. Un brano sulle pene in amore che cattura al primo ascolto. Difficile starsene fermi. Dead and Gone è una London Calling immersa nel bagno soul dei suoi coretti, e ancora i Clash "contaminati" fuoriescono da Hell of a season che presenta un inusuale intermezzo reggaeggiante. Little Black Submarines parte come una delicata ballad per sola voce e acustica, sembra un estratto dell'album solista di Dan Auerbach(il bellissimo "Keep It Hid", uscito nel 2009) fino a metà canzone quando entra un'elettrica e la terremotante batteria di Patrick Carney. La canzone cambia totalmente umore. Davvero difficile non pensare ai Led Zeppelin di IV. Ritorna il blues: nell'evocativa Run Right Back, una delle mie tracce preferite, faceva da retro al singolo Lonely Boy e nasconde uno dei migliori riff del disco, insieme a Gold on the Ceiling, pura e contagiosa con gli incalzanti clap-hands; alla più cattiva e settantiana Money Maker e la finale Mind Eraser. Stravaganze ben riuscite sembrano essere:Sister, marziale e ordinata, con uno strano sapore new Wave e ottantiano, inusuale e piacevole così come Nova baby che strizza l'occhio agli U2 di metà carriera nell'apertura del ritornello e nel chitarrismo alla The Edge. I Black Keys recuperano l'essenzialità e l'urgenza sacrificata in Brothers, senza rinunciare a battere strade nuove, sporcando in continuazione il loro suono che dopo sette album poteva diventare stanco e di routine. Tradizione e presente hanno trovato la loro unione. Sicuramente sono diventati una portata in grado di sfamare più di un ascoltatore di musica. I loro divertenti video promozionali si diffondono e il loro nome non è più nella bocca dei pochi. Ora sono attesi nella loro tappa italiana all'Alcatraz di Milano il 30 Gennaio 2012. Io non mancherei...Sold Out permettendo.
vedi anche RECENSIONE: THE BLACK KEYS- Brothers (2010)
I Black Keys si divertono e noi con loro. Piazzano un minivan vintage(Chrysler) in copertina(...e un'altra ventina tra nuovi e usati nel booklet, degno di una rivista stile "Quattroruote"), intitolano il loro album El Camino come la famosa chevrolet che non c'entra nulla con la foto e registrano l'album a Nashville, patria del country , nuovamente sotto la regia di Danger Mouse, già produttore del loro "Attack & Release"(2008) e con lo zampino anche nel fortunatissimo album "Brothers"(2010), che fece anche incetta di Grammys. Tutte nozioni che potrebbero portare a leggere l'album sotto l'aspetto sbagliato. Perchè i Black Keys sopra al van, sembrano salirci e ripercorrere a ritroso il cammino della loro carriera e Nashville non è altro che la nuova città dove Dan Auerbach abita e dove si è costruito il suo personale studio di registrazione(Easy Eye Studio). Un ritorno alle radici istintive e primordiali del loro essenziale rock'n'roll, rivisto e rivisitato con le esperienze accumulate fino ad ora. Abbandonando, seppur non totalmente, l'impronta soul e black di "Brothers"( tracce di quell'album sono ancora presenti in Stop Stop e disseminate in buona quantità in tutto il disco) per tuffarsi in canzoni più dirette e snelle ma che mantengono tutte quelle sfumature che l'incontro con Danger Mouse(Gnarls Barkley) ha fatto uscire, più tante altre nuove influenze incontrate strada facendo. Tastiere vintage suonate da B.Burton, inoltre, rimpolpano la musica del duo che da minimalista è diventato una calda e revisionistica band con il presente sempre ben focalizzato che sa unire pop e rock mantenendo quel sapore di antico che li rende, oggi come oggi, unici.
El Camino è quindi la strada che i nostri hanno percorso durante gli ultimi due anni di tour, strada che è stata la madre di queste undici canzoni spalmate in quasi quaranta minuti. Già ci avevano avvisato, nelle prime indiscrezioni, che i suoni sarebbero stati figli di The Clash e The Cramps e le promesse sono in parte mantenute, purchè non cerchiate il grezzo blues dei primi dischi perchè di esso non vi è più traccia se non nei loro infuocati set live. Il primo singolo Lonely Boy, già da qualche settimana era entrato in circolo con i suoi riff di chitarra che sembravano sbucare dai riccioloni glam di Marc Bolan e i suoi T.Rex e un appeal soul che furiusciva dai chorus femminili. Un brano sulle pene in amore che cattura al primo ascolto. Difficile starsene fermi. Dead and Gone è una London Calling immersa nel bagno soul dei suoi coretti, e ancora i Clash "contaminati" fuoriescono da Hell of a season che presenta un inusuale intermezzo reggaeggiante. Little Black Submarines parte come una delicata ballad per sola voce e acustica, sembra un estratto dell'album solista di Dan Auerbach(il bellissimo "Keep It Hid", uscito nel 2009) fino a metà canzone quando entra un'elettrica e la terremotante batteria di Patrick Carney. La canzone cambia totalmente umore. Davvero difficile non pensare ai Led Zeppelin di IV. Ritorna il blues: nell'evocativa Run Right Back, una delle mie tracce preferite, faceva da retro al singolo Lonely Boy e nasconde uno dei migliori riff del disco, insieme a Gold on the Ceiling, pura e contagiosa con gli incalzanti clap-hands; alla più cattiva e settantiana Money Maker e la finale Mind Eraser. Stravaganze ben riuscite sembrano essere:Sister, marziale e ordinata, con uno strano sapore new Wave e ottantiano, inusuale e piacevole così come Nova baby che strizza l'occhio agli U2 di metà carriera nell'apertura del ritornello e nel chitarrismo alla The Edge. I Black Keys recuperano l'essenzialità e l'urgenza sacrificata in Brothers, senza rinunciare a battere strade nuove, sporcando in continuazione il loro suono che dopo sette album poteva diventare stanco e di routine. Tradizione e presente hanno trovato la loro unione. Sicuramente sono diventati una portata in grado di sfamare più di un ascoltatore di musica. I loro divertenti video promozionali si diffondono e il loro nome non è più nella bocca dei pochi. Ora sono attesi nella loro tappa italiana all'Alcatraz di Milano il 30 Gennaio 2012. Io non mancherei...Sold Out permettendo.
vedi anche RECENSIONE: THE BLACK KEYS- Brothers (2010)
lunedì 28 novembre 2011
RECENSIONE: ZZ TOP-AA. VV. ( A Tribute From Friends)
ZZ TOP AA.VV. A Tribute From Friends ( Show Dog, Universal Music, 2011)
Si potrebbe quasi dire che Billy Gibbons se le canti e se le suoni, o meglio che le band se le scelga e le faccia suonare. In attesa del nuovo album, prodotto da Rick Rubin, che sarà il seguito del poco riuscito Mescalero, ultimo disco in studio dei texani e ormai lontano, essendo uscito nel 2003, gli ZZ Top, nella persona del barbuto chitarrista come supervisore, fanno uscire un appetitoso aperitvo che servirà a creare attesa e attenzione, traghettando i fans verso l'uscita del nuovo album.
Gli ZZ Top tributano se stessi, scegliendo nell'ampio mondo musicale, guardando molto al presente e bisogna dire in modo coraggioso, vario ed originale. Gibbons comunque non ha mai negato collaborazioni e passione per suoni più moderni e gli ZZ Top (e la loro discografia) parlano chiaro, a volte esagerando anche troppo. Poi, che senso avrebbe avuto chiamare vecchi coetanei a rifare le loro canzoni, anche se, vedremo, non mancano nemmeno quelli. Tutti comunque hanno rifatto le canzoni in modo devoto e passionale chi stravolgendo le originali e chi no, dimostrando quanto i barbuti texani hanno comunque influenzato il blues e l'hard blues.
Ed eccoli, subito in apertura, i più vecchietti della line up: sotto l'acronimo The M.O.B. si nascondono i due Fleetwood Mac, Mick Fleedwood alla batteria e John McVie al basso con Steven Tyler (Aerosmith) alla voce e il giovane Jonny Lang alla chitarra. Sharp Dressed Man ricalca l'originale con l'aggiunta della voce di Tyler che tra una rovinosa caduta e l'altra(palco e doccia sono il suo forte ultimamente) si conferma grande vocalist.
Spazio alle giovani leve quindi. Chi rimane fedelmente sul pezzo: come gli australiani Wolfmother, forti della personalità e voce plantiana del cantante e chitarrista Andrew Stockdale in Cheap Sunglasses; la miglior formazione hard/metal degli ultimi anni, i Mastodon (perchè Lou Reed non ha scelto loro per musicare "Lulu"?) alle prese con Just Got Paid e la bella, sensuale e brava Grace Potter con i suoi Nocturnals, che canta Tush come avrebbe fatto Janis Joplin ai tempi.
C'è poi chi estremizza i suoni come i Nickelback che appesantiscono a dismisure Legs, rendendola comunque piacevole o la personale band dell'ex bassista dei Guns'n' Roses, i Duff McKagan's Loaded che rivestono di sleaze rock'n'roll, Got me Under Pressure.
L'immortale La Grange viene trasformata in una lunga jam che tocca gli otto minuti dal songwriter country americano Jamey Johnson. Più che riuscita.
Chi dona maggiormente il proprio tocco personale alla canzone sono gli industrial /rocker Filter con una Gimme All your Lovin, rilucidata completamente a nuovo.
Senza infamia e senza lode Beer Drinkers and Hell Raisers dei Coheed & Cambria e Waitin' for the Bus / Jesus Just Left Chicago rifatta dai Daughtry, usciti vincitori, anni fa, da American Idol e dir poco pessima Rough Boy che Wyclef Jean rifà in modo asettico, soporifero ed inutile.
Il classico disco "poco utile" ma piacevole che guadagna mezzo punto in più solamente perchè messo in piedi dalla stessa band texana.
Ora avanti con Rubin e gli originali, però.
Si potrebbe quasi dire che Billy Gibbons se le canti e se le suoni, o meglio che le band se le scelga e le faccia suonare. In attesa del nuovo album, prodotto da Rick Rubin, che sarà il seguito del poco riuscito Mescalero, ultimo disco in studio dei texani e ormai lontano, essendo uscito nel 2003, gli ZZ Top, nella persona del barbuto chitarrista come supervisore, fanno uscire un appetitoso aperitvo che servirà a creare attesa e attenzione, traghettando i fans verso l'uscita del nuovo album.
Gli ZZ Top tributano se stessi, scegliendo nell'ampio mondo musicale, guardando molto al presente e bisogna dire in modo coraggioso, vario ed originale. Gibbons comunque non ha mai negato collaborazioni e passione per suoni più moderni e gli ZZ Top (e la loro discografia) parlano chiaro, a volte esagerando anche troppo. Poi, che senso avrebbe avuto chiamare vecchi coetanei a rifare le loro canzoni, anche se, vedremo, non mancano nemmeno quelli. Tutti comunque hanno rifatto le canzoni in modo devoto e passionale chi stravolgendo le originali e chi no, dimostrando quanto i barbuti texani hanno comunque influenzato il blues e l'hard blues.
Ed eccoli, subito in apertura, i più vecchietti della line up: sotto l'acronimo The M.O.B. si nascondono i due Fleetwood Mac, Mick Fleedwood alla batteria e John McVie al basso con Steven Tyler (Aerosmith) alla voce e il giovane Jonny Lang alla chitarra. Sharp Dressed Man ricalca l'originale con l'aggiunta della voce di Tyler che tra una rovinosa caduta e l'altra(palco e doccia sono il suo forte ultimamente) si conferma grande vocalist.
Spazio alle giovani leve quindi. Chi rimane fedelmente sul pezzo: come gli australiani Wolfmother, forti della personalità e voce plantiana del cantante e chitarrista Andrew Stockdale in Cheap Sunglasses; la miglior formazione hard/metal degli ultimi anni, i Mastodon (perchè Lou Reed non ha scelto loro per musicare "Lulu"?) alle prese con Just Got Paid e la bella, sensuale e brava Grace Potter con i suoi Nocturnals, che canta Tush come avrebbe fatto Janis Joplin ai tempi.
C'è poi chi estremizza i suoni come i Nickelback che appesantiscono a dismisure Legs, rendendola comunque piacevole o la personale band dell'ex bassista dei Guns'n' Roses, i Duff McKagan's Loaded che rivestono di sleaze rock'n'roll, Got me Under Pressure.
L'immortale La Grange viene trasformata in una lunga jam che tocca gli otto minuti dal songwriter country americano Jamey Johnson. Più che riuscita.
Chi dona maggiormente il proprio tocco personale alla canzone sono gli industrial /rocker Filter con una Gimme All your Lovin, rilucidata completamente a nuovo.
Senza infamia e senza lode Beer Drinkers and Hell Raisers dei Coheed & Cambria e Waitin' for the Bus / Jesus Just Left Chicago rifatta dai Daughtry, usciti vincitori, anni fa, da American Idol e dir poco pessima Rough Boy che Wyclef Jean rifà in modo asettico, soporifero ed inutile.
Il classico disco "poco utile" ma piacevole che guadagna mezzo punto in più solamente perchè messo in piedi dalla stessa band texana.
Ora avanti con Rubin e gli originali, però.
sabato 26 novembre 2011
INTERVISTA: The CYBORGS
Arrivano dal futuro,suonano blues, i loro nomi sono ZERO e ONE. Le loro facce? Nascoste da due maschere da saldatori.
Il disco omonimo, uscito quest'anno e i loro live set sono stati una delle migliori sorprese dell'anno.
Da un piccolo locale svizzero, dove la loro astronave ha fatto tappa, tra una data e l'altra del tour europeo, i The Cyborgs hanno trovato il tempo per rispondere con il loro linguaggio stringato da "codice binario" ad alcune domande.
Ormai è noto che voi provenite da un altro pianeta. Da dove esattamente...e perchè avete scelto l'Italia per diffondere il verbo del "blues"?
Non è dato sapere da dove veniamo, ma di sicuro ne abbiamo viste tante... l'Italia è sicuramente un posto dove i nostri corpi possono trovare la giusta temperatura... inoltre è molto vicino all'Africa, la patria reale del blues.
Cosa si dice del nostro paese in giro?
Si dice che adesso è ora di cambiare...
Avete già trovato qualche buon compagno di viaggio in Italia? C'è qualche artista blues italiano con cui andate d'accordo?Fino ad ora abbiamo avuto il piacere di condividere palchi con numerosi artisti italiani e non... tra i tanti ci piace ricordare l'esperienza vissuta con i WAINES, artisti siciliani con cui abbiamo instaurato un ottimo feeling.
Avete già viaggiato negli States? Vi piacerebbe?Si, ma non portando i Cyborgs su un palco... presto pensiamo di farlo.
Perchè avete scelto il blues? Non c'erano generi più moderni ,adatti a voi che provenite dal 2110?Cosa credi possa esserci meglio del Blues ?
Il vostro è un blues povero e minimale, quasi primordiale. Che strumenti suonate esattamente e non pensate, in futuro, di usare altri strumentisti insieme a voi?Ci esibiamo cercando di suonare contemporaneamente piu strumenti, e spesso suoniamo quello che capita. Saremo sempre e solo ZERO e ONE, almeno finchè il codice binario non cesserà di esistere.
Di cosa parlano le vostre canzoni? Mi ha colpito soprattutto No!No!No!...Parlano di ciò che abbiamo visto dall'interno dei nostri elmetti da saldatori.Parlano del futuro, e non dicono nulla di buono, purtroppo.
Ci saranno momenti migliori, in questo confidiamo...
Avete da poco registrato il vostro primo video ufficiale di Dancy. Come è avvenuto l'incontro con il regista Ivan Cazzola..siete soddisfatti dei risultati?Dancy è uno dei tanti video che abbiamo prodotto, e come in ogni nostra produzione non ci chiediamo mai se siamo soddisfatti.
Il progetto con Studio Blu 2.0 di Torino , invece, in cosa consiste?E' un progetto di 12 monografie sul Blues in Italia... molto interessante.
Ci siamo molto divertiti a raccontare la nostra storia attraverso foto e musica.
Quest'anno avete aperto per Jeff Beck e avete seguito il tour italiano di Eric Sardinas. Come sono andati i concerti e siete riusciti a comunicare con questi artisti e il loro pubblico?Sia per Jeff Beck che per Sardinas siamo stati contenti di trovare un pubblico attento e preparato alla nostra musica.
L'esperienza con Eric Sardinas è stata sicuramente la piu interessante. Lo abbiamo seguito in tutte le sue date italiane, e abbiamo stretto con lui un'amicizia che è andata oltre la musica. Grande uomo e grande musicista...
Se aveste la possibilità di collaborare con qualche nume tutelare del blues del passato o anche del presente chi scegliereste e perchè?Ce ne sarebbe piu di uno... indubbiamente Fred McDowell, R.L.Burnside, Son House, e il perchè si puo intuire ascoltando la loro musica.
Avete tre dischi del "genere" che vi portate sempre con voi durante i vostri viaggi temporali e a cui non rinuncereste mai?Non portiamo mai dischi con noi... preferiamo cercarli e trovarli ogni volta che viaggiamo. Ogni viaggio e ogni momento ha la sua colonna sonora...
Fra poco partirete per l'estero. Dove andrete? Avete già pianificato il vostro 2012, sarà un anno che dovremo temere?Siamo già in giro per l'europa... in questo momento scriviamo da un piccolo locale di un piccolo paesino della Svizzera.
Domani saremo in Germania... e poi ancora in giro... (le date del tour europeo si possono prendere da qui: http://www.facebook.com/#!/thecyborgsboogie?sk=app_123966167614127)...
Nel 2012 avremo ancora molto da fare. A gennaio saremo di nuovo in Olanda per l'eurosonic festival a Groningen e poi ancora in Italia per molti concerti...
Stiamo inoltre preparando il nostro nuovo disco, quindi suppongo proprio che il 2012 sarà un anno da temere....
Foto by KASCO Design http://kascodesign.deviantart.com/
RECENSIONE: THE CYBORGS -the Cyborgs (2011)
mercoledì 23 novembre 2011
RECENSIONE: BOB SEGER (Ultimate Hits:Rock and Roll Never Forgets)
BOB SEGER Ultimate Hits:Rock and Roll Never Forgets ( Capitol, 2011)
L'impatto della musica di Bob Seger sul suolo del rock'n'roll americano è stato , almeno negli anni settanta, squassante più di quanto si possa pensare. I suoi dischi hanno generato schiere di nuovi cantautori rock, hanno venduto tanto e sono stati le cartucce dinamitarde per i suoi esplosivi set live. Un culto in patria che, inspiegabilmente, non ha attecchito ugualmente nel resto del mondo. Mentre lui aprì tante strade negli anni settanta, altri nel decennio successivo ne goderono i benefici in termini di popolarità, rubandogli la scena, approfittando anche di una ispirazione in fase calante. Il suo blue collar rock, tra sogno e autostrade, sarà setacciato da altri artisti (inutile fare nomi) che ne faranno una bandiera di appartenenza.
Anche se nell'ultimo ventennio si contano più raccolte che album di studio, questo doppio Cd, approfitta per racchiudere in una sola confezione il suo meglio, includendo anche 4 canzoni inedite ed un booklet di 24 pagine bello ed asaustivo.
Purtroppo pur essendo un doppio cd taglia di netto in maniera completa la prima parte di carriera di Seger, quella sicuramente con meno successi commerciali e canzoni conosciute, che va dal primissimo disco Ramblin' Gamblin' man nel 1968, rappresentato solamente dalla versione mono della title track, passa per dischi come Noah(1969), Mongrel(1970), Brand New Morning(1971), Smokin'O.P.'s(1972), Seven (1974), qui completamente saltati ed ignorati seppur rappresentanti del periodo più prolifico fatto di garage, soul e psichedelia che apriranno le porte al successo di metà anni settanta. Solamente Back in '72 è presente con l'immortale Turn the page ( sì, proprio quella che rispolverarono i Metallica nel loro Garage Days Revisited), in versione live.
La data di partenza della raccolta può benissimo essere fissata al 1976 con l'uscita di Beautiful Loser da cui vengono estrapolate il rock'n'roll '50 di Katmandu e le due versioni live di Travellin' man e Beatiful Loser registrate a Dretoit per Live Bullet, uno dei più intensi, scoppiettanti e rappresentativi live album della musica rock e vero e proprio trampolino di lancio per Seger che da lì in poi, in compagnia della sua macchina da rock'n'roll, la Silver Bullet Band, non sbaglierà più un colpo, almeno fino al 1982.
Artista dal grande carisma che sapeva coniugare il grezzo rock'n'roll con il calore della soul music, il southern con la melodia di ballate che trovavano nell'energia di un palco il luogo ideale per essere rappresentate, più di quanto potessero dire i suoi best sellers di carriera, racchiusi nel periodo 1976-1982(Night Moves, Stranger in Town, Against the Wind, The Distance) da cui proviene il grosso di questa raccolta.
Dal rock'n'roll di Rock and Roll Never Forgets, Old Time Rock & Roll, Hollywood Nights, Her Strut alle spruzzate di soul Night Moves, al blues di The Fire Down Below, le countryeggianti Mainstreet, Fire Lake e Shame on the moon, alle sognanti ed evocative e pianistiche Still the Same e Against the wind, tutte entrate nella cultura musicale americana e nelle radio del grande paese da cui usciva la sua riconoscibilissima voce.
Gli ultimi trent'anni lo vedono in disparte ad osservare la scena, qualche sprazzo: Live a Rock, dall'omonimo del 1986, Shakedown dalla colonna sonora di Beverly Cop II del 1987 e Wait For me dal buon ritorno sulle scene di Face The Promise del 2006.
Fino a qui, tutto quello già edito. Le uniche novità di questa raccolta, sono la cover della natalizia Little drummer boy, già edita nel 1987 e per la prima volta in un suo disco, la ripresa non originalissima di Downtown Train, canzone di Tom Waits tra le più coverizzate del repertorio del cantautore di Pomona e lo scatenato rock'n'roll Hey Hey Hey Hey (Going Back to Birmingham)di Little Richard.
Il ritorno ad una intensa attività live ( in questi giorni è impegnato in un tour americano) e in studio di Seger per dare un seguito all'ultimo e discreto Face The Promise del 2006 sarà quindi anticipato da questa raccolta, rivolta principalmente a chi non conosce la musica dell'ex ragazzo capellone del Michigan. Qualche inedito potrà far gola anche agli irriducibili, pur non avendo il crisma degli imperdibili.
27 canzoni che purtroppo non riescono ad essere definitive, perchè la mancanza dei primissimi dischi si fa pesare. Comunque vista la qualità di quello che c'è, due ore di buon ripasso durante le feste natalizie sono assicurate.
L'impatto della musica di Bob Seger sul suolo del rock'n'roll americano è stato , almeno negli anni settanta, squassante più di quanto si possa pensare. I suoi dischi hanno generato schiere di nuovi cantautori rock, hanno venduto tanto e sono stati le cartucce dinamitarde per i suoi esplosivi set live. Un culto in patria che, inspiegabilmente, non ha attecchito ugualmente nel resto del mondo. Mentre lui aprì tante strade negli anni settanta, altri nel decennio successivo ne goderono i benefici in termini di popolarità, rubandogli la scena, approfittando anche di una ispirazione in fase calante. Il suo blue collar rock, tra sogno e autostrade, sarà setacciato da altri artisti (inutile fare nomi) che ne faranno una bandiera di appartenenza.
Anche se nell'ultimo ventennio si contano più raccolte che album di studio, questo doppio Cd, approfitta per racchiudere in una sola confezione il suo meglio, includendo anche 4 canzoni inedite ed un booklet di 24 pagine bello ed asaustivo.
Purtroppo pur essendo un doppio cd taglia di netto in maniera completa la prima parte di carriera di Seger, quella sicuramente con meno successi commerciali e canzoni conosciute, che va dal primissimo disco Ramblin' Gamblin' man nel 1968, rappresentato solamente dalla versione mono della title track, passa per dischi come Noah(1969), Mongrel(1970), Brand New Morning(1971), Smokin'O.P.'s(1972), Seven (1974), qui completamente saltati ed ignorati seppur rappresentanti del periodo più prolifico fatto di garage, soul e psichedelia che apriranno le porte al successo di metà anni settanta. Solamente Back in '72 è presente con l'immortale Turn the page ( sì, proprio quella che rispolverarono i Metallica nel loro Garage Days Revisited), in versione live.
La data di partenza della raccolta può benissimo essere fissata al 1976 con l'uscita di Beautiful Loser da cui vengono estrapolate il rock'n'roll '50 di Katmandu e le due versioni live di Travellin' man e Beatiful Loser registrate a Dretoit per Live Bullet, uno dei più intensi, scoppiettanti e rappresentativi live album della musica rock e vero e proprio trampolino di lancio per Seger che da lì in poi, in compagnia della sua macchina da rock'n'roll, la Silver Bullet Band, non sbaglierà più un colpo, almeno fino al 1982.
Artista dal grande carisma che sapeva coniugare il grezzo rock'n'roll con il calore della soul music, il southern con la melodia di ballate che trovavano nell'energia di un palco il luogo ideale per essere rappresentate, più di quanto potessero dire i suoi best sellers di carriera, racchiusi nel periodo 1976-1982(Night Moves, Stranger in Town, Against the Wind, The Distance) da cui proviene il grosso di questa raccolta.
Dal rock'n'roll di Rock and Roll Never Forgets, Old Time Rock & Roll, Hollywood Nights, Her Strut alle spruzzate di soul Night Moves, al blues di The Fire Down Below, le countryeggianti Mainstreet, Fire Lake e Shame on the moon, alle sognanti ed evocative e pianistiche Still the Same e Against the wind, tutte entrate nella cultura musicale americana e nelle radio del grande paese da cui usciva la sua riconoscibilissima voce.
Gli ultimi trent'anni lo vedono in disparte ad osservare la scena, qualche sprazzo: Live a Rock, dall'omonimo del 1986, Shakedown dalla colonna sonora di Beverly Cop II del 1987 e Wait For me dal buon ritorno sulle scene di Face The Promise del 2006.
Fino a qui, tutto quello già edito. Le uniche novità di questa raccolta, sono la cover della natalizia Little drummer boy, già edita nel 1987 e per la prima volta in un suo disco, la ripresa non originalissima di Downtown Train, canzone di Tom Waits tra le più coverizzate del repertorio del cantautore di Pomona e lo scatenato rock'n'roll Hey Hey Hey Hey (Going Back to Birmingham)di Little Richard.
Il ritorno ad una intensa attività live ( in questi giorni è impegnato in un tour americano) e in studio di Seger per dare un seguito all'ultimo e discreto Face The Promise del 2006 sarà quindi anticipato da questa raccolta, rivolta principalmente a chi non conosce la musica dell'ex ragazzo capellone del Michigan. Qualche inedito potrà far gola anche agli irriducibili, pur non avendo il crisma degli imperdibili.
27 canzoni che purtroppo non riescono ad essere definitive, perchè la mancanza dei primissimi dischi si fa pesare. Comunque vista la qualità di quello che c'è, due ore di buon ripasso durante le feste natalizie sono assicurate.
martedì 22 novembre 2011
BRUCE SPRINGSTEEN: TRE concerti a Giugno. Ecco le date!
Alle 00:22(notare l'ora:esattamente la stessa che portò tanti guai nel 2008, durante l'ultimo concerto a Milano, per via dello sforamento dall'orario imposto) di Martedì 22 Novembre , il promoter della Barley Arts, Claudio Trotta, dopo giorni di indizi, ha comunicato ufficialmente, dalla sua bacheca facebook, le tre date dei concerti di Springsteen con la sua E Street Band in Italia nel Giugno del 2012.
Eccole:
7 Giugno MILANO-Stadio San Siro10 Giugno FIRENZE-Stadio Franchi
11 Giugno TRIESTE-Stadio Nereo Rocco
Il prossimo anno ucirà anche il suo nuovo disco, di cui si sa ancora pochissimo.
Tutte le notizie relative ai concerti: posti, prezzi e prevendite sono già sul sito ufficiale Barley Arts.
http://www.barleyarts.com/News/1/5/7503/e-ufficiale-gioved-7-10-e-11-giugno-il-boss-torna-in-italia
domenica 20 novembre 2011
RECENSIONE: DAVIDE VAN DE SFROOS ( Best Of 1999-2011)
DAVIDE VAN DE SFROOS Best Of 1999-2011 (Pdt Sa Universal, 2011)
Il momento per tirare le somme è quello giusto. Gli anni di carriera stanno diventando tanti, così come le sue uscite discografiche, sempre comunque oculate e fatte uscire quando c'è veramente qualcosa da dire. Tante esperienze, riconoscimenti e concerti hanno portato il nome di Davide Bernasconi dalle prime esperienze a suon di punk rock nei Potage(sua prima band rock) a diventare il Davide Van De Sfroos, musicista, scrittore e poeta che l'Italia intera ha tardivamente scoperto solo quest'anno con la sua inaspettata partecipazione a Sanremo.
Anni in cui la sua musica è riuscita a legare così bene la poetica tra visione e realtà dei suoi testi in lagheè con le influenze musicali più svariate e cangianti durante gli anni. Dai Clash a Bob Marley, da Dylan a Johnny Cash, dai Pogues ai Ramones dal combat folk al cantautorato, tutti convivono e rivivono nelle sue canzoni, dentro alle balere del sabato sera, ai bordi del lago di Como in giornate autunnali di nebbia, nei prati e nei boschi di collina durante le giornate di sole, nei sapori di feste di paese, nelle navi e barche nelle storie degli emigranti, negli stabilimenti balneari estivi, dentro ad una buia miniera o in una lontana New Orleans sprofondata nell'acqua.
Da Caino e Abele a Yanez, c'è un'arca piena di personaggi comuni salvati dal loro dimenticato destino e riportati alla ribalta, rilucidati a nuovo e consegnati alla pubblica diffusione come assoluti protagonisti con i fari di scena puntati : l'autista della curiera, il Genesio, El Bestia, El mustru, lo ziu Gaetan, nona Lucia, il Cimino, il costruttore di motoscafi, il reduce e Maria. Un campionario vario di umanità che diventa protagonista. La rivincita di chi sta in seconda linea, quando si dà ai gregari il giusto e meritato riconoscimento.
Come sempre Davide Van De Sfroos pensa ai suoi fans. Quelli nuovi a cui questa raccolta è principalmente rivolta e a quelli di vecchia data che lo seguono con fede quasi maniacale. E' lo stesso Van De Sfroos nel DVD incluso a raccontarci il perchè di questa raccolta.
Due CD, 30 canzoni, tra cui due inediti registrati in solitaria a casa sua(Live fron cà mia), un DVD di un'ora e per non far mancare nulla anche due racconti inediti nascosti nel libretto. Cinque album presi in esame: Brèvà e tivàn(1999), E seem partii(2001), Akuaduulza(2005), Pica!(2008) e Yanez(2011), lungo 12 anni di attività discografica. Manca solo Manicomi .Questi sono i numeri ed è tanta roba come sempre, racchiusa in una bella confezione dalla copertina di stoffa.
I venti delle sue zone, i luoghi, le leggende di provincia che scalpitano per diventare metropolitane e i personaggi del primo disco sopravvivono in canzoni come Cauboi, Il duello, La balera, e Pulenta e galèna frègia; l'amaro viaggio in cerca di speranza e vita di E semm partii in Grand Hotel, E semm partii, L'omm de la tempesta.
Van De Sfroos dà il primo scossone forte alla sua carriera con Akuaduulza, uscito nel 2005, un disco carico di ombre, con una accurata ricerca sonora che lo porta in America. Un disco dove il lago di Como diventa il suo Mississippi, dove le leggende del Delta diventano quelle racchiuse nella sua provincia dentro a Akuaduulza, Il libro del mago e Nona Lucia.
E poi la consacrazione nazionale con Pica! con i suoi personaggi quasi mitologici: Il minatore di frontale, La ballata del Cimino, Il costruttore di motoscafi. Con il primo grande concerto evento al Forum di Assago nel 2008 che il prossimo 25 Febbraio 2012 verrà ripetuto con la sua schiera di fans che in questo solo anno, dopo la partecipazione a San Remo e il disco Yanez si è moltiplicata. Il camionista Ghost Rider, El carnevaal de Schignan e La machina del Ziu Toni stanno viaggiando in tutto lo stivale.
I due inediti sono due canzoni folk per sola voce e chitarra acustica, la splendida ed autunnale Foglie, quando la natura diventa anche specchio della vita umana e la più giocosa e divertente Lettera da Marte, registrate in solitaria dentro le mura domestiche. Anticipo del carattere del prossimo disco?
I due brevi ed introspettivi racconti:"Il cedro del libano” e “Retha Mazur il vento” che continuano sulla scia dei libri che Davide ha già scritto e che gli hanno garantito una discreta fama anche come originale scrittore:Le parole sognate dai Pesci e Il mio nome è Herbert Fanucci.
Infine il DVD,dove sono catturate immagini live e prese dal backstage dell'ultimo fortunato tour estivo: il rapporto con i suoi musicisti e i suoi fans vecchi e nuovi(fantastico un signore toscano che la prima volta che lo vide in tv a Sanremo ha esclamato:"ma chi è quel pirla!", per poi iniziare a seguirlo rapito in giro per l'Italia); Van De Sfroos che racconta il perchè dell'uso del dialetto( che tanto ha fatto discutere in chiacchere fondate nel nulla politico) , Van De sfroos ripreso nei suoi luoghi: da casa sua al bar sottocasa, di fronte al lago e alle sue amate onde. Infine il perchè di questa raccolta("i Desfans sono pazzi, hanno tutti i dischi ma ne comprano anche dieci copie , anche da regalare") e la scelta della copertina e delle foto.
Tutto il "piccolo-grande" mondo di Van De Sfroos. Per chi c'era e per chi no. Perchè no?
TRACKLIST: BEST OF 1999-2011
CD1-Cau Boi, Pulènta e galèna frègia, Il duello,La balàda del Genesio, La balera, Ninna nanna del contrabbandiere (live), Il figlio di Guglielmo Tell,Sugamara, Grand Hotel, E semm partii,Ventanas, El mustru, San Macau & San Nissoen, L’omm de la tempesta, Foglie (Bonus track )
CD2-Akuaduulza, Il libro del mago, Nona Lucia, Il minatore di Frontale, La ballata del Cimino, Il costruttore di motoscafi, New Orleans, 40 pass, Yanez, La machina del Ziu Toni, Il camionista Ghost Rider, El Carnevaal de Schignan, La figlia del tenente, Dove non basta il mare, Lettera da Marte (Bonus Track)
DVD- Fronteretro- onde su Onde- Glottologia- Dettagli- I musicanti
Vedi anche:
RECENSIONE "YANEZ":
http://enzocurelli.blogspot.com/2011/03/recensione-davide-van-de-sfroos-yanez.html
RECENSIONE concerto Koko Club, Castelletto Cervo(BI),7 Maggio 2010:
http://www.impattosonoro.it/2010/05/26/reportage/davide-van-de-sfroos-koko-club-castelletto-cervobi-7-maggio-2010/
RECENSIONE concerto Castagnole delle Lanze(ASTI),20 Agosto 2011:
http://enzocurelli.blogspot.com/2011/08/recensionereportage-davide-van-de.html
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venerdì 18 novembre 2011
RECENSIONE: 99 POSSE ( Cattivi Guagliuni)
99 POSSE Cattivi Guagliuni ( NoveNove, 2011)
"Io non credo nei confini, nelle barriere, nelle bandiere
credo che apparteniamo tutti ad una stessa famiglia
che è la famiglia umana " Vittorio Arrigoni
Dieci anni di pausa dopo aver corso e poi ancora corso sono tanti. Quando ti accorgi, però, che poco è cambiato, se non in peggio, capisci perchè il guaglione che correva(forse scappava?), adesso si è moltiplicato ed è diventato anche cattivo ma si poteva anche rischiare un "incazzato" o "indignados" per rendere ancor meglio l'idea e entrare meglio nei tempi.
I 99 Posse sono mancati. La loro assenza mi sembrava una sconfitta di fronte alle derive etico/sociali e politiche che hanno caratterizzato l'ultimo decennio della repubblica italiana.
La loro voce di dissenso e denuncia ha fatto la rivoluzione nei primi anni novanta. Il fenomeno delle posse (in compagnia di Bisca ma anche di Isola Posse All Star, Assalti Frontali e tutte quelle voci nate dall'underground di tutte le grandi città italiane, non solo Napoli) furono la vera rivoluzione "punk italiana", la voce con le "mani Pulite" che usava il rap e l'hip hop( ma non solo, visto il crossover totale che mischiava punk, reggae e rock) come linguaggio di attivismo e propaganda che nel nostro paese mai si era visto così forte; lontano da quello dei cantautori un pò snob degli anni settanta.
La discesa in campo di certi personaggi da bagaglino e la corruzione politica dilagante del periodo furono manna per certi gruppi, forse taggati superficialmente di retorica, ma che a conti fatti avevano visto lungo, molto lungo. Anche chi non era della scena subiva censure e tagli: vi ricordate il famoso primo Maggio con Elio e le storie tese?
Qualcuno ha fatto finta di non accorgersene ma il segno che hanno lasciato è profondo. Come tutti i "forti" movimenti musicali di rottura, la stagione è stata breve ma intensissima.
Gli stessi 99 Posse per stare in vita hanno dovuto fare le loro scelte artistiche, che hanno dato loro ragione senza mai mancare quell'estremismo che caratterizzò i primi anni e la sfilza di denunce collezionate parlano da sè e fanno impallidire i vari Fabri Fibra di oggi.
Luca O Zulù Persico, Sascha Ricci, Marco Messina e Max Jovine si sono ritrovati dopo tanti anni con troppe cose da raccontare tutte insieme. Anni fatti di tante esperienze musicali e personali. Un ritorno che musicalmente e testualmente guarda più ai primi anni che non a quelli insieme a Meg(unica assente di questa reunion) che arrisero loro anche i primi posti delle classifiche e video in heavy rotation.
Gli ingredienti ci sono sempre tutti e tanti amici, anche più giovani, hanno contribuito a dare un aiuto. Scelta l'indipendenza anche discografica, si riparte.
Un manifesto programmatico per capire il perchè del loro ritorno che poi è lo stesso della loro nascita è Canto pè dispietto. Perchè là fuori, a certi personaggi, certe parole danno ancora fastdio.
Un disagio che nasce dal basso dai quartieri di Napoli e di tutte le grandi città, dove l' università di vita è la strada University of Secondigliano, e i carceri sono un set di anime dimenticate con poca voce: Morire tutti i giorni (con Daniele Sepe) e Cattivi Guagliuni (...Cundannate, cundannate in primo grado a commettere i reati/nati dint'a certi quartieri ca tutto chello ca tenimmo/è chello c c'ammo arrubbato/concentrati invogliati sedotti abbandonati/po' l'appello 'a cassazione e jammo tutte quante carcerate/niente clemenza e se non fosse abbastanza/dopp' si pregiudicato sospettato delinquente abituale sorvegliato...)..
Musica usata ancora come veicolo combattivo e punto di ritrovo per chi alle risposte politiche di questa Italia non ci crede( Massimo Troisi introduce :Italia Spa), da qualunque lato arrivino. La dissacrante Yes Weekend, con i campionamenti di politici di sinistra, appropiatosi di slogan altrui e pronti all'opposizione, quasi a tempo perso:
(...Lo sai come si fa l'opposizione all'italiana/Si va tutti in vacanza per ilo fine settimana...).
Il ritorno al punk di La Paranza di san Precario per denunciare il precariato lavorativo, i protagonisti cambiano (Marchionne) ma i problemi sono sempre quelli e peggiorati. Abbiamo creduto alla favola del lavoro interinale ma qui non si campa senza la sicurezza di uno stipendio.
Tracce del progetto Al Mukawama(progetto post -scioglimento) nei veloci beat ragamaffin' di Antifa 2.0; il ricordo di un piccolo eroe degli anni duemila in Resto Umano , costruita con i samples della voce di Vittorio Arrigoni.
Se Zulù era la voce "contro" degli anni novanta, Caparezza, in qualche modo è diventato quella degli anni duemila, i suoi messaggi travestiti da canzoni quasi da cabaret sono forti e diretti. Chi vuole non capire, continui pure. Il matrimonio è quindi d'obbligo, visto anche il rispetto reciproco e avviene in Tarantelle pè campà.
Ma poi arrivi alla fine e il messaggio di resistenza più forte arriva con Penso che non me ne andrò.
(...Resto qua/ho ancora da fare un poco di cose anch'io/e in più c'ho/ancora da fumare le piante da curare/devo ancora andare in giro per il mondo/voglio perdere di vista il giorno/e poi non posso andare via perché/il mio cane ha bisogno di me/voglio vedere come va a finire/questo paese vuole un bel finale/io casomai vorrei contribuire qualche cosa troverò da/fare qua/mi trovo bene qua/tiro annanz a campa'/fra i viali di cemento je provo a respirà...)
Il guagliò che prima correva e scappava, ha trovato la soluzione:"io resto" e combatto...ad andarsene saranno altri. Sembra stia iniziando a funzionare!!!
mercoledì 16 novembre 2011
RECENSIONE: SAXON/ANVIL Live@Rock'n'Roll Arena, Romagnano Sesia(NO),15 Novembre 2011
Concerto d'altri tempi questa sera al Rock'n'Roll Arena di Romagnano Sesia(NO).
Un sold out annunciato che ha lasciato fuori al freddo dell'incombente inverno chi è arrivato in ritardo e non ha potuto timbrare il cartellino con la storia dell'heavy metal. Perchè i Saxon, nonostante non abbiano mai raggiunto il successo planetario dei compagni di inizio avventura, Iron Maiden, rappresentano ancora oggi, più di Steve Harris e soci , la vera anima stradaiola che caratterizzò il movimento NWOBHM che animava i sobborghi inglesi nei fine anni settanta. Nonostante tutte le beghe legali e i conflitti personali con gli ex componenti, i Saxon sono ancora quei "son of a bitch"(primo nome della band) di inizio carriera.
Poi per questa serata erano in accoppiata con un'altra leggenda del metal degli anni ottanta, i canadesi Anvil e molti erano qui per non perdersi quel mattacchione di "Lips".
Ad aprire la serata i giovani britannici Crimes Of Passion, sponsorizzati dagli stessi Saxon e con all'attivo un album ed un ep, il loro old school metal, nonostante parecchi problemi tecnici abbiano infestato la mezz'ora di esibizione, ha conquistato. Il biondo e simpatico cantante Dale ci ha messo del suo e a fine concerto si sono meritati l'ovazione.
Vidi i canadesi Anvil circa quindici anni fa e devo dire che ero qua, come tantissimi altri anche per loro. Gli Anvil hanno attraversarto fasi alterne di carriera, dai fasti scollacciati dei primi anni ottanta con i poco nascosti riferimenti sessuali che strabordavano dalle liriche-alla faccia dei benpensanti- e veri e propri prime movers dello speed and thrash metal(prima ancora di quel Kill'em all da prima pagina), fino ad arrivare alla rinascita di questi ultimi anni, grazie anche al divertente documentario che tanto successo ha avuto(Anvil: the story of Anvil) e all'ultimo album Juggernaut of Justice che ne hanno rilanciato la carriera. Chi non è mai cambiato è Steve "Lips" Kudlow, un vero monello dalle mille smorfie che passa dai spettacolari assoli impossibili, anche con l'immancabile vibratore usato come bottle neck, a rasoiate chitarristiche che definiscono il suono "in your face" della sua creatura. La formazione a tre con Glenn Five al basso e il "vecchio"Robb Reiner che dietro le pelli è un martello pneumatico, ha avuto modo di mettersi in mostra tra una gag e l'altra di Lips.
Il loro set ha goduto del miglior suono della serata, ed ha alternato vecchi successi come 666, Mothra, March of the Crabs, la terremotante Winged Assassins, l'inconfondibile Metal on Metal ai più recenti Juggernaut of justice e la bluesata New Orleans Voo Doo. Gli Anvil rimangono una piccola istituzione, lontana dai grandi circuiti, da preservare e sostenere.
Un peccato è aver assistito alla prima parte del concerto dei Saxon, con dei suoni veramente boombastici che ne hanno penalizzato il set. Fortunatamente, questa volta è da dire, l'impianto audio salta alle prime battute di Rockn'n roll Gypsy e quello che poteva essere un disasto si trasforma nella salvezza del concerto che proseguirà con i giusti suoni fino alla fine e con i Saxon ancora più micidiali.
I britannici presentano il loro nuovo e buon album Call to Arms(2011). Tanti gli estratti che si sono incastonati con i vecchi cavalli di battaglia, dall'apertura del concerto con Hammer of the Gods, passando per Mists of Avalon, all'epica Call to Arms fino a When Doomsday comes(Hybrid Theory).
Il sempre più regale Biff Byford, dall'inconfondibile e unica voce, rimane quel catalizzatore che è sempre stato, un uomo che ha raggiunto i sessant'anni d'età e che da quasi quaranta porta avanti le sue battaglie e la sua creatura Saxon(raccontato così bene nel suo libro autobiografico "Never Surrender"), tra alti e bassi ma con immutata passione.
Il working class metal degli esordi sopravvive in anthems entrati di diritto nella storia della musica pesante: Heavy Metal Thunder, l'inno "bykers" Motorcycle Man, Dallas 1Pm e Denim and Leather non hanno bisogno di troppi commenti e spiegazioni. La band poggia sulle chitarre del pirata Paul Quinn(fantastici alcuni suoi assoli), l'altro superstite della prima line-up del lontano 1976 e dell'ultimo entrato(ormai da quindici anni nella band) Doug Scarratt , sulla strabordante esuberanza ed headbanging instancabile del rosso bassista Nibbs Carter e sul drumming preciso del veterano Nigel Glockler, nascosto dietro alla sua faraonica batteria.
Una carriera rivisitata guardando soprattutto agli anni ottanta, fino ad arrivare a quei dischi che cercavano l'America e il glam, al tempo poco digeriti dai die-hard fans, qui rappresentati bene da Rock the Nations.
La velocissima e squassante 20.000 Ft, l'immancabile e ormai "fatta loro" cover di Ride like the wind di Christopher Cross e Wheels of Steel (“She’s got wheels… wheels of steel!”) portano al caldo ed incandescente finale con Byford che cerca sempre più il contatto con i suoi fans e si appropria di una maglietta da calcio azzurra che si lega intorno al collo. Dopo 747(Strangers in the night) e l'anthemica Power and the Glory arrivano le finali ed immancabili Strong Arm of the Law e Princess of the Night, assurte a veri e propri inni e stile di vita, che chiudono la serata vintage all'Arena.
I primi anni ottanta si sono rimaterializzati per una sera, ma senza effetto nostalgia perchè Anvil e Saxon, "kick some ass", come direbbero Lips e soci, a molte novelle e pretenziose band di oggi.
And the band played on...
VIDEO di "HEAVY METAL THUNDER":
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