THE ZEN CIRCUS Nati per subire( La Tempesta Dischi, 2011)
No, non cercateli in tv o nelle radio in filodiffusione del supermercato sotto casa, magari quello immortalato in copertina. Difficilmente a qualcuno dei regnanti/padroni dei mass-media di questo nostro paese fatto a forma di scarpa potrà piacere un testo dei Zen Circus, a meno che non venga travisato e lanciato solo perchè il coro prende bene(...di esempi ne abbiamo e il coro de L'amorale ci sguazza in pieno).
Dopo l'abbandono dell'inglese, dopo lo smussamento di tutti gli angoli che li avevano portati ad essere bollati come i Violent Femmes italiani, fino a finire per collaborare proprio con Brian Ritchie in Villa Inferno, il primo disco in cui si avvistavano i primi segni di cambiamento. L'approdo avviene con Andate tutti affanculo(2009), un esperimento tutto cantato in italiano che funzionò così bene che il seguito era quasi obbligatorio, per capire l'effetto che fa.
Se a qualcuno il successo, quello del sottobosco per intenderci, anche di critica, non era andato giù, poco importa, perchè per arrivare fino a qui, Appino, Ufo e Karim hanno vissuto la gavetta che tante segretarie e sottosegretarie della repubblica italiana hanno bellamente saltato in favore di altri salti su lettoni di costruzione "russa". I tempi dei buskers che giravano Pisa, con i vestiti comprati ai mercatini delle pulci e registravano Doctor Seduction, inventandosi, poi, le storie del signor Nello Scarpellini, sono passati. Non invano , però. Ora è tempo di diffondere il messaggio in modo chiaro e capibile. In fondo il rock'n'roll è solo questo e gli Zen Circus lo sanno.
"Andate tutti affanculo" diceva tutto nel titolo, così come Nati per subire che ne è il giusto seguito e non una rassegnazione. Naturalmente al loro successo non si dovrà chiedere in cambio nessun cambiamento di rotta, la loro vena scherzosa, la loro critica pungente e sarcastica, l'autoironia è rimasta infatti intatta.Viene a mancare l'effetto sorpresa e novità che il precedente disco riuscì a smuovere e una cura nei suoni e negli arrangiamenti che li ha allontanati forse un pò troppo dallo spirito iniziale dei primissimi dischi, ma gli Zen Circus rimangono le solite teste calde che sanno sbeffeggiare e denunciare con il cervello ben collegato e pensante.
Agli Zen Circus piace usare la nostra Italia come capro espiatorio delle loro storie. A ragione. In fondo la vita, la morte, l'amore, la rabbia e la felicità passano attraverso le strade assolate e le vie buie del nostro bel paese(Atto secondo). Una regola che vale per "quasi" tutti gli abitanti con passaporto regolare o acquisito.
Nel paese che sembra una scarpa è il manifesto programmatico che apre il disco con gli ingredienti cari al gruppo: testi cinici dove l'umorismo scava in verità spesso conosciute ma nascoste per comodo, a malo modo, in uno sgabuzzino. (...così le banche prestano dei nomi a tutti quanti / tua nonna come sempre ti regalerà dei guanti / il lavoro è disprezzare gli altri per ventiquattro ore / e ci spezziamo ancora le ossa per amore / un amore disperato per tutta questa farsa / insieme nel paese che sembra una scarpa....).
Il folk/rock acustico prevale ma lascia spesso e volentieri il passo all'elettrico e agli assoli come nel primo singolo L'Amorale, con il bersaglio anticlericale centrato in pieno e sbeffeggiato con una cantilena fanciullesca. Il bullismo imperante e patologico di Nati per subire, specchio che riflette un pò tutti noi, il folk di La Democrazia semplicemente non funziona con Giorgio Canali, ospite nel consigliarci di "farci fottere".
C'è anche un avvicinmamento al mondo cantautorale italiano, palese e poco nascosto in tracce come I Qualunquisti. Rino Gaetano, da lassù ascolta e ringrazia (...l'ultimo dei tuoi problemi è la mobilità sociale / che non s'è mai capito cosa vuol significare / infatti siam tutti in giro che non si riesce a passare / che ci sia di sociale ce lo devono spiegare / son poveri di spirito i poveri in generale...). Così come in Franco, storia di quotidiana vita operaia che mi ha rimandato subito a L'opearaio della fiat "la 1100" del compianto cantautore calabrese.
Gli Zen Cicus si divertono e giocano molto musicalmente. Dall'amarezza alt/new wave de Il mattino ha l'oro in bocca, alle atmosfere leggere e pop come l'ironico dileggiare di I milanesi al mare che gioca con il surf/punk/pop degli amati Ramones fino alle atmosfere sixty/pop di Ragazzo Eroe, un giro d'Italia alla ricerca di arruolamenti di giovani ragazzi per il buon futuro del belpaese. Fino ad arrivare all'amara conclusione di Cattivo Pagatore, ritratto reale di tante giovani famiglie in lotta con il precariato e il "fine mese" alle porte.
Sarà veramente uno sparo l'unica soluzione?
Graditi ospiti, oltre al già citato Giorgio Canali: Enrico Gabrielli, Dente, Francesco Motta(Criminal Jokers), Alessandro Fiori, Il Pan Del Diavolo, Nicola Manzan, Ministri e Tommaso Novi ( Gatti Mèzzi ).
lunedì 24 ottobre 2011
venerdì 21 ottobre 2011
RECENSIONE: LOU REED/METALLICA (Lulu)
LOU REED/METALLICA Lulu ( Warner Records, 2011)
Ecco, finalmente, il matrimonio del secolo che farà discutere, dividerà, accomunerà, esalterà, riempirà i social network di discussioni, rischiando di non piacere ai parenti dei due sposi, oppure far nascere una nuova grande comune a conduzione familiare con lieto fine incluso.
Ma andiamo con ordine.
Come tante storie d'amore: galeotto fu il primo incontro. L'occasione si presenta per il 25° anniversario della Rock And Roll Hall Of Fame al Madison Square Garden di New York, esattamente due anni fa, nell’ottobre 2009. Lou Reed e i Metallica suonano insieme sul palco Sweet Jane e White light/White Heat. Si piacciono a vicenda. Difficile diversamente, visto l'importanza dei personaggi nella storia della musica, al di là dei generi proposti, l'amore dei 'Tallica per il rock d'annata (i vari Garage Days a testimoniarlo) e la curiosità di Reed nel confrontarsi con qualcosa di diverso e rumoroso (Metal Machine Music fu buon profeta). A farsi avanti è il vecchio Lou, assente discograficamente dal lontano The Raven (2003), che inizialmente propone alla band di incidere vecchie canzoni dimenticate nei cassetti, per poi cambiare idea e proporre di musicare lo spettacolo teatrale "Lulu", l’opera teatrale di Robert Wilson basata sui racconti di Frank Wedekind, andata in scena a Berlino.
Lulu è un opera dove il sesso è predominante fino ad divenire la forza dominante che tiene a galla il mondo, scagliandosi contro i pregiudizi preventivi della borghesia moralista e legata ai dogmi religiosi. La protagonista immaginaria è Lulu: dall'infanzia, passando alla sua attività di ballerina, i numerosi intrecci amorosi, la sua natura da "ammaliatrice" di uomini, fino all'incontro con Jack the Ripper e la morte. La sua vita diventa pretesto e corpo per diffondere queste nuove verità. Eros, sesso, dramma, crudeltà e morte gli ingredienti che fanno dell'opera, in origine scritta da Albarn Berg, un racconto fortemente osteggiato negli anni trenta e a quanto pare anche al giorno d'oggi, vista la censura che la copertina del disco ha già ricevuto a Londra.
Metallica e Lou Reed si chiudono in gran segreto in sala di registrazione con la supervisione di Hal Willner e Greg Fidelman ed in poco tempo, si parla di alcune canzoni "buone alla prima", fanno uscire un disco, in alcuni punti eclettico che fa delle visionarie liriche, che seguono la storia, il vero punto focale. Con incursioni elettroniche e arrangiamenti d'archi come uniche aggiunte esterne.
Lulu (il disco) è composto da dieci canzoni, quasi 90 minuti di musica suddivisi in 2 CD.
Questo è, a tutti gli effetti, un disco di Lou Reed musicato dai Metallica. Un Berlin che pare, in molti punti, sovrapposto alle diverse incarnazioni a cui i Metallica ci hanno abituato negli anni(dall'old school thrash dei primi anni, passando al pesante hard rock del Black Album fino alle sfumature più mainstream di Load). Un disco che divide anche gli stessi protagonisti: Lou Reed ne parla in modo fin troppo trionfalistico, Kirk Hammett, il chitarrista dei Metallica, lo ha innalzato a miglior disco mai registrato dalla band, James Hetfield si è subito prodigato a ribadire quanto Lulu non sia il nuovo lavoro della band ma semplicemente una collaborazione.
Brandenburg Gate inizia con un tranquillo arpeggio e la voce di Reed che attacca il suo mantra recitativo: (...I would cut my legs and tits off/When I think of Boris Karloff and Kinski/In the dark of the moon/It made me dream of Nosferatu/Trapped on the isle of Doctor Moreau/Oh wouldn’t it be lovely...), fino all'entrata di Hetfield e della band di San Francisco che ricorda non poco i Guns 'n' Roses alle prese con la dylaniana Knockin' on Heaven's door.
Alcune cose sembrano funzionare come Iced Honey con i cori di Hetfield (il ripetuto ...small Town girl...), quelli che abbiamo imparato a conoscere da Load in avanti, da quando ha iniziato a cantare bene diventando più noiosetto con le quelle parole fastidiosamente e stancamente allungate fino alla nausea appunto (in questo disco poco presenti quindi ben accolte). Oppure Cheat on me, la più sperimentale, se non fosse per l'eccessiva lunghezza che tocca quasi i 12 minuti si farebbe anche apprezzare.
Il matrimonio riesce meno quando i Metallica fanno i Metallica mentre Lou Reed continua il suo lavoro recitativo e di reading (trattasi sempre e comunque di un'opera teatrale). Il rischio diventa così realtà. Le due parti sembrano incollate una sull'altra, lasciando quella sensazione di copia-incolla che nuoce alle due parti e al prodotto finale.
Capita così di imbattersi in una delle canzoni più furiose dei Metallica da molti anni a questa parte, che li riconduce incredibilmente agli esordi di Kill'Em All: Mistress Dread, una furia thrash metal/noise che però con il recitato declamatorio di Reed incollato sopra, perde tutte le sue potenzialità. Seguiamo la musica o ci concentriamo sulle parole? Oppure in The View, cadenzata e pesante thrash song con un finale accelerato e lasciato alla voce di Hetfield.
Pumping Blood è forse il brano dove l'accostamento, pur nella sua diversità, funziona meglio. Stacchi pesanti e arpeggi lugubri si alternano, con le chitarre di Hetfield e Hammett che lasciano uscire sinistri riff slayeriani che si pensavano persi chissà dove e Reed che accenna uno tra i pochi versi veramente cantati. (If I pump blood in the sunshine/ And you wear a leather box with azaleas/And I pump more blood/ And it seeps through my skin/Will you adore the river /The stream, the trickle /The tributary of my heart).
La seconda parte del disco è quella che funziona meglio. La band si mette a completa disposizione di Reed, le sfuriate metal sono meno estreme e sembrano legare maggiormente con la voce .
Ottima Frustration che include un recitato teatrale di Lou Reed accompagnato solamente dalla batteria di Lars Ulrich ed un pesante e sinistro riff sabbathiano che eleva la canzone, trasformandola nel miglior brano dell'opera.(...But all I do is fall over/I don’t have the strength /I once had/In you and your prickless lover /And his easel in his eyes/I feel the pain creep up my leg/Blood runs from my nose/I puke my guts out at your feet/You’re more man than I/To be dead to have no feeling /To be dry and spermless like a girl /I want so much to hurt you...).
Little dog è cantata interamente da Reed con un sottofondo liquido e quasi inesistente, Dragon è hard rock che convince con un buon assolo di Kirk Hammett. Il finale è affidato ai 20 minuti di Junior Dad, eterea canzone con la presenza di orchestrazioni e la fine del sogno con il brusco risveglio accluso.
Lulu è un'opera che va ascoltata con i testi alla mano e la santa voglia di ripetere gli ascolti, nonostante il minutaggio elevato di quasi tutti i brani possa scoraggiare. La prima sensazione è senza dubbio straniante.
Un'opera che sicuramente resterà unica e irripetibile. L'unione di due mondi diversi (il terzo è l'opera teatrale). Due entità artistiche dissonanti-sotto molti punti di vista, generazionale e musicale in primis-che cercano un punto d'incontro e trovano alcune difficoltà nel percorso. Vanno premiati il coraggio e la voglia di mettersi in gioco.
Sul lato negativo: pesano la riuscita di pochi brani tra i dieci proposti, l'elevato minutaggio-che poche volte fa rima con scorrevolezza-e l'impressione che difficilmente ci ricorderemo di queste composizioni in futuro. Sottolineando quanto sia difficile musicare un'opera teatrale senza far cadere la tensione e far perdere la concentrazione.
Uno sfizio che gioverà più agli interpreti che agli spettatori. Anche economicamente.
Voto 6,5
Ecco, finalmente, il matrimonio del secolo che farà discutere, dividerà, accomunerà, esalterà, riempirà i social network di discussioni, rischiando di non piacere ai parenti dei due sposi, oppure far nascere una nuova grande comune a conduzione familiare con lieto fine incluso.
Ma andiamo con ordine.
Come tante storie d'amore: galeotto fu il primo incontro. L'occasione si presenta per il 25° anniversario della Rock And Roll Hall Of Fame al Madison Square Garden di New York, esattamente due anni fa, nell’ottobre 2009. Lou Reed e i Metallica suonano insieme sul palco Sweet Jane e White light/White Heat. Si piacciono a vicenda. Difficile diversamente, visto l'importanza dei personaggi nella storia della musica, al di là dei generi proposti, l'amore dei 'Tallica per il rock d'annata (i vari Garage Days a testimoniarlo) e la curiosità di Reed nel confrontarsi con qualcosa di diverso e rumoroso (Metal Machine Music fu buon profeta). A farsi avanti è il vecchio Lou, assente discograficamente dal lontano The Raven (2003), che inizialmente propone alla band di incidere vecchie canzoni dimenticate nei cassetti, per poi cambiare idea e proporre di musicare lo spettacolo teatrale "Lulu", l’opera teatrale di Robert Wilson basata sui racconti di Frank Wedekind, andata in scena a Berlino.
Lulu è un opera dove il sesso è predominante fino ad divenire la forza dominante che tiene a galla il mondo, scagliandosi contro i pregiudizi preventivi della borghesia moralista e legata ai dogmi religiosi. La protagonista immaginaria è Lulu: dall'infanzia, passando alla sua attività di ballerina, i numerosi intrecci amorosi, la sua natura da "ammaliatrice" di uomini, fino all'incontro con Jack the Ripper e la morte. La sua vita diventa pretesto e corpo per diffondere queste nuove verità. Eros, sesso, dramma, crudeltà e morte gli ingredienti che fanno dell'opera, in origine scritta da Albarn Berg, un racconto fortemente osteggiato negli anni trenta e a quanto pare anche al giorno d'oggi, vista la censura che la copertina del disco ha già ricevuto a Londra.
Metallica e Lou Reed si chiudono in gran segreto in sala di registrazione con la supervisione di Hal Willner e Greg Fidelman ed in poco tempo, si parla di alcune canzoni "buone alla prima", fanno uscire un disco, in alcuni punti eclettico che fa delle visionarie liriche, che seguono la storia, il vero punto focale. Con incursioni elettroniche e arrangiamenti d'archi come uniche aggiunte esterne.
Lulu (il disco) è composto da dieci canzoni, quasi 90 minuti di musica suddivisi in 2 CD.
Questo è, a tutti gli effetti, un disco di Lou Reed musicato dai Metallica. Un Berlin che pare, in molti punti, sovrapposto alle diverse incarnazioni a cui i Metallica ci hanno abituato negli anni(dall'old school thrash dei primi anni, passando al pesante hard rock del Black Album fino alle sfumature più mainstream di Load). Un disco che divide anche gli stessi protagonisti: Lou Reed ne parla in modo fin troppo trionfalistico, Kirk Hammett, il chitarrista dei Metallica, lo ha innalzato a miglior disco mai registrato dalla band, James Hetfield si è subito prodigato a ribadire quanto Lulu non sia il nuovo lavoro della band ma semplicemente una collaborazione.
Brandenburg Gate inizia con un tranquillo arpeggio e la voce di Reed che attacca il suo mantra recitativo: (...I would cut my legs and tits off/When I think of Boris Karloff and Kinski/In the dark of the moon/It made me dream of Nosferatu/Trapped on the isle of Doctor Moreau/Oh wouldn’t it be lovely...), fino all'entrata di Hetfield e della band di San Francisco che ricorda non poco i Guns 'n' Roses alle prese con la dylaniana Knockin' on Heaven's door.
Alcune cose sembrano funzionare come Iced Honey con i cori di Hetfield (il ripetuto ...small Town girl...), quelli che abbiamo imparato a conoscere da Load in avanti, da quando ha iniziato a cantare bene diventando più noiosetto con le quelle parole fastidiosamente e stancamente allungate fino alla nausea appunto (in questo disco poco presenti quindi ben accolte). Oppure Cheat on me, la più sperimentale, se non fosse per l'eccessiva lunghezza che tocca quasi i 12 minuti si farebbe anche apprezzare.
Il matrimonio riesce meno quando i Metallica fanno i Metallica mentre Lou Reed continua il suo lavoro recitativo e di reading (trattasi sempre e comunque di un'opera teatrale). Il rischio diventa così realtà. Le due parti sembrano incollate una sull'altra, lasciando quella sensazione di copia-incolla che nuoce alle due parti e al prodotto finale.
Capita così di imbattersi in una delle canzoni più furiose dei Metallica da molti anni a questa parte, che li riconduce incredibilmente agli esordi di Kill'Em All: Mistress Dread, una furia thrash metal/noise che però con il recitato declamatorio di Reed incollato sopra, perde tutte le sue potenzialità. Seguiamo la musica o ci concentriamo sulle parole? Oppure in The View, cadenzata e pesante thrash song con un finale accelerato e lasciato alla voce di Hetfield.
Pumping Blood è forse il brano dove l'accostamento, pur nella sua diversità, funziona meglio. Stacchi pesanti e arpeggi lugubri si alternano, con le chitarre di Hetfield e Hammett che lasciano uscire sinistri riff slayeriani che si pensavano persi chissà dove e Reed che accenna uno tra i pochi versi veramente cantati. (If I pump blood in the sunshine/ And you wear a leather box with azaleas/And I pump more blood/ And it seeps through my skin/Will you adore the river /The stream, the trickle /The tributary of my heart).
La seconda parte del disco è quella che funziona meglio. La band si mette a completa disposizione di Reed, le sfuriate metal sono meno estreme e sembrano legare maggiormente con la voce .
Ottima Frustration che include un recitato teatrale di Lou Reed accompagnato solamente dalla batteria di Lars Ulrich ed un pesante e sinistro riff sabbathiano che eleva la canzone, trasformandola nel miglior brano dell'opera.(...But all I do is fall over/I don’t have the strength /I once had/In you and your prickless lover /And his easel in his eyes/I feel the pain creep up my leg/Blood runs from my nose/I puke my guts out at your feet/You’re more man than I/To be dead to have no feeling /To be dry and spermless like a girl /I want so much to hurt you...).
Little dog è cantata interamente da Reed con un sottofondo liquido e quasi inesistente, Dragon è hard rock che convince con un buon assolo di Kirk Hammett. Il finale è affidato ai 20 minuti di Junior Dad, eterea canzone con la presenza di orchestrazioni e la fine del sogno con il brusco risveglio accluso.
Lulu è un'opera che va ascoltata con i testi alla mano e la santa voglia di ripetere gli ascolti, nonostante il minutaggio elevato di quasi tutti i brani possa scoraggiare. La prima sensazione è senza dubbio straniante.
Un'opera che sicuramente resterà unica e irripetibile. L'unione di due mondi diversi (il terzo è l'opera teatrale). Due entità artistiche dissonanti-sotto molti punti di vista, generazionale e musicale in primis-che cercano un punto d'incontro e trovano alcune difficoltà nel percorso. Vanno premiati il coraggio e la voglia di mettersi in gioco.
Sul lato negativo: pesano la riuscita di pochi brani tra i dieci proposti, l'elevato minutaggio-che poche volte fa rima con scorrevolezza-e l'impressione che difficilmente ci ricorderemo di queste composizioni in futuro. Sottolineando quanto sia difficile musicare un'opera teatrale senza far cadere la tensione e far perdere la concentrazione.
Uno sfizio che gioverà più agli interpreti che agli spettatori. Anche economicamente.
Voto 6,5
martedì 18 ottobre 2011
RECENSIONE: TOM WAITS (Bad As Me)
TOM WAITS Bad As Me ( ANTI Records, 2011)
Arriva puntuale quel momento dell'anno in cui i dischi di Tom Waits suonano meglio, nell'impianto stereo. Quando i colori della natura si riempiono di tutte quelle sfumature di cui i nostri occhi si beano, quando il vento soffia sulle foglie degli alberi e le costringe a cadere giù, a passo di danza, prima di toccare terra. Waits, tutto questo, sembra saperlo: Last Leaf (...Sono l'ultima foglia sull'albero/ L'autunno ha preso il resto /Ma non mi prenderanno/ Sono l'ultima foglia sull'albero...).
Quel momento dell'anno è questo che stiamo vivendo; le giornate si accorciano e ti illudono a vivere la giornata in modo più veloce per poter godere ed assaporare della luce del sole più a lungo, senza però disdegnare totalmente l'imbrunire e il buio della notte. "La morte si nascode negli orologi"(cit. intervista rilasciata a Paolo Sorrentino su Repubblica, 15 Ottobre 2011).
Tom Waits, quest'anno fa il regalo più grande. In questi giorni possiamo mettere da parte, per una volta, le nostre copie di Blue Valentine, Rain Dogs, Bone Machine e Mule Variations, fiduciosi di ritrovarli, sempre pronti alleati, in futuro e mettere sullo stereo una nuova raccolta di tredici canzoni. La prima dall'ultimo disco Real Gone uscito sette anni fa.
Bad As me, pur non raggiungendo la sublime bellezza di alcuni suoi predecessori, è certamente una raccolta di canzoni importante; cerca di mettere ordine alla sua carriera, un pò come fece l'uscita della raccolta di inediti, Orphans, qualche anno fa. Da una parte le canzoni bastarde, dall'altra gli schiamazzi rumorosi e poi quelle più disperate e romantiche. In Bad As me ci sono tutte e rappresentano, più di ogni disco di Waits ,il suo mondo musicale riunito. Un mondo come al solito multistrato dove Waits riesce a masticare la storia della musica a suo piacimento, rileggendola in modo unico, permettendosi di citare se stesso in modo brillante senza apparire nostalgico o peggio, ripetitivo. Tom Waits al suo ventesimo disco è ancora fuori da qualsiasi ingranaggio del tempo. Inarrivabile e mai come questa volta, diretto.
C'è il Tom Waits rumorista del singolo Bad as me, che abbiamo già imparato a conoscere, con la sua voce beffarda dentro ad una rumba guidata dalla chitarra di Marc Ribot (...Sono il cappello sul letto/ sono il caffè/ il pesce o l'esca/ Sono il detective sveglio fino a tardi/ Sono il sangue sul pavimento/ Il tuono e il rombo/La barca che non affonda/ non ho chiuso occhio/ Tu sei cattiva come me ...).
C'è il Tom Waits che abbandona la sua voce da orco per il falsetto della jazzata Taking At the Same Time e per rincorrere il rock'n'roll anni '50, trasformandolo in un battito frenetico in Get Lost. La sua voce cambia, ancora, radicalmente in Back in the crowd, suadenza che si trasforma in una una ballad sentimentale che sapora di Messico con l'amarezza e la ricerca di indipendenza in età adulta.(...Se non vuoi che queste braccia ti sorreggano/ Se non vuoi che queste labbra ti bacino/ Se hai trovato qualcuno di nuovo/rimettimi in mezzo alla folla/ Metti il sole dietro le nuvole/ Rimettimi in mezzo alla folla...). Anche quando percorre strade già battute, il suo mettersi in gioco con la voce(Face to the Highway, sembra fare il verso all'anima folk di Springsteen), fa risultare tutto nuovo ed affascinante.
C'è poi l'amicizia con Keith Richards che si rinsalda nuovamente dopo i lontani Rain Dogs(1985) e Bone Machine(1992). Richards suona su quattro canzoni tra cui Chicago, Hell Broke luce e Satisfied( al basso Les Claypool) che non nasconde i suoi riferimenti ai Rolling Stones in maniera più che esplicita nella musica e nelle citazioni del testo(...Avrò soddisfazione / sarò soddisfatto / ora Mr. Jagger e Richards / Gratterò il prurito...) e sull'autunnale Last Leaf , dove il pirata Richards accompagna Waits anche al controcanto.
Il romantico Waits di inizio carriera ricompare per magia in Kiss Me: lui, il piano, la chitarra ed il basso di Marcus Shelby e il fruscio dimenticato di un vecchio vinile in sottofondo, facendo affiorare il suo appassionato bacio a Rickie Lee Jones sul retro di copertina di Blue Valentine tra neon accesi e vecchie cadillac posteggiate ai bordi della strada: (...Baciami/ Voglio che tu mi baci ancora una volta come un estraneo/ Baciami come un estraneo ancora una volta/ voglio credere che il nostro amore è un mistero/ voglio credere che il nostro amore è un peccato/ Voglio che tu mi baci come un estraneo, ancora una volta...).
Tra l'urgenza urbana guidata dai fiati dell'iniziale Chicago e una Raised Right Men che sembra uscire da una spy-story, c'è la notturna atmosfera di Pay Me, con un violino e una fisarmonica che accompagnano, in modo leggero, l'arrivo del mattino e la voglia di fuga, che si fa ancora più prepotente in Face to the Highway(...il Diavolo vuole un peccatore /Il cielo vuole una uccello/Il tavolo vuole una cena/ Le Labbra vogliono una parola/Il bicchiere vuole il vino/Il pugno vuole colpire/L'orologio vuole il tempo/ E la pala vuole lavorare...).
Prima di arrivare alla fine, piazza ancora il rumoroso blues di Hell Broke Luce, che gioca con l'hip hop e con i suoi bizzarri personaggi come già fatto nel precedente e poco capito Real Gone(2004) ma solo come un vecchio prestigiatore potrebbe fare.
Fino ad arrivare alla stupenda e narrativa chiusura di New Year's Eve con la chitarra di David Hidalgo(massiccia la sua presenza su tutto il disco) che conduce le danze di un lento, caloroso e alcolizzato walzer, che abbraccia, avvolge e coccola, invogliando a ripetere l'ascolto ripartendo dal principio (...Tutto il rumore era inquietante/ ...e io non riuscivo a trovare Irving/ E 'stato come essere in due posti nello stesso momento/ E poi ho nascosto le chiavi della tua macchina / Ho preparato un caffè nero e ho buttato giù il resto del rum...).
Per chi ne ha voglia, sull'edizione Deluxe del disco, la magia prosegue con altre tre canzoni: She Stole the Blush, Tell Me, After You Die.
Waits continua il suo discorso di decostruzione della forma canzone iniziata negli anni ottanta con l'aiuto della moglie Kathleen Brennan(coautrice dei testi). Non sarà più sorprendente come una volta, ma la sua personale miscela musicale: bizzarra, visionaria e frenetica che allo stesso tempo sa essere poetica, romantica e malinconica continua a conquistare adesso come quarant'anni fa. Polvere e brillantina. Antiche foto e quotidianità unite. Magia ineguagliabile di questo autunno alle porte.
Arriva puntuale quel momento dell'anno in cui i dischi di Tom Waits suonano meglio, nell'impianto stereo. Quando i colori della natura si riempiono di tutte quelle sfumature di cui i nostri occhi si beano, quando il vento soffia sulle foglie degli alberi e le costringe a cadere giù, a passo di danza, prima di toccare terra. Waits, tutto questo, sembra saperlo: Last Leaf (...Sono l'ultima foglia sull'albero/ L'autunno ha preso il resto /Ma non mi prenderanno/ Sono l'ultima foglia sull'albero...).
Quel momento dell'anno è questo che stiamo vivendo; le giornate si accorciano e ti illudono a vivere la giornata in modo più veloce per poter godere ed assaporare della luce del sole più a lungo, senza però disdegnare totalmente l'imbrunire e il buio della notte. "La morte si nascode negli orologi"(cit. intervista rilasciata a Paolo Sorrentino su Repubblica, 15 Ottobre 2011).
Tom Waits, quest'anno fa il regalo più grande. In questi giorni possiamo mettere da parte, per una volta, le nostre copie di Blue Valentine, Rain Dogs, Bone Machine e Mule Variations, fiduciosi di ritrovarli, sempre pronti alleati, in futuro e mettere sullo stereo una nuova raccolta di tredici canzoni. La prima dall'ultimo disco Real Gone uscito sette anni fa.
Bad As me, pur non raggiungendo la sublime bellezza di alcuni suoi predecessori, è certamente una raccolta di canzoni importante; cerca di mettere ordine alla sua carriera, un pò come fece l'uscita della raccolta di inediti, Orphans, qualche anno fa. Da una parte le canzoni bastarde, dall'altra gli schiamazzi rumorosi e poi quelle più disperate e romantiche. In Bad As me ci sono tutte e rappresentano, più di ogni disco di Waits ,il suo mondo musicale riunito. Un mondo come al solito multistrato dove Waits riesce a masticare la storia della musica a suo piacimento, rileggendola in modo unico, permettendosi di citare se stesso in modo brillante senza apparire nostalgico o peggio, ripetitivo. Tom Waits al suo ventesimo disco è ancora fuori da qualsiasi ingranaggio del tempo. Inarrivabile e mai come questa volta, diretto.
C'è il Tom Waits rumorista del singolo Bad as me, che abbiamo già imparato a conoscere, con la sua voce beffarda dentro ad una rumba guidata dalla chitarra di Marc Ribot (...Sono il cappello sul letto/ sono il caffè/ il pesce o l'esca/ Sono il detective sveglio fino a tardi/ Sono il sangue sul pavimento/ Il tuono e il rombo/La barca che non affonda/ non ho chiuso occhio/ Tu sei cattiva come me ...).
C'è il Tom Waits che abbandona la sua voce da orco per il falsetto della jazzata Taking At the Same Time e per rincorrere il rock'n'roll anni '50, trasformandolo in un battito frenetico in Get Lost. La sua voce cambia, ancora, radicalmente in Back in the crowd, suadenza che si trasforma in una una ballad sentimentale che sapora di Messico con l'amarezza e la ricerca di indipendenza in età adulta.(...Se non vuoi che queste braccia ti sorreggano/ Se non vuoi che queste labbra ti bacino/ Se hai trovato qualcuno di nuovo/rimettimi in mezzo alla folla/ Metti il sole dietro le nuvole/ Rimettimi in mezzo alla folla...). Anche quando percorre strade già battute, il suo mettersi in gioco con la voce(Face to the Highway, sembra fare il verso all'anima folk di Springsteen), fa risultare tutto nuovo ed affascinante.
C'è poi l'amicizia con Keith Richards che si rinsalda nuovamente dopo i lontani Rain Dogs(1985) e Bone Machine(1992). Richards suona su quattro canzoni tra cui Chicago, Hell Broke luce e Satisfied( al basso Les Claypool) che non nasconde i suoi riferimenti ai Rolling Stones in maniera più che esplicita nella musica e nelle citazioni del testo(...Avrò soddisfazione / sarò soddisfatto / ora Mr. Jagger e Richards / Gratterò il prurito...) e sull'autunnale Last Leaf , dove il pirata Richards accompagna Waits anche al controcanto.
Il romantico Waits di inizio carriera ricompare per magia in Kiss Me: lui, il piano, la chitarra ed il basso di Marcus Shelby e il fruscio dimenticato di un vecchio vinile in sottofondo, facendo affiorare il suo appassionato bacio a Rickie Lee Jones sul retro di copertina di Blue Valentine tra neon accesi e vecchie cadillac posteggiate ai bordi della strada: (...Baciami/ Voglio che tu mi baci ancora una volta come un estraneo/ Baciami come un estraneo ancora una volta/ voglio credere che il nostro amore è un mistero/ voglio credere che il nostro amore è un peccato/ Voglio che tu mi baci come un estraneo, ancora una volta...).
Tra l'urgenza urbana guidata dai fiati dell'iniziale Chicago e una Raised Right Men che sembra uscire da una spy-story, c'è la notturna atmosfera di Pay Me, con un violino e una fisarmonica che accompagnano, in modo leggero, l'arrivo del mattino e la voglia di fuga, che si fa ancora più prepotente in Face to the Highway(...il Diavolo vuole un peccatore /Il cielo vuole una uccello/Il tavolo vuole una cena/ Le Labbra vogliono una parola/Il bicchiere vuole il vino/Il pugno vuole colpire/L'orologio vuole il tempo/ E la pala vuole lavorare...).
Prima di arrivare alla fine, piazza ancora il rumoroso blues di Hell Broke Luce, che gioca con l'hip hop e con i suoi bizzarri personaggi come già fatto nel precedente e poco capito Real Gone(2004) ma solo come un vecchio prestigiatore potrebbe fare.
Fino ad arrivare alla stupenda e narrativa chiusura di New Year's Eve con la chitarra di David Hidalgo(massiccia la sua presenza su tutto il disco) che conduce le danze di un lento, caloroso e alcolizzato walzer, che abbraccia, avvolge e coccola, invogliando a ripetere l'ascolto ripartendo dal principio (...Tutto il rumore era inquietante/ ...e io non riuscivo a trovare Irving/ E 'stato come essere in due posti nello stesso momento/ E poi ho nascosto le chiavi della tua macchina / Ho preparato un caffè nero e ho buttato giù il resto del rum...).
Per chi ne ha voglia, sull'edizione Deluxe del disco, la magia prosegue con altre tre canzoni: She Stole the Blush, Tell Me, After You Die.
Waits continua il suo discorso di decostruzione della forma canzone iniziata negli anni ottanta con l'aiuto della moglie Kathleen Brennan(coautrice dei testi). Non sarà più sorprendente come una volta, ma la sua personale miscela musicale: bizzarra, visionaria e frenetica che allo stesso tempo sa essere poetica, romantica e malinconica continua a conquistare adesso come quarant'anni fa. Polvere e brillantina. Antiche foto e quotidianità unite. Magia ineguagliabile di questo autunno alle porte.
lunedì 17 ottobre 2011
RECENSIONE: KIMBALL/JAMISON
KIMBALL/JAMISON Kimball Jamison (Frontiers Records, 2011)
L'etichetta partenopea Frontiers Records, da alcuni anni sta monopolizzando il mercato AOR e classic Hard Rock, accaparrandosi vecchie e nuove glorie del genere. La sfilza di nomi si fa di anno in anno sempre più lunga e blasonata: Toto, Journey, Asia,Winger, Tesla e tantissime altre band hanno trovato nella label fondata da Perugino una spalla ideale fatta di competenza e amore per il rock. La voce si diffonde in fretta e in tempi in cui le grandi case discografiche puntano sulle vendite stagionali, una label fatta di fans competenti è merce assai rara.
Quello che l'etichetta propone su un piatto d'argento a due dei più grandi cantanti ed esponenti del genere è cosa da non rifiutare.
Ecco così servito il disco AOR dell'anno. Bobby Kimball, cantante storico dei Toto e Jimi Jamison dal 1984 nei Survivor(sua la voce nella hit "Burning Heart") colgono l'occasione per rinverdire un'amicizia ultradecennale e unire le loro inconfondibili voci. Canzoni dal taglio hard e moderno confermano quanto label e band coinvolte non giochino mai sul passato ma guardino al presente. Per questo debutto del duo Kimball/Jamison, grande merito per i suoni va al produttore tedesco Mat Sinner, vecchia volpe dell' Heavy Metal melodico europeo e già membro e fondatore di Sinner e Primal Fear e canzoni scritte da grandi songwriters del genere come Jim Peterick, Richard Page, Robert sall, Roby Goodrum e molti altri.
Accompagnati da una band di tutto rispetto che vede lo stesso Sinner al basso, il duttile chitarrista Alex Beyrodt(Silent Force, Voodoo Circle), Martin Schmidt(Atrocity e turnista per tanti artisti) alla batteria e Jimmy Kresic(Voodoo Circle) alle tastiere, Kimball e Jamison si dividono quasi in modo democratico le vocals durante l'intero disco per unirsi nei tanti chorus presenti.
Dai momenti più hard di Can't wait for love,primo singolo e vero masterpiece del progetto, con le sue tastiere catchy e i pesanti riff di chitarra. I chorus non possono che rimandare ai migliori Toto.
Chasing Euphoria e Get back in the game sono due buoni esercizi di hard rock melodico con i chorus che non lasciano scampo e con la voce di Kimball che svetta come nei suoi migliori anni spesi con Steve Lukather e soci ed in alcuni frangenti più hard sembra di ascoltare l'ultimo disco registrato dalla band americana, quel "Falling in Between" (2006) che aveva svecchiato il sound in modo superlativo.
Per contro Jamison, meno iperbolico il suo modo di cantare, dà concretezza a canzoni come l'iniziale e piena di feeling Worth Fighting For e alla più melodica Sail Away, alla bella ed evocativa ballad pianistica Find another way fino ad arrivare alla conclusiva e cristallina Your Photograph, uno dei punti più alti di un disco che cerca il rilancio di un genere che ha certamente conosciuto tempi più brillanti. Your Photograph "fotografa" veramente in modo perfetto il carattere del disco e di due cantanti ancora in piena forma che hanno poca voglia di crogiolarsi sugli allori passati, mettendosi in gioco con freschezza.
A sentire i due, il progetto sembra essere qualcosa di veramente concreto che non si esaurirà con questo debutto ma sembra già promettere un seguito.
L'etichetta partenopea Frontiers Records, da alcuni anni sta monopolizzando il mercato AOR e classic Hard Rock, accaparrandosi vecchie e nuove glorie del genere. La sfilza di nomi si fa di anno in anno sempre più lunga e blasonata: Toto, Journey, Asia,Winger, Tesla e tantissime altre band hanno trovato nella label fondata da Perugino una spalla ideale fatta di competenza e amore per il rock. La voce si diffonde in fretta e in tempi in cui le grandi case discografiche puntano sulle vendite stagionali, una label fatta di fans competenti è merce assai rara.
Quello che l'etichetta propone su un piatto d'argento a due dei più grandi cantanti ed esponenti del genere è cosa da non rifiutare.
Ecco così servito il disco AOR dell'anno. Bobby Kimball, cantante storico dei Toto e Jimi Jamison dal 1984 nei Survivor(sua la voce nella hit "Burning Heart") colgono l'occasione per rinverdire un'amicizia ultradecennale e unire le loro inconfondibili voci. Canzoni dal taglio hard e moderno confermano quanto label e band coinvolte non giochino mai sul passato ma guardino al presente. Per questo debutto del duo Kimball/Jamison, grande merito per i suoni va al produttore tedesco Mat Sinner, vecchia volpe dell' Heavy Metal melodico europeo e già membro e fondatore di Sinner e Primal Fear e canzoni scritte da grandi songwriters del genere come Jim Peterick, Richard Page, Robert sall, Roby Goodrum e molti altri.
Accompagnati da una band di tutto rispetto che vede lo stesso Sinner al basso, il duttile chitarrista Alex Beyrodt(Silent Force, Voodoo Circle), Martin Schmidt(Atrocity e turnista per tanti artisti) alla batteria e Jimmy Kresic(Voodoo Circle) alle tastiere, Kimball e Jamison si dividono quasi in modo democratico le vocals durante l'intero disco per unirsi nei tanti chorus presenti.
Dai momenti più hard di Can't wait for love,primo singolo e vero masterpiece del progetto, con le sue tastiere catchy e i pesanti riff di chitarra. I chorus non possono che rimandare ai migliori Toto.
Chasing Euphoria e Get back in the game sono due buoni esercizi di hard rock melodico con i chorus che non lasciano scampo e con la voce di Kimball che svetta come nei suoi migliori anni spesi con Steve Lukather e soci ed in alcuni frangenti più hard sembra di ascoltare l'ultimo disco registrato dalla band americana, quel "Falling in Between" (2006) che aveva svecchiato il sound in modo superlativo.
Per contro Jamison, meno iperbolico il suo modo di cantare, dà concretezza a canzoni come l'iniziale e piena di feeling Worth Fighting For e alla più melodica Sail Away, alla bella ed evocativa ballad pianistica Find another way fino ad arrivare alla conclusiva e cristallina Your Photograph, uno dei punti più alti di un disco che cerca il rilancio di un genere che ha certamente conosciuto tempi più brillanti. Your Photograph "fotografa" veramente in modo perfetto il carattere del disco e di due cantanti ancora in piena forma che hanno poca voglia di crogiolarsi sugli allori passati, mettendosi in gioco con freschezza.
A sentire i due, il progetto sembra essere qualcosa di veramente concreto che non si esaurirà con questo debutto ma sembra già promettere un seguito.
sabato 15 ottobre 2011
RECENSIONE: JOE HENRY ( Reverie)
JOE HENRY Reverie ( ANTI Records, 2011)
Camminando velocemente, cercando di seminare il freddo pungente di Gennaio, lasciandolo alle spalle. All'interno di quella grande gigantografia in bianco e nero appesa al muro che fotografa le vie secondarie di quella grande città: dove i tombini sbuffano e la sottile patina di ghiaccio si sta sciogliendo lentamente nelle tarde ore della mattinata. I lampioni sono ancora accesi dalla notte prima e il sole timidamente cerca di pugnalare la nebbia. Il terzo caffè, puro esercizio di riscaldamento, è andato giù veloce quando dalle finestre aperte di uno scantinato si materializza della musica. Lo scambio di parti fa fuoriuscire la musica dalla finestra, mentre i rumori della strada entrano nella stanza insonorizzata dove un piano, una chitarra, un contrabbasso e una batteria suonano coesi. Musica e rumori si uniscono, diventano una cosa sola. La curiosità di sbirciare dalla finestra è tanta, la voglia di entrare diventa ossessiva dopo aver capito che dentro quello scantinato si produce romanticismo e calore che possono cambiarti la giornata o come minimo riscaldare un'ora della fredda quotidianità. Antichi sapori che cercavi da tempo, dimenticando dove li avevi incontrati l'ultima volta.
Joe Henry ha voglia di acustico, di fermare il tempo della vita che scorre lungo 14 canzoni dal sapore di antica pellicola in bianco e nero, colorata solamente dal rosso sangue che vi scorre dentro (sue testuali parole). Lo fa, ci riesce e ci dona canzoni jazzate nello spirito dove i tasti del pianoforte rimbombano forte, i tocchi delle bacchette e le rullate di batteria di Jay Bellerose sono protagonisti (Heaven's Escape) come il respiro che ci tiene in vita. Si uniscono gli stridori delle corde di una chitarra durante Odetta, un titolo, un programma.
Un timido cane ulula in lontananza e il gospel soul di Sticks and stones è un perfetto rifugio su cui contare. Grand Street sembra giocare con un tempo di valzer e con l'improvvisazione dei musicisti coinvolti (Kefefus Ciancia al piano e David Piltch al contrabbasso) e Joe Henry intrattenere come consumato crooner, anche quando duetta con la sua pupilla Lisa Hannigan in Piano Furnace.
Un'altro ospite ha bussato alla porta: è Marc Ribot. Porta con se la chitarra. Si unisce. Dalla finestra escono fuori Dark Tears e Tomorrow is October. Il cane continua il suo stanco esercizio di insofferenza, mentre Ribot impugna l'ukulele ed esce Deathbed Versions.
Il ghiaccio è rotto e Joe Henry con la sua band corrono via lisci, tra folk ( Room at Arles) e jazz appassionati ( Eyes out for you), non importa se chi passa vicino alla finestra dello scantinato possa sentire tutto, impossessati dal fuoco della musica si continua. E' il dodicesimo album del cinquantenne cantautore/produttore, ma la voglia di mettersi alla prova è tanta, soprattutto con un prodotto che elogia l'essenzialità.
Gioca con l'acustica degli strumenti e con l'evocazione delle parole, intente a scardinare il trascorrere del tempo con dimenticata e calorosa vena romantica. Joe Henry, dall'alto dei tanti premi vinti in carriera, anche quando si affida al classico non smette di sperimentare con la musica, in totale continuità con le sue passate esperienze. Qui toglie per arricchire. Anche se è ancora presto e banale, Reverie si presta bene a chi vive ancora la nascita del Salvatore come una festa da passare nel tepore rassicurante delle mura domestiche, a patto di ricordarsi di lasciare aperta una finestra. I rumori devono entrare.
Camminando velocemente, cercando di seminare il freddo pungente di Gennaio, lasciandolo alle spalle. All'interno di quella grande gigantografia in bianco e nero appesa al muro che fotografa le vie secondarie di quella grande città: dove i tombini sbuffano e la sottile patina di ghiaccio si sta sciogliendo lentamente nelle tarde ore della mattinata. I lampioni sono ancora accesi dalla notte prima e il sole timidamente cerca di pugnalare la nebbia. Il terzo caffè, puro esercizio di riscaldamento, è andato giù veloce quando dalle finestre aperte di uno scantinato si materializza della musica. Lo scambio di parti fa fuoriuscire la musica dalla finestra, mentre i rumori della strada entrano nella stanza insonorizzata dove un piano, una chitarra, un contrabbasso e una batteria suonano coesi. Musica e rumori si uniscono, diventano una cosa sola. La curiosità di sbirciare dalla finestra è tanta, la voglia di entrare diventa ossessiva dopo aver capito che dentro quello scantinato si produce romanticismo e calore che possono cambiarti la giornata o come minimo riscaldare un'ora della fredda quotidianità. Antichi sapori che cercavi da tempo, dimenticando dove li avevi incontrati l'ultima volta.
Joe Henry ha voglia di acustico, di fermare il tempo della vita che scorre lungo 14 canzoni dal sapore di antica pellicola in bianco e nero, colorata solamente dal rosso sangue che vi scorre dentro (sue testuali parole). Lo fa, ci riesce e ci dona canzoni jazzate nello spirito dove i tasti del pianoforte rimbombano forte, i tocchi delle bacchette e le rullate di batteria di Jay Bellerose sono protagonisti (Heaven's Escape) come il respiro che ci tiene in vita. Si uniscono gli stridori delle corde di una chitarra durante Odetta, un titolo, un programma.
Un timido cane ulula in lontananza e il gospel soul di Sticks and stones è un perfetto rifugio su cui contare. Grand Street sembra giocare con un tempo di valzer e con l'improvvisazione dei musicisti coinvolti (Kefefus Ciancia al piano e David Piltch al contrabbasso) e Joe Henry intrattenere come consumato crooner, anche quando duetta con la sua pupilla Lisa Hannigan in Piano Furnace.
Un'altro ospite ha bussato alla porta: è Marc Ribot. Porta con se la chitarra. Si unisce. Dalla finestra escono fuori Dark Tears e Tomorrow is October. Il cane continua il suo stanco esercizio di insofferenza, mentre Ribot impugna l'ukulele ed esce Deathbed Versions.
Il ghiaccio è rotto e Joe Henry con la sua band corrono via lisci, tra folk ( Room at Arles) e jazz appassionati ( Eyes out for you), non importa se chi passa vicino alla finestra dello scantinato possa sentire tutto, impossessati dal fuoco della musica si continua. E' il dodicesimo album del cinquantenne cantautore/produttore, ma la voglia di mettersi alla prova è tanta, soprattutto con un prodotto che elogia l'essenzialità.
Gioca con l'acustica degli strumenti e con l'evocazione delle parole, intente a scardinare il trascorrere del tempo con dimenticata e calorosa vena romantica. Joe Henry, dall'alto dei tanti premi vinti in carriera, anche quando si affida al classico non smette di sperimentare con la musica, in totale continuità con le sue passate esperienze. Qui toglie per arricchire. Anche se è ancora presto e banale, Reverie si presta bene a chi vive ancora la nascita del Salvatore come una festa da passare nel tepore rassicurante delle mura domestiche, a patto di ricordarsi di lasciare aperta una finestra. I rumori devono entrare.
giovedì 13 ottobre 2011
RECENSIONE: THE ANSWER (Revival)
The ANSWER Revival ( Spinefarm records, 2011)
Per il terzo capitolo della loro carriera, i The Answer lasciano le verdi vallate nord irlandesi di casa(benchè la copertina sembri dire l'opposto) per approdare sulle rosse terre americane situate nel confine tra Stati Uniti e Messico, luogo dove Revival ha preso forma tra una tappa e l'altra del lungo tour intrapreso dalla band da supporto agli Ac/Dc e documentato nell'altrettanto fresco di stampa e dall'esplicito titolo:"412 Days of Rock'n'Roll" .
La location di registrazione vicina a El Paso ha lasciato un segno pesante nella direzione musicale, marchiando la maturità raggiunta da Cormac Neeson e soci avvicinandoli ad un suono di matrice americana più marcato ed in alcuni punti vicino all'attitudine street metal anni ottanta, con la produzione deluxe di Chris ‘Frenchie’ Smith e aumentando le sfumature musicali del gruppo rispetto ai pur due ottimi dischi precedenti ("Rise"-2006 e "Everyday Demons"-2009).
Se con i precedenti dischi il rischio di essere liquidati come i nuovi cloni dei grandi gruppi hard rock britannici degli anni settanta(Led Zeppelin in primis) era sempre dietro l'angolo(Jimmy Page in persona si prodigò di elogi e li accomunò al dirigibile...), la maggior varietà di Revival, depone a loro favore. Ascoltando la slide che introduce Waste your tears che apre il disco in modo frizzante con grandi chorus da grande arena rock ottantiana e chitarre in grande spolvero. Trouble è un hard blues con tanto di armonica che mi ricorda il suono che Richie Kotzen riuscì ad introdurre nei patinati Poison, sporcandoli di blues, sfornando il sempre poco acclamato e da rivalutare Native Tongue(1993), a tutti gli effetti il picco qualitativo del gruppo americano.
La bravura dei The Answer nel mischiare melodia e la pesante impronta hard rock si nota in tracce come Nowhere Freeway con Neeson che duetta con la voce femminile di Lynne Jackman, cantante dei Saint Jude e nella semi ballad Can't remember, can't forget con la sua impronta hair street metal.
Tornado, uno degli episodi più riusciti , con parti acustiche ed esplosioni elettriche che si rincorrono con la fenomenale voce del rosso cantante che gioca a fare Robert Plant. Indubbiamente uno dei migliori singer dell'ultima generazione.
Certo, il giochino dei paragoni e dei rimandi è sempre in agguato: Use me, può essere un devoto omaggio che rasenta il plagio ai vicini di casa scozzesi Nazareth e all'ugola del loro cantante Dan McCafferty o One more Revival che batte i territori degli amati Free.
Anche quando alcune canzoni strizzano troppo l'occhio al facile ritornello, come New Day Rising e il primo singolo scelto Vida(I want you), il tutto viene salvato dai prodigiosi interventi chitarristici di Paul Mahon.
La ricerca ossessiva del chorus diventa così croce e delizia della band, in alcuni punti del disco offusca il buon lavoro delle chitarre ma in linea di massima eleva Revival a disco dove l'equilibrio tra i due fattori hard e melodia trovano la simbiosi perfetta, divenendo insieme a "Pressure & Time" dei Rival Sons la migliore uscita dell'anno nel settore. Interessante, infine, la deluxe edition dell'album che aggiunge un bonus cd ("After the Revival") con un paio di inediti(Piece by piece, Faith gone down), demos, versioni live acustiche e la cover di Fire and water dei Free, per un totale di undici canzoni e facendone un valore aggiunto a tutti gli effetti.
Per il terzo capitolo della loro carriera, i The Answer lasciano le verdi vallate nord irlandesi di casa(benchè la copertina sembri dire l'opposto) per approdare sulle rosse terre americane situate nel confine tra Stati Uniti e Messico, luogo dove Revival ha preso forma tra una tappa e l'altra del lungo tour intrapreso dalla band da supporto agli Ac/Dc e documentato nell'altrettanto fresco di stampa e dall'esplicito titolo:"412 Days of Rock'n'Roll" .
La location di registrazione vicina a El Paso ha lasciato un segno pesante nella direzione musicale, marchiando la maturità raggiunta da Cormac Neeson e soci avvicinandoli ad un suono di matrice americana più marcato ed in alcuni punti vicino all'attitudine street metal anni ottanta, con la produzione deluxe di Chris ‘Frenchie’ Smith e aumentando le sfumature musicali del gruppo rispetto ai pur due ottimi dischi precedenti ("Rise"-2006 e "Everyday Demons"-2009).
Se con i precedenti dischi il rischio di essere liquidati come i nuovi cloni dei grandi gruppi hard rock britannici degli anni settanta(Led Zeppelin in primis) era sempre dietro l'angolo(Jimmy Page in persona si prodigò di elogi e li accomunò al dirigibile...), la maggior varietà di Revival, depone a loro favore. Ascoltando la slide che introduce Waste your tears che apre il disco in modo frizzante con grandi chorus da grande arena rock ottantiana e chitarre in grande spolvero. Trouble è un hard blues con tanto di armonica che mi ricorda il suono che Richie Kotzen riuscì ad introdurre nei patinati Poison, sporcandoli di blues, sfornando il sempre poco acclamato e da rivalutare Native Tongue(1993), a tutti gli effetti il picco qualitativo del gruppo americano.
La bravura dei The Answer nel mischiare melodia e la pesante impronta hard rock si nota in tracce come Nowhere Freeway con Neeson che duetta con la voce femminile di Lynne Jackman, cantante dei Saint Jude e nella semi ballad Can't remember, can't forget con la sua impronta hair street metal.
Tornado, uno degli episodi più riusciti , con parti acustiche ed esplosioni elettriche che si rincorrono con la fenomenale voce del rosso cantante che gioca a fare Robert Plant. Indubbiamente uno dei migliori singer dell'ultima generazione.
Certo, il giochino dei paragoni e dei rimandi è sempre in agguato: Use me, può essere un devoto omaggio che rasenta il plagio ai vicini di casa scozzesi Nazareth e all'ugola del loro cantante Dan McCafferty o One more Revival che batte i territori degli amati Free.
Anche quando alcune canzoni strizzano troppo l'occhio al facile ritornello, come New Day Rising e il primo singolo scelto Vida(I want you), il tutto viene salvato dai prodigiosi interventi chitarristici di Paul Mahon.
La ricerca ossessiva del chorus diventa così croce e delizia della band, in alcuni punti del disco offusca il buon lavoro delle chitarre ma in linea di massima eleva Revival a disco dove l'equilibrio tra i due fattori hard e melodia trovano la simbiosi perfetta, divenendo insieme a "Pressure & Time" dei Rival Sons la migliore uscita dell'anno nel settore. Interessante, infine, la deluxe edition dell'album che aggiunge un bonus cd ("After the Revival") con un paio di inediti(Piece by piece, Faith gone down), demos, versioni live acustiche e la cover di Fire and water dei Free, per un totale di undici canzoni e facendone un valore aggiunto a tutti gli effetti.
lunedì 10 ottobre 2011
RECENSIONE: JOHNNY WINTER (Roots)
JOHHNY WINTER Roots (Megaforce/Sony, 2011)
Non fosse per le rughe che segnano il percorso della sua vita, poche cose sono cambiate nell'aspetto fisico di Johnny Winter, dal 1969, anno del suo basilare debutto omonimo ad oggi( magie o scherzi dell'albinismo?). Il fisico è sempre asciutto, pelle bianchissima macchiata come pelo di leopardo dai suoi tatuaggi, ossa sporgenti, lunghi e fini capelli lisci che fuoriescono dal capellaccio calato in testa e chitarra in mano mimetizzata come un prolungamento del suo esile corpo. Vincitore di tante battaglie importanti nella vita che comunque ne hanno influenzato la salute, a 67 anni continua a prodigarsi nell' insegnare il verbo del blues bianco.
Mancava su disco dal 2004, anno di "I'm A Bluesman" (negli ultimi anni presente sul mercato solamente con numerosi live) e questo suo ritorno, sulla spinta ed incoraggiamento conto terzi, è una celebrazione totale del genere che lui stesso contribuì a svecchiare, tanto da convincere, nel 1977, un padre putativo come Muddy Waters ad incidere con lui. Lo produsse e contribuirono insieme a rilucidare il blues con l'album Hard Again. La carriera di Waters, in netto calo negli anni settanta, riprese a correre e finirono per influenzare più di un chitarrista a venire.
Blues e chitarre , questi gli ingredienti di sempre che Winter ha scelto per questo ritorno: grandi canzoni della gioventù che lo hanno fatto crescere, ascoltate alla radio quando era un dodicenne, ed importanti ospiti ad aiutarlo. Poche celebrazioni come nel suo stile e tanta musica. Da una parte la sua voce, la sua chitarra e la sua band: Paul Nelson (anche produttore del lavoro) alla chitarra, Scott Spray al basso e Vito Liuzzi alla batteria, dall'altra parte undici classici senza tempo ed una schiera di ospiti di tutto rispetto.
Mi piace partire dalla strumentale Honk Tonk, un classico suonato con il fratello Edgar al sax: immaginarli ancora ragazzi, sopra ad un palco nei clubs texani, mentre riscaldano il pubblico con i sogni già proiettati nel futuro.I due fratelli rifanno un pezzo che li ha visti crescere insieme, sugellando l'infinito amore verso la musica e quel sogno che si è avverato.
Cosa dire quando la coppia dell'anno Tedeschi/Trucks si separa momentaneamente: la slide di Dereck Trucks (Allman Brothers Band) che si unisce a Winter in una infuocata versione di Dust my broom-quando tutto ebbe un inizio con Robert Johnson ed un proseguo con Elmore James-e la voce di Susan Tedeschi si affianca a quella di Winter in Bright lights big city di Jimmy Reed. Due matrimoni pienamente riusciti.
Quando il blues inventa il rock'n'roll : Maybelline di Chuck Berry suonata insieme al tocco country di Vince Gill.
La continuità della tradizione di Elmore James in Done Somebody Wrong suonata con Warren Haynes (Allman Brothers Band, Gov't Mule), il discepolo che più di ogni altro ha regnato nell'ultimo decennio.
T-Bone Shuffle di T-Bone walker con Sonny Landreth apre il disco con canonico fervore accendendo la fiamma che scalderà tutto il disco e vedrà ancora Jimmy Vivino, John Popper (Blues Traveler) e il tastierista jazz John Medesky unirsi a Winter che anche da solo, senza ospiti, con Got my Mojo workin' del vecchio amico Muddy Waters fa saltare e tenere il tempo mentre le sacre fiamme si propagano.
Un disco che non è la solita (auto)celebrazione di routine ma un vibrante, sentito e fresco omaggio di un vero bluesman, con tante chitarre riunite in una sola passione. Eroi omaggiati da un eroe. Poco altro da chiedere.
Non fosse per le rughe che segnano il percorso della sua vita, poche cose sono cambiate nell'aspetto fisico di Johnny Winter, dal 1969, anno del suo basilare debutto omonimo ad oggi( magie o scherzi dell'albinismo?). Il fisico è sempre asciutto, pelle bianchissima macchiata come pelo di leopardo dai suoi tatuaggi, ossa sporgenti, lunghi e fini capelli lisci che fuoriescono dal capellaccio calato in testa e chitarra in mano mimetizzata come un prolungamento del suo esile corpo. Vincitore di tante battaglie importanti nella vita che comunque ne hanno influenzato la salute, a 67 anni continua a prodigarsi nell' insegnare il verbo del blues bianco.
Mancava su disco dal 2004, anno di "I'm A Bluesman" (negli ultimi anni presente sul mercato solamente con numerosi live) e questo suo ritorno, sulla spinta ed incoraggiamento conto terzi, è una celebrazione totale del genere che lui stesso contribuì a svecchiare, tanto da convincere, nel 1977, un padre putativo come Muddy Waters ad incidere con lui. Lo produsse e contribuirono insieme a rilucidare il blues con l'album Hard Again. La carriera di Waters, in netto calo negli anni settanta, riprese a correre e finirono per influenzare più di un chitarrista a venire.
Blues e chitarre , questi gli ingredienti di sempre che Winter ha scelto per questo ritorno: grandi canzoni della gioventù che lo hanno fatto crescere, ascoltate alla radio quando era un dodicenne, ed importanti ospiti ad aiutarlo. Poche celebrazioni come nel suo stile e tanta musica. Da una parte la sua voce, la sua chitarra e la sua band: Paul Nelson (anche produttore del lavoro) alla chitarra, Scott Spray al basso e Vito Liuzzi alla batteria, dall'altra parte undici classici senza tempo ed una schiera di ospiti di tutto rispetto.
Mi piace partire dalla strumentale Honk Tonk, un classico suonato con il fratello Edgar al sax: immaginarli ancora ragazzi, sopra ad un palco nei clubs texani, mentre riscaldano il pubblico con i sogni già proiettati nel futuro.I due fratelli rifanno un pezzo che li ha visti crescere insieme, sugellando l'infinito amore verso la musica e quel sogno che si è avverato.
Cosa dire quando la coppia dell'anno Tedeschi/Trucks si separa momentaneamente: la slide di Dereck Trucks (Allman Brothers Band) che si unisce a Winter in una infuocata versione di Dust my broom-quando tutto ebbe un inizio con Robert Johnson ed un proseguo con Elmore James-e la voce di Susan Tedeschi si affianca a quella di Winter in Bright lights big city di Jimmy Reed. Due matrimoni pienamente riusciti.
Quando il blues inventa il rock'n'roll : Maybelline di Chuck Berry suonata insieme al tocco country di Vince Gill.
La continuità della tradizione di Elmore James in Done Somebody Wrong suonata con Warren Haynes (Allman Brothers Band, Gov't Mule), il discepolo che più di ogni altro ha regnato nell'ultimo decennio.
T-Bone Shuffle di T-Bone walker con Sonny Landreth apre il disco con canonico fervore accendendo la fiamma che scalderà tutto il disco e vedrà ancora Jimmy Vivino, John Popper (Blues Traveler) e il tastierista jazz John Medesky unirsi a Winter che anche da solo, senza ospiti, con Got my Mojo workin' del vecchio amico Muddy Waters fa saltare e tenere il tempo mentre le sacre fiamme si propagano.
Un disco che non è la solita (auto)celebrazione di routine ma un vibrante, sentito e fresco omaggio di un vero bluesman, con tante chitarre riunite in una sola passione. Eroi omaggiati da un eroe. Poco altro da chiedere.
giovedì 6 ottobre 2011
RECENSIONE: MASTODON (The Hunter)
MASTODON The Hunter (Roadrunner Records, 2011)
Sarà, The Hunter, quel passo di troppo che condusse il "Black Album" e "Songs for the Deaf" e i loro rispettivi autori verso il grande pubblico mainstream, slegato da quello affezionato e devoto di settore? Difficile rispondere a caldo, a ridosso dell'uscita del quinto lavoro della band di Atlanta. Per ora, diamoci qualche anno per valutare feedback e passi futuri. Ma finito l'ascolto, una mosca s'infila nell'orecchio e un piccolo pensiero lo si fa, soprattutto avendo, ancora, le orecchie foderate con i suoni dei precedenti dischi. Senza che questo sia un male ma piuttosto sperando sia la tappa di una carriera fino a qui ineccepibile e la voglia del gruppo di confrontarsi con qualcosa di diverso. Dopo tutto quei due album citati sono entrati di diritto tra gli imprenscindibili del rock, quindi quale augurio migliore? Qualcuno non sarà d'accordo.
I Mastodon decidono di tagliare quasi tutti i ponti con il loro pesante passato con un solo colpo d'ascia, pur mantenendo le caratteristiche che ne hanno fatto una tra le più interessanti ed originali band di musica pesante dell'ultimo decennio( Leviathan-2004 e Blood Mountain-2006 entrano di diritto tra i migliori dischi degli anni zero). Le grandi capacità tecniche e compositive dei singoli elementi rimangono inalterate ma vanno ad esplorare altri terreni più accomodanti all'ascoltatore distratto.
Per la prima volta l'album non è un concept ma una raccolta di 13 canzoni, snelle ed univoche nella loro struttura. Non più lunghe e complicate suite ma canzoni più vicine alla canonicità come struttura e questo va a favore di una maggior fluidità e groove, incorrendo però nell'arma a doppio taglio che i fans della prima ora potrebbero mal digerire.
Dopo aver esplorato terrirori quasi progressive negli ultimi due strepitosi dischi Blood Mountain e Crack the skye, pieni di canzoni stratificate e articolate con i loro toni profondi, psichedelici e spaziali, traspare la voglia di dare alla melodia uno spiraglio maggiore. Le canzoni diventano dirette e spontenee, con poco post lavoro dietro , nonostante la superba produzione di Mike Elizondo. Anche la scelta del produttore, proveniente dal mondo hip hop è una sfida che a posteriori si può dire coraggiosa ed in parte vinta.
Le vocals sono quasi sempre pulite(...e purtroppo non sempre ricoprono il ruolo con efficacia), riprendendo l'ultimo Crack The Skye(2009) e poche volte si lasciano andare allo "sporco growl", la batteria di Brann Dailor rimane tra le cose migliori sentite negli ultimi anni e i riff di chitarra della coppia Brent Hinds e Bill Kelliher continuano a sfornare riff pesanti ma intelligenti.
L'iniziale Black Tongue mantiene quei riff pesanti e sinistri dei primissimi dischi e Spectrelight, viaggio nell'aldilà, con Scott Kelly dei Neurosis ospite, è la traccia più aggressiva e thrash oriented del lavoro, tra le cose migliori sicuramente.
La sensazione che prevale è quella di un disco che cerca di portare a galla le innumerevoli caratteristiche dei precedenti dischi(dall'hardcore, sludge, doom, progressive, psichedelia e thrash), imbastardendole con la melodia, più di quanto fatto fino ad ora. Ma là dove c'erano canzoni che al loro interno inglobavano tutte queste caratteristiche, ora abbiamo canzoni singole per ogni caratteristica. Blasteroid è veloce, vuole essere cattiva negli screams ma rimane imbrigliata nella melodia complessiva mentre Curl Of the Burl è sicuramente l'episodio più melodico concepito fino a qui dai Mastodon. Un massiccio hard stoner rock che strizza l'occhio al southern declamando la pazzia e ricordando non poco la lezione impartita dai Corrosion of Conformity di "Deliverance".
Il matrimonio sembra riuscire meglio in tracce come Stargasm, nei momenti progressive di All the Heavy lifting con la sua alienante fuga, in Dry Bone Valley , si cade nelle valli della pazzia umana con le linee vocali che ricordano tanto i compianti Alice in Chains di Staley e nei tempi di Octopus Has No Friends con il solito grande lavoro di Dailor dietro le pelli.
Bedazzled Fingernails è un allucinato viaggio sonoro che piace certamente più di Creature lives, un riempitivo melenso, quasi pinkfloyadiano e assai inutile.
The Hunter, dedicata al fratello di Brent Hinds, scomparso dopo un malore durante una battuta di caccia e la finale The Sparrow sono due lisergiche ballads acustiche con quest'ultima, quasi interamente strumentale di una spanna sopra e impreziosita da un bell'assolo di chitarra.
Il consiglio migliore per godersi il disco è quello di non armarsi fino ai denti e andare a caccia dei fantasmi passati ma godersi l'album per quello che è, aspettando le prossime battute di caccia per inquadrarlo dentro alla discografia del gruppo. Solo allora scopriremo se questo "The Hunter" è una meritata pausa o un nuovo inizio. Nonostante tutte queste parole, una delle migliori uscite dell'anno.
Sarà, The Hunter, quel passo di troppo che condusse il "Black Album" e "Songs for the Deaf" e i loro rispettivi autori verso il grande pubblico mainstream, slegato da quello affezionato e devoto di settore? Difficile rispondere a caldo, a ridosso dell'uscita del quinto lavoro della band di Atlanta. Per ora, diamoci qualche anno per valutare feedback e passi futuri. Ma finito l'ascolto, una mosca s'infila nell'orecchio e un piccolo pensiero lo si fa, soprattutto avendo, ancora, le orecchie foderate con i suoni dei precedenti dischi. Senza che questo sia un male ma piuttosto sperando sia la tappa di una carriera fino a qui ineccepibile e la voglia del gruppo di confrontarsi con qualcosa di diverso. Dopo tutto quei due album citati sono entrati di diritto tra gli imprenscindibili del rock, quindi quale augurio migliore? Qualcuno non sarà d'accordo.
I Mastodon decidono di tagliare quasi tutti i ponti con il loro pesante passato con un solo colpo d'ascia, pur mantenendo le caratteristiche che ne hanno fatto una tra le più interessanti ed originali band di musica pesante dell'ultimo decennio( Leviathan-2004 e Blood Mountain-2006 entrano di diritto tra i migliori dischi degli anni zero). Le grandi capacità tecniche e compositive dei singoli elementi rimangono inalterate ma vanno ad esplorare altri terreni più accomodanti all'ascoltatore distratto.
Per la prima volta l'album non è un concept ma una raccolta di 13 canzoni, snelle ed univoche nella loro struttura. Non più lunghe e complicate suite ma canzoni più vicine alla canonicità come struttura e questo va a favore di una maggior fluidità e groove, incorrendo però nell'arma a doppio taglio che i fans della prima ora potrebbero mal digerire.
Dopo aver esplorato terrirori quasi progressive negli ultimi due strepitosi dischi Blood Mountain e Crack the skye, pieni di canzoni stratificate e articolate con i loro toni profondi, psichedelici e spaziali, traspare la voglia di dare alla melodia uno spiraglio maggiore. Le canzoni diventano dirette e spontenee, con poco post lavoro dietro , nonostante la superba produzione di Mike Elizondo. Anche la scelta del produttore, proveniente dal mondo hip hop è una sfida che a posteriori si può dire coraggiosa ed in parte vinta.
Le vocals sono quasi sempre pulite(...e purtroppo non sempre ricoprono il ruolo con efficacia), riprendendo l'ultimo Crack The Skye(2009) e poche volte si lasciano andare allo "sporco growl", la batteria di Brann Dailor rimane tra le cose migliori sentite negli ultimi anni e i riff di chitarra della coppia Brent Hinds e Bill Kelliher continuano a sfornare riff pesanti ma intelligenti.
L'iniziale Black Tongue mantiene quei riff pesanti e sinistri dei primissimi dischi e Spectrelight, viaggio nell'aldilà, con Scott Kelly dei Neurosis ospite, è la traccia più aggressiva e thrash oriented del lavoro, tra le cose migliori sicuramente.
La sensazione che prevale è quella di un disco che cerca di portare a galla le innumerevoli caratteristiche dei precedenti dischi(dall'hardcore, sludge, doom, progressive, psichedelia e thrash), imbastardendole con la melodia, più di quanto fatto fino ad ora. Ma là dove c'erano canzoni che al loro interno inglobavano tutte queste caratteristiche, ora abbiamo canzoni singole per ogni caratteristica. Blasteroid è veloce, vuole essere cattiva negli screams ma rimane imbrigliata nella melodia complessiva mentre Curl Of the Burl è sicuramente l'episodio più melodico concepito fino a qui dai Mastodon. Un massiccio hard stoner rock che strizza l'occhio al southern declamando la pazzia e ricordando non poco la lezione impartita dai Corrosion of Conformity di "Deliverance".
Il matrimonio sembra riuscire meglio in tracce come Stargasm, nei momenti progressive di All the Heavy lifting con la sua alienante fuga, in Dry Bone Valley , si cade nelle valli della pazzia umana con le linee vocali che ricordano tanto i compianti Alice in Chains di Staley e nei tempi di Octopus Has No Friends con il solito grande lavoro di Dailor dietro le pelli.
Bedazzled Fingernails è un allucinato viaggio sonoro che piace certamente più di Creature lives, un riempitivo melenso, quasi pinkfloyadiano e assai inutile.
The Hunter, dedicata al fratello di Brent Hinds, scomparso dopo un malore durante una battuta di caccia e la finale The Sparrow sono due lisergiche ballads acustiche con quest'ultima, quasi interamente strumentale di una spanna sopra e impreziosita da un bell'assolo di chitarra.
Il consiglio migliore per godersi il disco è quello di non armarsi fino ai denti e andare a caccia dei fantasmi passati ma godersi l'album per quello che è, aspettando le prossime battute di caccia per inquadrarlo dentro alla discografia del gruppo. Solo allora scopriremo se questo "The Hunter" è una meritata pausa o un nuovo inizio. Nonostante tutte queste parole, una delle migliori uscite dell'anno.
martedì 4 ottobre 2011
RECENSIONE: RYAN ADAMS (Ashes & Fire)
RYAN ADAMS Ashes & Fire ( Columbia Records, 2011)
Dismessi ma non traditi i panni metallari che lo hanno portato ad incidere un disco: Orion(2010), che voleva omaggiare e calpestare territori testuali e programmatici cari a gruppi come i Voivod, da sempre nella playlist del nostro. Fatto uscire un doppio album con canzoni provenienti dalle registrazioni dell'ultimo album con i Cardinals, Cardinology(2008), sembrava quasi incredibile che fossero passati quattro anni senza nulla di realmente nuovo.
Anni serviti ad Adams per ritrovare un' ispirazione che nelle ultime prove sembrava persa dietro a canzoni di puro mestiere con pochi picchi e tanti riempitivi fatti per soddisfare la sua impellente e ingorda voglia di musica.
Per farlo, Ryan Adams si priva di tutti gli orpelli ingombranti intorno a lui e compone undici canzoni in solitaria che escono a suo nome senza essere seguito dai fidi Cardinals nelle note di copertina:"Adoro lavorare da solista: solo io, le mie canzoni e la mia anima messa a nudo".
Registrate alla vecchia maniera analogica con l'aiuto del "mitico"produttore di decine di capolavori del rock, Glyn Johns, undici ballate ispirate che non fanno che confermare la sua carriera bulimica di musica, fatta come una montagna russa senza fine. Orge rock e delicati incontri folk-americana continuano a susseguirsi nella sua discografia con una logica che solo l'autore potrebbe spiegare.
Questa volta, Adams ritrova il basso profilo acustico, la vena romantica e l'amarezza creativa di dischi come Love is Hell(2003), alcuni tocchi oscuri di 29(2005) e la semplicità country del primissimo Heartbreaker(2000) e incide il suo disco più ispirato da molti anni a questa parte e lo si capisce subito ascoltando l'introspettiva amarezza di Dirty rain che apre il disco con hammond e piano che dialogano sull'asfalto bagnato, chiarori di luna e campane che suonano. Ancora acqua che scorre nel up-tempo dall'incedere dylaniano della titletrack Ashes & Fire, ma sono fiumi di lacrime versate per amore che possono materializzarsi e diventare catene in Chains of Love, due minuti in crescendo con gli arranggiamenti orchestrali protagonisti.
La grevità solenne di Do I Wait che parte lenta con l'acustica ed un organo che fiata per sfociare in un assolo di chitarra elettrica che fa esplodere i chorus finali, sicuramente uno dei migliori momenti del disco.
Le delicate Come Home(...You built this house/ Built it stone by stone/ Hammer in your hand /You built his home /This house is strong /You raised it with your love /A shelter from the winds /From the cold and dark...), con le pedal steel in lontananza e la voce ospite di Norah Jones (insieme al vecchio amico Benmont Tench alle tastiere,graditi ospiti nell'intero disco) a fare da contrappunto a quella di Adams e Rocks sorretta dagli arrangiamenti e con Adams che declama il ritornello in falsetto (...I am not rocks in the river, I am birds singing...I am not rocks, I am not rain, I'm just another shadows in the stream...).
L'ombra dell'oscuro country del Neil Young di metà anni settanta aleggia su Invisible Riverside e nella bella ballad Save me, pianoforte, pedal steel e andamento ciondolante da caldo tramonto sullo sfondo. Mentre Lucky Now guarda al passato per apprezzare il presente nella canzone del disco che al primo ascolto rimane più in testa.
I love you but i don't know what to say chiude il tutto, sottolineando la vena romantica che aleggia intorno ad Adams in questo suo periodo artistico. Pianoforte e arrangiamenti d'orchestra per una canzone che parla come avrebbe fatto il miglior Billy Joel confidenziale degli anni settanta.
Sempre sopra le righe, divoratore di musica, prolifico a dismisura, apprezzato ma anche odiato per il suo carattere da irascibile rockstar viziata, eclettico, sopravvalutato ed ignorato, menefreghista e passionario: Ryan Adams conferma che le rose che campeggiavano su Strangers Almanac, disco dei suoi vecchi Whiskeytown, sono ancora lontane dall'appassirsi. Un colpo di coda vincente.
Dismessi ma non traditi i panni metallari che lo hanno portato ad incidere un disco: Orion(2010), che voleva omaggiare e calpestare territori testuali e programmatici cari a gruppi come i Voivod, da sempre nella playlist del nostro. Fatto uscire un doppio album con canzoni provenienti dalle registrazioni dell'ultimo album con i Cardinals, Cardinology(2008), sembrava quasi incredibile che fossero passati quattro anni senza nulla di realmente nuovo.
Anni serviti ad Adams per ritrovare un' ispirazione che nelle ultime prove sembrava persa dietro a canzoni di puro mestiere con pochi picchi e tanti riempitivi fatti per soddisfare la sua impellente e ingorda voglia di musica.
Per farlo, Ryan Adams si priva di tutti gli orpelli ingombranti intorno a lui e compone undici canzoni in solitaria che escono a suo nome senza essere seguito dai fidi Cardinals nelle note di copertina:"Adoro lavorare da solista: solo io, le mie canzoni e la mia anima messa a nudo".
Registrate alla vecchia maniera analogica con l'aiuto del "mitico"produttore di decine di capolavori del rock, Glyn Johns, undici ballate ispirate che non fanno che confermare la sua carriera bulimica di musica, fatta come una montagna russa senza fine. Orge rock e delicati incontri folk-americana continuano a susseguirsi nella sua discografia con una logica che solo l'autore potrebbe spiegare.
Questa volta, Adams ritrova il basso profilo acustico, la vena romantica e l'amarezza creativa di dischi come Love is Hell(2003), alcuni tocchi oscuri di 29(2005) e la semplicità country del primissimo Heartbreaker(2000) e incide il suo disco più ispirato da molti anni a questa parte e lo si capisce subito ascoltando l'introspettiva amarezza di Dirty rain che apre il disco con hammond e piano che dialogano sull'asfalto bagnato, chiarori di luna e campane che suonano. Ancora acqua che scorre nel up-tempo dall'incedere dylaniano della titletrack Ashes & Fire, ma sono fiumi di lacrime versate per amore che possono materializzarsi e diventare catene in Chains of Love, due minuti in crescendo con gli arranggiamenti orchestrali protagonisti.
La grevità solenne di Do I Wait che parte lenta con l'acustica ed un organo che fiata per sfociare in un assolo di chitarra elettrica che fa esplodere i chorus finali, sicuramente uno dei migliori momenti del disco.
Le delicate Come Home(...You built this house/ Built it stone by stone/ Hammer in your hand /You built his home /This house is strong /You raised it with your love /A shelter from the winds /From the cold and dark...), con le pedal steel in lontananza e la voce ospite di Norah Jones (insieme al vecchio amico Benmont Tench alle tastiere,graditi ospiti nell'intero disco) a fare da contrappunto a quella di Adams e Rocks sorretta dagli arrangiamenti e con Adams che declama il ritornello in falsetto (...I am not rocks in the river, I am birds singing...I am not rocks, I am not rain, I'm just another shadows in the stream...).
L'ombra dell'oscuro country del Neil Young di metà anni settanta aleggia su Invisible Riverside e nella bella ballad Save me, pianoforte, pedal steel e andamento ciondolante da caldo tramonto sullo sfondo. Mentre Lucky Now guarda al passato per apprezzare il presente nella canzone del disco che al primo ascolto rimane più in testa.
I love you but i don't know what to say chiude il tutto, sottolineando la vena romantica che aleggia intorno ad Adams in questo suo periodo artistico. Pianoforte e arrangiamenti d'orchestra per una canzone che parla come avrebbe fatto il miglior Billy Joel confidenziale degli anni settanta.
Sempre sopra le righe, divoratore di musica, prolifico a dismisura, apprezzato ma anche odiato per il suo carattere da irascibile rockstar viziata, eclettico, sopravvalutato ed ignorato, menefreghista e passionario: Ryan Adams conferma che le rose che campeggiavano su Strangers Almanac, disco dei suoi vecchi Whiskeytown, sono ancora lontane dall'appassirsi. Un colpo di coda vincente.
sabato 1 ottobre 2011
RECENSIONE: LUIGI MAIERON ( Vino, Tabacco e Cielo)
LUIGI MAIERON Vino, Tabacco e Cielo( PDT/Universal, 2011)
La Carnia è una terra friulana fatta di valli antiche che hanno mantenuto intatte la bellezza naturale dei loro paesaggi e le antiche tradizioni che, non senza difficoltà, continuano a tramandarsi di generazione in generazione. Paesi di montagna che nel corso del '900 hanno visto sempre più i loro abitanti emigrare in cerca di fortuna in giro per il mondo, chi è rimasto ha continuato a diffondere quelle tradizioni, fatte di canti popolari secolari, legami forti alla terra, al cibo contadino e a valori come il duro lavoro e la famiglia.
Luigi Maieron da quelle valli non se n'è mai andato e con certi valori è cresciuto fin da bambino. La sua predestinata missione è contribuire a far conoscere il suo territorio attraverso quello che gli riesce meglio: la canzone e la poesia. Ora poi, che le strade dei dialetti regionali sembrano aperte, un posto anche per lui c'è ed è quello su una corsia preferenziale. L'amico Davide Van De Sfroos (Maieron è presente come ospite nell'ultimo "Yanez" nella canzone Dove non basta il mare) nelle note di copertina ha forse scritto la migliore recensione del disco e proprio il successo del cantastorie comasco può aprire la strada a Maieron, che con "Vino Tabacco e cielo" realizza il suo quarto disco.
Maieron rilascia il suo disco musicalmente più vario, lasciando le atmosfere più intime e cantautorali dei precedenti per allargare i suoi confini musicali, avvicinandosi in certi punti a realtà già consolidate del folk dialettale come I Luf e Lou Dalfin, per rimanere nel nord Italia. La sua voce è rassicurante, un misto tra la profondità "scura" di Johnny Cash e la narrazione di Leonard Cohen con la confidenzialità dello zio saggio, sempre pronto a farti sedere sulle sue ginocchia e raccontare le vecchie storie dei luoghi dove è cresciuto. Il folk americano che incontra il Friuli. Rassicurante e sincero come quando canta con grande vena descrittiva i sentimenti d'amore e rispetto verso una figura guida(il nonno presumibilmente per lui, ma potrebbe essere chiunque) di grande importanza nel formare il carattere di un bambino ammirato davanti all'adulto, nel country -folk di Vino Tabacco e cielo, cantata in italiano.
E' un disco con due anime ben precise, una intimista e cantautorale, che si riallaccia alle passate produzioni ed una più giocosa e divertente con l'uso della lingua italiana più marcato e presente rispetto al passato.
Quello che esce prepotente è l'attaccamento alla propria terra: nel cantato in dialetto, come in Done mari ripresa di un antico canto carnico tradizionale dell'800, in La cidule con le sue atmosfere da ballo da festa paesana che narra di un'antica tradizione carnica che vedeva coinvolte le giovani coppie dei paesi e Trei puemas sulla stessa lunghezza d'onda. I sapori e le atmosfere medio orientali che escono prepotenti da Cramar-marochin, divertente confronto tra gli ambulanti provenienti dall'est europeo nel 1200/1600 e i moderni extracomunitari e il delicato tango di Argjentina, storie di emigrazioni e tristi ritorni.
Maieron tiene la lingua italiana per le canzoni più intimiste come I fantasmi di pietra, folk evocativo ispirato da uno scritto di Mauro Corona e dedicato alle vittime del grande e triste disastro del Vajont e Il peso della Neve dominata da banjo e fisarmonica.
Tre piccole perle sono Filo Spinato, quasi una filastrocca alla maniera di De Andrè, visuale di una mamma con il figlio alpino al fronte, la piacevole analisi sul trascorrere del tempo di Questa faccia, su atmosfere da oscuro western che ricorda tanto il compianto "cowboy"Johnny Cash e l'invito a non mollare mai e superare tutti gli ostacoli della flemmatica Cosa senti.
Sostenuto da una band di tutto rispetto e dall'aiuto di alcuni ospiti come Ellade Bandini alla batteria e Francesco Più e Davide Brambilla, "Vino Tabacco e cielo" è un piccolo scrigno pieno di tradizioni e storie, che come insegnato da Van De Sfroos, possono varcare i confini regionali e allargarsi in tutta Italia abbattendo quei fittizi confini federali che fortunatamente non sono ancora stati eretti.
INTERVISTA
La Carnia è una terra friulana fatta di valli antiche che hanno mantenuto intatte la bellezza naturale dei loro paesaggi e le antiche tradizioni che, non senza difficoltà, continuano a tramandarsi di generazione in generazione. Paesi di montagna che nel corso del '900 hanno visto sempre più i loro abitanti emigrare in cerca di fortuna in giro per il mondo, chi è rimasto ha continuato a diffondere quelle tradizioni, fatte di canti popolari secolari, legami forti alla terra, al cibo contadino e a valori come il duro lavoro e la famiglia.
Luigi Maieron da quelle valli non se n'è mai andato e con certi valori è cresciuto fin da bambino. La sua predestinata missione è contribuire a far conoscere il suo territorio attraverso quello che gli riesce meglio: la canzone e la poesia. Ora poi, che le strade dei dialetti regionali sembrano aperte, un posto anche per lui c'è ed è quello su una corsia preferenziale. L'amico Davide Van De Sfroos (Maieron è presente come ospite nell'ultimo "Yanez" nella canzone Dove non basta il mare) nelle note di copertina ha forse scritto la migliore recensione del disco e proprio il successo del cantastorie comasco può aprire la strada a Maieron, che con "Vino Tabacco e cielo" realizza il suo quarto disco.
Maieron rilascia il suo disco musicalmente più vario, lasciando le atmosfere più intime e cantautorali dei precedenti per allargare i suoi confini musicali, avvicinandosi in certi punti a realtà già consolidate del folk dialettale come I Luf e Lou Dalfin, per rimanere nel nord Italia. La sua voce è rassicurante, un misto tra la profondità "scura" di Johnny Cash e la narrazione di Leonard Cohen con la confidenzialità dello zio saggio, sempre pronto a farti sedere sulle sue ginocchia e raccontare le vecchie storie dei luoghi dove è cresciuto. Il folk americano che incontra il Friuli. Rassicurante e sincero come quando canta con grande vena descrittiva i sentimenti d'amore e rispetto verso una figura guida(il nonno presumibilmente per lui, ma potrebbe essere chiunque) di grande importanza nel formare il carattere di un bambino ammirato davanti all'adulto, nel country -folk di Vino Tabacco e cielo, cantata in italiano.
E' un disco con due anime ben precise, una intimista e cantautorale, che si riallaccia alle passate produzioni ed una più giocosa e divertente con l'uso della lingua italiana più marcato e presente rispetto al passato.
Quello che esce prepotente è l'attaccamento alla propria terra: nel cantato in dialetto, come in Done mari ripresa di un antico canto carnico tradizionale dell'800, in La cidule con le sue atmosfere da ballo da festa paesana che narra di un'antica tradizione carnica che vedeva coinvolte le giovani coppie dei paesi e Trei puemas sulla stessa lunghezza d'onda. I sapori e le atmosfere medio orientali che escono prepotenti da Cramar-marochin, divertente confronto tra gli ambulanti provenienti dall'est europeo nel 1200/1600 e i moderni extracomunitari e il delicato tango di Argjentina, storie di emigrazioni e tristi ritorni.
Maieron tiene la lingua italiana per le canzoni più intimiste come I fantasmi di pietra, folk evocativo ispirato da uno scritto di Mauro Corona e dedicato alle vittime del grande e triste disastro del Vajont e Il peso della Neve dominata da banjo e fisarmonica.
Tre piccole perle sono Filo Spinato, quasi una filastrocca alla maniera di De Andrè, visuale di una mamma con il figlio alpino al fronte, la piacevole analisi sul trascorrere del tempo di Questa faccia, su atmosfere da oscuro western che ricorda tanto il compianto "cowboy"Johnny Cash e l'invito a non mollare mai e superare tutti gli ostacoli della flemmatica Cosa senti.
Sostenuto da una band di tutto rispetto e dall'aiuto di alcuni ospiti come Ellade Bandini alla batteria e Francesco Più e Davide Brambilla, "Vino Tabacco e cielo" è un piccolo scrigno pieno di tradizioni e storie, che come insegnato da Van De Sfroos, possono varcare i confini regionali e allargarsi in tutta Italia abbattendo quei fittizi confini federali che fortunatamente non sono ancora stati eretti.
INTERVISTA
mercoledì 28 settembre 2011
RECENSIONE: SUPERHEAVY(Superheavy)
SUPERHEAVY Superheavy ( AM Records, Universal, 2011)
La prima domanda sorge subito spontanea:ce n'era veramente bisogno? La risposta è più spontanea della domanda : no. Il problema risiede una volta finito l'ascolto quando al "no" si aggiunge anche un :"però è divertente". Scopo raggiunto. La patchanka globale sonora creata dal supergruppo messo in piedi da Dave Stewart funziona per soddisfare chi cerca 60 minuti di totale distrazione dagli impegni principali, la stessa che i cinque componenti cercavano in questo progetto: Dave Stewart appunto, Mick Jagger, Joss Stone, A.R. Rahman e Damian Marley forse colui che si è distratto meno, visto il mood globale su cui viaggiano quasi tutte le canzoni. Quindi se preso per quello che è, questo album è più che riuscito. Chi si era fatto illusorie aspettative cercando qui composizioni epocali rimarrà deluso, questo è chiaro.
Ma partiamo da due anni fa, quando a Dave Srewart, in bueno retiro in qualche paradiso vacanziero in Giamaica, balenò in testa l'idea di questo disco, ancor prima di trovare i compagni di viaggio. Stewart non si è mai imposto limiti e steccati musicali: dagli Eurythmics, ai suoi progetti solisti( ..chi si ricorda dei suoi Spiritual Cowboys e "The blackbird Diaries",l'ultimo disco solista di quest'anno che esplora il folk rock americano) alle sue collaborazioni da produttore con Bob Dylan e Tom Petty. Naturale, per lui, calarsi in questa divertente avventura che man mano ha visto l'aggiunta di nuovi elementi e come primo chi, se non Mick Jagger, cantante che non ha mai tradito il suo amore per certe sonorità. A partire dai Rolling Stones di "Black & Blue" e "Emotional Rescue", ai suoi poco convincenti episodi solisti e alle sue collaborazioni, fra cui quella con Peter Tosh. Una punta di diamante capace di attirare l'attenzione sul progetto( senza di lui avrebbe ottenuto lo stesso risalto?) e dare un aiuto nella produzione.
L'album registrato in numerosi punti sparsi in tutto il mondo cerca di riunire le caratteristiche dei cinque coinvolti, riuscendoci con un sound che partendo dal ritmo in levare, su cui si basano la maggior parte delle composizioni, si dirama in mille altre direzioni con un risultato di amalgama abbastanza intrigante a soddisfare più di un genere di ascoltatore ma soffermandosi di più sulle nuove generazioni. I fans degli Stones potranno riascoltare Jagger, sempre in straordinaria forma vocale, ricalcare le strade della band madre nella ballad per sola chitarra, voce e piano Never Gonna Change o nelle chitarre rock di I Can't Take It No More, tanto vicina agli Stones di metà anni ottanta oppure immergersi con grande duttilità nel reggae. Da quello più tradizionale e roots di Unbelievable e del singolo Miracle Worker a quello solare, rappato e contaminato con l'elettronica della danzereccia Energy, al feeling più oscuro di One Day One Night.
Non vi è dubbio che Damian Marley sguazzi a suo agio su queste composizioni che vedono i musicisti della sua band coinvolti e primeggiare nella confidenzialità di Rock Me Gently, dove la sua voce profonda, conquista. Sicuramente uno dei punti più alti del disco.
Joss Stone, la coccolata del gruppo, non si intimorisce di fronte ai grandi calibri coinvolti ma ci mette la sua voce duttile , presente in tutte le tracce: dolce (come nel leggero duetto con Jagger di I Don't Mind) e graffiante quando serve e il suo nuovo disco solista, prodotto dallo stesso Stewart segna per lei un nuovo inizio. Più difficile trovare la presenza del compositore indiano A.R. Rahman, star in patria, ma balzato agli onori della cronaca musicale mondiale dopo aver vinto l'oscar per la colonna sonora di The Millionaire e in luce solamente su Satyameva Jayathe anche se con un attento ascolto si trovano i suoi semi mediorientali( la lingua Urdu e certe orchestrazioni) in molti pezzi.
Il paradosso e limite del disco è il voler democraticamente unire tutte le forze dei presenti in canzoni che finiscono, pur nei numerosi imput presenti, ad assomigliarsi tutte e cedere il passo al pop. L'iniziale e corale Superheavy è il manifesto dell'operazione in tutti i sensi.
Nella versione limitata compaiono quattro tracks in più: l'episodio indiano Mahiya, la rockeggiante Warning People, la danzereccia e rappata Hey Captain e lo ska di Common Ground.
Un disco che con tutti i suoi limiti, riesce a prolungare la voglia d'estate, grazie ai suoi ritmi solari e caraibici e centra pienamente l'obiettivo prefissato. Non chiediamogli altro e soprattutto di più.VOTO:6,5
La prima domanda sorge subito spontanea:ce n'era veramente bisogno? La risposta è più spontanea della domanda : no. Il problema risiede una volta finito l'ascolto quando al "no" si aggiunge anche un :"però è divertente". Scopo raggiunto. La patchanka globale sonora creata dal supergruppo messo in piedi da Dave Stewart funziona per soddisfare chi cerca 60 minuti di totale distrazione dagli impegni principali, la stessa che i cinque componenti cercavano in questo progetto: Dave Stewart appunto, Mick Jagger, Joss Stone, A.R. Rahman e Damian Marley forse colui che si è distratto meno, visto il mood globale su cui viaggiano quasi tutte le canzoni. Quindi se preso per quello che è, questo album è più che riuscito. Chi si era fatto illusorie aspettative cercando qui composizioni epocali rimarrà deluso, questo è chiaro.
Ma partiamo da due anni fa, quando a Dave Srewart, in bueno retiro in qualche paradiso vacanziero in Giamaica, balenò in testa l'idea di questo disco, ancor prima di trovare i compagni di viaggio. Stewart non si è mai imposto limiti e steccati musicali: dagli Eurythmics, ai suoi progetti solisti( ..chi si ricorda dei suoi Spiritual Cowboys e "The blackbird Diaries",l'ultimo disco solista di quest'anno che esplora il folk rock americano) alle sue collaborazioni da produttore con Bob Dylan e Tom Petty. Naturale, per lui, calarsi in questa divertente avventura che man mano ha visto l'aggiunta di nuovi elementi e come primo chi, se non Mick Jagger, cantante che non ha mai tradito il suo amore per certe sonorità. A partire dai Rolling Stones di "Black & Blue" e "Emotional Rescue", ai suoi poco convincenti episodi solisti e alle sue collaborazioni, fra cui quella con Peter Tosh. Una punta di diamante capace di attirare l'attenzione sul progetto( senza di lui avrebbe ottenuto lo stesso risalto?) e dare un aiuto nella produzione.
L'album registrato in numerosi punti sparsi in tutto il mondo cerca di riunire le caratteristiche dei cinque coinvolti, riuscendoci con un sound che partendo dal ritmo in levare, su cui si basano la maggior parte delle composizioni, si dirama in mille altre direzioni con un risultato di amalgama abbastanza intrigante a soddisfare più di un genere di ascoltatore ma soffermandosi di più sulle nuove generazioni. I fans degli Stones potranno riascoltare Jagger, sempre in straordinaria forma vocale, ricalcare le strade della band madre nella ballad per sola chitarra, voce e piano Never Gonna Change o nelle chitarre rock di I Can't Take It No More, tanto vicina agli Stones di metà anni ottanta oppure immergersi con grande duttilità nel reggae. Da quello più tradizionale e roots di Unbelievable e del singolo Miracle Worker a quello solare, rappato e contaminato con l'elettronica della danzereccia Energy, al feeling più oscuro di One Day One Night.
Non vi è dubbio che Damian Marley sguazzi a suo agio su queste composizioni che vedono i musicisti della sua band coinvolti e primeggiare nella confidenzialità di Rock Me Gently, dove la sua voce profonda, conquista. Sicuramente uno dei punti più alti del disco.
Joss Stone, la coccolata del gruppo, non si intimorisce di fronte ai grandi calibri coinvolti ma ci mette la sua voce duttile , presente in tutte le tracce: dolce (come nel leggero duetto con Jagger di I Don't Mind) e graffiante quando serve e il suo nuovo disco solista, prodotto dallo stesso Stewart segna per lei un nuovo inizio. Più difficile trovare la presenza del compositore indiano A.R. Rahman, star in patria, ma balzato agli onori della cronaca musicale mondiale dopo aver vinto l'oscar per la colonna sonora di The Millionaire e in luce solamente su Satyameva Jayathe anche se con un attento ascolto si trovano i suoi semi mediorientali( la lingua Urdu e certe orchestrazioni) in molti pezzi.
Il paradosso e limite del disco è il voler democraticamente unire tutte le forze dei presenti in canzoni che finiscono, pur nei numerosi imput presenti, ad assomigliarsi tutte e cedere il passo al pop. L'iniziale e corale Superheavy è il manifesto dell'operazione in tutti i sensi.
Nella versione limitata compaiono quattro tracks in più: l'episodio indiano Mahiya, la rockeggiante Warning People, la danzereccia e rappata Hey Captain e lo ska di Common Ground.
Un disco che con tutti i suoi limiti, riesce a prolungare la voglia d'estate, grazie ai suoi ritmi solari e caraibici e centra pienamente l'obiettivo prefissato. Non chiediamogli altro e soprattutto di più.VOTO:6,5
domenica 25 settembre 2011
RECENSIONE: ALBERTO MARCHETTI(Alberto Marchetti)
ALBERTO MARCHETTI Alberto Marchetti (EP,Penthar Music, 2011)
Nei tempi odierni del tutto e subito, dove le scelte devono essere immediate e fatte con un semplice "clic" ed un banale "mi piace", prendersi del tempo sembra fuori moda e chissà perchè nocivo, alieno e pericoloso.
Questo ep con 5 canzoni (il primo) di Alberto Marchetti va controcorrente e obbliga ad una breve e rilassata pausa alla freneticità della vita.
Ho avuto modo di ascoltarlo per la prima volta sotto il silenzioso calore ipnotizzante di questa estate , con la natura ferma ed intenta ad abbronzarsi, suo malgrado, sotto il sole, senza un soffio di vento, quasi metaforicamente con l'orecchio immaginario sintonizzato alle casse.
Alberto Marchetti, quarantottenne, è un artista romano(anche teatro e pittura nella sua biografia) che scrive da sempre, ma che solamente ora grazie alla Phentar Music di Andrea Romano riesce a vedere i suoi testi impressi su disco e musicati grazie al prezioso aiuto di Loris Deval, Giovanni Gobbi e Daniele Giario.
Le canzoni di Marchetti pur aggangiandosi alla migliore tradizione cantautorale italiana, dalla scuola romana(De gregori) a quella genovese(Lauzi, Tenco, DeAndrè), possono contare su uno spiccato senso descrittivo facendo leva sulla suggestione, in particolar modo quando va a pescare nel passato. Da qui, le sue canzoni si incastrano alla perfezione in quel limbo di tempo fatto di antichi valori e di elogio alla lentezza di cui parlavo prima. Lettere Smarrite, liberamente ispirata da un racconto di Melville("Bartleby lo scrivano") sembra avvalorare la tesi del rifiuto della moderna società, emanando profumi immaginari di vecchie stanze piene di carta e polvere, dove il protagonista vive a suo agio con le fantasie che le lettere riescono a trasmettergli diversamente dall'asettica incomunicatività del mondo che lo aspetta fuori. Già andare a recuperare un mezzo di comunicazione "perduto ed obsoleto" come la lettera è un segnale della scrittura di Marchetti così come lo è andare a recuperare la storia di un'isola, L'isola che se ne andò (tanti i nomi attribuitegli: Giulia, Nerita, Corrao, Hotham, Graham, Sciacca , Ferdinandea) sommersa vicino a Sciacca e disputa, in passato come oggi, per la rivendicazione da parte di molti stati europei e musicata in modo elegante. Un modo per denunciare la bramosia degli uomini.
L'amore viene trattato nei suoi due punti estremi, la nascita e la fine: E' bello è una romantica dedica d'amore in una sognante atmosfera jazzata con la tromba protagonista, mentre Un pò di pace è una sarcastica presa di posizione verso una storia finita musicata su un allegro e disincantato walzer. E' lei non sa, il primo singolo, la canzone che mi ha convinto di meno di questa piccola raccolta.
Marchetti arriva allla sua prima incisione di canzoni dopo anni di dura gavetta, quasi per caso ma ottimo esempio di come i sogni non abbiano date di scadenza. Ora come minimo ci si aspetta un album completo per allungare la nostra doverosa "pausa" dalla freneticità della vita.
Nei tempi odierni del tutto e subito, dove le scelte devono essere immediate e fatte con un semplice "clic" ed un banale "mi piace", prendersi del tempo sembra fuori moda e chissà perchè nocivo, alieno e pericoloso.
Questo ep con 5 canzoni (il primo) di Alberto Marchetti va controcorrente e obbliga ad una breve e rilassata pausa alla freneticità della vita.
Ho avuto modo di ascoltarlo per la prima volta sotto il silenzioso calore ipnotizzante di questa estate , con la natura ferma ed intenta ad abbronzarsi, suo malgrado, sotto il sole, senza un soffio di vento, quasi metaforicamente con l'orecchio immaginario sintonizzato alle casse.
Alberto Marchetti, quarantottenne, è un artista romano(anche teatro e pittura nella sua biografia) che scrive da sempre, ma che solamente ora grazie alla Phentar Music di Andrea Romano riesce a vedere i suoi testi impressi su disco e musicati grazie al prezioso aiuto di Loris Deval, Giovanni Gobbi e Daniele Giario.
Le canzoni di Marchetti pur aggangiandosi alla migliore tradizione cantautorale italiana, dalla scuola romana(De gregori) a quella genovese(Lauzi, Tenco, DeAndrè), possono contare su uno spiccato senso descrittivo facendo leva sulla suggestione, in particolar modo quando va a pescare nel passato. Da qui, le sue canzoni si incastrano alla perfezione in quel limbo di tempo fatto di antichi valori e di elogio alla lentezza di cui parlavo prima. Lettere Smarrite, liberamente ispirata da un racconto di Melville("Bartleby lo scrivano") sembra avvalorare la tesi del rifiuto della moderna società, emanando profumi immaginari di vecchie stanze piene di carta e polvere, dove il protagonista vive a suo agio con le fantasie che le lettere riescono a trasmettergli diversamente dall'asettica incomunicatività del mondo che lo aspetta fuori. Già andare a recuperare un mezzo di comunicazione "perduto ed obsoleto" come la lettera è un segnale della scrittura di Marchetti così come lo è andare a recuperare la storia di un'isola, L'isola che se ne andò (tanti i nomi attribuitegli: Giulia, Nerita, Corrao, Hotham, Graham, Sciacca , Ferdinandea) sommersa vicino a Sciacca e disputa, in passato come oggi, per la rivendicazione da parte di molti stati europei e musicata in modo elegante. Un modo per denunciare la bramosia degli uomini.
L'amore viene trattato nei suoi due punti estremi, la nascita e la fine: E' bello è una romantica dedica d'amore in una sognante atmosfera jazzata con la tromba protagonista, mentre Un pò di pace è una sarcastica presa di posizione verso una storia finita musicata su un allegro e disincantato walzer. E' lei non sa, il primo singolo, la canzone che mi ha convinto di meno di questa piccola raccolta.
Marchetti arriva allla sua prima incisione di canzoni dopo anni di dura gavetta, quasi per caso ma ottimo esempio di come i sogni non abbiano date di scadenza. Ora come minimo ci si aspetta un album completo per allungare la nostra doverosa "pausa" dalla freneticità della vita.
mercoledì 21 settembre 2011
RECENSIONE: CHICKENFOOT (III)
CHICKENFOOT III ( e-a-r Music, 2011)
Quando uscì il primo album due anni fa,usai il risultato calcistico per dimostrare la vittoria artistica del supergruppo dei due cacciati eccellenti(in malo modo) dai fratelli Van Halen a sfavore della band madre assente dal mercato e in procinto di rientrarvi con il ritorno di David Lee Roth e il figliol prodigo Wolfgang Van Halen al basso. Sono passati due anni e dei Van Halen non c'è ancora traccia, mentre i Chickenfoot di Sammy Hagar, Michael Anthony, Chad Smith e il funanbolico Joe Satriani rinforzano ancora di più le loro radici facendo scomparire quel super davanti a gruppo per diventarlo a tutti gli effetti, aumentando la loro credibilità e scacciando le ipotesi da gruppo meteora. Nel 2011 il risultato a loro favore inizia ad assumere numeri da cappotto tennistico.
Gli ingredienti rispetto al precedente rimangano immutati ma si percepisce una maggiore rilassatezza e voglia di giocare e divertirsi con la musica, mantenendo fede ai principi base che fecero nascere la band: svago e tempo libero che adesso assumono lo status di trademark del gruppo. Per cui, l'ammiccamento leggero e pop di Different Devil può ricordare qualcosa di Sammy Hagar solista o dei Van Halen di metà anni ottanta. Contagiosa anche la più rockata e scollacciata Alright Alright, sui territori Kiss e con un Satriani libero di inventare assoli.
Come Closer è uno dei picchi emozionali del disco che conferma Hagar grande cantante e la band capace di toccare i territori soul con intensità sconosciute nel debutto. Con Three and a half Letters, si fanno portavoce della crisi economica americana, dando voce a tutti i senzalavoro. Credibile o no il messaggio(detto da dei milionari benestanti come loro...), la canzone si divide tra parti recitative e assalti all'arma bianca con l'urlo "I need a Job" che prevale su tutto.
Big Foot, tra donne e motori, è il primo singolo e riprende le coordinate del primo disco, l'episodio che si differenzia di meno tra tutti, anche il meno riuscito, ma forse ideale e rappresentativo del sound della band.
Dubai Blues mette in cattedra la sezione ritmica guidata dal basso di Anthony e dalla batteria di Smith(sarà sostituito dal "prezzemolo" Kenny Aronoff , durante i tour, visti gli impegni contemporanei dei suoi RHCP), un hard rock'n'oll funk con il solito bel assolo di Satriani.
I Chickenfoot colpiscono duro nel mid tempo hard rock Last Temptation, nella fiammeggiante Up Next e in Lighten Up, preceduta da un un intro di tastiere molto purpleiano per svilupparsi in una solida hard/blues song con un Hagar cattivo e convincente.
Conclusione con Something Going Wrong, ballad dal sapore western e vicina ai territori west coast con le ottime armonizzazioni vocali tra Hagar e Anthony(da sempre un backing vocalist di tutto rispetto e nell'intero disco si sente, come si sentirà nei Van Halen , orfani di lui).
Con ancora una bollente hidden track da scoprire(nella versione UK) questo secondo lavoro(il titolo III è una divertente presa in giro), prodotto dall'esperto Mike Fraser è sicuramente un'altra dimostrazione delle numerose sfaccettature che quattro musicisti (amici) riescono a dare alla musica, senza proclami ma inseguendo il divertimento, raggiungendolo e spargendolo a piene dosi attraverso le loro canzoni. Che il secondo tempo del party, anzi il terzo, abbia inizio.
Ultima nota per la particolare confezione del cd, con appositi occhialini 3D inclusi per poter vedere i nostri eroi uscire dalle foto!
Recensione: CHICKENFOOT I
http://www.impattosonoro.it/2010/01/14/recensioni/chickenfoot-chickenfoot/
Quando uscì il primo album due anni fa,usai il risultato calcistico per dimostrare la vittoria artistica del supergruppo dei due cacciati eccellenti(in malo modo) dai fratelli Van Halen a sfavore della band madre assente dal mercato e in procinto di rientrarvi con il ritorno di David Lee Roth e il figliol prodigo Wolfgang Van Halen al basso. Sono passati due anni e dei Van Halen non c'è ancora traccia, mentre i Chickenfoot di Sammy Hagar, Michael Anthony, Chad Smith e il funanbolico Joe Satriani rinforzano ancora di più le loro radici facendo scomparire quel super davanti a gruppo per diventarlo a tutti gli effetti, aumentando la loro credibilità e scacciando le ipotesi da gruppo meteora. Nel 2011 il risultato a loro favore inizia ad assumere numeri da cappotto tennistico.
Gli ingredienti rispetto al precedente rimangano immutati ma si percepisce una maggiore rilassatezza e voglia di giocare e divertirsi con la musica, mantenendo fede ai principi base che fecero nascere la band: svago e tempo libero che adesso assumono lo status di trademark del gruppo. Per cui, l'ammiccamento leggero e pop di Different Devil può ricordare qualcosa di Sammy Hagar solista o dei Van Halen di metà anni ottanta. Contagiosa anche la più rockata e scollacciata Alright Alright, sui territori Kiss e con un Satriani libero di inventare assoli.
Come Closer è uno dei picchi emozionali del disco che conferma Hagar grande cantante e la band capace di toccare i territori soul con intensità sconosciute nel debutto. Con Three and a half Letters, si fanno portavoce della crisi economica americana, dando voce a tutti i senzalavoro. Credibile o no il messaggio(detto da dei milionari benestanti come loro...), la canzone si divide tra parti recitative e assalti all'arma bianca con l'urlo "I need a Job" che prevale su tutto.
Big Foot, tra donne e motori, è il primo singolo e riprende le coordinate del primo disco, l'episodio che si differenzia di meno tra tutti, anche il meno riuscito, ma forse ideale e rappresentativo del sound della band.
Dubai Blues mette in cattedra la sezione ritmica guidata dal basso di Anthony e dalla batteria di Smith(sarà sostituito dal "prezzemolo" Kenny Aronoff , durante i tour, visti gli impegni contemporanei dei suoi RHCP), un hard rock'n'oll funk con il solito bel assolo di Satriani.
I Chickenfoot colpiscono duro nel mid tempo hard rock Last Temptation, nella fiammeggiante Up Next e in Lighten Up, preceduta da un un intro di tastiere molto purpleiano per svilupparsi in una solida hard/blues song con un Hagar cattivo e convincente.
Conclusione con Something Going Wrong, ballad dal sapore western e vicina ai territori west coast con le ottime armonizzazioni vocali tra Hagar e Anthony(da sempre un backing vocalist di tutto rispetto e nell'intero disco si sente, come si sentirà nei Van Halen , orfani di lui).
Con ancora una bollente hidden track da scoprire(nella versione UK) questo secondo lavoro(il titolo III è una divertente presa in giro), prodotto dall'esperto Mike Fraser è sicuramente un'altra dimostrazione delle numerose sfaccettature che quattro musicisti (amici) riescono a dare alla musica, senza proclami ma inseguendo il divertimento, raggiungendolo e spargendolo a piene dosi attraverso le loro canzoni. Che il secondo tempo del party, anzi il terzo, abbia inizio.
Ultima nota per la particolare confezione del cd, con appositi occhialini 3D inclusi per poter vedere i nostri eroi uscire dalle foto!
Recensione: CHICKENFOOT I
http://www.impattosonoro.it/2010/01/14/recensioni/chickenfoot-chickenfoot/
lunedì 19 settembre 2011
RECENSIONE: ALICE COOPER (Welcome 2 my Nightmare)
ALICE COOPER Welcome 2 my Nightmare( Universal Music,2011)
Ho sempre creduto poco ai remake cinemaografici ancor di meno in quelli musicali. Un capolavoro, unico deve restare. Lontano da attacchi e le repliche con quel pesante numero 2 nel titolo(che già da sè li posizionano dietro) e l'uscita a distanza di decenni dall'originale, si sono sempre rivelati poco convincenti se non per attrarre l'attenzione mass mediatica ma soprattutto paragonarli agli originali caricandoli di aspettative che difficilmente vengono mantenute. Rimanendo nel campo hard rock i primi esempi che mi vengono in mente sono: "Operation mindcrime II" dei Queensryche e "Land of free II" dei Gamma Ray, opere che con gli originali ben poco avevano a che fare, ma l'elenco è lungo.
Non mi piace quindi che Alice Cooper sia caduto in questo clichè del ripescaggio, perchè gli ultimissimi lavori lo vedevano in gran forma. The Eyes of Alice Cooper e Dirty Diamonds avevano recuperato quel grezzo suono rock'n'roll di Detroit staccandosi dal modernariato industriale dei più forzati Brutal Planet e Dragontown. L'ultimo Along came a spider tornava al concept album con risultati poco esaltanti ma comunque dignitosi.
Allora il modo migliore per analizzare il disco è cercare di dimenticarsi il titolo e in questo caso anche la copertina che in qualche modo cerca la continuazione con il famoso disco uscito nel 1975, vero e proprio primo tentativo di unire il rock con l'opera a tinte horror. Il revival, per essere completo, si allarga anche ai musicisti coinvolti: il chitarrista Michael Bruce,il bassista Dennis Dunaway e il batterista Neal Smith riuniti tutti insieme in alcune tracce . Unico assente della band che lo accompagnava negli anni '70 è il povero Glen Buxton scomparso nel 1997. Il tutto sotto la regia del produttore di allora ossia Bob Ezrin. Se remake dev'essere che sia almeno completo anche nei protagonisti, si sarà detto il buon Alice. Buon ospite nel disco, tra l'interminabile lista, il chitarrista Steve Hunter già con lo stesso Alice e Lou reed.
Difficile dare un giudizio uniforme di un album di 14 tracce, sfuggente e poco catalogabile come questo che comunque lo stesso Cooper precisa essere la versione aggiornata di quello uscito 36 anni fa. La differenza purtroppo la fa il tempo. Alice Cooper scrisse quello che unanimamente è considerato il suo capolavoro in un periodo di totale disfacimento personale, con l'incubo dell'alcol in piena azione e le canzoni ne beneficiarono ottimamente. Il suo personaggio e la carica teatrale, cinematografica e Grand Guignolesca, la storia dietro ai testi delle canzoni davano fastidio alla società americana e ai benpensanti di allora, oggi non più.
Se cercate le nuove Only women Bleed, The black widow e Steven difficilmente le troverete però bypassando gli episodi più imbarazzanti e fuori dal coro che fanno rimpiangere anche le derive bonjoviane di fine anni ottanta, alcune cose buone si possono trovare. Canzoni fortemente volute e studiate che potrebbero far parte del gioco ed essere un colpo di teatro, ma che alla fine risultano eccessive anche per uno come Alice Cooper abituato a sorprendere: What baby wants cantata in coppia con la popstar Kesha(che recentemente si è prodigata di complimenti verso papà Vincent Furnier) è un pop ballabile che strizza l'occhio alla mtv generation più giovane, anche il pasticcio sonoro di Disco bloodbath boogie fever un rock dance con un cantato rappato ed un coro piratesco alquanto dubbio con il solo di chitarra dell'altro ospite John 5 a salvare metà canzone. Una ricerca ossessiva del moderno che entusiasma poco in verità. Se questo era il tentativo di modernizzare il vecchio Welcome to my nightmare, allora è bocciatura.
Meglio buttarsi sulle bizzarrie più classiche e ortodosse, piene di sense of humour, come la marcetta/country Last man on Earth con banjo e ottoni che strizza l'occhio a Tom Waits, la tensione dell'overture teatrale, anche con le poche piacevoli voci filtrate I Am made of you e della breve presentazione di The Nightmare returns.
La parte migliore che resta sono: il divertente rock'n'roll alla stones di I'll bite your face off, i fiati di Ghouls Gone Wild tra anni '50 e i Ramones periodo Phil Spector, lo sferragliante e veloce rock'n'roll di A Runaway train, le più solide e pesanti hard rock di When Hell Comes Home, Caffeine o la ballad sulla scia di John Lennon/Beatles Something to remember me by fino ad arrivare alla chiusura affidata a Underture tra classica e rock.
Un disco a corrente alterna e ambizioso, inferiore alle sue ultime uscite con la ricerca forzata del sequel che purtroppo ha inciso negativamente sulla riuscita globale del lavoro ma che sicuramente verrà sfruttato al meglio nello spettacolo che verrà allestito per le date live.
Alice Cooper ha ancora tante vite da giocarsi ma il dubbio che sia riuscito ancora una volta a prendersi gioco di noi, rimane dopo l'ascolto.
Ho sempre creduto poco ai remake cinemaografici ancor di meno in quelli musicali. Un capolavoro, unico deve restare. Lontano da attacchi e le repliche con quel pesante numero 2 nel titolo(che già da sè li posizionano dietro) e l'uscita a distanza di decenni dall'originale, si sono sempre rivelati poco convincenti se non per attrarre l'attenzione mass mediatica ma soprattutto paragonarli agli originali caricandoli di aspettative che difficilmente vengono mantenute. Rimanendo nel campo hard rock i primi esempi che mi vengono in mente sono: "Operation mindcrime II" dei Queensryche e "Land of free II" dei Gamma Ray, opere che con gli originali ben poco avevano a che fare, ma l'elenco è lungo.
Non mi piace quindi che Alice Cooper sia caduto in questo clichè del ripescaggio, perchè gli ultimissimi lavori lo vedevano in gran forma. The Eyes of Alice Cooper e Dirty Diamonds avevano recuperato quel grezzo suono rock'n'roll di Detroit staccandosi dal modernariato industriale dei più forzati Brutal Planet e Dragontown. L'ultimo Along came a spider tornava al concept album con risultati poco esaltanti ma comunque dignitosi.
Allora il modo migliore per analizzare il disco è cercare di dimenticarsi il titolo e in questo caso anche la copertina che in qualche modo cerca la continuazione con il famoso disco uscito nel 1975, vero e proprio primo tentativo di unire il rock con l'opera a tinte horror. Il revival, per essere completo, si allarga anche ai musicisti coinvolti: il chitarrista Michael Bruce,il bassista Dennis Dunaway e il batterista Neal Smith riuniti tutti insieme in alcune tracce . Unico assente della band che lo accompagnava negli anni '70 è il povero Glen Buxton scomparso nel 1997. Il tutto sotto la regia del produttore di allora ossia Bob Ezrin. Se remake dev'essere che sia almeno completo anche nei protagonisti, si sarà detto il buon Alice. Buon ospite nel disco, tra l'interminabile lista, il chitarrista Steve Hunter già con lo stesso Alice e Lou reed.
Difficile dare un giudizio uniforme di un album di 14 tracce, sfuggente e poco catalogabile come questo che comunque lo stesso Cooper precisa essere la versione aggiornata di quello uscito 36 anni fa. La differenza purtroppo la fa il tempo. Alice Cooper scrisse quello che unanimamente è considerato il suo capolavoro in un periodo di totale disfacimento personale, con l'incubo dell'alcol in piena azione e le canzoni ne beneficiarono ottimamente. Il suo personaggio e la carica teatrale, cinematografica e Grand Guignolesca, la storia dietro ai testi delle canzoni davano fastidio alla società americana e ai benpensanti di allora, oggi non più.
Se cercate le nuove Only women Bleed, The black widow e Steven difficilmente le troverete però bypassando gli episodi più imbarazzanti e fuori dal coro che fanno rimpiangere anche le derive bonjoviane di fine anni ottanta, alcune cose buone si possono trovare. Canzoni fortemente volute e studiate che potrebbero far parte del gioco ed essere un colpo di teatro, ma che alla fine risultano eccessive anche per uno come Alice Cooper abituato a sorprendere: What baby wants cantata in coppia con la popstar Kesha(che recentemente si è prodigata di complimenti verso papà Vincent Furnier) è un pop ballabile che strizza l'occhio alla mtv generation più giovane, anche il pasticcio sonoro di Disco bloodbath boogie fever un rock dance con un cantato rappato ed un coro piratesco alquanto dubbio con il solo di chitarra dell'altro ospite John 5 a salvare metà canzone. Una ricerca ossessiva del moderno che entusiasma poco in verità. Se questo era il tentativo di modernizzare il vecchio Welcome to my nightmare, allora è bocciatura.
Meglio buttarsi sulle bizzarrie più classiche e ortodosse, piene di sense of humour, come la marcetta/country Last man on Earth con banjo e ottoni che strizza l'occhio a Tom Waits, la tensione dell'overture teatrale, anche con le poche piacevoli voci filtrate I Am made of you e della breve presentazione di The Nightmare returns.
La parte migliore che resta sono: il divertente rock'n'roll alla stones di I'll bite your face off, i fiati di Ghouls Gone Wild tra anni '50 e i Ramones periodo Phil Spector, lo sferragliante e veloce rock'n'roll di A Runaway train, le più solide e pesanti hard rock di When Hell Comes Home, Caffeine o la ballad sulla scia di John Lennon/Beatles Something to remember me by fino ad arrivare alla chiusura affidata a Underture tra classica e rock.
Un disco a corrente alterna e ambizioso, inferiore alle sue ultime uscite con la ricerca forzata del sequel che purtroppo ha inciso negativamente sulla riuscita globale del lavoro ma che sicuramente verrà sfruttato al meglio nello spettacolo che verrà allestito per le date live.
Alice Cooper ha ancora tante vite da giocarsi ma il dubbio che sia riuscito ancora una volta a prendersi gioco di noi, rimane dopo l'ascolto.
venerdì 16 settembre 2011
COVER ART#3: INTERVISTA a OLIMPIA ZAGNOLI
Olimpia Zagnoli ( http://www.olimpiazagnoli.com/)
artista ventisettenne, nata a Reggio Emilia, lavora e vive a Milano. I primi ad accorgersi di lei sono stati il New York Times e il NewYorker con i quali collabora come illustratrice. Presto il suo nome ha iniziato a girare il mondo ed anche l'Italia le dedica i giusti spazi...finalmente.
Eclettica, versatile e poliedrica, Olimpia è anche una grande appassionata di bella musica e proprio quest'anno ha collaborato con Rolling Stone per un simpatico e colorato progetto e con due giovani band italiane , mettendo la sua firma dietro agli artwork dei loro dischi.
Quale occasione migliore per fare due chiacchiere con lei, parlando solamente di musica e arte legata ai dischi...
Una volta era uso domandare, come se non esistessero altri gruppi: Beatles o Rolling Stones? In base alla risposta qualcuno si prodigava a cercare di capire anche il carattere di una persona...Ora ti chiedo, nell'arte visiva(LP cover, look, video, film)...tu cosa scegli Beatles o Rolling Stones?
Dal punto di vista visivo credo di potermi sbilanciare e dire Beatles, nonostante i Rolling Stones abbiano un'estetica molto riconoscibile e sensuale, a cominciare dal logo. E' difficile però battere dei capolavori visivi come Yellow Submarine illustrato da Edelmann, le divise di Sgt. Pepper, i fiori al collo del periodo indiano, la mela verde, i baffi di Ringo, il font di Magical Mistery Tour e le suggestioni estetiche dei loro testi.
...e musicalmente?
Considerando il fattore affettivo, le carriere solistiche dei singoli componenti e cercando di fare un' analisi complessiva, allora forse direi Beatles. Ultimamente però in questa casa si osserva il culto di Keith Richards.
Quest'anno hai avuto modo di cimentarti con la realizzazione di due cover album per due gruppi italiani: Green Like July e Ex-Otago. Come è avvenuto l'incontro con i due gruppi e come sono nate le copertine(...particolare ed inusuale quella dei Green Like July)?
In tutti e due i casi ho cercato di parlare molto con il gruppo, ascoltare i pezzi attentamente e capire cosa volevano comunicare.
Gli Ex-Otago volevano raccontare la natura critica e di denuncia dei nuovi testi attraverso un' immagine d'effetto e riassuntiva. Abbiamo fatto molte prove finchè non siamo arrivati ad una donna che ascolta una foglia. Per i Green Like July invece mi sono concentrata molto sui riferimenti estetici che i pezzi evocano e il loro inequivocabile richiamo all' America. Ho fatto una lunghissima ricerca tra vecchi libri di cucito, archivi di musei e mercatini fino ad elaborare una grafica che avesse lo stile tradizionale che cercavo, ma allo stesso tempo un disegno fatto su misura per loro.
Hai avuto anche l'opportunità di girare un video da regista. Come è andata?
Molto bene. E' stato un lavoro lungo ma soddisfacente. Tra le riprese e l'uscita
effettiva del video sono passati quasi due anni. Ho cercato di raccontare una storia, nonostante la povertà di mezzi e capacità (non avevo mai girato o montato un video prima). Spero di esserci riuscita in qualche modo e di avere presto l'opportunità di cimentarmi in qualcosa di nuovo.
Mai pensato alla fotografia(magari sì...e io mi sono perso qualcosa)?
No. Mi piace guardare le vecchie foto e mi piace registrare quello che faccio attraverso esse, ma non ho mai avuto particolari slanci artistici in questo campo. Mio padre mi ha insegnato dell'esistenza del diaframma, ma a parte questo non so nulla.
Come è nata l'idea dell'inserto sul mensile Rolling Stone? Hai avuto carta e pennello liberi?
L'idea di creare una versione di Rolling Stone per bambini è nata da Michele Lupi e da Studio Fantastico. Quando mi hanno proposto di illustrare "Rolling Stone Kids"
ero contentissima, vista la materia e il suo pubblico. Mi sono molto divertita e mi sono sentita libera di fare quello che volevo.
Anni '70: l'arte giocava a braccetto con la musica(copertine vinili, poster e manifesti-hai avuto modo di disegnare l'ultimo"balla con i cinghiali 2011"-), credi che si sia perso molto in questi anni ... c'è spazio per recuperare o appartiene tutto al passato?
Forse, a differenza di un tempo, non tutti si possono permettere di avere delle collaborazioni di altissima qualità come avveniva una volta. Credo però che ci siano degli abbinamenti tra arte e musica molto efficaci anche ora. Mi viene in mente per esempio il lavoro di Jonas & Francois per Justice e Audio Bullys, alcune cose di Roman Coppola o il recente intervento video dei Ragazzi della Prateria per il tour di Jovanotti. Non tutto è perduto, anche se non sono più gli anni 70.
Copertina rock preferita?
Mi piace molto "Odessey and Oracle" degli Zombies e "Disraeli Gears" dei Cream. Come singoli, il 7" di "Baby i love you" fatta dai Ramones. E poi naturalmente il White Album.
Copertina più brutta in cui ti sei imbattuta?
"Schoolboys in Disgrace" dei Kinks, illustrata tra l'altro da Mickey Finn dei T.Rex. Anche "Cloud Nine" di Harrison è piuttosto brutta. Detto questo, credo che le copertine orribili abbiano un loro fascino, soprattutto se il disco che contengono è bello come in questi due casi.
Artisti e album musicali preferiti?
T.Rex - The Slider
The Kinks - Part One Lola Versus Powerman And The Moneygoround
Big Star - #1 Record
Phil Spector - Back to Mono
Quando lavori ascolti musica?
Sì, mi piace molto ascoltare le colonne sonore.
In questi giorni sto ascoltando quella di Xanadù degli Electric Light Orchestra e quella di Percy dei Kinks.
Ultimo concerto visto?
Francesco Guccini con mia nonna l'altro ieri.
Dovessi scegliere un cantante/gruppo straniero con cui collaborare su chi punteresti e perchè?
I Kiss. Perchè sono i Kiss.
A cosa stai lavorando ora?
Sto facendo illustrazioni per libri, riviste e biscottifici.
Non sto facendo la spesa da molti giorni.
Il video di "A Better Man" girato per i Green Like July
artista ventisettenne, nata a Reggio Emilia, lavora e vive a Milano. I primi ad accorgersi di lei sono stati il New York Times e il NewYorker con i quali collabora come illustratrice. Presto il suo nome ha iniziato a girare il mondo ed anche l'Italia le dedica i giusti spazi...finalmente.
Eclettica, versatile e poliedrica, Olimpia è anche una grande appassionata di bella musica e proprio quest'anno ha collaborato con Rolling Stone per un simpatico e colorato progetto e con due giovani band italiane , mettendo la sua firma dietro agli artwork dei loro dischi.
Quale occasione migliore per fare due chiacchiere con lei, parlando solamente di musica e arte legata ai dischi...
Una volta era uso domandare, come se non esistessero altri gruppi: Beatles o Rolling Stones? In base alla risposta qualcuno si prodigava a cercare di capire anche il carattere di una persona...Ora ti chiedo, nell'arte visiva(LP cover, look, video, film)...tu cosa scegli Beatles o Rolling Stones?
Dal punto di vista visivo credo di potermi sbilanciare e dire Beatles, nonostante i Rolling Stones abbiano un'estetica molto riconoscibile e sensuale, a cominciare dal logo. E' difficile però battere dei capolavori visivi come Yellow Submarine illustrato da Edelmann, le divise di Sgt. Pepper, i fiori al collo del periodo indiano, la mela verde, i baffi di Ringo, il font di Magical Mistery Tour e le suggestioni estetiche dei loro testi.
...e musicalmente?
Considerando il fattore affettivo, le carriere solistiche dei singoli componenti e cercando di fare un' analisi complessiva, allora forse direi Beatles. Ultimamente però in questa casa si osserva il culto di Keith Richards.
Quest'anno hai avuto modo di cimentarti con la realizzazione di due cover album per due gruppi italiani: Green Like July e Ex-Otago. Come è avvenuto l'incontro con i due gruppi e come sono nate le copertine(...particolare ed inusuale quella dei Green Like July)?
In tutti e due i casi ho cercato di parlare molto con il gruppo, ascoltare i pezzi attentamente e capire cosa volevano comunicare.
Gli Ex-Otago volevano raccontare la natura critica e di denuncia dei nuovi testi attraverso un' immagine d'effetto e riassuntiva. Abbiamo fatto molte prove finchè non siamo arrivati ad una donna che ascolta una foglia. Per i Green Like July invece mi sono concentrata molto sui riferimenti estetici che i pezzi evocano e il loro inequivocabile richiamo all' America. Ho fatto una lunghissima ricerca tra vecchi libri di cucito, archivi di musei e mercatini fino ad elaborare una grafica che avesse lo stile tradizionale che cercavo, ma allo stesso tempo un disegno fatto su misura per loro.
Hai avuto anche l'opportunità di girare un video da regista. Come è andata?
Molto bene. E' stato un lavoro lungo ma soddisfacente. Tra le riprese e l'uscita
effettiva del video sono passati quasi due anni. Ho cercato di raccontare una storia, nonostante la povertà di mezzi e capacità (non avevo mai girato o montato un video prima). Spero di esserci riuscita in qualche modo e di avere presto l'opportunità di cimentarmi in qualcosa di nuovo.
Mai pensato alla fotografia(magari sì...e io mi sono perso qualcosa)?
No. Mi piace guardare le vecchie foto e mi piace registrare quello che faccio attraverso esse, ma non ho mai avuto particolari slanci artistici in questo campo. Mio padre mi ha insegnato dell'esistenza del diaframma, ma a parte questo non so nulla.
Come è nata l'idea dell'inserto sul mensile Rolling Stone? Hai avuto carta e pennello liberi?
L'idea di creare una versione di Rolling Stone per bambini è nata da Michele Lupi e da Studio Fantastico. Quando mi hanno proposto di illustrare "Rolling Stone Kids"
ero contentissima, vista la materia e il suo pubblico. Mi sono molto divertita e mi sono sentita libera di fare quello che volevo.
Anni '70: l'arte giocava a braccetto con la musica(copertine vinili, poster e manifesti-hai avuto modo di disegnare l'ultimo"balla con i cinghiali 2011"-), credi che si sia perso molto in questi anni ... c'è spazio per recuperare o appartiene tutto al passato?
Forse, a differenza di un tempo, non tutti si possono permettere di avere delle collaborazioni di altissima qualità come avveniva una volta. Credo però che ci siano degli abbinamenti tra arte e musica molto efficaci anche ora. Mi viene in mente per esempio il lavoro di Jonas & Francois per Justice e Audio Bullys, alcune cose di Roman Coppola o il recente intervento video dei Ragazzi della Prateria per il tour di Jovanotti. Non tutto è perduto, anche se non sono più gli anni 70.
Copertina rock preferita?
Mi piace molto "Odessey and Oracle" degli Zombies e "Disraeli Gears" dei Cream. Come singoli, il 7" di "Baby i love you" fatta dai Ramones. E poi naturalmente il White Album.
Copertina più brutta in cui ti sei imbattuta?
"Schoolboys in Disgrace" dei Kinks, illustrata tra l'altro da Mickey Finn dei T.Rex. Anche "Cloud Nine" di Harrison è piuttosto brutta. Detto questo, credo che le copertine orribili abbiano un loro fascino, soprattutto se il disco che contengono è bello come in questi due casi.
Artisti e album musicali preferiti?
T.Rex - The Slider
The Kinks - Part One Lola Versus Powerman And The Moneygoround
Big Star - #1 Record
Phil Spector - Back to Mono
Quando lavori ascolti musica?
Sì, mi piace molto ascoltare le colonne sonore.
In questi giorni sto ascoltando quella di Xanadù degli Electric Light Orchestra e quella di Percy dei Kinks.
Ultimo concerto visto?
Francesco Guccini con mia nonna l'altro ieri.
Dovessi scegliere un cantante/gruppo straniero con cui collaborare su chi punteresti e perchè?
I Kiss. Perchè sono i Kiss.
A cosa stai lavorando ora?
Sto facendo illustrazioni per libri, riviste e biscottifici.
Non sto facendo la spesa da molti giorni.
Il video di "A Better Man" girato per i Green Like July
martedì 13 settembre 2011
RECENSIONE: GIORGIO CANALI & ROSSO FUOCO ( Rojo)
GIORGIO CANALI & ROSSOFUOCO Rojo (La Tempesta Dischi, 2011)
Dopo il primo ascolto di questo nuovo Rojo di Giorgio Canali & Rosso Fuoco, mi sono venuti in mente immediatamente i Gang, la band marchigiana dei fratelli Severini, il gruppo che più di tutti in Italia ha incarnato nei primi anni ottanta lo spirito di quel Combat Rock, importato da oltremanica e che proprio grazie ad una presa di posizione(nel loro caso politica) abbastanza radicale ha sempre dovuto faticare per ottenere il primo piano che avrebbe meritato. Bisogna però dire che Canali, grazie ad una intransigente attitudine ad una vena creativa e poetica diretta ed esplicita, un certo seguito è riuscito a crearselo divenendo una piccola scheggia impazzita dietro alla musica italiana da "prima pagina", almeno da "giorgiocanali&rossofuoco"(2004) in poi, diventando a tutti gli effetti uno dei pochi a non girare troppo intorno ai problemi, usando la canzone come forma di attacco diretto ai poteri forti a costo di cadere nella retorica o nella denuncia nel peggiore dei casi. Così è se vi piace.
Se l'amico ed ex compagno di CCCP, CSI e PGR, Giovanni Lindo Ferretti negli ultimi anni è stato protagonista di un discutibile ma comunque rispettabile dietro front di ideali(nel rock certi cambiamenti di rotta si pagano), Canali dopo il più tranquillo, meditato ed intimista "Nostra signora della dinamite"(2009), torna sospinto dai venti di rivoluzione che soffiano sopra ad una crisi che è piombata e che ci vede inermi spettatori , poco colpevoli e molto coinvolti nel subirne gli effetti. Lui i suoi ideali non li ha abbandonati e Rojo lo sottolinea con gran forza. Chi ascoltando il suo ultimo album(che comunque è venuto fuori alla distanza) aspettò invano quella cattiveria e il lato cinico rimanendone deluso, potrà avvicinarsi a Rojo con totale fiducia e sicuro di avere d'avanti il "vecchio" Giorgio Canali che recentemente ha dichiarato di aver ritrovato la vecchia ispirazione: la bestemmia! Il tutto, alzandosi una mattina con la rivoluzione nel cuore e i canti di protesta e ribellione in testa.
Canali torna a quei testi che non hanno paura di dire tutto quel che c'è da dire, senza giri di parole e con quella sarcastica ironia anarcoide che abbiamo imparato a conoscere già dai suoi primi lavori solisti(Che fine ha fatto Lazlotòz-1998 e Rossofuoco-2002) ed un avvicinamento molto marcato al rock/folk americano con tanto di armonica, una presenza che si fa sentire in parecchi brani, dando una direzione ben precisa al lavoro. Sempre accompagnato dagli ormai fidi Rosso Fuoco anche se con qualche defezione e cambiamento: esce di scena la bassista francese Claude Saut sostituita da Nanni Fanelli, acquista una nuova chitarra in Stewie Dal Col che si va ad aggiungere ai vecchi componenti rimasti, Marco Greco alla chitarra e Luca Martelli alla batteria.
Allora che inizi la rivoluzione! Partenza a mille con la canzone di benvenuto, Regola#1, che prende il posto che fu di Precipito, Verità, la verità e Quello della foto nei vecchi dischi. Una chiamata alle armi più intenta ad analizzare il triste rapporto tra i mass-media e i movimenti di protesta, sottolineandone quanto le notizie possano essere manipolate e manipolare a loro volta,
(...se non ora quando-onniveggenti telecamere-agli angoli di questa città-faranno di voi delle celebrità-sampietrini, bastoni, dateci sotto-regola#1 sfasciare tutto-linea alla regia per la pubblicità-e al rientro in onda, un primo piano dello sponsor...).
Con Carmagnola#3 , scrive il suo canto di rivoluzione del nuovo millennio, andando a ripescare la lingua francese, tanto presente nei suoi primi lavori e lo spagnolo creando idealmente un ponte con quei Indignados spagnoli che quest'anno hanno ottenuto le prime pagine dei giornali aprendo una strada non ancora seguita nel nostro paese. Un monito ad agire?
C'è poi l'attacco diretto al clero, alle sue istituzioni e alla fede con i suoi dogmi che limitano la libertà individuale e di scelta , nella tambureggiante e tra le più riuscite Sai dove:
(...e sai dove ficcarti la tua verità-la tua fede-hai ancora sulle chiappe i segni-degli artigli del tuo prete-io, sceglierò di crepare-"se" e "quando" pare a me-io, sono mio, dai vediamo-vieni qui davanti a dirmelo-che così non è...).
Ci sarà , con la sua armonica ci guida a cercare alternative, qualcosa di meglio ma soprattutto a non mollare mai anche quando cercano di privarci di tutto, ma non il diritto di morire di gioia quando la rivoluzione è in atto. Morire di Noja: (...Voglio un posto in prima fila-mentre tutto crolla-mentre tutto intorno brucia e tutto il mondo balla-libero di morire di gioja, di morire di noja...).
Divertente e nuovo per Canali il rock'n'roll alla stones di Rivoluzione strategica#6 e le atmosfere di Treno di mezzanotte che ricordano l'ultimo De Gregori , sopratutto nel ritornello e nella citazione:(...ma Alice, guardando i gatti, ha imparato a scopare-unghie piantate sul cuore a spremere lacrime rosse...).
Più vicine alla vena intimista del precedente lavoro sono il duetto insieme ad Angela Baraldi(i due hanno girato l'Italia questa estate portando in giro le canzoni dei Joy Division), una canzone che allunga la mano a quelle murder ballad americane nei suoni ma con una linea melodica che fa venire subito in mente un cantautore italiano che su queste ballad ci ha costruito la carriera e sinceramente poco sulle corde di Canali. Più interessante il testo e il rammarico di non aver usato la voce della Baraldi anche nel resto del disco. Molto meglio, allora, gli altri due lenti : la stupenda e notturna Controvento (...e controvento, ignoro i riti del traffico, in questa trance di miele e aritmie cardiache-urla un clacson, ignoro il ritmo del battito-immagini di noi e dentro-scariche elettriche...)e Orfani dei cieli che chiude il disco.
Anche se qualche "giornale fighetto" che nel nome di testata ha una "s" in meno del gruppo della coppia Jagger/Richards lo stronca in quattro righe, io mi terrei stretto il Canali impetuoso e preso dall'ansia di ribellione. La rivoluzione in musica non ha età(ditelo al povero Joe Strummer) e con tutti gli ultra cinquantenni cantautori italiani agiati ed adagiati nel godersi la secondà età, una mosca bianca(o rojo) come Canali deve essere sempre libera di volare dove le pare.
Dopo il primo ascolto di questo nuovo Rojo di Giorgio Canali & Rosso Fuoco, mi sono venuti in mente immediatamente i Gang, la band marchigiana dei fratelli Severini, il gruppo che più di tutti in Italia ha incarnato nei primi anni ottanta lo spirito di quel Combat Rock, importato da oltremanica e che proprio grazie ad una presa di posizione(nel loro caso politica) abbastanza radicale ha sempre dovuto faticare per ottenere il primo piano che avrebbe meritato. Bisogna però dire che Canali, grazie ad una intransigente attitudine ad una vena creativa e poetica diretta ed esplicita, un certo seguito è riuscito a crearselo divenendo una piccola scheggia impazzita dietro alla musica italiana da "prima pagina", almeno da "giorgiocanali&rossofuoco"(2004) in poi, diventando a tutti gli effetti uno dei pochi a non girare troppo intorno ai problemi, usando la canzone come forma di attacco diretto ai poteri forti a costo di cadere nella retorica o nella denuncia nel peggiore dei casi. Così è se vi piace.
Se l'amico ed ex compagno di CCCP, CSI e PGR, Giovanni Lindo Ferretti negli ultimi anni è stato protagonista di un discutibile ma comunque rispettabile dietro front di ideali(nel rock certi cambiamenti di rotta si pagano), Canali dopo il più tranquillo, meditato ed intimista "Nostra signora della dinamite"(2009), torna sospinto dai venti di rivoluzione che soffiano sopra ad una crisi che è piombata e che ci vede inermi spettatori , poco colpevoli e molto coinvolti nel subirne gli effetti. Lui i suoi ideali non li ha abbandonati e Rojo lo sottolinea con gran forza. Chi ascoltando il suo ultimo album(che comunque è venuto fuori alla distanza) aspettò invano quella cattiveria e il lato cinico rimanendone deluso, potrà avvicinarsi a Rojo con totale fiducia e sicuro di avere d'avanti il "vecchio" Giorgio Canali che recentemente ha dichiarato di aver ritrovato la vecchia ispirazione: la bestemmia! Il tutto, alzandosi una mattina con la rivoluzione nel cuore e i canti di protesta e ribellione in testa.
Canali torna a quei testi che non hanno paura di dire tutto quel che c'è da dire, senza giri di parole e con quella sarcastica ironia anarcoide che abbiamo imparato a conoscere già dai suoi primi lavori solisti(Che fine ha fatto Lazlotòz-1998 e Rossofuoco-2002) ed un avvicinamento molto marcato al rock/folk americano con tanto di armonica, una presenza che si fa sentire in parecchi brani, dando una direzione ben precisa al lavoro. Sempre accompagnato dagli ormai fidi Rosso Fuoco anche se con qualche defezione e cambiamento: esce di scena la bassista francese Claude Saut sostituita da Nanni Fanelli, acquista una nuova chitarra in Stewie Dal Col che si va ad aggiungere ai vecchi componenti rimasti, Marco Greco alla chitarra e Luca Martelli alla batteria.
Allora che inizi la rivoluzione! Partenza a mille con la canzone di benvenuto, Regola#1, che prende il posto che fu di Precipito, Verità, la verità e Quello della foto nei vecchi dischi. Una chiamata alle armi più intenta ad analizzare il triste rapporto tra i mass-media e i movimenti di protesta, sottolineandone quanto le notizie possano essere manipolate e manipolare a loro volta,
(...se non ora quando-onniveggenti telecamere-agli angoli di questa città-faranno di voi delle celebrità-sampietrini, bastoni, dateci sotto-regola#1 sfasciare tutto-linea alla regia per la pubblicità-e al rientro in onda, un primo piano dello sponsor...).
Con Carmagnola#3 , scrive il suo canto di rivoluzione del nuovo millennio, andando a ripescare la lingua francese, tanto presente nei suoi primi lavori e lo spagnolo creando idealmente un ponte con quei Indignados spagnoli che quest'anno hanno ottenuto le prime pagine dei giornali aprendo una strada non ancora seguita nel nostro paese. Un monito ad agire?
C'è poi l'attacco diretto al clero, alle sue istituzioni e alla fede con i suoi dogmi che limitano la libertà individuale e di scelta , nella tambureggiante e tra le più riuscite Sai dove:
(...e sai dove ficcarti la tua verità-la tua fede-hai ancora sulle chiappe i segni-degli artigli del tuo prete-io, sceglierò di crepare-"se" e "quando" pare a me-io, sono mio, dai vediamo-vieni qui davanti a dirmelo-che così non è...).
Ci sarà , con la sua armonica ci guida a cercare alternative, qualcosa di meglio ma soprattutto a non mollare mai anche quando cercano di privarci di tutto, ma non il diritto di morire di gioia quando la rivoluzione è in atto. Morire di Noja: (...Voglio un posto in prima fila-mentre tutto crolla-mentre tutto intorno brucia e tutto il mondo balla-libero di morire di gioja, di morire di noja...).
Divertente e nuovo per Canali il rock'n'roll alla stones di Rivoluzione strategica#6 e le atmosfere di Treno di mezzanotte che ricordano l'ultimo De Gregori , sopratutto nel ritornello e nella citazione:(...ma Alice, guardando i gatti, ha imparato a scopare-unghie piantate sul cuore a spremere lacrime rosse...).
Più vicine alla vena intimista del precedente lavoro sono il duetto insieme ad Angela Baraldi(i due hanno girato l'Italia questa estate portando in giro le canzoni dei Joy Division), una canzone che allunga la mano a quelle murder ballad americane nei suoni ma con una linea melodica che fa venire subito in mente un cantautore italiano che su queste ballad ci ha costruito la carriera e sinceramente poco sulle corde di Canali. Più interessante il testo e il rammarico di non aver usato la voce della Baraldi anche nel resto del disco. Molto meglio, allora, gli altri due lenti : la stupenda e notturna Controvento (...e controvento, ignoro i riti del traffico, in questa trance di miele e aritmie cardiache-urla un clacson, ignoro il ritmo del battito-immagini di noi e dentro-scariche elettriche...)e Orfani dei cieli che chiude il disco.
Anche se qualche "giornale fighetto" che nel nome di testata ha una "s" in meno del gruppo della coppia Jagger/Richards lo stronca in quattro righe, io mi terrei stretto il Canali impetuoso e preso dall'ansia di ribellione. La rivoluzione in musica non ha età(ditelo al povero Joe Strummer) e con tutti gli ultra cinquantenni cantautori italiani agiati ed adagiati nel godersi la secondà età, una mosca bianca(o rojo) come Canali deve essere sempre libera di volare dove le pare.
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