Tante luci e qualche ombra per la prima di John Mellencamp in Italia. Assente da diciannove anni dai palchi europei, quest'anno il sessantenne giaguaro dell'Indiana fa le cose in grande e si ferma addirittura per tre tappe in Italia, paese che non aveva mai toccato durante i suoi 35 anni di carriera. L'attesa era più che legittima e giustificata.
Dopo lo straordinario No better than this(http://enzocurelli.blogspot.com/2010/08/john-mellencamp-un-vecchio-microfono.html), vero e proprio viaggio nelle radici della musica americana che partendo dalla stanza di Hotel a San Antonio dove ancora aleggia lo spirito blues di Robert Johnson, passava a Menphis negli Sun studio, luogo imprescindibile per il rock'n roll, finendo con il battesimo nella prima Chiesa Battista nera del Nord America, Mellencamp porta in giro per l'Europa uno spettacolo che ricalca in parte la ricerca musicale alla base di quel disco.
Nella splendida piazza del castello di Vigevano, il Festival "Dieci giorni suonati" quest'anno ha proposto grandi concerti e tante anteprime a partire dai Primus, John Mayall, Jeff Beck, Black Country Communion, Brian Setzer e Black Crowes e non ultimo un'altro battesimo per Mellencamp, quello davanti ai suoi fans italiani.
L'attesa per l'inizio del concerto viene ingannata con la proiezione del film/documentario "It's About You" che testimonia la nascita di questo suo ultimo disco prodotto da T-Bone Burnett con immagini rubate in studio, commenti dell'autore e spezzoni di musica live. Gli ultimi anni di musica di Mellencanp( fresco di coppia con l'attrice Meg Ryan, ma questo c'entra poco stasera) che si intrecciano con l'America rurale e di provincia da lui amata. Un documento di per sè interessante, che perde il suo fascino se proiettato prima di un concerto con i fans in attesa e qualcuno che sembra non gradire la scelta, disturbando senza un reale motivo.
Quando lo schermo scompare, sale sempre di più l'impazienza che finalmente viene interrotta dalla voce di Johnny Cash e la sua God's gonna cut you down, scelta come base di introduzione. Alle 22 e 25 Mellencamp e la sua band salgono sul palco per un concerto che durerà un'ora e mezza e sarà sostanzialmente diviso in tre parti.
La prima parte, se da un lato è la più affascinante musicalmente, rimane a fine serata la più fredda sotto l'aspetto emotivo e di coinvolgimento. Il salto indietro nel tempo che Mellencamp e band ci vogliono far compiere è tangibile e segue la scia degli ultimi due lavori in studio sotto la regia di Burnett. L'America delle radici folk, country-blues e rockabilly di un set semi-acustico, il contrabbasso suonato da Jon E.Gee, regalano a Authority song, No one Cares about you, Death Letter un fascino antico ed impolverato che sa di vecchi vinili e immagini in bianco e nero. Piace Check it out tratta da "The Lonesome Jubilee", dove la sinuosa figura della brava violinista Miriam Sturm si erge a protagonista.
Nella parte centrale del concerto Mellencamp mette sul piatto la sua vena da folk singer solitario, la chitarra acustica e la sua voce conquistano. Save some time to dream, apertura del suo ultimo disco, Jackie Brown (splendida), Jack and Diane, Small Town, il ricordo dell'amata nonna prima di Longest days( con la fisarmonica di Troye Kinnett) e anche qualche problema "di testa"(come dice lui, scusandosi) prima di attaccare a "cappella" Cherry Bomb iniziano a scaldare la serata, mentre qualche timida goccia di pioggia cade.
Con Rain on the scarecrow si apre la terza parte del concerto, che fino ad ora non ha concesso pause. Dane Clark alla batteria, Andy York e il fidato Michael Wanchic alle chitarre iniziano a fare sul serio aprendo un set rock fiammeggiante e potente, ora il pubblico è entrato definitivamente nella parte. Forse troppo tardi. Perchè Cramblin' Down, If i Die Sudden e Pink Houses sembrano scorrere via veloci e fiere più del previsto, tanto che R.O.C.K. in the USA sembra arrivare anche troppo presto. Mellencamp fa salire un fan sul palco a scandire il chorus, divertimento che purtroppo si interrompe qui.
Le richieste e la vana attesa di un bis scemano con l'illuminazione intorno al palco che si accende e le ombre che accennavo all'inizio che calano a infastidire la festa. Partendo dal pressuposto che avere Mellencamp in Italia è già un valore che mette in secondo piano tutto, le fantomatiche ombre che si possono scorgere sono: una setlist che poteva essere arricchita con una manciata di minuti e di canzoni in più, un Mellencamp un pò rigido nel cercare di coinvolgere il pubblico (insomma non è Springsteen e forse lo si sapeva già) e l'impressione di voler concedere troppo poco all' improvvisazione seguendo una scaletta standard. Qualche regalino ai fans italiani poteva essere concesso.
E' comunque un pezzo di storia musicale americana che sbarca in Italia per la prima e forse unica volta. Chi c'era potrà raccontare orgoglioso tutte le luci e anche le "ombre" della serata.
SETLIST: Authority song, No one cares about me, Death letter, John Cockers, Walk tall, The West End, Check it out, Save some time to dream, Cherry bomb, Jack and Diane, Jackie Brown, Longest days, Small town, Rain on the scarecrow, Crumblin’ down, If I die sudden, Pink houses, R.O.C.K. in the U.S.A.
Un grazie a Gabriella Ascari per le foto:2,4,5(quelle belle!)
domenica 10 luglio 2011
venerdì 8 luglio 2011
RECENSIONE: ALICE GOLD ( Seven Rainbows)
ALICE GOLD Seven Rainbows ( Fiction, 2011)
A volte ci si può innamorare a prima vista, dopo il primo incontro durato poco più che mezz'ora. Con Alice Gold è stato così, dopo aver ascoltato il suo breve set in apertura agli Eels nella tappa milanese del settembre 2010. Alice Gold si presentò da totale sconosciuta davanti al pubblico italiano, in completa solitudine e con la sua Fender elettrica iniziò a proporre i suoi pezzi che poi saranno quelli che finiranno in questo suo primo disco , anticipato in questi mesi da alcuni singoli e relativi video.
Quelle canzoni, allora nude, suonano ora diverse e ricche confermando quindi le grandi potenzialità di questa cantautrice londinese che partendo dalla vocalità espressiva e blues di Janis Joplin e dal rock di fine anni sessanta, costruisce canzoni con una intelaiatura pop che sanno toccare la psichedelia e lo space rock più commerciale con grande grazia ed eleganza, mettendo a nudo una sbalorditiva vena compositiva, fresca ed accattivante. La sua bravura nell'affrontare il pubblico con sola voce e chitarra basterebbe già ad innalzarla a futura stella della musica ed il suo disco si presenta totalmente diverso dalla cantautrice solitaria che ho visto, rappresentando certamente una sorpresa.
Aiutata dalla produzione di Dan Carey (già al lavoro con Franz Ferdinand, The Kills, Hot Chip), il suo raggio d'azione è ampio e variegato a partire dall'anima soul che esce da canzoni funky come Conversations Of Love e And you'll be there, creando atmosfere da disco dance anni settanta senza mai sconfinare in scelte pacchiane.
How long can these streets be empty? è un rock blues che si perde nei fumi psichedelici e fa il paio con i frizzi e lazzi della "groovy" Orbiter, canzone da airplay radiofonico dal successo assicurato. Fairweather friend è in bilico tra rock e new wave.
Ma questo disco nasconde anche una parte dark ed introspettiva come nell'iniziale Seasons change, la pianistica Sadness is coming, o nella finale End of the world
Runaway Love e Cry cry cry al pari di "Orbiter" possiedono tutte le caratteristiche per diventare dei tormentoni, fortunatamente lontani dalla musica usa e getta che popola radio e tv.
In Inghilterra , la sua fama sta crescendo e gli anni di dura gavetta, viaggiando in tutta Europa a bordo del suo camper al seguito di act di prim'ordine come Eels, Twilight Singers e Band of Skulls tra i tanti, iniziano a dare i frutti sperati. The next big thing?
A volte ci si può innamorare a prima vista, dopo il primo incontro durato poco più che mezz'ora. Con Alice Gold è stato così, dopo aver ascoltato il suo breve set in apertura agli Eels nella tappa milanese del settembre 2010. Alice Gold si presentò da totale sconosciuta davanti al pubblico italiano, in completa solitudine e con la sua Fender elettrica iniziò a proporre i suoi pezzi che poi saranno quelli che finiranno in questo suo primo disco , anticipato in questi mesi da alcuni singoli e relativi video.
Quelle canzoni, allora nude, suonano ora diverse e ricche confermando quindi le grandi potenzialità di questa cantautrice londinese che partendo dalla vocalità espressiva e blues di Janis Joplin e dal rock di fine anni sessanta, costruisce canzoni con una intelaiatura pop che sanno toccare la psichedelia e lo space rock più commerciale con grande grazia ed eleganza, mettendo a nudo una sbalorditiva vena compositiva, fresca ed accattivante. La sua bravura nell'affrontare il pubblico con sola voce e chitarra basterebbe già ad innalzarla a futura stella della musica ed il suo disco si presenta totalmente diverso dalla cantautrice solitaria che ho visto, rappresentando certamente una sorpresa.
Aiutata dalla produzione di Dan Carey (già al lavoro con Franz Ferdinand, The Kills, Hot Chip), il suo raggio d'azione è ampio e variegato a partire dall'anima soul che esce da canzoni funky come Conversations Of Love e And you'll be there, creando atmosfere da disco dance anni settanta senza mai sconfinare in scelte pacchiane.
How long can these streets be empty? è un rock blues che si perde nei fumi psichedelici e fa il paio con i frizzi e lazzi della "groovy" Orbiter, canzone da airplay radiofonico dal successo assicurato. Fairweather friend è in bilico tra rock e new wave.
Ma questo disco nasconde anche una parte dark ed introspettiva come nell'iniziale Seasons change, la pianistica Sadness is coming, o nella finale End of the world
Runaway Love e Cry cry cry al pari di "Orbiter" possiedono tutte le caratteristiche per diventare dei tormentoni, fortunatamente lontani dalla musica usa e getta che popola radio e tv.
In Inghilterra , la sua fama sta crescendo e gli anni di dura gavetta, viaggiando in tutta Europa a bordo del suo camper al seguito di act di prim'ordine come Eels, Twilight Singers e Band of Skulls tra i tanti, iniziano a dare i frutti sperati. The next big thing?
giovedì 7 luglio 2011
RECENSIONE: DAVE ALVIN ( Eleven Eleven)
DAVE ALVIN Eleven Eleven (yepROC records, 2011)
Non cercate significati astrologici e numerologici nel titolo del nuovo lavoro di Dave Alvin,è lui stesso a mettere le mani avanti e spiegare semplicemente quanto il numero undici rappresenti solo il suo undicesimo album, si componga di altrettante canzoni ed esca nell'undicesimo anno del nuovo secolo.
Un Alvin in grande forma che dopo aver coronato il sogno di suonare con la band dei suoi sogni, sue testuali parole, le Guilty women, all-star band tutta al femminile, si presenta con un disco dal carattere blues ed elettrico scritto "on the road" durante i vari spostamenti fatti in tour. Autostrade, ferrovie e stanze di hotel come ispirazione e già il quadro si colora di America e tante storie da raccontare prendendo spunto dall'America di oggi e del recente passato popolate con personaggi "perdenti" come protagonisti.
Conoscete la storia di Johnny Ace? E' il prototipo delle favole di rock maledetto con finale tragico. Giovanissimo bluesman che nel momento di maggior successo commerciale, la vigilia di Natale del 1954, giocando alla roulette russa con i componenti della sua band, si giocò la vita a soli venticinque anni. Alvin ne costruisce un torrido e veloce blues chitarristico, Johnny Ace is Dead.
Viaggi che portano alla conoscenza di personaggi, le cui storie non basterebbero a costruirci un intero libro, Run Conejo Run, è uno stomp blues che parla di uno di questi loser, combattente di natura e con la vita sempre appesa ad un sottile filo. Come i "losers" ma fortunati e vincenti della conclusiva Two Lucky Bums, cantata in duetto con Chris Gaffney, amico cantautore scomparso nel 2008 a cui la canzone è dedicata.
Altri due importanti ospiti che duettano con Dave sono il fratello Phil Alvin in What's up with your brother?, ricomponendo per un attimo la speciale favola sonora che furono i Blasters nei primi anni ottanta in un canonico blues di strada ironico e di poche pretese e con la cantautrice Christy McWilson nell'acustica e country, ballata romantica Manzanita.
Ma il carattere grigio che esce da canzoni come Black Rose of Texas e Gary, Indiana 1959, sono l'aspetto migliore di un disco che fa a botte con il bel sogno americano. La prima guidata da una slide ci porta in giro nella desolazione di posti dimenticati, dove c'è ancora qualcuno che scappa dalla povertà e dalla tristezza mentre il testo di Gary, Indiana 1959 non avrebbe sfigurato all'interno di Darkness on the edge of town( B. Springsteen), facendo a cazzotti con l'happy honk tonk jazz della musica, raccontandoci di un vecchio operaio meccanico e della sua triste vita di stenti.
Dave Alvin ci racconta uno spaccato di America che da Guthrie in poi ha visto la working class protagonista nel ritagliarsi un un posto sempre più grande della vita di un paese estremamente giovane che non ha mantenuto quei sogni di gloria che promettteva o meglio sembra che solo pochi eletti riescano a vivere quel sogno ad occhi aperti.
Non cercate significati astrologici e numerologici nel titolo del nuovo lavoro di Dave Alvin,è lui stesso a mettere le mani avanti e spiegare semplicemente quanto il numero undici rappresenti solo il suo undicesimo album, si componga di altrettante canzoni ed esca nell'undicesimo anno del nuovo secolo.
Un Alvin in grande forma che dopo aver coronato il sogno di suonare con la band dei suoi sogni, sue testuali parole, le Guilty women, all-star band tutta al femminile, si presenta con un disco dal carattere blues ed elettrico scritto "on the road" durante i vari spostamenti fatti in tour. Autostrade, ferrovie e stanze di hotel come ispirazione e già il quadro si colora di America e tante storie da raccontare prendendo spunto dall'America di oggi e del recente passato popolate con personaggi "perdenti" come protagonisti.
Conoscete la storia di Johnny Ace? E' il prototipo delle favole di rock maledetto con finale tragico. Giovanissimo bluesman che nel momento di maggior successo commerciale, la vigilia di Natale del 1954, giocando alla roulette russa con i componenti della sua band, si giocò la vita a soli venticinque anni. Alvin ne costruisce un torrido e veloce blues chitarristico, Johnny Ace is Dead.
Viaggi che portano alla conoscenza di personaggi, le cui storie non basterebbero a costruirci un intero libro, Run Conejo Run, è uno stomp blues che parla di uno di questi loser, combattente di natura e con la vita sempre appesa ad un sottile filo. Come i "losers" ma fortunati e vincenti della conclusiva Two Lucky Bums, cantata in duetto con Chris Gaffney, amico cantautore scomparso nel 2008 a cui la canzone è dedicata.
Altri due importanti ospiti che duettano con Dave sono il fratello Phil Alvin in What's up with your brother?, ricomponendo per un attimo la speciale favola sonora che furono i Blasters nei primi anni ottanta in un canonico blues di strada ironico e di poche pretese e con la cantautrice Christy McWilson nell'acustica e country, ballata romantica Manzanita.
Ma il carattere grigio che esce da canzoni come Black Rose of Texas e Gary, Indiana 1959, sono l'aspetto migliore di un disco che fa a botte con il bel sogno americano. La prima guidata da una slide ci porta in giro nella desolazione di posti dimenticati, dove c'è ancora qualcuno che scappa dalla povertà e dalla tristezza mentre il testo di Gary, Indiana 1959 non avrebbe sfigurato all'interno di Darkness on the edge of town( B. Springsteen), facendo a cazzotti con l'happy honk tonk jazz della musica, raccontandoci di un vecchio operaio meccanico e della sua triste vita di stenti.
Dave Alvin ci racconta uno spaccato di America che da Guthrie in poi ha visto la working class protagonista nel ritagliarsi un un posto sempre più grande della vita di un paese estremamente giovane che non ha mantenuto quei sogni di gloria che promettteva o meglio sembra che solo pochi eletti riescano a vivere quel sogno ad occhi aperti.
martedì 5 luglio 2011
RECENSIONE: EMA (Past Life Martyred Saints)
EMA Past Life Martyred Saints (Souterrain Transmission, 2011)
Miss Erika M Anderson in arte EMA, con le dita della mano forma una pistola e ci invita, quasi minacciandoci, ad entrare nel suo disturbato mondo, obbligandoci a compiere un viaggio nella sua psiche dopo aver lasciato la sua precedente band, i Gowns ( ...prima ancora nei folk-noise Amps for Christ), duo formato insieme al suo ex compagno Ezra Buchla. C'è un problema: il viaggio si presenta fin dall'inizio assai complicato da seguire ma sorprendentemente pieno di interessanti input disseminati lungo il cammino.
Nel suo blog si definisce una visual artist e distruttrice di chitarre, non facendoci mancare autoscatti in cui si ritrae con il labbro tumefatto dopo aver festeggiato il Natale e altri bizzarri scatti. http://cameouttanowhere.com/
Il periodo post-adolescenziale di Ema è pieno di mostri dati in pasto senza censure e filtri, un disagio che sembrerebbe trovare il suo habitat naturale nella Seattle dei primi anni novanta, ma Ema ha solo 24 anni ed è originaria del South Dakota, nonostante giri nel circuito musicale da parecchio e non è per nulla un adolescente come si potrebbe pensare. Canzoni disturbate e pericolose che non seguono un filone logico-musicale, un continuo alternarsi tra acustico ed elettrico, pop elettronico e industrial. Un immaginario tanto reale quanto disperato dove la nostra si fa carico e portabandiera delle nuove riot-grrrls proseguendo il discorso di chi già l'aveva preceduta negli anni: da Nico a Patti Smith, da P.J.Harvey a Cat Power fino a Courtney Love.
I sette minuti che aprono il lavoro sono una summa di quello che ci aspetta, The Grey Ship si apre in acustico lo-fi per crescere in un lugubre e grigio viaggio di distorsione accompagnato da un morboso denudarsi di sentimenti che spiazza, irrita ma attrae.
Ema con questo disco sembra compiere un viaggio a ritroso nella sua vita, quasi a esorcizzare quei momenti passati, sputandoli fuori una volta per tutte, per poterli analizzare e coprire per sempre con della terra scalciata con violenza.
California, sembra una pagina di diario strappata che esordisce con un "Fuck California, you made me boring..." , che spegne immediatamente l'immagine da colorata e solare cartolina west coast che ci immaginiamo per addentrarsi in una canzone di pop disturbato e psichedelico che ci tramanda le disillusioni di una diciasettenne che abbandona casa per la finta terra promessa.
Anteroom riprende le confessioni grunge acustiche dei Nirvana unplugged e Breakfast è uno sfogo bulimico senza veli.
Tra le chitarre elettriche della finale e rock Red Star, emerge la "Patti Smith" che è in ogni cantautrice americana così come in Milkman che è un potente battito elettro-industrial che cattura al primo ascolto.
Con Marked si sprofonda in un lamento disperato di straniante e disturbante rapporto con il proprio corpo in bassa fedeltà acustica, mentre Coda e Butterfly Knife sono i due episodi, la prima cantata a cappella, la seconda con una chitarra punk distorta che impazza, che confermano quanto questo esordio, oltre ad essere interessante non ha punti di riferimento precisi se non quello d'essere il punto di partenza spiazzante della carriera solista della sua autrice. Ne sentiremo parlare.
Miss Erika M Anderson in arte EMA, con le dita della mano forma una pistola e ci invita, quasi minacciandoci, ad entrare nel suo disturbato mondo, obbligandoci a compiere un viaggio nella sua psiche dopo aver lasciato la sua precedente band, i Gowns ( ...prima ancora nei folk-noise Amps for Christ), duo formato insieme al suo ex compagno Ezra Buchla. C'è un problema: il viaggio si presenta fin dall'inizio assai complicato da seguire ma sorprendentemente pieno di interessanti input disseminati lungo il cammino.
Nel suo blog si definisce una visual artist e distruttrice di chitarre, non facendoci mancare autoscatti in cui si ritrae con il labbro tumefatto dopo aver festeggiato il Natale e altri bizzarri scatti. http://cameouttanowhere.com/
Il periodo post-adolescenziale di Ema è pieno di mostri dati in pasto senza censure e filtri, un disagio che sembrerebbe trovare il suo habitat naturale nella Seattle dei primi anni novanta, ma Ema ha solo 24 anni ed è originaria del South Dakota, nonostante giri nel circuito musicale da parecchio e non è per nulla un adolescente come si potrebbe pensare. Canzoni disturbate e pericolose che non seguono un filone logico-musicale, un continuo alternarsi tra acustico ed elettrico, pop elettronico e industrial. Un immaginario tanto reale quanto disperato dove la nostra si fa carico e portabandiera delle nuove riot-grrrls proseguendo il discorso di chi già l'aveva preceduta negli anni: da Nico a Patti Smith, da P.J.Harvey a Cat Power fino a Courtney Love.
I sette minuti che aprono il lavoro sono una summa di quello che ci aspetta, The Grey Ship si apre in acustico lo-fi per crescere in un lugubre e grigio viaggio di distorsione accompagnato da un morboso denudarsi di sentimenti che spiazza, irrita ma attrae.
Ema con questo disco sembra compiere un viaggio a ritroso nella sua vita, quasi a esorcizzare quei momenti passati, sputandoli fuori una volta per tutte, per poterli analizzare e coprire per sempre con della terra scalciata con violenza.
California, sembra una pagina di diario strappata che esordisce con un "Fuck California, you made me boring..." , che spegne immediatamente l'immagine da colorata e solare cartolina west coast che ci immaginiamo per addentrarsi in una canzone di pop disturbato e psichedelico che ci tramanda le disillusioni di una diciasettenne che abbandona casa per la finta terra promessa.
Anteroom riprende le confessioni grunge acustiche dei Nirvana unplugged e Breakfast è uno sfogo bulimico senza veli.
Tra le chitarre elettriche della finale e rock Red Star, emerge la "Patti Smith" che è in ogni cantautrice americana così come in Milkman che è un potente battito elettro-industrial che cattura al primo ascolto.
Con Marked si sprofonda in un lamento disperato di straniante e disturbante rapporto con il proprio corpo in bassa fedeltà acustica, mentre Coda e Butterfly Knife sono i due episodi, la prima cantata a cappella, la seconda con una chitarra punk distorta che impazza, che confermano quanto questo esordio, oltre ad essere interessante non ha punti di riferimento precisi se non quello d'essere il punto di partenza spiazzante della carriera solista della sua autrice. Ne sentiremo parlare.
domenica 3 luglio 2011
RECENSIONE: PSYCHOVOX (La Scelta)
PSYCHOVOX La Scelta (autoproduzione,2011)
L'uomo che vaga solitario per campi desolati ed immensi, attento ad evitare le grandi e profonde buche lasciate dalle nostre radici estirpate a volte con forza, altre con estrema cautela attraverso i secoli, tanto da non accorgersene. Strappi che ci lasciano dei vuoti profondi da colmare e tante domande. Buchi dell'anima , buchi della fede e buchi esistenziali. Un labirinto di fori da percorrere cercando il modo di non sprofondarci dentro e quando succede, trovare le forze per risalire con quello che abbiamo: noi stessi, mani e psiche sono le nostre armi. Sensazioni di claustrofobia esistenziale che ascoltando il nuovo lavoro dei Psychovox vengono a galla.
Gli Psychovox sono un gruppo brianzolo guidati dalla frontwoman Laura Spada che in un concept di 12 canzoni segna le via crucis dell'essere umano. L'avidità, la fame di successo e il potere(Occhi secolari, Caino) non hanno prezzo, l'uomo prevarica l'uomo, la libertà(L'ultimo giorno) è una chimera persa in tempi privi di comunicazione dove le distanze tra gli uomini invece di accorciarsi , sembrano aumentare sempre più (Altalena).
Creato il quadro poco alettantante in cui il genere umano è costretto a sguazzare, si cercano i rimedi. La ricerca del primordiale legame alla natura intorno a noi(Una cosa sola), la ricerca della nostra unicità, del divino che è in noi(Il divino) lontano dalle false promesse di una fede (verso chissà a quale Dio), a volte troppo precostruita per essere elastico e rimedio per tutti(Preghiera), incapace di dare risposte concrete persa nei suoi dogmi.
Quando la caduta è inevitabile e ormai cosa fatta, la lucidità e la verità che ogni essere umano nasconde dentro di sè, a volte nei meandri più nascosti(Addio), avranno la meglio su scelte affrettate e dettate dalla disperazione(Baobab).
Giunti al secondo album dopo l'ep d'esordio e il primo full lenght album "Paura del vuoto" uscito nel 2008 (lavori autoprodotti, ma che da poche settimane sono distribuiti digitalmente dalla Prismopaco http://psychovox.believeband.com/), gli Psychovox sono un trio che vede, oltre alla già citata Laura Spada, autrice della maggior parte dei testi, alla voce e basso, il chitarrista Francesco Carbone e il batterista Mauro Giletto.
Gli Psychovox sono uno sguardo furtivo ma penetrante verso il destino che l'uomo sembra aver costruito per autodistruggersi. Partendo dal rock alternatvivo italiano degli anni novanta e viaggiando sopra ad aperture chitarristiche space stoner, concedendosi brevi esperimenti sonori come in Jabura.
Piacciono la tensione che le canzoni riescono a trasmettere, si percepiscono l'inquietudine e lo smarrimento su cui si basa il loro concept lirico e musicale, sia nelle parti più lente ed oscure che nei pezzi più tirati e rock senza mai perdere la bussola melodica. Un prodotto autoctono, in tutto e per tutto che conferma già un carattere e una direzione di intenti precisa. Forse l'incontro con un grande produttore potrebbe far fare il grande salto o comunque far uscire altre potenzialità nascoste nella loro musica.
L'uomo che vaga solitario per campi desolati ed immensi, attento ad evitare le grandi e profonde buche lasciate dalle nostre radici estirpate a volte con forza, altre con estrema cautela attraverso i secoli, tanto da non accorgersene. Strappi che ci lasciano dei vuoti profondi da colmare e tante domande. Buchi dell'anima , buchi della fede e buchi esistenziali. Un labirinto di fori da percorrere cercando il modo di non sprofondarci dentro e quando succede, trovare le forze per risalire con quello che abbiamo: noi stessi, mani e psiche sono le nostre armi. Sensazioni di claustrofobia esistenziale che ascoltando il nuovo lavoro dei Psychovox vengono a galla.
Gli Psychovox sono un gruppo brianzolo guidati dalla frontwoman Laura Spada che in un concept di 12 canzoni segna le via crucis dell'essere umano. L'avidità, la fame di successo e il potere(Occhi secolari, Caino) non hanno prezzo, l'uomo prevarica l'uomo, la libertà(L'ultimo giorno) è una chimera persa in tempi privi di comunicazione dove le distanze tra gli uomini invece di accorciarsi , sembrano aumentare sempre più (Altalena).
Creato il quadro poco alettantante in cui il genere umano è costretto a sguazzare, si cercano i rimedi. La ricerca del primordiale legame alla natura intorno a noi(Una cosa sola), la ricerca della nostra unicità, del divino che è in noi(Il divino) lontano dalle false promesse di una fede (verso chissà a quale Dio), a volte troppo precostruita per essere elastico e rimedio per tutti(Preghiera), incapace di dare risposte concrete persa nei suoi dogmi.
Quando la caduta è inevitabile e ormai cosa fatta, la lucidità e la verità che ogni essere umano nasconde dentro di sè, a volte nei meandri più nascosti(Addio), avranno la meglio su scelte affrettate e dettate dalla disperazione(Baobab).
Giunti al secondo album dopo l'ep d'esordio e il primo full lenght album "Paura del vuoto" uscito nel 2008 (lavori autoprodotti, ma che da poche settimane sono distribuiti digitalmente dalla Prismopaco http://psychovox.believeband.com/), gli Psychovox sono un trio che vede, oltre alla già citata Laura Spada, autrice della maggior parte dei testi, alla voce e basso, il chitarrista Francesco Carbone e il batterista Mauro Giletto.
Gli Psychovox sono uno sguardo furtivo ma penetrante verso il destino che l'uomo sembra aver costruito per autodistruggersi. Partendo dal rock alternatvivo italiano degli anni novanta e viaggiando sopra ad aperture chitarristiche space stoner, concedendosi brevi esperimenti sonori come in Jabura.
Piacciono la tensione che le canzoni riescono a trasmettere, si percepiscono l'inquietudine e lo smarrimento su cui si basa il loro concept lirico e musicale, sia nelle parti più lente ed oscure che nei pezzi più tirati e rock senza mai perdere la bussola melodica. Un prodotto autoctono, in tutto e per tutto che conferma già un carattere e una direzione di intenti precisa. Forse l'incontro con un grande produttore potrebbe far fare il grande salto o comunque far uscire altre potenzialità nascoste nella loro musica.
venerdì 1 luglio 2011
RECENSIONE: DEVOTCHKA live@Libra Festival, Sordevolo(BI) 30 Giugno 2011
"100 Lovers" è il titolo dell'ultimo album della band di Denver e prendendoli alla lettera, stasera nell'unica data italiana del loro tour si sono presentati 100 amanti della loro musica , poche unità in più se vogliamo essere benevoli. Tralasciando i motivi che spingono i "pigri" italiani a muoversi solamente per i grandi nomi in cartellone , senza fare lo sforzo di mettere in moto la curiosità(...e stasera c'erano tanti buoni motivi per spingere un amante della musica a salire nelle verdi colline biellesi a ridosso dei monti, non ultimo il basso costo del biglietto), un plauso lo faccio a chi c'era e ha fatto di tutto per sostenere i Devotchka e i Depedro.
Anche perchè un grande pregio i Devotchka lo hanno: riescono a farti compiere tanti viaggi mentali, chiudendo gli occhi anche i sogni e le mete più lontane sembrano avvicinarsi. La versatilità della loro musica è un'agenzia viaggi sempre aperta e modestamente economica, a portata di tutti e i pochi che stasera erano qui nel grande anfiteatro di Sordevolo, se ne sono accorti.
Ad aprire i Depedro, il gruppo messo in piedi da Jairo Zavala, chitarrista e cantante spagnolo che dal 2004, quasi in pianta stabile, può vantare collaborazioni sia live che in studio nei ben più conosciuti americani Calexico. Accompagnato da un batterista e un chitarrista, Zavala propone le canzoni dei suoi due album.Un coinvolgente mix tra la melodia mediterranea e il folk americano, dove la latinità prevale con sporadiche ma ficcanti puntate nel rock e jazz. Zavala cerca a più riprese il contatto con il pubblico facendolo partecipare e la lingua spagnola di tutte le sue canzoni aiuta nella comunicazione. Canzoni fresche e leggere(Nubes De Papel, Como el viento, La memoria) , che ben si adattano al periodo estivo, che però non mettono in secondo piano la bravura compositiva di Zavala che unisce anche la tradizione della bossa nova e del flamenco con le gradevoli armonie pop. Recentemente anche la rivista americana Rolling Stone ne ha tessuto le doti.
I Devotchka si presentano sul palco con l'apertura del loro ultimo disco, The Alley e subito l'orecchio si apre nello ascoltare la voce potente, tesa e drammatica di Nick Urata( dalla sua anche una vaga somiglianza con George Clooney). La musica dei Devotchka viaggia in un continuo alternarsi tra la drammacità e la malinconia unita allo sguardo gioioso di una finestra aperta sui colori del mondo.
Gli esordi legati al gypsy punk con gli anni hanno lasciato la strada alle composizioni più articolate e mature degli ultimi due album(A mad and Faithfull Telling e 100 Lovers) e proprio da lì costruiscono lo show.
Due anime appunto, malinconica teatralità e gioia che si scontrano in modo perfetto, senza che l'una prevarichi l'altra trovando un punto d'incontro nelle mille direzioni che la loro musica riesce a prendere ed al phatos che riesce a comunicare.
La leggerezza di un fischiettio che si alza nell'aria diventa enfasi nella voce espressiva di Urata nel folk di Exaustible e il moderno pop che permea How it Ends, All the sand in all the sea si schianta con la tradizione di strumenti antichi come il contrabbasso e la basso tuba suonata dalla brava Jeanie Schroder e il violino e la fisarmonica (protagonista in The man from San Sebastian e Head Honcho) suonati dal maestro Tom Hagerman . La dote di polistrumentisti accumuna tutti i membri della band che diventano all'occasione anche una grande banda con il batterista Shawn King impegnato anche alla tromba e il quinto uomo aggiunto "tuttofare" ,percussioni, tastiere e anche alla seconda chitarra. Una piccola orchestra di cinque elementi.
La multirazzialità degli States incanalata nelle scelte musicali della band.L'Indie-folk americano sposa l'Europa balcanica (Contrabanda) non così lontana dal sapore tex-mex mariachi di We're leaving o dal rock desertico di The enemy Guns. Mentre vedere uno strumento grosso ed ingombrante come la tuba fa sempre uno strano effetto mentre riveste completamente il corpo della brava Schroder( quando non è impegnata nell'altrettanto ingombrante contrabbasso) in Basso Profundo.
Tutto questo in una sola serata da una sola band, senza tempo e confini musicali, dove rock e marcette da circo possono convivere tranquillamente, dove il sombrero vola alto trasportato dai venti dei deserti asiatici e il romanticismo prende per mano la fantasia. Ovunque dove c'è vita.
La colonna sonora( a proposito non dimentichiamoci che i Devotchka devono un pò della loro popolarità anche grazie alla soundtrack di Little Miss Sunshine con relativa candidatura al Grammy ) ideale per una sera d'estate che segue una calda giornata di sole e anticipa una nottata ancora più calda.
Anche perchè un grande pregio i Devotchka lo hanno: riescono a farti compiere tanti viaggi mentali, chiudendo gli occhi anche i sogni e le mete più lontane sembrano avvicinarsi. La versatilità della loro musica è un'agenzia viaggi sempre aperta e modestamente economica, a portata di tutti e i pochi che stasera erano qui nel grande anfiteatro di Sordevolo, se ne sono accorti.
Ad aprire i Depedro, il gruppo messo in piedi da Jairo Zavala, chitarrista e cantante spagnolo che dal 2004, quasi in pianta stabile, può vantare collaborazioni sia live che in studio nei ben più conosciuti americani Calexico. Accompagnato da un batterista e un chitarrista, Zavala propone le canzoni dei suoi due album.Un coinvolgente mix tra la melodia mediterranea e il folk americano, dove la latinità prevale con sporadiche ma ficcanti puntate nel rock e jazz. Zavala cerca a più riprese il contatto con il pubblico facendolo partecipare e la lingua spagnola di tutte le sue canzoni aiuta nella comunicazione. Canzoni fresche e leggere(Nubes De Papel, Como el viento, La memoria) , che ben si adattano al periodo estivo, che però non mettono in secondo piano la bravura compositiva di Zavala che unisce anche la tradizione della bossa nova e del flamenco con le gradevoli armonie pop. Recentemente anche la rivista americana Rolling Stone ne ha tessuto le doti.
I Devotchka si presentano sul palco con l'apertura del loro ultimo disco, The Alley e subito l'orecchio si apre nello ascoltare la voce potente, tesa e drammatica di Nick Urata( dalla sua anche una vaga somiglianza con George Clooney). La musica dei Devotchka viaggia in un continuo alternarsi tra la drammacità e la malinconia unita allo sguardo gioioso di una finestra aperta sui colori del mondo.
Gli esordi legati al gypsy punk con gli anni hanno lasciato la strada alle composizioni più articolate e mature degli ultimi due album(A mad and Faithfull Telling e 100 Lovers) e proprio da lì costruiscono lo show.
Due anime appunto, malinconica teatralità e gioia che si scontrano in modo perfetto, senza che l'una prevarichi l'altra trovando un punto d'incontro nelle mille direzioni che la loro musica riesce a prendere ed al phatos che riesce a comunicare.
La leggerezza di un fischiettio che si alza nell'aria diventa enfasi nella voce espressiva di Urata nel folk di Exaustible e il moderno pop che permea How it Ends, All the sand in all the sea si schianta con la tradizione di strumenti antichi come il contrabbasso e la basso tuba suonata dalla brava Jeanie Schroder e il violino e la fisarmonica (protagonista in The man from San Sebastian e Head Honcho) suonati dal maestro Tom Hagerman . La dote di polistrumentisti accumuna tutti i membri della band che diventano all'occasione anche una grande banda con il batterista Shawn King impegnato anche alla tromba e il quinto uomo aggiunto "tuttofare" ,percussioni, tastiere e anche alla seconda chitarra. Una piccola orchestra di cinque elementi.
La multirazzialità degli States incanalata nelle scelte musicali della band.L'Indie-folk americano sposa l'Europa balcanica (Contrabanda) non così lontana dal sapore tex-mex mariachi di We're leaving o dal rock desertico di The enemy Guns. Mentre vedere uno strumento grosso ed ingombrante come la tuba fa sempre uno strano effetto mentre riveste completamente il corpo della brava Schroder( quando non è impegnata nell'altrettanto ingombrante contrabbasso) in Basso Profundo.
Tutto questo in una sola serata da una sola band, senza tempo e confini musicali, dove rock e marcette da circo possono convivere tranquillamente, dove il sombrero vola alto trasportato dai venti dei deserti asiatici e il romanticismo prende per mano la fantasia. Ovunque dove c'è vita.
La colonna sonora( a proposito non dimentichiamoci che i Devotchka devono un pò della loro popolarità anche grazie alla soundtrack di Little Miss Sunshine con relativa candidatura al Grammy ) ideale per una sera d'estate che segue una calda giornata di sole e anticipa una nottata ancora più calda.
giovedì 30 giugno 2011
RECENSIONE: RIVAL SONS ( Pressure & Time)
RIVAL SONS Pressure & Time (Earache, 2011)
E' diventata una questione di vita o di morte, quella di trovare assolutamente gli eredi di chi ha fatto grande il rock negli anni settanta. Una missione quasi utopistica che le case discografiche sembrano intraprendere a suon di contratti e lanci promozionali con paragoni pesantissimi, che tagliano le gambe ancor prima di imbracciare gli strumenti.
A scadenza quasi mensile salta alla ribalta qualche nuovo gruppo da dare in pasto ai coccodrilli. Alcuni sono stati divorati ferocemente e sono scomparsi inghiottiti, altri sono rimasti a galla. Airbourne, The Answer, Wolfmother, Graveyard, Black Spiders, tanti sono i nomi. In questi mesi si fa un gran parlare dei Rival Sons, recentemente visti anche sui palchi italiani ad aprire il secondo giorno del Sonisphere Festival, lasciando una buonissima impressione nonostante il poco tempo a loro disposizione.
Tempo che è poco anche in questo loro primo lavoro sull'etichetta di "metallo estremo" Earache dopo un album autoprodotto ed un ep. Gli americani di Los Angeles sparano tutto in mezzora di musica, 10 canzoni, dirette ed efficaci, senza nessun abbellimento superfluo e registrato pure in pochissimi giorni. Questi vanno veloci in tutti i sensi.
Hard rock anni settanta , quello che meglio si sposava con il blues ed una voce molto caratterizzante sono il loro biglietto da visita. Jay Buchanan è un signor cantante( l'ideale mix tra Plant e Paul Rodgers) e l'iniziale All Over the Road, ci porta sopra ad una Cadillac dritti contro il sole con un chitarrista presente ma essenziale come Scott Holiday e un coro che a fine canzone omaggia i maestri. A voi trovare la riposta. Un hard boogie rock saltellante e divertente che non disdegna di omaggiare anche la scena glam britannica dei T.Rex.
Se altri gruppi recenti di vintage rock sembrano attaccarsi ad un solo mito(finendo, a volte per esserne delle imbarazzanti copie o cover band da venerdì sera al pub), i Rival Sons giocano a 360 gradi abbracciando tutto il rock con scadenza anno 1975. Young Love ha un giro oscuro che ricorda i Doors così come Burn down Los Angeles a cui manca solamente l'organo di Ray Manzarek, Only Love è una semi ballad che sembra toccare il folk-rock di fine sessanta con la presenza di un organo Wurlitzer in sottofondo.
Get Mine ha le chitarre degli Stooges e un coro appiccicoso, Save Me è un rock'n'roll veloce, Gypsy Heart , la mia favorita, ha una slide protagonista: un southern blues-rock cadenzato e poderoso che non sarebbe sfigurato in un album di sua maestà Hendrix. Il tutto si chiude con gli effetti e gli assoli di White Noise e con Face of Light, ballad che con i suoi oltre quattro minuti è la canzone più lunga del disco.
Riepilogando ho citato: Led Zeppelin, Free, T.Rex, Doors, Hendrix e possono bastare.
I Rival Sons, giocano sporco di produzione, catturando tutte le vibrazioni che fecero grandi i "grandi" sopracitati e piazzano uno dei dischi di classic hard rock più interessanti di questa prima metà dell'anno. Se i Graveyard sono il lato più psichedelico, freddo ed oscuro, i Rival Sons sono quello più solare, caldo e giocoso di questi primi sei mesi.
Ultima nota per la copertina ideata da Storm Thorgerson, artista e fotografo inglese che ha firmato grandi copertine del rock, quelle dei Pink Floyd su tutte, anche se questa a mio modesto avviso non è riuscita particolarmente bene. Consigliato.
E' diventata una questione di vita o di morte, quella di trovare assolutamente gli eredi di chi ha fatto grande il rock negli anni settanta. Una missione quasi utopistica che le case discografiche sembrano intraprendere a suon di contratti e lanci promozionali con paragoni pesantissimi, che tagliano le gambe ancor prima di imbracciare gli strumenti.
A scadenza quasi mensile salta alla ribalta qualche nuovo gruppo da dare in pasto ai coccodrilli. Alcuni sono stati divorati ferocemente e sono scomparsi inghiottiti, altri sono rimasti a galla. Airbourne, The Answer, Wolfmother, Graveyard, Black Spiders, tanti sono i nomi. In questi mesi si fa un gran parlare dei Rival Sons, recentemente visti anche sui palchi italiani ad aprire il secondo giorno del Sonisphere Festival, lasciando una buonissima impressione nonostante il poco tempo a loro disposizione.
Tempo che è poco anche in questo loro primo lavoro sull'etichetta di "metallo estremo" Earache dopo un album autoprodotto ed un ep. Gli americani di Los Angeles sparano tutto in mezzora di musica, 10 canzoni, dirette ed efficaci, senza nessun abbellimento superfluo e registrato pure in pochissimi giorni. Questi vanno veloci in tutti i sensi.
Hard rock anni settanta , quello che meglio si sposava con il blues ed una voce molto caratterizzante sono il loro biglietto da visita. Jay Buchanan è un signor cantante( l'ideale mix tra Plant e Paul Rodgers) e l'iniziale All Over the Road, ci porta sopra ad una Cadillac dritti contro il sole con un chitarrista presente ma essenziale come Scott Holiday e un coro che a fine canzone omaggia i maestri. A voi trovare la riposta. Un hard boogie rock saltellante e divertente che non disdegna di omaggiare anche la scena glam britannica dei T.Rex.
Se altri gruppi recenti di vintage rock sembrano attaccarsi ad un solo mito(finendo, a volte per esserne delle imbarazzanti copie o cover band da venerdì sera al pub), i Rival Sons giocano a 360 gradi abbracciando tutto il rock con scadenza anno 1975. Young Love ha un giro oscuro che ricorda i Doors così come Burn down Los Angeles a cui manca solamente l'organo di Ray Manzarek, Only Love è una semi ballad che sembra toccare il folk-rock di fine sessanta con la presenza di un organo Wurlitzer in sottofondo.
Get Mine ha le chitarre degli Stooges e un coro appiccicoso, Save Me è un rock'n'roll veloce, Gypsy Heart , la mia favorita, ha una slide protagonista: un southern blues-rock cadenzato e poderoso che non sarebbe sfigurato in un album di sua maestà Hendrix. Il tutto si chiude con gli effetti e gli assoli di White Noise e con Face of Light, ballad che con i suoi oltre quattro minuti è la canzone più lunga del disco.
Riepilogando ho citato: Led Zeppelin, Free, T.Rex, Doors, Hendrix e possono bastare.
I Rival Sons, giocano sporco di produzione, catturando tutte le vibrazioni che fecero grandi i "grandi" sopracitati e piazzano uno dei dischi di classic hard rock più interessanti di questa prima metà dell'anno. Se i Graveyard sono il lato più psichedelico, freddo ed oscuro, i Rival Sons sono quello più solare, caldo e giocoso di questi primi sei mesi.
Ultima nota per la copertina ideata da Storm Thorgerson, artista e fotografo inglese che ha firmato grandi copertine del rock, quelle dei Pink Floyd su tutte, anche se questa a mio modesto avviso non è riuscita particolarmente bene. Consigliato.
lunedì 27 giugno 2011
RECENSIONE: CASINO ROYALE ( Io e mia Ombra)
CASINO ROYALE Io e la mia ombra (Universal, 2011)
Milano...sant'Eustorgio, ska, two tone, Specials, Madness, Clash, Finsbury Park, London, Vox Pop, Kono, Vasco Rossi, Hip-hop , crossover, dj Gruff, Radio Gladio, BlackOut, Cielo.... Cielo...Ben Young, Civitella di Chiana, Anno Zero, Videovaselina generazionale, avanguardia, dub, Bristol, Bosnia, U2, trip-hop, Protect me,.IT,remix...STOP...Reale...Milano...
Un elenco di nomi, cognomi, parole e luoghi. Basterebbe estrapolare un nome a caso dall'elenco e si potrebbe aprire un'altra parentesi di nomi, cognomi, luoghi per raccontare tante storie di un pezzettino di musica italiana degli ultimi venticinque anni. Come siamo vecchi...
Per chi a cavallo tra gli anni ottanta e novanta compiva la maggiore età, ogni parola di quell'elenco riporta ad un gruppo che è stato sinonimo di crescita musicale.
Quando si ballava scatenati, sui ritmi in levare di Casino Royale(la canzone) e Skaravanpetrol nelle poche discoteche rock o nelle dance-hall improvvisate delle feste, guardavi l'orologio ed era mezzanotte, già troppo tardi perchè Alioscia e compagni avevano appena spostato le lancette avanti di un minuto ed anche più, abbracciando il crossover proveniente dagli States ed imbastardendolo con la musicalità tutta italiana che già infestava il loro ska.
Ascoltavi Dainamaita,(continuerò a ripeterlo, uno dei dischi rock italiani più importanti di sempre, -esagero?-) e loro proprio lì, quasi alla fine dell'ascolto, senza preavviso, ti piazzavano l'indicazione delle loro future mosse.
Il Cielo(la canzone) rappresentò un punto di ripartenza che porta alla visibilità nazionale di dischi come "Sempre più vicini" e "CRX", già lontani da "Dainamaita" ma già vicini all'Europa e ai nuovi suoni provenienti da oltremanica.
"Non dobbiamo rendere conto a nessuno" e "Radicalmente diversi dagli originali"... dicevano.
Tra i primi in Italia, a capire la forza e l'importanza dela rete web e del download, nel 2006 sono tornati dopo alcuni anni di stop con "Reale", che fu un importante segnale di sopravvivenza, più che mai confermato dal nuovo "Io e la mia ombra".
"Io e la mia ombra" è però fermo nel suo tempo, statico esperimento di quotidianità vissuta sulla propria pelle. Una fotografia scattata da artisti che hanno passato i quarant'anni e si volgono indietro quasi a raccogliere e godersi i frutti cresciuti dai semi già seminati e la scelta di autoprodursi il disco senza aiuto esterno è una scelta più che esemplificativa. "Illusi dalla musica, sconfitti dalla musica...per raccogliere qualcosa, prima devi dare...Nessun rimpianto, nessun rimorso..." su Stanco ancora No che è il piccolo manifesto di pensiero sulla loro carriera e parla chiaro. Chiarissimo.
Quasi un concept da seduta psicoanalitica, dove si cercano di capire i mali della società contemporanea, che sono anche i tuoi, i suoi, i miei. La solitudine dell'uomo in mezzo al benessere(Solitudine di Massa).
"...la gente torna casa e non riesce più ad uscire, molti escono di casa e non vogliono più tornare...pandemia diffusa, nevrosi depressiva..." nel dub-reggae elettro di Io e la mia ombra si racconta del disorientamento che viviamo ogni giorno, incapaci di scelte anche in mezzo al benessere più sfrenato. E la solitudine e il trascorrere del tempo sono il leitmotiv di gran parte delle canzoni, anche la finale Città di niente che prosegue il discorso iniziato da Il Cielo, gettando uno sguardo sullo stato di salute(...metropoli, necropoli...muori Milano rimuori, poi nasce ora) di Milano e trovando una città governata dal potere di più persone che lasciano però l'individuo solo. Canzone pre-voto Pisapia, aspetteremo il prossimo disco per sentire il nuovo bollettino medico.
Ogni uomo una radio (Turn it on!) mi fa tornare in mente i Clash ipersperimentatori di Sandinista!, mentre il ritmi funk-caraibici che aprono Senza il tempo si trasformano presto in un battito dance così come i ritmi che scandiscono:"...Mi sono perso per rincorrermi, rincorrere o correre con la vita..."(Il fiato per raggiungerti) dove emerge la saggezza di chi si volta indietro e capisce i suoi sbagli, o nell'analisi esistenziale di Ora chi ha paura. Vivi( dice già tutto nel titolo).
Un disco basilarmente pop, ma di quello intelligente, elettronica che flirta con la dance su cui poggiano gli infiniti input della musica "totalitaria" a cui i Casino Royale ci hanno da sempre abituato,un disco dal "groove elevato" dove la semplicità apparente si arricchisce di nuove sfumature dietro ad ogni ascolto.
Ancora una volta"Radicalmente diversi dagli originali"
Milano...sant'Eustorgio, ska, two tone, Specials, Madness, Clash, Finsbury Park, London, Vox Pop, Kono, Vasco Rossi, Hip-hop , crossover, dj Gruff, Radio Gladio, BlackOut, Cielo.... Cielo...Ben Young, Civitella di Chiana, Anno Zero, Videovaselina generazionale, avanguardia, dub, Bristol, Bosnia, U2, trip-hop, Protect me,.IT,remix...STOP...Reale...Milano...
Un elenco di nomi, cognomi, parole e luoghi. Basterebbe estrapolare un nome a caso dall'elenco e si potrebbe aprire un'altra parentesi di nomi, cognomi, luoghi per raccontare tante storie di un pezzettino di musica italiana degli ultimi venticinque anni. Come siamo vecchi...
Per chi a cavallo tra gli anni ottanta e novanta compiva la maggiore età, ogni parola di quell'elenco riporta ad un gruppo che è stato sinonimo di crescita musicale.
Quando si ballava scatenati, sui ritmi in levare di Casino Royale(la canzone) e Skaravanpetrol nelle poche discoteche rock o nelle dance-hall improvvisate delle feste, guardavi l'orologio ed era mezzanotte, già troppo tardi perchè Alioscia e compagni avevano appena spostato le lancette avanti di un minuto ed anche più, abbracciando il crossover proveniente dagli States ed imbastardendolo con la musicalità tutta italiana che già infestava il loro ska.
Ascoltavi Dainamaita,(continuerò a ripeterlo, uno dei dischi rock italiani più importanti di sempre, -esagero?-) e loro proprio lì, quasi alla fine dell'ascolto, senza preavviso, ti piazzavano l'indicazione delle loro future mosse.
Il Cielo(la canzone) rappresentò un punto di ripartenza che porta alla visibilità nazionale di dischi come "Sempre più vicini" e "CRX", già lontani da "Dainamaita" ma già vicini all'Europa e ai nuovi suoni provenienti da oltremanica.
"Non dobbiamo rendere conto a nessuno" e "Radicalmente diversi dagli originali"... dicevano.
Tra i primi in Italia, a capire la forza e l'importanza dela rete web e del download, nel 2006 sono tornati dopo alcuni anni di stop con "Reale", che fu un importante segnale di sopravvivenza, più che mai confermato dal nuovo "Io e la mia ombra".
"Io e la mia ombra" è però fermo nel suo tempo, statico esperimento di quotidianità vissuta sulla propria pelle. Una fotografia scattata da artisti che hanno passato i quarant'anni e si volgono indietro quasi a raccogliere e godersi i frutti cresciuti dai semi già seminati e la scelta di autoprodursi il disco senza aiuto esterno è una scelta più che esemplificativa. "Illusi dalla musica, sconfitti dalla musica...per raccogliere qualcosa, prima devi dare...Nessun rimpianto, nessun rimorso..." su Stanco ancora No che è il piccolo manifesto di pensiero sulla loro carriera e parla chiaro. Chiarissimo.
Quasi un concept da seduta psicoanalitica, dove si cercano di capire i mali della società contemporanea, che sono anche i tuoi, i suoi, i miei. La solitudine dell'uomo in mezzo al benessere(Solitudine di Massa).
"...la gente torna casa e non riesce più ad uscire, molti escono di casa e non vogliono più tornare...pandemia diffusa, nevrosi depressiva..." nel dub-reggae elettro di Io e la mia ombra si racconta del disorientamento che viviamo ogni giorno, incapaci di scelte anche in mezzo al benessere più sfrenato. E la solitudine e il trascorrere del tempo sono il leitmotiv di gran parte delle canzoni, anche la finale Città di niente che prosegue il discorso iniziato da Il Cielo, gettando uno sguardo sullo stato di salute(...metropoli, necropoli...muori Milano rimuori, poi nasce ora) di Milano e trovando una città governata dal potere di più persone che lasciano però l'individuo solo. Canzone pre-voto Pisapia, aspetteremo il prossimo disco per sentire il nuovo bollettino medico.
Ogni uomo una radio (Turn it on!) mi fa tornare in mente i Clash ipersperimentatori di Sandinista!, mentre il ritmi funk-caraibici che aprono Senza il tempo si trasformano presto in un battito dance così come i ritmi che scandiscono:"...Mi sono perso per rincorrermi, rincorrere o correre con la vita..."(Il fiato per raggiungerti) dove emerge la saggezza di chi si volta indietro e capisce i suoi sbagli, o nell'analisi esistenziale di Ora chi ha paura. Vivi( dice già tutto nel titolo).
Un disco basilarmente pop, ma di quello intelligente, elettronica che flirta con la dance su cui poggiano gli infiniti input della musica "totalitaria" a cui i Casino Royale ci hanno da sempre abituato,un disco dal "groove elevato" dove la semplicità apparente si arricchisce di nuove sfumature dietro ad ogni ascolto.
Ancora una volta"Radicalmente diversi dagli originali"
sabato 25 giugno 2011
RECENSIONE: WATERMELON SLIM & SUPER CHIKAN/Martin Harley Band Live@ Ameno(NO) Blues Festival, 24 Giugno 2011
Non esistesse, un personaggio come Watermelon Slim, sarebbe duro perfino da immaginare. Fortunatamente lui è reale e la sua sola storia biografica ne fa un piccolo eroe d'altri tempi, dove la genuinità ha ancora la meglio su tutto. Lo incontro appena entrato nella piazza Cavalieri di Ameno(NO) sul lago d'Orta, paese che ospita la settima edizione di un festival che cresce ogni anno sempre di più. Watermelon Slim, dopo il soundcheck, con una birra in mano ed andamento ciondolante, sfoggia una t-shirt con la stampa "veterani del Vietnam, contro la guerra", si fa fotografare ed è con estremo orgoglio che la indossa e la indica.
Chissà cosa hanno visto quegli occhi, prima di girare i festival blues di mezzo mondo? Vi consiglio di andare a leggere le sue note biografiche per scoprire che con quegli occhi, scavati dalle rughe, il buon Watermelon, prima di diventare quello che è oggi, ha visto la guerra in Vietnam, ha sbarcato il lunario facendo mille lavori e contemporaneamente si è laureato in più campi. Insomma, uno che di dura vita ne sa.
Ma la serata di questo venerdì non è solo sua, dividerà il palco con un altro personaggio di tutto rispetto, Super Chikan. Dopo alcuni dischi che hanno esplorato il country di Nashville( Escape from the chicken coop... http://www.debaser.it/recensionidb/ID_28655/Watermelon_Slim_Escape_From_The_Chicken_Coop.htm
e Ringers), Watermelon Slim è tornato al blues e oggi presenterà insieme al nuovo socio in musica, un disco fresco di uscita .
Prima, però, c'è stata la bella sorpresa della Martin Harley Band, trio inglese con a capo il chitarrista, slide e cantante Martin Harley, il contrabbassista Jay Carter e il biondo batterista Pete Swatton.
Un set fiammeggiante il loro, un continuo alternarsi tra folk/americana con divertenti sipari dixieland e potenti blues semi- elettrici, dove Martin Harley ha sfoderato tutta la sua bravura alla slide e una voce di tutto rispetto. Indicati dalla stampa inglese come il futuro del blues acustico britannico, passano in rassegna la loro carriera fatta di tre dischi con l'ultimo Drumrolls for Somersaults(2010)(Automatic life, Love in Afternoon) a farla da padrone mischiato ai loro passati brani tra cui Money don't matter e la lunga ed ipnotica Blues at the windows che conquista.
Intanto Watermelon Slim e Super Chikan, si cambiano d'abito e vestiti a festa, aspettano il loro turno a bordo palco, presentati dal grande esperto blues Edoardo "Catfish" Fassio e dal direttore artistico del festival, Roberto Neri.
Una volta saliti sul palco, non si può non notare la grande diversità di carattere, tra il risoluto e pacifico Super Chikan e l'incontenibile estrosità di Watermelon Slim. Proverbiali, gli sguardi di Chikan, nel carpire le imprevedibili mosse del suo compagno che parte in quarta dando un saggio del suo italiano(una delle tante lingue che parla), menzionando ed elogiando il banchetto di Emergency presente in piazza.
Super Chikan è un ragazzone nero ,cresciuto nei campi del Mississippi, che ha ripercorso la vita dei grandi bluesmen di una volta, partendo dal nulla del duro lavoro e coronando il sogno di suonare davanti a delle platee, arrivando a costruirsi da solo le stupende e colorate chitarre che anche stasera ha sfoggiato.
Okiesippi Blues è il disco che accomuna i due bluesmen ( non si contano i numerosi premi e riconoscimenti di settore presi in carriera da entrambi) e questa sera è stato presentato pressochè in anteprima(I Don't Wear No Sunglasses,I'm A Little Fish, You Might Know, Trucking Blues), insieme ad altri grandi classici del blues. I due si scambiano democraticamente il ruolo di singer dialogando con i loro strumenti. Dialoghi tra la slide di Watermelon e la chitarra di Chikan, con Bill Homans( vero nome di Watermelon Slim, nome d'arte preso dopo aver lavorato in una coltivazione d'angurie), che quando non è dietro alla sua postazione, impazza con l'armonica lungo e addirittura sotto il palco, cercando in continuazione il dialogo con il pubblico ( anche attraverso il suo simpatico italiano), che piano piano è sempre più numeroso e partecipante, fino a raggiungere l'apice con la jam session finale che vede la Martin Harley band salire sul palco insieme ai due veterani. La serata si prolunga in un terzo e addirittura quarto tempo, quando i giovani britannici decidono di ritornare sul palco da soli per eseguire altri brani.
Intanto in piazza, si consuma un altro spettacolo nello spettacolo, con Watermelon che tiene banco, ballando, posando per le foto di rito, scomparendo per poi ripresentarsi con un altra bella birra in mano( dopo aver bevuto dalle sue magiche bottigliette durante il concerto) e cercando di improvvisare un banchetto per vendere i suoi cd, autografandoli con la penna che con grande cura tiene in tasca.
Serata lunga e divertente che conferma come il blues sia ancora una madre piena di passione che ha ancora tanto da dare ai suoi figli.
Chissà cosa hanno visto quegli occhi, prima di girare i festival blues di mezzo mondo? Vi consiglio di andare a leggere le sue note biografiche per scoprire che con quegli occhi, scavati dalle rughe, il buon Watermelon, prima di diventare quello che è oggi, ha visto la guerra in Vietnam, ha sbarcato il lunario facendo mille lavori e contemporaneamente si è laureato in più campi. Insomma, uno che di dura vita ne sa.
Ma la serata di questo venerdì non è solo sua, dividerà il palco con un altro personaggio di tutto rispetto, Super Chikan. Dopo alcuni dischi che hanno esplorato il country di Nashville( Escape from the chicken coop... http://www.debaser.it/recensionidb/ID_28655/Watermelon_Slim_Escape_From_The_Chicken_Coop.htm
e Ringers), Watermelon Slim è tornato al blues e oggi presenterà insieme al nuovo socio in musica, un disco fresco di uscita .
Prima, però, c'è stata la bella sorpresa della Martin Harley Band, trio inglese con a capo il chitarrista, slide e cantante Martin Harley, il contrabbassista Jay Carter e il biondo batterista Pete Swatton.
Un set fiammeggiante il loro, un continuo alternarsi tra folk/americana con divertenti sipari dixieland e potenti blues semi- elettrici, dove Martin Harley ha sfoderato tutta la sua bravura alla slide e una voce di tutto rispetto. Indicati dalla stampa inglese come il futuro del blues acustico britannico, passano in rassegna la loro carriera fatta di tre dischi con l'ultimo Drumrolls for Somersaults(2010)(Automatic life, Love in Afternoon) a farla da padrone mischiato ai loro passati brani tra cui Money don't matter e la lunga ed ipnotica Blues at the windows che conquista.
Intanto Watermelon Slim e Super Chikan, si cambiano d'abito e vestiti a festa, aspettano il loro turno a bordo palco, presentati dal grande esperto blues Edoardo "Catfish" Fassio e dal direttore artistico del festival, Roberto Neri.
Una volta saliti sul palco, non si può non notare la grande diversità di carattere, tra il risoluto e pacifico Super Chikan e l'incontenibile estrosità di Watermelon Slim. Proverbiali, gli sguardi di Chikan, nel carpire le imprevedibili mosse del suo compagno che parte in quarta dando un saggio del suo italiano(una delle tante lingue che parla), menzionando ed elogiando il banchetto di Emergency presente in piazza.
Super Chikan è un ragazzone nero ,cresciuto nei campi del Mississippi, che ha ripercorso la vita dei grandi bluesmen di una volta, partendo dal nulla del duro lavoro e coronando il sogno di suonare davanti a delle platee, arrivando a costruirsi da solo le stupende e colorate chitarre che anche stasera ha sfoggiato.
Okiesippi Blues è il disco che accomuna i due bluesmen ( non si contano i numerosi premi e riconoscimenti di settore presi in carriera da entrambi) e questa sera è stato presentato pressochè in anteprima(I Don't Wear No Sunglasses,I'm A Little Fish, You Might Know, Trucking Blues), insieme ad altri grandi classici del blues. I due si scambiano democraticamente il ruolo di singer dialogando con i loro strumenti. Dialoghi tra la slide di Watermelon e la chitarra di Chikan, con Bill Homans( vero nome di Watermelon Slim, nome d'arte preso dopo aver lavorato in una coltivazione d'angurie), che quando non è dietro alla sua postazione, impazza con l'armonica lungo e addirittura sotto il palco, cercando in continuazione il dialogo con il pubblico ( anche attraverso il suo simpatico italiano), che piano piano è sempre più numeroso e partecipante, fino a raggiungere l'apice con la jam session finale che vede la Martin Harley band salire sul palco insieme ai due veterani. La serata si prolunga in un terzo e addirittura quarto tempo, quando i giovani britannici decidono di ritornare sul palco da soli per eseguire altri brani.
Intanto in piazza, si consuma un altro spettacolo nello spettacolo, con Watermelon che tiene banco, ballando, posando per le foto di rito, scomparendo per poi ripresentarsi con un altra bella birra in mano( dopo aver bevuto dalle sue magiche bottigliette durante il concerto) e cercando di improvvisare un banchetto per vendere i suoi cd, autografandoli con la penna che con grande cura tiene in tasca.
Serata lunga e divertente che conferma come il blues sia ancora una madre piena di passione che ha ancora tanto da dare ai suoi figli.
giovedì 23 giugno 2011
RECENSIONE: NEIL YOUNG(A Treasure)
NEIL YOUNG A Treasure ( Reprise records,2011)
Quella di Young sembra una corsa contro il tempo. La voglia di far uscire tutto il materiale composto in cinquant'anni di carriera è tanta e sembra non seguire nessuna regola di classificazione, bellezza e cronologia. Con l'artista canadese ormai siamo abituati: tutto è possibile. Da alcuni anni stiamo assistendo ad un alternarsi continuo di uscite, tra nuovi lavori, vecchie canzoni inedite e performance live. Dopo la prima mastodontica parte degli archivi e lo spiazzante nuovo Le Noise dello scorso anno , quest'anno è la volta di una raccolta live risalente al periodo 1984/1985 che ha moltissimi punti di interesse e una canzone "tesoro" che da sola vale l'acquisto.
Già nel 1972 il buon Neil ci chiedeva Are you ready fo the Country? Da quella domanda/canzone ai concerti qui registrati sono passati dodici anni. Anni che lo hanno visto salire nell'olimpo dei cantautori e nei primi anni ottanta anche cadere vertiginosamente, fautore del prorio male. Vicende intime e personali, beghe con la casa discografica e voglia di sperimentare l'hanno portato nel giro di soli pochi mesi dalla celebrazione del punk (alla sua maniera) in un disco capolavoro come Rust never sleeps alle poche idee dell'hard rock di Re-ac-tor (1981), all'artificiosità di computer e sintetizzatori in Trans (1983) fino al poco convincente e tirato per i capelli ritorno alle origini nel rockabilly di Everybody's Rockin' (1983) e nel country di Old Ways (1985).
Proprio da quest'ultimo disco bisogna partire per parlare di questa raccolta live, A Treasure.
"Old Ways", registrato a Nashville, è la risposta a quella domanda fatta nel lontano 1972. Una risposta che però lasciò l'amaro in bocca. La voglia del canadese di tornare al country cozza contro l'eccesiva pulizia del suono che usciva dalle canzoni, evidentemente troppo lavorate in studio di registrazione e che perdevano l'aspetto ruspante delle tipiche ballate country che Young aveva sempre dato alle sue passate composizioni.
Canzoni già provate nei live con il gruppo che lo accompagnava in quegli anni, gli International Harvesters, e che sopra ad un palco suonavano giuste così come dovevano suonare. Non stupisce, quindi, che Neil Young al ritrovamento delle bobine contenenti le registrazioni di quei concerti abbia esclamato: "è un tesoro(a treasure)".
Da Old Ways spuntano Get back to the country e Bound for Glory che grazie a professionisti della country music come gli International Harvester si riappropriano della grezza esecuzione live che la registrazione in studio tendeva a smorzare riducendone le potenzialità.
Si arrichiscono di calore anche canzoni come Motor City e Southern Pacific, tutte e due tratte da "Re-Ac-Tor" , il violino di Rufus Thibodeaux, il piano di Spooner Oldhman e la slide di Ben "Long Grain" Keith regalano a Young il suono che in quel determinato periodo stava cercando, un pò per ripicca verso la sua casa discografica, poco contenta dei suoi precedenti dischi e sicuramente per tornare al suono di dischi come "Comes a time", summa del country-pensiero del canadese.
A Treasure contiene cinque canzoni mai apparse prima in nessun disco di Young. Amber Jean che apre il disco fu scritta per la figlia appena nata dal suo rapporto con compagna Pegy. Le altre sono il country-walzer guidato dal violino Let your fingers do the walking, il blues di Soul of a woman, Nothing is perfect e la gemma Grey Riders.
Grey Riders è un piccolo capolavoro rimasto nascosto per troppo tempo, una cavalcata country- elettrica, come se gli International Harvesters incontrassero il garage-rock dei Crazy Horse, con la chitarra elettrica di Young che torna a ruggire, impazzando lungo tutta la canzone.
Completano il set, una bella e tirata Are you ready for the country? e l'esecuzione di Flying on the ground is wrong ripresa dal primo omonimo disco dei Buffalo Springfield.
La sbornia country continuò ancora dopo questa serie di concerti con l'organizzazione insieme a Willie Nelson e John Mellencamp del primo Farm Aid, sorta di festival nato per raccogliere fondi da dare alle famiglie dei contadini americani colpiti da una forte crisi economica. Il Farm Aid sopravvive ancora oggi, mentre Neil Young dal 1986 con l'album "Landing on Water" cambiò nuovamente faccia, facendo uscire due tra i suoi peggiori e discutibili dischi (sono certo che attingendo dagli archivi, Young riuscirà a rivalutare anche questo suo periodo artistico).
A opera finita, l'unica recriminazione su questi tesori potrebbe essere la mancata possibilità di aggiungere altre canzoni alle dodici qua presenti (durante quei tour vennero riletti anche tanti suoi classici), ma certamente anche queste compariranno nei prossimi capitoli dei suoi infiniti, mirabolanti e magici archivi.
Quella di Young sembra una corsa contro il tempo. La voglia di far uscire tutto il materiale composto in cinquant'anni di carriera è tanta e sembra non seguire nessuna regola di classificazione, bellezza e cronologia. Con l'artista canadese ormai siamo abituati: tutto è possibile. Da alcuni anni stiamo assistendo ad un alternarsi continuo di uscite, tra nuovi lavori, vecchie canzoni inedite e performance live. Dopo la prima mastodontica parte degli archivi e lo spiazzante nuovo Le Noise dello scorso anno , quest'anno è la volta di una raccolta live risalente al periodo 1984/1985 che ha moltissimi punti di interesse e una canzone "tesoro" che da sola vale l'acquisto.
Già nel 1972 il buon Neil ci chiedeva Are you ready fo the Country? Da quella domanda/canzone ai concerti qui registrati sono passati dodici anni. Anni che lo hanno visto salire nell'olimpo dei cantautori e nei primi anni ottanta anche cadere vertiginosamente, fautore del prorio male. Vicende intime e personali, beghe con la casa discografica e voglia di sperimentare l'hanno portato nel giro di soli pochi mesi dalla celebrazione del punk (alla sua maniera) in un disco capolavoro come Rust never sleeps alle poche idee dell'hard rock di Re-ac-tor (1981), all'artificiosità di computer e sintetizzatori in Trans (1983) fino al poco convincente e tirato per i capelli ritorno alle origini nel rockabilly di Everybody's Rockin' (1983) e nel country di Old Ways (1985).
Proprio da quest'ultimo disco bisogna partire per parlare di questa raccolta live, A Treasure.
"Old Ways", registrato a Nashville, è la risposta a quella domanda fatta nel lontano 1972. Una risposta che però lasciò l'amaro in bocca. La voglia del canadese di tornare al country cozza contro l'eccesiva pulizia del suono che usciva dalle canzoni, evidentemente troppo lavorate in studio di registrazione e che perdevano l'aspetto ruspante delle tipiche ballate country che Young aveva sempre dato alle sue passate composizioni.
Canzoni già provate nei live con il gruppo che lo accompagnava in quegli anni, gli International Harvesters, e che sopra ad un palco suonavano giuste così come dovevano suonare. Non stupisce, quindi, che Neil Young al ritrovamento delle bobine contenenti le registrazioni di quei concerti abbia esclamato: "è un tesoro(a treasure)".
Da Old Ways spuntano Get back to the country e Bound for Glory che grazie a professionisti della country music come gli International Harvester si riappropriano della grezza esecuzione live che la registrazione in studio tendeva a smorzare riducendone le potenzialità.
Si arrichiscono di calore anche canzoni come Motor City e Southern Pacific, tutte e due tratte da "Re-Ac-Tor" , il violino di Rufus Thibodeaux, il piano di Spooner Oldhman e la slide di Ben "Long Grain" Keith regalano a Young il suono che in quel determinato periodo stava cercando, un pò per ripicca verso la sua casa discografica, poco contenta dei suoi precedenti dischi e sicuramente per tornare al suono di dischi come "Comes a time", summa del country-pensiero del canadese.
A Treasure contiene cinque canzoni mai apparse prima in nessun disco di Young. Amber Jean che apre il disco fu scritta per la figlia appena nata dal suo rapporto con compagna Pegy. Le altre sono il country-walzer guidato dal violino Let your fingers do the walking, il blues di Soul of a woman, Nothing is perfect e la gemma Grey Riders.
Grey Riders è un piccolo capolavoro rimasto nascosto per troppo tempo, una cavalcata country- elettrica, come se gli International Harvesters incontrassero il garage-rock dei Crazy Horse, con la chitarra elettrica di Young che torna a ruggire, impazzando lungo tutta la canzone.
Completano il set, una bella e tirata Are you ready for the country? e l'esecuzione di Flying on the ground is wrong ripresa dal primo omonimo disco dei Buffalo Springfield.
La sbornia country continuò ancora dopo questa serie di concerti con l'organizzazione insieme a Willie Nelson e John Mellencamp del primo Farm Aid, sorta di festival nato per raccogliere fondi da dare alle famiglie dei contadini americani colpiti da una forte crisi economica. Il Farm Aid sopravvive ancora oggi, mentre Neil Young dal 1986 con l'album "Landing on Water" cambiò nuovamente faccia, facendo uscire due tra i suoi peggiori e discutibili dischi (sono certo che attingendo dagli archivi, Young riuscirà a rivalutare anche questo suo periodo artistico).
A opera finita, l'unica recriminazione su questi tesori potrebbe essere la mancata possibilità di aggiungere altre canzoni alle dodici qua presenti (durante quei tour vennero riletti anche tanti suoi classici), ma certamente anche queste compariranno nei prossimi capitoli dei suoi infiniti, mirabolanti e magici archivi.
mercoledì 22 giugno 2011
in RICORDO DI "BIg Man" CLARENCE CLEMONS
Quando gli viene chiesto qual'è il segreto della longevità della band, lui risponde:"Siamo rimasti vivi". Tratto dal libro "Big Man" di Clarence Clemons & Don Reno.(Arcana, 2010)
Questa risposta ad una domanda di un giornalista, Springsteen la diede il 29 Gennaio 2009 durante la conferenza stampa per l'atteso show durante la finale Super Bowl 2009. Bruce era ignaro del destino che colpirà ancora una volta la sua E street Band dopo la perdita di Danny Federici avvenuta nel 2008.
Ignaro lo ero anch'io quando, solo poche settimane fa, avevo finito di leggere l'autobiografia scritta da Clarence Clemons insieme al giornalista Dan Reno. Un libro originale e divertente dove realtà e finzione si mischiano dando come unico risultato: la grande voglia di vivere del sassofonista Clarence. La lettura del libro mi aveva lasciato rinfrancato ed ottimista sulle sue condizioni di salute dopo le ultime operazioni alle ginocchia che lo avevano debilitato, impedendogli grandi movimenti sopra ai palchi di tutto il mondo.
Quando vidi Springsteen per la prima volta era il 1993 durante il tour conseguente all'uscita dei suoi dischi Human Touch e Lucky Town, il divorzio con la E street Band era già avvenuto da parecchio tempo, già le registrazioni di Tunnel Of Love(1987) vedevano i suoi fedeli musicisti comparire in modo alquanto alterno e distaccato. La grande band era un lontano ricordo quella sera di Pasqua, piovosa e fredda, allo stadio Bentegodi di Verona, l'unico supersiste della E Street Band fu il pianista Roy Bittan.
Bisognerà aspettare il 1995 per vedere la E Street Band al completo di nuovo unita, è per la registrazione di alcuni brani che andranno ad inserirsi nel Greatest Hits in programma.
Io, invece, dovrò aspettare un pò di più per gustarmi finalmente il mio piccolo sogno che negli anni settanta infiammò la scena rock americana. Il Tour di Reunion si materializza in Italia in tre date: due in Aprile e una l'11 Giugno del 1999 allo Stadio Ferraris di Genova.
Già il biglietto del concerto sembra promettere bene, riprendendo le sagome di Bruce e Clarence così come avvenne per le foto promozionali di Born To Run nel 1975, foto che vanno aldilà di un semplice scatto artistico per una copertina musicale. Dentro c'era tutta la vita e l'amicizia che li accompagneranno in eterno. L'emozione di vedere quelle due ombre materializzarsi sul palco fu tanta così come il concerto verrà ricordato per la presenza di mamma Adele sopra al palco con il figlio Bruce a ballare una tarantella napoletana suggellandone le origine italiane.
I concerti di Springsteen a cui ho assistito, da quel momento in avanti, furono tanti, ed escludendo la parentesi con la Seeger Session Band, hanno sempre visto la E Street Band al suo fianco, costatandone, purtroppo, anche quanto i componenti della band stessero invecchiando sempre più, sfigurando se paragonati all'eterno vigore del Boss e chiedendomi cosa c'era di tanto sbagliato? Era Bruce un eterno ragazzo o il resto della band è stato colpito da improvvisa vecchiaia.
Anche Clemons aveva limitato sempre più i suoi interventi e i suoi movimenti sul palco, nonostante Springsteen continuasse a presentarlo per ultimo con mirabolante uso di aggettivi e frasi ad effetto , ottenendo sempre il più grande boato della folla e i ringraziamenti commosi di Clarence.
Rimarrà nei miei occhi l'ultimo concerto di Bruce e Clanrence insieme in Italia a Torino il 21 Luglio 2009, un concerto straordinario dove gli acciacchi di Clemons (in verità più in forma che in altre occasioni) passarono in secondo piano, sapientemente nascosti dalla straordinaria prestazione di Springsteen.
Rimarranno i suoi assoli nei dischi di Bruce, del nostro Zucchero e perfino nei solchi Hard Rock della divertentissima Be Cruel to your School dei Twisted Sister e di mille altri artisti ancora, fino alla freschissima uscita di Lady Gaga, superando ogni steccato imposto dai generi musicali.
La notizia del ricovero di Clarence Clemons, avvenuta una settimana prima del decesso, mi aveva fatto crollare tutto l'ottimismo giunto dopo la lettura dell'autobiografia e la sua morte avvenuta il 18 Giugno mi ha subito riportanto a delle immagini contenute nel libro, in particolare quella che immortalava lo speciale sacrario che Clemons era dedito portarsi in scena e che conteneva le foto degli amici scomparsi, tra cui quella di Federici. Mi piacerebbe che quel sacrario continuasse a girare il mondo con una fotografia in più.
"Parlai del mio affetto per Danny e di quanto sarebbe stato rimpianto. Bruce non avrà mai un organista migliore. Danny suonava l'organo per Bruce Springsteen come io suono il sassofono per Bruce Springsteen. Mi commossi, e allora imbracciai di nuovo il sax". Tratto dal libro "Big Man".
Suona ancora Clarence!
lunedì 20 giugno 2011
RECENSIONE: RYAN BINGHAM & the DEAD HORSES Live@Sarnico(BG), 19 Giugno 2011
Nella giornata musicale che passerà tristemente alla storia per la scomparsa del grande "big man" Clarence Clemons, carismatica figura della E-Street Band di Bruce Springsteen, in riva al Lago d'Iseo sbarca un altro premio Oscar.
Il texano Ryan Bingham conferma il trionfo del suo esordio italiano nel gennaio del 2008 al Rolling Stones di Milano, quando inaspettatamente fu accolto da una numerosa schiera di fan, curiosi di vedere all'opera il nuovo sconosciuto talento del folk-rock "americana".
Una serata sicuramente da ricordare che ha coronato una splendida gita intorno ai paesi che delimitano il Lago d'Iseo, sotto un sole che, finalmente , sembra annunciare l'estate.
L'evento, completamente gratuito, rientra nel festival itinerante, Andar per Musica, giunto alla ventisettesima edizione, che animerà molti paesi della bergamasca unendo buona musica e tradizioni locali.Sarnico è situato nella punta più ad Ovest del lago e già durante il pomeriggio per il soundcheck sembra dimostrare interesse verso Ryan Bingham e is suoi Dead Horses. Turisti d'età e giovani fan si mischiano insieme nella piazza xx Settembre, formando una brigada colorata e festosa, mentre solo le sedie posizionate dagli organizzatori davanti al palco sembrano smorzare l'entusiasmo, ma dureranno poco.
Ad aprire il concerto, come già successo in altre occasioni, compare l'amico Liam Gerner, cantautore folk australiano, ormai di casa in Inghilterra. Il biondo e giovane musicista, scopriremo più tardi, coprirà anche il ruolo di chitarrista nella band di Bingham, sostituendo il defezionario Corby Schaub e divenendo a tutti gli effetti il mattatore della serata.
Gerner presenta le canzoni del suo recente cd "All we've done", da solo, in compagnia della sola chitarra, salvo poi essere raggiunto dal batterista e bassista dei Dead Horses. Gerner si fa apprezzare, ricordando la scomparsa di Clarence Clemons e rendendogli omaggio con la sentita esecuzione di I'm on fire di Springsteen.
Velocissimo cambio di palco e Ryan Bingham & the Dead Horses salgono davanti al pubblico di Sarnico, con Liam Gerner nel ruolo di chitarrista. Bingham si ripresenta in Italia da premio oscar, grazie alla fortunata canzone The weary kind, colonna sonora del film Crazy Heart che nel 2010 gli è valsa il famoso riconoscimento, contribuendo a far girare e conoscere il suo nome in tutto il mondo, senza tralasciare la sua comparsa come attore nello stesso film al fianco di Jeff Bridges, che gli potrebbe aprire anche una strada artistica alternativa. Il suo aspetto fisico da "bello e dannato" potrebbe essere d'aiuto.
Il set, contrariamente alla direzione dell'ultimo album Junky Star, è molto elettrico e durante la serata abbiamo assistito a dei buoni duelli chitarristici tra Bingham e Gerner, che non ha fatto rimpiangere il fido Schaub, anzi, ha regalato sano e contagioso entusiasmo
La rauca ed originale voce di Bingham anche dal vivo fa la sua figura e pezzi semi-acustici come la stupenda Southside of Heaven, le nuove Hallelujah e Depression ne esaltano la bellezza e la particolarità. La sezione ritmica dei suoi Dead Horses formata dal batterista Matthew Smith e dal bassista Elijah Ford picchia giù duro nei momenti più rock del set, che ha visto il culmine quando Bingham ha finalmente rotto le fila, invitando tutti ad alzarsi dalle sedie ed avvicinarsi al palco. Da quel momento il concerto ha preso, giustamente, un'altra piega. The Other side, Hard Times, Dylan's Hard Rain, Tell my mother I miss Her So, Bluebird sono solo alcuni dei titoli delle canzoni proposte ad un pubblico oramai conquistato. Anche chi ha visto o ascoltato Bingham per la prima volta, ha sicuramente apprezzato, venendo ammaliato definitivamente alla esecuzione in solitaria della premiata e già citata The Weary Kind, durante l'encore.
Il concerto però non si chiude in tranquillità, ma con due infuocate versioni di Sunshine e Bread and Water che vedono i Dead Horses protagonisti e jammare, divertendo e divertendosi.
Bingham si sta costruendo il suo seguito con cura e calma e la sua prossima calata in Italia , ne sono certo, lo vedrà ancor più protagonista. Per ora godiamoci la brezza di una serata di Texas in riva al lago.
vedi anche RECENSIONE: RYAN BINGHAM-Tomorrowland (2012)
venerdì 17 giugno 2011
RECENSIONE: BLACK LABEL SOCIETY ( The songs remains not the same)
BLACK LABEL SOCIETY The songs remains not the same ( E1 Music, 2011)
Che sotto alla lunga barba rossa da vichingo americano batta un cuore certamente sfinito dagli eccessi, ma anche romantico, lo sapevamo già da parecchio tempo. Zakk Wylde ci ha abituato fin dal suo esordio solista, lontano dal papà adottivo Ozzy Osbourne, quel Pride And Glory, che puzzava di sterco, sudore e sud con armoniche , slide e tutto l'amore per il rock dalla bandiera confederata che usciva prepotente. Così come si distinguevano la grande passione per i Led Zeppelin più bucolici e per il vecchio Neil Young che animavano dischi come "Hangover Music" e "Book of Shadows". Eravamo nel 1993, sono passati 18 anni e Zakk Wylde ha percorso tanta strada nelle polverose highways americane fino ad arrivare all'eccelso "Order of the black" uscito nel 2010.
Proprio da quel disco, che ci restituiva una band nuovamente in forma, prende spunto questo . Una mossa, è bene dirlo, poco chiara commercialmente ma interessante per i completisti ed estimatori del buon Wylde.
Quattro le canzoni riprese da "Order of the black" e risuonate unplugged. Parade of the dead è completamente stravolta e trasformata in una ballad pianistica con aperture orchestrali con cantato e assolo che non smentiscono la bravura di Wylde. Particolarmente riuscite anche Riders of the Damned e Overload. Cambia poco, invece, Darkest days, nata come ballad , perde il piano per acquistare un flavour country/southern ed essere riproposta in due versioni, una con il cantante country John Rich.
Tutto l'amore per i suoi idoli musicali è poi riscontrabile nelle restanti tracce, a partire dal titolo dell'album, storpiatura della zeppeliniana The song remains the same per arrivare alle cover proposte. Non stupise la scelta di pescare nel canzoniere dei Black Sabbath una poco conosciuta Junior's Eyes dall'ultimo album con Ozzy degli anni settanta("Never say die!",1978) o prendere una Helpless di Neil young contenuta nell'epocale "Deja vu" (1970) di CSN & Y. L'amore di Wylde per il cantautore canadese è di vecchia data, ricordo una Heart of Gold come bonus track in suo precedente disco.
Can't find my way home , canzone dei Blind Faith di Eric Clapton e Steve Winwood, già era presente come bonus in una versione di "Order to the Black" e qui viene riproposta.
Stupisce, invece la rilettura di Bridge over troubled water di Simon & Gearfunkel, forse spinto dall'ala emotiva che quest'anno ne festeggia i quarant'anni dall'uscita.
Chiude la strumentale e tradizionale The first Noel, assaggio della bravura chitarristica anche sotto l'albero di Natale.
Un disco di 10 canzoni piacevoli, che poteva essere spalmato come bonus disc in Order of the black, come tra l'altro già fatto in precedenza dai Black Label Society, ma che esce da solo per volere di mercato. L'unica nota negativa di questa operazione.
Che sotto alla lunga barba rossa da vichingo americano batta un cuore certamente sfinito dagli eccessi, ma anche romantico, lo sapevamo già da parecchio tempo. Zakk Wylde ci ha abituato fin dal suo esordio solista, lontano dal papà adottivo Ozzy Osbourne, quel Pride And Glory, che puzzava di sterco, sudore e sud con armoniche , slide e tutto l'amore per il rock dalla bandiera confederata che usciva prepotente. Così come si distinguevano la grande passione per i Led Zeppelin più bucolici e per il vecchio Neil Young che animavano dischi come "Hangover Music" e "Book of Shadows". Eravamo nel 1993, sono passati 18 anni e Zakk Wylde ha percorso tanta strada nelle polverose highways americane fino ad arrivare all'eccelso "Order of the black" uscito nel 2010.
Proprio da quel disco, che ci restituiva una band nuovamente in forma, prende spunto questo . Una mossa, è bene dirlo, poco chiara commercialmente ma interessante per i completisti ed estimatori del buon Wylde.
Quattro le canzoni riprese da "Order of the black" e risuonate unplugged. Parade of the dead è completamente stravolta e trasformata in una ballad pianistica con aperture orchestrali con cantato e assolo che non smentiscono la bravura di Wylde. Particolarmente riuscite anche Riders of the Damned e Overload. Cambia poco, invece, Darkest days, nata come ballad , perde il piano per acquistare un flavour country/southern ed essere riproposta in due versioni, una con il cantante country John Rich.
Tutto l'amore per i suoi idoli musicali è poi riscontrabile nelle restanti tracce, a partire dal titolo dell'album, storpiatura della zeppeliniana The song remains the same per arrivare alle cover proposte. Non stupise la scelta di pescare nel canzoniere dei Black Sabbath una poco conosciuta Junior's Eyes dall'ultimo album con Ozzy degli anni settanta("Never say die!",1978) o prendere una Helpless di Neil young contenuta nell'epocale "Deja vu" (1970) di CSN & Y. L'amore di Wylde per il cantautore canadese è di vecchia data, ricordo una Heart of Gold come bonus track in suo precedente disco.
Can't find my way home , canzone dei Blind Faith di Eric Clapton e Steve Winwood, già era presente come bonus in una versione di "Order to the Black" e qui viene riproposta.
Stupisce, invece la rilettura di Bridge over troubled water di Simon & Gearfunkel, forse spinto dall'ala emotiva che quest'anno ne festeggia i quarant'anni dall'uscita.
Chiude la strumentale e tradizionale The first Noel, assaggio della bravura chitarristica anche sotto l'albero di Natale.
Un disco di 10 canzoni piacevoli, che poteva essere spalmato come bonus disc in Order of the black, come tra l'altro già fatto in precedenza dai Black Label Society, ma che esce da solo per volere di mercato. L'unica nota negativa di questa operazione.
lunedì 13 giugno 2011
RECENSIONE: SEASICK STEVE (You can't teach an old dog new tricks)
SEASICK STEVE You can't teach an old dog new tricks (Play it again Sam, 2011)
La foto di copertina, la lunga dedica interna e il titolo del disco dicono tutto o quasi di un personaggio, perchè tale si tratta , come Seasick Steve. Il vecchio cane dallo sguardo malinconico e conquistatore si chiama TWM( per la serie: date un nome corto al vostro amico a quattro zampe), ha dodici anni ed è stato trovato in una strada nel South Wales. Steven Gene Wold, ha settant'anni e si fa chiamare Seasick Steve(pare, solo perchè soffra il mal di mare) è in pista dagli anni sessanta, ma solamente da otto anni ha iniziato ad incidere dischi. In mezzo c'è tutta una vita passata a lavorare nel retrobottega della musica come produttore e tecnico del suono ma sopratutto, a girovagare per il mondo come un solitario hobo guadagnandosi la pagnotta ai marginai delle strade, raccimolando il poco necessario.
Seasick Steve è lo sguardo penetrante di quel bastardo incrocio tra un labrador ed un collie. Due occhi che hanno visto la fame e che vogliono godersi la meritata vecchiaia con i pochi soldi che stanno entrando, grazie alla piccola fama che si sta guadagnando in questi ultimi anni e che non hanno, certamente, cambiato la sua visione di vita. Le canzoni parlano per lui.
Che stia suonando nell'angolo adibito a "pisciatoio" di una metropolitana o ospite di una trasmissione televisiva del sabato sera, il buon vecchio Steve, sfoggia con orgoglio la sua collezione di vecchie chitarre, costruite e riadattate da lui stesso, tanto che ognuna di loro merita una foto personale nel libretto del disco. E' un suo vanto personale.
Un vecchio zio dalle mille storie da raccontare che suona come un punk rocker immerso nelle acque del Mississipi. "Non puoi insegnare nuovi trucchi ad un vecchio cane", accettatemi così come sono, ne ho già viste troppe in vita che nulla più mi sorprende . Come non accettare e prendere in simpatia un tizio settantenne con un cappello verde recante la scritta dei trattori John Deere in testa, lunga barba bianca, camicia di flanella e tatuaggi.
Canzoni che ammagliano come l'iniziale Treasures,un sospiro, voce bassa(alla Mark Lanegan, tanto per intenderci), chitarra, banjo e violino suonato da Georgina Leach o che ti stordiscono come la torrenziale titletrack, un blues grezzo, senza fronzoli, chitarra, basso e batteria. Quando poi un certo John Paul Jones( Led Zeppelin) decide di prestare il suo servizio in 3 canzoni, suonando basso e mandolino, il nome d'arte del vecchio Steve, avrà ancor più possibilità di uscire dalla Norvegia, paese dove ha scelto di fermarsi in questo ultimo decennio.
Blues elettrico e scarno fino all'osso quello proposto da Seasick Steve. Burnin'up è un mantra blues per sola chitarra e batteria da far invidia ai the Black Keys, mentre I don't know why she love me but she do suonata con la stupenda cigar box guitar ti fa tenere il tempo fino alla fine.
La scassatissima e vissuta chitarra a tre corde Trance Wonder( eh sì, ogni chitarra ha il suo nome) guida un blues quasi zeppeliniano con il basso di John Paul Jones e la batteria del fedele amico Dan Magnusson pronti a seguirlo.
L'altra faccia del disco, sono le canzoni in solitaria come Underneath a blue and cloudless sky, voce arruginita e banjo per un folk dove l'amore vince sulla miseria e la vecchiaia che avanza o come in What a way to go amara quanto sarcastica canzone su una vita di un qualsiasi comune mortale passata a lavorare, non certo la sua.
Whiskey e bevute le protagoniste di Whiskey ballad, lieve e leggera apoteosi al liquore, scritta e suonata con uno dei figli( tutti aiutano papà in questo disco) e Party.
Che per il buon Seasick Steve, la vita vada vissuta fino alla fine è quasi un credo ribadito e cantato nella nervosa Days gone mentre nella finale e corale Long Long way, ringrazia tutti coloro che ascoltano la sua musica con una ballad che ricorda tanto l'ultimo Johnny Cash.
Se vi piaciono i perdenti, se avete ascoltato almeno una volta il povero e compianto Calvin Russell, date una chanche ad un settantenne, pieno di voglia di vivere, ricordatevi solo del suo nome d'arte e di non farlo mai salire in barca con voi per una battuta di pesca, Steve apprezzerà fino ad un certo punto.
vedi anche RECENSIONE: DAVE ARCARI-Nobody's Fool (2012)
vedi anche RECENSIONE: SEASICK STEVE-Hubcap Music (2013)
La foto di copertina, la lunga dedica interna e il titolo del disco dicono tutto o quasi di un personaggio, perchè tale si tratta , come Seasick Steve. Il vecchio cane dallo sguardo malinconico e conquistatore si chiama TWM( per la serie: date un nome corto al vostro amico a quattro zampe), ha dodici anni ed è stato trovato in una strada nel South Wales. Steven Gene Wold, ha settant'anni e si fa chiamare Seasick Steve(pare, solo perchè soffra il mal di mare) è in pista dagli anni sessanta, ma solamente da otto anni ha iniziato ad incidere dischi. In mezzo c'è tutta una vita passata a lavorare nel retrobottega della musica come produttore e tecnico del suono ma sopratutto, a girovagare per il mondo come un solitario hobo guadagnandosi la pagnotta ai marginai delle strade, raccimolando il poco necessario.
Seasick Steve è lo sguardo penetrante di quel bastardo incrocio tra un labrador ed un collie. Due occhi che hanno visto la fame e che vogliono godersi la meritata vecchiaia con i pochi soldi che stanno entrando, grazie alla piccola fama che si sta guadagnando in questi ultimi anni e che non hanno, certamente, cambiato la sua visione di vita. Le canzoni parlano per lui.
Che stia suonando nell'angolo adibito a "pisciatoio" di una metropolitana o ospite di una trasmissione televisiva del sabato sera, il buon vecchio Steve, sfoggia con orgoglio la sua collezione di vecchie chitarre, costruite e riadattate da lui stesso, tanto che ognuna di loro merita una foto personale nel libretto del disco. E' un suo vanto personale.
Un vecchio zio dalle mille storie da raccontare che suona come un punk rocker immerso nelle acque del Mississipi. "Non puoi insegnare nuovi trucchi ad un vecchio cane", accettatemi così come sono, ne ho già viste troppe in vita che nulla più mi sorprende . Come non accettare e prendere in simpatia un tizio settantenne con un cappello verde recante la scritta dei trattori John Deere in testa, lunga barba bianca, camicia di flanella e tatuaggi.
Canzoni che ammagliano come l'iniziale Treasures,un sospiro, voce bassa(alla Mark Lanegan, tanto per intenderci), chitarra, banjo e violino suonato da Georgina Leach o che ti stordiscono come la torrenziale titletrack, un blues grezzo, senza fronzoli, chitarra, basso e batteria. Quando poi un certo John Paul Jones( Led Zeppelin) decide di prestare il suo servizio in 3 canzoni, suonando basso e mandolino, il nome d'arte del vecchio Steve, avrà ancor più possibilità di uscire dalla Norvegia, paese dove ha scelto di fermarsi in questo ultimo decennio.
Blues elettrico e scarno fino all'osso quello proposto da Seasick Steve. Burnin'up è un mantra blues per sola chitarra e batteria da far invidia ai the Black Keys, mentre I don't know why she love me but she do suonata con la stupenda cigar box guitar ti fa tenere il tempo fino alla fine.
La scassatissima e vissuta chitarra a tre corde Trance Wonder( eh sì, ogni chitarra ha il suo nome) guida un blues quasi zeppeliniano con il basso di John Paul Jones e la batteria del fedele amico Dan Magnusson pronti a seguirlo.
L'altra faccia del disco, sono le canzoni in solitaria come Underneath a blue and cloudless sky, voce arruginita e banjo per un folk dove l'amore vince sulla miseria e la vecchiaia che avanza o come in What a way to go amara quanto sarcastica canzone su una vita di un qualsiasi comune mortale passata a lavorare, non certo la sua.
Whiskey e bevute le protagoniste di Whiskey ballad, lieve e leggera apoteosi al liquore, scritta e suonata con uno dei figli( tutti aiutano papà in questo disco) e Party.
Che per il buon Seasick Steve, la vita vada vissuta fino alla fine è quasi un credo ribadito e cantato nella nervosa Days gone mentre nella finale e corale Long Long way, ringrazia tutti coloro che ascoltano la sua musica con una ballad che ricorda tanto l'ultimo Johnny Cash.
Se vi piaciono i perdenti, se avete ascoltato almeno una volta il povero e compianto Calvin Russell, date una chanche ad un settantenne, pieno di voglia di vivere, ricordatevi solo del suo nome d'arte e di non farlo mai salire in barca con voi per una battuta di pesca, Steve apprezzerà fino ad un certo punto.
vedi anche RECENSIONE: DAVE ARCARI-Nobody's Fool (2012)
vedi anche RECENSIONE: SEASICK STEVE-Hubcap Music (2013)
venerdì 10 giugno 2011
RECENSIONE: EDDIE VEDDER( Ukulele Songs)
EDDIE VEDDER Ukulele Songs (Monkeywrench Records, 2011)
Già sembra di sentirle le voci dei maligni, nascosti dietro le fronde che danno sulla spiaggia, dicono che Eddie Vedder, queste canzoni poteva tenersele per sè o come minimo continuare a suonarle lì , la sera davanti al fuoco in compagnia del suo ukulule e dei pochi fidati amici, dopo aver trascorso la giornata a surfare le grandi onde del pacifico. Ma chi sono questi maligni? Sicuramente non hanno provato ad entrare nella profondità di certi testi che solo lo scarno accompagnamento di una "bizzaria rivalutata" come l'ukulele riesce a far risaltare, altrimenti persi nel marasma di un qualsiasi palco occupato da un impianto rock.
Perchè le 16 canzoni( anche i 9 secondi di Hey Fahkah) sono un grido di sopravvivenza che non ha bisogno di troppo rumore per essere amplificato. Una rivendicazione di vita dopo qualcosa che è andato storto, un invito a proseguire, più forti di prima.
E' inutile nasconderlo, Vedder mette in musica la solitudine in prima persona, quella stessa solitudine contenuta in Into the Wild. Mentre nella colonna sonora del film era cercata dal protagonista del film e raccontata in terza persona sul disco, con il finale che tutti conosciamo, ora deriva da un divorzio amaro e tocca Vedder a nervo scoperto.
Ukulele songs non è disco improvvisato ma costruito negli anni , un pò bui e travagliati vissuti dal cantante di Seattle. Canzoni nate e messe da parte, da far uscire ad acque nuovamente quiete.
Quel momento è arrivato, Vedder ha ritrovato la serenità affettiva dopo aver smarrito se stesso e Ukulele songs suona come un disco esorcizzante con dei ricordi che non vanno buttati in pasto alle onde ma tenuti in considerazione e chiudere per sempre in un disco, per proseguire più forti di prima. Parole di rassegnazione e rivincita, chiare, escono da Sleeping by myself, Broken Heart, Without you, ricordi di una vita( ...non per sempre) passata in due, duri a morire in Goodbye fino a rivedere la luce (Light Today) con il rumore dell'oceano in sottofondo e una canzone del 1929 come More than you know che si inserisce alla perfezione tra i testi autografi di Vedder. Perchè Ukulele songs è fatto anche di cover "datate" e misconosciute come Once in a while(1937),Tonight you belong to me(1926), Dream a little dream of me(1930) e più recenti e conosciute come Sleepless Nights degli Everly Brothers e la sua Can't Keep, presente in Riot Act dei Pearl Jam, qui rivisitata con l'ukulele e posta ad apertura del disco.
Se i maligni dietro le fronde cercano sorprese, ne troveranno poche e presenti solamente in Longing to belong dove compare il violoncello suonato da Chris Worswich e dalle voci di Chan Marshall( aka Cat Power) in You belong to me e Glen Hansand(the Frames) in Sleepless Nights.
Un diario privato, reso pubblico, un sogno(quello di suonare un intero disco con l'Ukulele) che si è avverato, una profondità che a prima vista spaventa ma che con un buon spirito di immedesimazione può essere raggiunta e dire molto di più degli ultimi lavori( di mestiere) targati Pearl Jam.
I maligni sono avvisati, ora si può tornare in spiaggia a far festa, tutti invitati da Eddie.
Già sembra di sentirle le voci dei maligni, nascosti dietro le fronde che danno sulla spiaggia, dicono che Eddie Vedder, queste canzoni poteva tenersele per sè o come minimo continuare a suonarle lì , la sera davanti al fuoco in compagnia del suo ukulule e dei pochi fidati amici, dopo aver trascorso la giornata a surfare le grandi onde del pacifico. Ma chi sono questi maligni? Sicuramente non hanno provato ad entrare nella profondità di certi testi che solo lo scarno accompagnamento di una "bizzaria rivalutata" come l'ukulele riesce a far risaltare, altrimenti persi nel marasma di un qualsiasi palco occupato da un impianto rock.
Perchè le 16 canzoni( anche i 9 secondi di Hey Fahkah) sono un grido di sopravvivenza che non ha bisogno di troppo rumore per essere amplificato. Una rivendicazione di vita dopo qualcosa che è andato storto, un invito a proseguire, più forti di prima.
E' inutile nasconderlo, Vedder mette in musica la solitudine in prima persona, quella stessa solitudine contenuta in Into the Wild. Mentre nella colonna sonora del film era cercata dal protagonista del film e raccontata in terza persona sul disco, con il finale che tutti conosciamo, ora deriva da un divorzio amaro e tocca Vedder a nervo scoperto.
Ukulele songs non è disco improvvisato ma costruito negli anni , un pò bui e travagliati vissuti dal cantante di Seattle. Canzoni nate e messe da parte, da far uscire ad acque nuovamente quiete.
Quel momento è arrivato, Vedder ha ritrovato la serenità affettiva dopo aver smarrito se stesso e Ukulele songs suona come un disco esorcizzante con dei ricordi che non vanno buttati in pasto alle onde ma tenuti in considerazione e chiudere per sempre in un disco, per proseguire più forti di prima. Parole di rassegnazione e rivincita, chiare, escono da Sleeping by myself, Broken Heart, Without you, ricordi di una vita( ...non per sempre) passata in due, duri a morire in Goodbye fino a rivedere la luce (Light Today) con il rumore dell'oceano in sottofondo e una canzone del 1929 come More than you know che si inserisce alla perfezione tra i testi autografi di Vedder. Perchè Ukulele songs è fatto anche di cover "datate" e misconosciute come Once in a while(1937),Tonight you belong to me(1926), Dream a little dream of me(1930) e più recenti e conosciute come Sleepless Nights degli Everly Brothers e la sua Can't Keep, presente in Riot Act dei Pearl Jam, qui rivisitata con l'ukulele e posta ad apertura del disco.
Se i maligni dietro le fronde cercano sorprese, ne troveranno poche e presenti solamente in Longing to belong dove compare il violoncello suonato da Chris Worswich e dalle voci di Chan Marshall( aka Cat Power) in You belong to me e Glen Hansand(the Frames) in Sleepless Nights.
Un diario privato, reso pubblico, un sogno(quello di suonare un intero disco con l'Ukulele) che si è avverato, una profondità che a prima vista spaventa ma che con un buon spirito di immedesimazione può essere raggiunta e dire molto di più degli ultimi lavori( di mestiere) targati Pearl Jam.
I maligni sono avvisati, ora si può tornare in spiaggia a far festa, tutti invitati da Eddie.
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