mercoledì 15 dicembre 2010
PLAYLIST:top 20 DISCHI ITALIANI 2010
Esordio per la super band formata dagli ex Ritmo Tribale e Xabier Iriondo(ex Afterhours)un mix perfetto tra l'alt rock italiano dei '90 e richiami alla no wave 70/80. Recensione http://enzocurelli.blogspot.com/2010/09/no-guru-recensione-milano-original.html
Intervista http://www.impattosonoro.it/2010/10/04/interviste/intervista-ai-no-guru/
2 SAMUEL KATARRO The Halfduck Mystery
Dopo l'esordio votato al blues "solitario", Alberto Mariotti(il suo vero nome) ritorna con un disco che strizza l'occhio alla psichedelia dei '60. Non fosse italiano sarebbe già da prima pagina!
Recensione http://enzocurelli.blogspot.com/2010/06/samuel-katarroda-robert-johnson-alla.html
3 MASSIMO VOLUME Cattive Abitudini
Clementi e soci si riformano e si ripresentano con un disco "pensante". Come se non se ne fossero mai andati. Fausto e Litio due tra le migliori canzoni italiane dell'anno!!
4 IL PAN DEL DIAVOLO Sono all'osso
E' stato uno dei primi dischi usciti in questo 2010, ma già si candidava tra le migliori uscite dell'anno. Il duo acustico siciliano è travolgente nella sua estrema semplicità. Tra Rock'n'roll e cantautorato folk. Recensione http://www.impattosonoro.it/2010/02/03/recensioni/pan-del-diavolo-sono-allosso
5 STRANA OFFICINA Rising to the call
Nei primi anni ottanta sono stati i portabandiera del metal italiano e solo il triste incidente che ha portato via i fratelli Cappanera ne ha interrotto la marcia. Risentire la band toscana a questi livelli è un gran piacere. Tra passato e moderno presente.
6 ARDECORE San Cadoco
Dopo gli stornelli romani in chiave rock e un premio Tenco, vincono ancora la sfida con un progetto ambizioso ma perfettamente riuscito. Due dischi, il bianco e il nero, l'uomo e la donna, l'amore e l'odio. Recensione http://www.impattosonoro.it/2010/12/17/recensioni/ardecore-san-cadoco/
7 WIND Walkin' on a new direction
In Italia abbiamo uno dei migliori gruppi di Hard-blues europei. Da Udine all'America il passo sembra essere davvero breve.
8 AFRICA UNITE Rootz
Da trent'anni sono il gruppo "reggae italiano". Questo loro ritorno alle radici rappresenta anche uno dei loro migliori e più completi dischi di sempre. Recensione http://www.impattosonoro.it/2010/04/22/recensioni/africa-unite-rootz/
9 CALIBRO 35 Ritornano quelli di...
Ritornano quelli di...un side-project che è diventato un vero e proprio gruppo e sta facendo pure scuola con i suoi suoni presi dai film polizieschi degli anni settanta.
10 EDDA In Orbita
L'anno scorso, lo spettacolare ed inatteso ritorno con Semper biot, quest'anno c'è stata la riconferma suonando in giro per l'Italia e con un ep live creato come omaggio all'autore. Splendida la cover di Suprema di Moltheni. Recensione http://www.impattosonoro.it/2010/09/23/recensioni/edda-in-orbita/
11 BACHI DA PIETRA Quarzo
Recensione http://www.impattosonoro.it/2010/11/01/recensioni/bachi-da-pietra-quarzo/
12 THUNDERSTORM Nero Enigma
13 BARNETTI BROS BAND Chupadero!
14 I LUF Flel
15 MARLENE KUNTZ Ricoveri virtuali e sexy solitudini
16 PAOLO CONTE Nelson
Recensione http://enzocurelli.blogspot.com/2010/11/dischi-in-ascolto-recensioni-di-elton.h
17NINA ZILLI Sempre lontano
18 MASSIMO PRIVIERO Rolling Live
19 IO? DRAMA Da consumarsi entro la fine
20 EVASIO MURARO O tutto o l'amore
21 MINISTRI Fuori
lunedì 6 dicembre 2010
BRUCE SPRINGSTEEN:recensione THE PROMISE, The Darkness on the edge of town STORY
Ci sono ricordi indelebili legati alla musica che ci si porta dietro per tutta la vita, ricordi che ciclicamente ritornano quando una canzone viene ascoltata, una copertina viene riguardata, analizzata per la millesima volta. Una vecchia cassetta a nastro raffigurante un giovane Springsteen, con i capelli arruffati, che posa davanti a delle persiane, una foto quasi rubata di prima mattina appena dopo il risveglio, un'istantanea che sembrava emanare odor di caffè e urgenza di riniziare una giornata dopo aver speso la nottata in studio di registrazione.
Viaggi in autastrada con quella cassettina protagonista, quando l'inglese era ancora una lingua marziana, ma le canzoni dicevano già tutto senza troppe analisi testuali. Quando la A4 diventava la mia Route 66 e i genitori fedeli compagni di viaggio, con le soste per il rifocillamento che diventavano l'anticamera di un nuovo ed ennesimo ascolto di quella musica. Forse, inconsciamente, si sognava già e quella raccolta di canzoni iniziava a prendere possesso di un posto importante che ancora occupa.
Per chi ha sempre considerato Darkness on the edge of town il picco lirico -musicale di Springsteen e la sua E-street band, questo cofanetto è pura manna dal cielo e godimento assoluto. Il disco uscito nel 1978 è stato il più sofferto e lavorato ed il poter avere in un solo colpo una visione totalitaria su tutto ciò che successe in quegli anni che vanno dal successo immediatamente dopo l’uscita di Born to run, comprese le due famose copertine contemporanee, datate 27 Ottobre 1975, sui due più grandi giornali statunitensi , Time e NewsWeek, fino al tour liberatorio e storico che lo traghettò verso gli anni ottanta e il doppio The River. Cinque anni pieni di fama, illusioni, cadute, battaglie, testardaggine e rivincite.
Il “futuro del rock’n’roll” di inizio anni settanta sembrava, in pochi attimi, azzerato e destinato a finire prestissimo con il rischio di diventare meteora, per colpa dell’assurda legge di mercato che si materializza nella persona che principalmente era un amico, il suo produttore e manager Mike Appel. La causa legale che lo tenne lontano da studio di registrazione e palchi, fu lo scatto di carriera che portò Springsteen ad essere quello che ancora è oggi.
Dal punto di vista musicale, molto è contenuto in questo box che raccoglie l’originale The Darkness On The Edge of Town ,rimasterizzato, più due cd raccolti sotto il titolo The Promise, che includono ventun canzoni delle circa settanta che Springsteen scrisse per questo album, mettendo a nudo una prolificità di scrittura impressionante. Darkness è un disco crudo, freddo e notturno, dove l’amore è marginale e per la prima volta compaiono personaggi che saranno i protagonisti delle canzoni di Springsteen da quel momento in avanti. Personaggi che sembrano arrivati al bivio della loro vita, persi dentro alla loro routine da working class hero e qui compare, per la prima volta, la figura paterna: nell’autobiografica Factory, dove la figura dell’operaio che varca il cancello dell’azienda di prima mattina sotto la pioggia ed espone il suo fisico a rischio, tutti i giorni, uno uguale all’altro, giorni di vita e lavoro, non è altro che suo padre, operaio come tanti. O come nella dura e cruda, sia musicalmente che testualmente, Adam raised a cain.
La speranza nascosta dentro a canzoni come Badlands. L’impressione di perdere grande parte della propria vita ad aspettare, un tempo sprecato che necessita di una speranza che un giorno possa elevare e portarti lontano dai bassifondi in cui si vive il presente.
THE PROMISE (2 CD)
The Promise, nelle sue ventuno canzoni (ventidue se si considera la ghost track The Way) non è altro che una piccola parte degli innumerevoli brani scartati dalla scaletta ufficiale di Darkness. Durante le session vennero registrate qualcosa come settanta canzoni, solo dieci vennero incluse nel disco, le altre vennero messe da parte. Alcune vennero riprese per i successivi dischi, altre videro la luce per la prima volta nel monumentale Tracks.
Bruce mise da parte canzoni che secondo la sua coscienza non rispecchiavano il “tema” lirico e musicale che Darkness aveva assunto. Canzoni troppo pop per farne parte. Molte, d’amore, stridevano se confrontate alla durezza e cinicità delle dieci prescelte, altre come la stupenda The Promise, vennero considerate dei doppioni. Insomma, alcune perle, inspiegabilmente, non trovarono mai la loro collocazione su disco, pur venendo rappresentate e suonate durante i live, venendo, nel tempo, oggetti ricercattissimi dai fan.
In modo inspiegabile, anche da chi era molto vicino a Bruce, The Promise (la canzone), inizialmente considerata scomoda per via di alcuni riferimenti alla vicenda Appel, il rock’n’roll di Fire che sembrò scritta per re Elvis, Because the night, incisa e completata da Patti Smith, Candy’s boy, Save my love, Talk to me, Spanish eyes vengono allo scoperto solo oggi ma lasciano intendere che gli archivi di quel periodo hanno ancora moltissimo materiale da offrire. Alcune non sono altro che alternate- track di canzoni che finirono tra le dieci elette: Racing in the Street ('78), Come on (Let's go tonight) svelando il lavoro impressionante e la cura di Springsteen verso ogni canzone. Arrivaò anche a scrivere cinquanta versioni diverse per ogni brano.
DVD1
The Promise, the making of Darkness on the erge of town
Questo film-documentario, presentato anche al festival romano questo autunno e che ha visto la presenza di Springsteen in passerella e durante la proiezione della prima, sostanzialmente si basa sulle riprese amatoriali ed in bianco e nero fatte in studio da Barry Rebo. Il compito di assemblare il tutto e tirarne fuori un film con interviste ai protagonisti di allora è affidato al regista Thom Zimmy.
La storia dell’album viene documentata e narrata in modo scorrevolissimo ed alcune scene rendono l’idea delle difficoltà che portarono alla realizzazione di Darkness. Il rapporto con Appel, l’affidamento del lavoro al nuovo produttore John Landau (che definisce il suono del disco "nero come il caffè") con la supervisione di Van Zandt(spassosissime alcune scene che lo ritraggono insieme al "boss" ad accennare per la prima volta quelle che in seguito diverranno le canzoni del disco) , la tenacia e il perfezionismo quasi maniacale di Springsteen in studio, le difficoltà incontrate dalla band nella ricerca del suono giusto ( le particolari ossessioni di Springsteen sul suono della batteria, "stick...stick...stick", amava ripetere fino alla nausea). Il problema di una nuova collocazione per il sax di Clemons, un pò sacrificato in questo disco, l'amore/odio dei compagni di band verso il quaderno di appunti di Bruce(fedelmente riprodotto e scrigno dell'intera opera), la storia della stesura di Because the night e l'intervento provvidenziale di Patti Smith.
Il nascente punk e l'incontro con il country di Hank Williams, cruciali per la direzione stilistica delle canzoni, le sessions fotografiche per la scelta della copertina e poi, i pareri di tutti i protagonisti che hanno lavorato all'album, musicisti e tecnici. Un quadro totalitario per capire la genesi dell'opera.
DVD2
Live Paramount Theatre, Asbury Park 2009.
Springsteen e la E-Street Band risuonano fedelmente l'intera scaletta di "Darkness on the edge of town". Una dimostrazione che, dopo trent'anni, la potenza e la precisione della band sono rimaste intatte ed immutate e che gli acciacchi del tempo non hanno scalfito la passione.
Thrill Hill vault 1976-1978
Raccolta di vecchi filmati, a volte sgranati e in bianco e nero, in studio e live, testimoni di quegli anni.
DVD3
Thrill Hill vault Houston '78 bootleg:house cut
176 minuti di concerto, una maratona che testimonia chi era Springsteen dal vivo in quegli anni. Un intero concerto a rappresentare il miglior tour di sempre. La popolarità di Springsteen iniziava ad essere troppo stretta se confinata ai piccoli teatri. Si spalancano, per la prima volta, le grandi arene che diverranno gli stadi e le folle degli anni ottanta. Iniziano a circolare le voci sulle grandi e famigerate maratone rock di Bruce e la sua band, capaci di suonare concerti titanici dalla durata di quattro ore. Una setlist strepitosa, che include anche canzoni che faranno parte del successivo lavoro "The River" e suonate in anteprima (Independence day, The ties that bind, Point blank), la stupenda versione live di Because the night che annienta l'originale di P.Smith, le divertite covers del Detroit medley, Quarter to three e lo spiritoso siparietto natalizio di Santa Claus is comin' to town.
giovedì 2 dicembre 2010
DISCHI IN ASCOLTO: recensioni di VOLBEAT(Beyond Hell, Above Heaven) GIANT SAND(Blurry blue mountain)
I danesi Volbeat sono il classico gruppo in grado di mettere d'accordo tutti i fruitori di musica rock. Dall'ascoltatore di mainstrean rock, passando dal metallaro più intransigente fino ai fan del punk. La loro formula è quanto di più semplice ci possa essere, partendo da un punk rock debitore dei migliori Misfits anni ottanta, soprattutto nella voce del cantante Michael Schon Poulsen, un esplosivo mix tra Danzig e James Hetfield(periodo Load), il suono tocca il country americano dell'idolo Cash, fino a sfociare nei riff thrash metal in canzoni dall'alto potenziale rock'n'roll vicine alle polveri delle strade americane raccontate dai Social Distorsion.
Il quarto capitolo non si sposta da quanto già proposto in precedenza, viaggiando dritto come un fulmine con la sua musica divertente e con un piede nellla mitologia del rock'n'roll anni '50.
Dalla pesantezza di pezzi come Who they are, 7 Shots, che inganna con la sua intro western per trasformarsi in una metal song quasi maideniana con Mille Petrozza dei Kreator come guest vocalist e Evelyn, Thrash tout-court con le vocals growl di Barney dei Napalm Death. Passando per veloci punk quali A better believer e canzoni vicine al rockabilly come 16 Dollars e Being 1 o al blues come in Heaven nor Hell, con tanto di armonica.
C'è posto perfino per A warrior's call un pesante inno scritto per il pugile danese Mikkel Kessler, probabilmente idolo in patria.
Disco, forse, un gradino inferiore ai precedenti, che ha l'unica colpa di non sorprendere più come le prime uscite ma che comunque centra l'obiettivo di svago che si è prefissato.
GIANT SAND Blurry blue mountain(Fire records, 2010)
Ascoltare i Giant sand , durante le prime giornate di neve invernale può essere un bellisimo surrogato al camino di casa. La band di Howe Gelb , unico superstite dell’originale formazione che negli anni ottanta diede l‘imput alll‘alt-country statunitense, tocca il ragguardevole traguardo dei 25 anni di carriera con un disco bello e rassicurante sullo stato di salute artistica, sicuramente lontano dai capolavori passati, ma in grado di toccare vette compositive di tutto rispetto.
La voce di Gelb, profonda ed intimistica e le atmosfere rarefatte dipingono paesaggi non poco lontani dall’immagine di copertina. Un’America spoglia e desertica, fatta di lunghe distese di praterie, dove la calma viene di volta in volta spezzata da raffiche di vento che alzano polvere e terra. Così come nel disco la lentezza di ballate folk sono squarciate da lampi e riverberi di chitarre.
Canzoni autobiografiche come l’iniziale Fields of green, la vita che scorre in tutte le sue fasi e i suoi spazi e proprio il tempo che scorre e la capacità di coglierne gli attimi sembrano ripetersi spesso(The fast one) durante il disco. L’aver sempre vissuto a Tucson in Arizona è sicuramente fonte di ispirazione per la musica di Gelb supportato dai suoi nuovi musicisti europei.
I sette minuti di Monk’s mountain sono sicuramente uno dei perni del disco, con il suo affresco di natura incontaminata , parte intima e soffusa per chiudersi con una chitarra elettrica vicina ai territori di Neil Young. Ride the rail si regge sull’epicità perduta del vecchio west, una canzone che Johnny Cash avrebbe fatto volentieri sua. Tra ballate pianistiche ed intime come Love a loser, Chunk of coal e Time Flies, spiccano le elettriche Thin line man e Brand new soap thing, che come il vento si abbattono su uno dei migliori dischi di fine anno.
giovedì 25 novembre 2010
DISCHI IN ASCOLTO, Recensioni di: ELTON JOHN/LEON RUSSELL, RAY DAVIES, PAOLO CONTE
Le note di copertina di questo disco, scritte da Elton John, parlano chiaro. Questa collaborazione con Leon Russell è il coronamento di un sogno inseguito per 40 anni, da quando lui novello musicista si affacciava nel grande star system musicale e vedeva in Russell un idolo da seguire ed imitare. Gli anni sono passati , Elton è diventato una stella pop miliardaria mentre Russell è rimasto una icona "cult".
Ora che Sir Elton John sembra aver riacquistato la voglia di comporre musica come una volta, i tempi sono maturi per chiamare il suo vecchio idolo e chiedergli una collaborazione e così è stato , via telefono, una serie di coincidenze ha permesso che il sogno si sia tramutato in realtà. Aiutati da T Bone Burnett alla produzione e assodato il gospel come punto di unione tra i due, quello che ne è uscito è uno straordinario disco, registrato in pochissimo tempo ed ispiratissimo. Gospel, blues e country uniti in un'ora di canzoni dove il pianoforte domina sovrano e le voci dei due artisti si confondono e confrontano. Musicisti di prim'ordine ad accompagnarli, da Marc Ribot a Don Was e Jim Keltner. Con alcuni picchi come in Gone to Shiloh dove si unisce a loro Neil Young alla voce. Passando da honk tonk boogie movimentati come Monkey Suit e A dream come true a canzoni dall'umore soul e nero come l'iniziale If it wasn't for bad o Hearts have turned to stone. Un disco fortissimamente voluto e pensato alla vecchia maniera e finalmente qualcosa che può essere equiparato ai grandi dischi degli anni settanta senza sfigurare.
RAY DAVIES See my friends (Universal, 2010)
Mai come in questi ultimi anni, la produzione artistica di un gruppo come i Kinks è stata rivalutata e ridata in pasto al grande pubblico, quasi a dimostrare quanto la band, negli anni sessanta, non avesse nulla da invidiare a Rolling Stones e Beatles. Un grande contributo a tutto ciò è arrivato dallo stesso autore Ray Davies che nel volgere di due anni, fa uscire due compilation delle canzoni del suo vecchio gruppo, riadattate in modo originale. La prima uscita, l'anno scorso, con la rilettura affidata ad un coro da chiesa e questa, grazie all'ausilio di duetti , alcuni riusciti altri un pò meno, con artisti anche agli antipodi tra di loro.
Ascoltiamo così You really got me in compagnia dei Metallica, appensatita ancor più di quanto fecero i Van Halen nel loro primo disco e una Dead end street addolcita dalla nuova star del folk-pop Amy Macdonald. Bisogna riconoscere a quasi tutti gli ospiti di averci messo qualcosa di loro nel riproporre dei classici senza tempo come Bruce Springsteen che fa sua una canzone minore come Better things o come le nuove promesse del folk britannico Mumford & sons in Days/This time tomorrow, a Jackson Browne che dona un tocco di west coast a Waterloo sunset o a un Billy Corgan in forma nella rilettura di All day and all of the night/Destroyer.
Sono della partita tra gli altri anche Mando Diao, Black Francis, Lucinda Williams, John BonJovi e altri tutti da scoprire.
PAOLO CONTE Nelson (Platinum, 2010)
Il ritorno di Conte dopo il poco ispirato Psiche, riappacifica il cantautore con i fans e con il suo vecchio repertorio. Ancora una volta si respirano quelle atmosfere rarefatte di velato jazz e swing care al piemontese, anche se in alcune sporadiche canzoni compaiono alcuni suoni elettronici riconducibili al precedente lavoro.
Conte è esplicito nel dedicare il disco al suo amato cane scomparso, Nelson, appunto e al suo storico produttore Renzo Fantini.
C'è divertimento nel comporre e giocare con le lingue, come mai prima, tanto da scrivere due intere canzoni in inglese come Sarah e Bodyguard for myself, un invito a esplorare meglio in se stessi ed amarsi di più. Enfant prodige e C'est beau sono invece in francese e la seconda è cantata in coppia con Laura Conti .
Atmosfere caraibiche con Los amantes del mambo in spagnolo, mentre in Suonno è tutt'o' suonno si avventura con il dialetto napoletano. Bello il singolo L'orchestrina che evoca antiche immagini e ti si stampa in testa al primo ascolto, così come Clown è amara e cinica nei suoi pochi versi. Un disco che accompagna in punta di piedi con la sua leggiadrezza e in un periodo socio-culturale dove il chiasso e la prevaricazione sono all'ordine del giorno è pura gioia per le orecchie. Direi adatto per iniziare e finire le giornate.
martedì 16 novembre 2010
DISCHI IN ASCOLTO , brevi recensioni di: Ryan Bingham, Bryan Ferry, Skunk Anansie, Kings of Leon, Bob Dylan
Passato recentemente in Italia, Bingham arriva al suo terzo importante disco con il pesante peso di un oscar vinto, per la miglior colonna sonora, dalla sua canzone The Weary Kind contenuta nel film Crazy Heart, dove il nostro ha avuto anche una piccola parte come attore. Proprio da questa canzone sembra partire il nuovo lavoro prodotto da T Bone Burnett. Le canzoni sembrano preferire l'intimità, l'introspezione e il lato acustico, lasciando da parte per un attimo l'anima più elettrica, rock e blues dei precedenti lavori. Ballate che strizzano l'occhio al country, alla polvere del deserto texano e ai grandi sentimenti. Un disco che fa della semplicità la sua forza e che vede Bingham, accompagnato dalla sua fedelissima band, The Dead Horses, ritagliarsi un importante fetta di futuro tra i grandi cantautori americani.
BRYAN FERRY Olympia (Virgin records, 2010)
Dopo l'album di cover dedicato a Dylan, uscito quattro anni fa, ritorna con otto canzoni scritte di proprio pugno e due cover, il dandy del glam rock anni settanta. Presentato in copertina dal volto di Kate Moss, Olympia è un disco di gran mestiere pop che si avvale di numerosissimi ospiti tra cui il bassista Flea presente nel primo singolo You can dance , a David Gilmour, i vecchi compagni Roxy Music al completo nel rifacimento di Tim Buckley , Song to the siren , ai giovani Groove Armada nella danzereccia ed elettronica Shameless. Un disco che conferma l'eleganza musicale di Ferry, senza grandi colpi di scena, tra vecchio glam rock e pop, un piacevolissimo ascolto.
SKUNK ANANSIE Wonderlustre (Carosello records, 2010)
La voglia di reunion voluta fortissimamente dai fans, ha prodotto un lavoro diverso dai precedenti ma che sarà usato come un buon trampolino di lancio per i tour che seguiranno, perchè in fondo è il palco il vero habitat naturale di una leonessa come Skin.
Certamente è l'album meno arrabbiato della band inglese, il rock degli anni novanta, sporadicamente presente come in It's doesn't matter, è sostituito da canzoni più meditate e dilatate, fluidamente pop e mature come il ruffiano singolo di lancio My Ugly Boy. La vena più ribelle sembra essersi persa con l'età ed alcuni dubbi sulla natura della reunion non possono che affiorare.
KINGS OF LEON Come Around Sundown (RCA records, 2010)
Il loro nome campeggia tra i grandi del rock del nuovo millennio, ma questa volta, la band dei fratelli Followill, mi sembra si sia adagiata un pò troppo sul successo del precedente Only By the Night, sfornando un disco senza guizzi, piatto e monocorde come delle ipotetiche giornate trascorse sulla spiaggia ritratta in copertina. Se nel precedente album vi erano delle hit come Sex on fire, su questo vi è calma piatta e nemmeno la pur bella voce di Caleb Followill fa il miracolo. Purtroppo una brutta copia del precedente lavoro che ha i suoi unici punti di interesse quando si spostano sul sound anni '50 di Mary o nel country di Back Down South . Spero di ricredermi con gli ascolti.
BOB DYLAN The Witmark demos:1962-1964-THE BOOTLEGS SERIES vol. 9 (Sony music, 2010)
Gli archivi di Dylan non hanno quasi più segreti dopo l'uscita di questa nona opera. Questa volta si è andati a pescare indietro nel tempo, immediatamente dopo la prima uscita discografica di Dylan(1962). Bob Dylan fu chiamato dalla Witmark, importante casa di edizioni musicali, ad eseguire in modo molto informale,con sola chitarra ed armonica, le proprie canzoni in repertorio in modo da poterle registrare e farle ascoltare ad eventuali altri artisti che le potessero poi incidere in via ufficiale. Dylan ha poco più di vent'anni , ma un bagaglio di canzoni incredibile. Queste canzoni sono state recuperate e date in pasto così come furono registrate, tra colpi di tosse, improvvise interruzioni e rumori di sottofondo. Tra esse almeno 15 vedono per la prima volta la luce, le altre sono comunque le prime bozze di canzoni che entreranno nella storia come Masters of war, Girl from the north country, The time's they are a-changin' e Mr. Tambourine man. Doppio cd con 47 canzoni accompagnate da un prezioso volumetto di 60 pagine contenente la storia di queste registrazioni.
lunedì 8 novembre 2010
FAUST'O : recensione SUICIDIO (1978)
La copertina lascia poco spazio all'immaginazione, il plagio, la citazione, la reverenza verso Heroes di Bowie è palese e poco nascosta.
Il biennio 1977/78 fu di radicale cambiamento per la musica. Non solo di punk si tratta ma una nuova concezione musicale che andrà a pescare le sue influenze nei più svariati mezzi di comunicazione e di costume della società, tutto quello che ne conseguirà diede nuovi sbocchi alla musica, contaminazioni che germoglieranno negli anni a venire.
Anche l'Italia ha i suoi "eroi" del periodo, personaggi che lavoreranno nel sottosuolo cercando di portare nel belpaese quello che in Inghilterra e negli States erano all'ordine del giorno. Echi del duca bianco immerso nel periodo berlinese, di Lou Reed e la scena newyorchese, della nascente scena New Wave e post-punk, in particolar modo degli amati Ultravox!, l'elettronica e della scena glam-rock britannica più decadente come Roxy Music e i suoi leaders maximi Eno e Ferry, sono evidenti ma, con particolare bravura, rivisitati e riveduti in modo del tutto personale,uscendone fuori come incarnazione di una nuova figura da poeta maledetto. Suicidio di Faust'O è forse uno dei migliori esempi e ritratti dell'epoca, i fine anni settanta, anni che riportavano i "fumati" sogni di qualche anno prima con i piedi in terra, dove il no future sbandierato dal punk sembrava profetizzarsi anche troppo presto.
Quello di Faust'O è un ritratto del mondo, amaro e dissacrante, che si prende beffa di tutto e tutti, senza giri di parole e falsi moralismi. Anche se in più occasioni l'autore si dissociò molto da questo suo debutto, arrivando anche a rinnegarlo in alcuni passaggi e metodi di realizzazione, non si può dire che il messaggio di rottura non arrivò forte e chiaro, spontaneo o no che fosse.
Certamente in Italia non si era ancora preparati a sentire certe parole, certi concetti e certe critiche che affondavano il coltello nella ferità in modo così dissacratorio. Forse un album come questo ancora oggi farebbe fatica ad essere accettato e digerito. Il triste destino che se ne parli solo e solamente come un reperto "cult" ne è la testimonianza chiara, mentre dovrebbe, a tutti gli effetti, essere considerato tra i migliori lavori musicali (ancor più, essendo un debutto) usciti in Italia.
Nulla viene risparmiato, le catasfrofi naturali, il sesso, la religione, il mal di vivere, i vizi, le virtù, la ricchezza, la corruzione. Se da una parte dell'Italia c'era un Rino Gaetano che usava ritornelli e ottimi brani di facile presa per far arrivare messaggi "forti" dall'altra c'era Faust'O con le sue liriche concettuali e graffianti e le musiche così spoglie, nervose e nude, quasi fredde e distaccate ma comunque sempre d'impronta pop e a volte quasi teatrali.
Fausto Rossi è friulano di nascita e la citazione del terremoto che colpì il Friuli Venezia Giulia nel 1976 in Suicidio non è casuale .(Sento tutto quello che mi gira intorno è noia, noia, noia. Anche il terremoto adesso mi da solo noia, noia, noia). Faust'O analizza un gesto estremo e finale collegandolo al mal di vivere e al pieno nulla della società circostante tanto da far passare in secondo piano un avvenimento che lo ha coinvolto da vicino.
Faust'O si avvale dell'aiuto in studio di registrazione di Alberto Radius, famoso per il suo ruolo nella band Formula 3, ma soprattutto grande chitarrista e compositore, anche lui mai troppo lodato a dovere e con la produzione di Oscar Avogadro.
I toni teatrali di Godi sono uno sputo in faccia al dilagante perbenismo della società cattolica ed ad un'Italia schiava e repressa dallo Stato Vaticano.
Godi, però di nascosto, nel cesso, nel bosco.
nell'ultimo posto in cui Dio ti vedrà!
No, non farti problemi, nascondi le mani
nel mondo dei nani sei grande anche tu!
E vergognati alla sera mentre dici una preghiera
della voglia di bestialità! (da "Godi")
Vi è poi un attacco esplicito e diretto ai poteri forti, alla ricchezza e alla corruzione derivante e dilagante. I testi di Bastardi e della conclusiva Benvenuti tra i rifiuti, non hanno bisogno di ulteriore spiegazione. Le liriche sono quanto di più crudo ed esplicito si possa chiedere da canzoni di denuncia, il tutto su un tappeto di suoni che cita tanto il post/punk quanto il glam rock inglese.
Quando cade la notte
e i vostri sogni si fanno pesanti
ricchi, poveri politicanti
siete figli della merda
noi scaviamo dentro il buio
vomitiamo sangue sulle vostre verità!
Benvenuti tra i rifiuti
non vi cacceremo via! (da "Benvenuti tra i rifiuti")
Parole scomode che forse mai nessuno osò pronunciare prima in maniera così diretta all'interno di una canzone.
Vi è poi il tentativo di toccare temi tabù e comunque delicati, cercando di portare a galla problemi legati all'infanzia e ai sopprusi morbosi da parte del mondo adulto verso i bambini . Segni da portare dietro come enormi sassi per tutta la vita.
C'è un posto caldo e Piccolo Lord sono due stupende mini operette-pop/rock. Mentre la prima parla di sopprusi e devianze sessuali, la seconda racconta della triste vita di un bimbo prodigio costretto ad allietare le giornate delle amiche di una mamma bene in vista. Ma l'idea di ribellione, nascosta e repressa, scatterà in lui e gli farà compagnia per tutta la vita non senza rimpianti.
Harry!!
suona il piano un po' per noi
su da bravo.
solo un pezzo solo dai!
Harry!!
suona un po' Chopin per noi
guarda com'è bravo
vuole ancora un po' di tè!? (da "Piccolo Lord")
Il mio sesso è un'altra esplicita canzone sul rapporto assai conflittuale tra un uomo e il suo apparato genitale, spesso vera e propria guida spirituale nel bene e nel male dell'essere umano di sesso maschile. A volte prigionieri e vittime di un qualcosa che nemmeno il cervello riesce a controllare e domare. Insomma l'uomo che ragiona con il c***o.
Il mio sesso è spesso solo
mi chiede un po' di aiuto
ma io mi sento solo quanto lui
E' fragile e pauroso
triste e silenzioso
vorrebbe che lo amassi un po' di più.
Spesso ne ho bisogno, mi sfogo su di lui
ho paura che sia il contrario
che sia lui ad usare me (da "Il mio sesso")
Faust'O tiene a battezzo( forse anticipato dal solo Tenco, ma erano altri tempi) ed incarna una nuova generazione di cantautore italiano, decadente e maledetto, poco disposto ed incline a piegarsi alla nascente società consumistica che gli anni ottanta produrranno. La sua visione del mondo è pessimistica e poco disposta a lasciare filtrare raggi di luce positiva. Mette alla berlina incubi e visioni dell'uomo moderno, senza cadere nella banalità ma usando un linguaggio tagliente tra slogan dal forte sapore punk e colpi da teatro burleasque e arraggiamenti fuori dai classici schemi. Un germe del male che si insinua nell'uomo già in giovane età, seminato da un mondo adulto che si rispecchia compiaciuto nell'apparenza e nella finzione e dove il sesso Freudiano fa da spalla ideale. Il bello è che Faust'O continuerà a produrre grande musica già dal successivo passo discografico(Poco Zucchero, 1979) una anno dopo...
martedì 2 novembre 2010
MT. DESOLATION recensione
MT.DESOLATION Mt. Desolation (2010)
Eccovi servito il disco d'autunno, quello ideale per accompagnare serate davanti al calore domestico di un camino o se siete più mondani, davanti ad una o più pinte di birra all'interno del vostro british pub preferito.
Proprio in quest'ultimo ambiente sembra essere nata l'idea di questo supergruppo. Si sa, quando l'alcol entra in circolo , le inibizioni cadono e alcune cose sparate al momento per puro caso possono nascondere verità e certezze assolute. E' successo che i due componenti principali dei Keane, Tim Rice Oxley e Jesse Quin, gruppo derivativo e non certo imprescindibile del brit-pop inglese, quello senza chitarre, per intenderci, buttarono giù l'idea di confrontarsi con un genere come il country-folk. L'idea ha coinvolto amici come Country Winston dei Mumford e sons al banjo, Ronnie Vannucci dei Killers e Tom Hobden dei Noah and the whale, mentre le canzoni sembravano uscire in modo spontaneo, tanto da essere poste al giudizio preventivo del popolo di internet che in poco tempo ne ha decretato il successo. A questo punto il passo dall'idea abbozzata al disco è stato breve, confermando come, spesso, la spontaneità paga più del lavoro studiato a tavolino.
L'atmosfera che si respira in quasi tutto il disco a parte poche eccezioni, è di una musica melanconica e riflessiva, un folk-country alternativo che sembra strizzare più l'occhio al british folk che all'America. Insomma un disco da sbronza triste.
L'apertura potrebbe trarre in inganno con Departure una canzone saltellante e divertita dal forte ritornello pop con la seconda voce di Jessica Staveley Taylor al controcanto che diventa invece protagonista in Another night on my side mentre duetta con Jesse Quin. Echi quasi springsteeniani affiorano da Annie Ford mentre in State of our affairs si viene catapultati lungo le brughiere britanniche evocando onde alte e fredde che si infrangono lungo alte coste scogliere. The "Midnight ghost" è un pigro viaggio nell'America ispirato da i "Vagabondi del Dharma" di Jack Kerouac, romanzo che riprendeva il viaggio di "Sulla strada", ambientandolo però nella natura delle montagne e dei boschi.
Platform 7 è forse la canzone più "americana", un honk-tonk country spedito e svagato che lascia lo spazio ad una My my my, che con la sua armonica cerca di aprire su orizzonti desertici ma che alla fine rimane con il piede ben piantato in terra d'albione e forse questo è la caratteristica che pervade tutto l'album. Non necessariamente negativa ma che anzi rende l'album degno di ascolto e nel suo piccolo originale.
Dello sbandierato country americano in verità vi è molto poco ma quello che ne è uscito è un fresco disco dalle atmosfere rarefatte, intriso di melanconia pop/folk sicuramente in grado di avvolgere l'ascoltatore dentro ad un abbraccio rassicurante da parte di giovani artisti in vacanza (autunnale) dai loro gruppi base.
venerdì 29 ottobre 2010
KEITH RICHARDS esce LIFE, l'autobiografia
Ancora pochi giorni e avremo anche noi italiani sotto il naso l'autobiografia del rocker, la cui filosofia di vita è stata la più venerata e copiata dai milioni di giovani alle prime armi con il rock'n'roll, con l'unica differenza che lui è così, non emula nessuno, sul palco e nella vita di tutti i giorni.
"Sì suonate come me, se lo volete.Ma che senso ha, se l'originale è ancora in giro? Ma non c'è bisogno di muoversi come me e di pettinarsi i capelli allo stesso modo. Io non faccio niente di speciale per essere come sono."(da Rockstar, febbraio 1982)
Uscirà il 3 Novembre per Feltrinelli, Life (530 pagine) l'autobiografia di Keith Richards, 66 anni e tante storie da raccontare, finalmente in prima persona con l'aiuto del giornalista/scrittore James Fox. Dalle prime indiscrezioni, sembra che prometta anche scottanti rivelazioni e confessioni sull'amico e compagno di avventura Jagger, che non sono andate troppo a genio alla grande bocca del rock.
"Provo affetto per Mick, ma non vado a casa sua da una ventina d’anni.E’ davvero insopportabile. A volte, mi dico: ‘Amico mio, mi manchi’. Poi mi chiedo: dove è andato?”(dall'autobiografia in uscita)
Sarà un piccolo viaggio negli ultimi cinquant'anni di rock, dagli inizi legati al blues e agli incontri decisivi per l'avventura musicale degli Stones, gli anni degli arresti e delle droghe, il rapporto con la morte e con i compagni di band, con i nemici/amici Beatles e soprattutto con John Lennon, il successo planetario, i tour, i vizi, il sesso e le donne. Insomma VITA.
lunedì 25 ottobre 2010
BUFFALO SPRINGFIELD Reunion
Le date del 23 e 24 Ottobre scorso saranno ricordate per la reunion di uno dei gruppi storici più importanti apparsi nell'America di fine anni sessanta. I Buffalo Springfield durarono il tempo di tre soli album ma di fatto aprirono strade importantissime per il folk-rock americano che si svilupperà dagli anni settanta in avanti. Originariamente composti da Neil Young, Stephen Stills, Richie Furay, Bruce Palmer e Dawey Martin, si formarono nel 1966 dopo che Young e Palmer a bordo del famosissimo "carro funebre" partirono dal Canada per cercare fortuna a Los Angeles.
Proprio lì incontrano Stills e Furay e fu subito magia a cui si aggiunse il batterista Martin. Dopo le prime esperienze ad aprire i concerti per i Byrds di Crosby, viene registrato il primo album omonimo che mette subito in luce le caratteristiche del gruppo, ovvero l'uso di tre chitarre e la particolare impostazione vocale. I dissidi all'interno della band non tardano ad arrivare un pò per i continui litigi tra i due leader indiscussi del gruppo, Young e Stills e un pò per i vari problemi di droga che toccheranno i componenti a turno.Il primo vero successo commerciale arriverà con un singolo:For What it's worth, scritto da Stills dopo i violenti scontri avvenuti a Los Angeles tra alcuni studenti che manifestavano contro la guerra in Vietnam e la polizia..
Il secondo album Buffalo Springfield Again esce nel 1967 ed è da considerare il loro capolavoro. Spiccano canzoni come Mr.Soul,Broken Arrow scritte da Young , Bluebird e Rock & Roll woman scritte da Stills.
Ma il buon successo dell'album non servirà a placare i problemi interni e di droga. Palmer verrà arrestato innumerevoli volte e sostituito definitivamente al basso da Jim Messina. Il terzo e ultimo album Last time around vedrà la luce nel 1968 ma il gruppo è già sciolto e ognuno dei membri prenderà strade diverse. Young inizierà la sua strepitosa carriera solista, Stills formerà un altro supergruppo con Crosby e Nash, Furay e Messina formeranno i Poco.
Voci di reunion si rincorreranno per quarant'anni , nel frattempo Martin e Palmer sono deceduti.
In questo 2010 succede però l'imprevedibile.
Bridge School Benefit Concert, 23 e 24 Ottobre 2010 Shoreline Amphitheatre, Mountain View, California, USA
Benchè negli anni fu sempre il più fermo e convinto "contrario" alla reunion, sembra proprio che parta da Neil Young l'idea di ritrovarsi su un palco insieme a Furay e Stills per suonare le canzoni dei Buffalo. L'ultima volta che i tre suonarono insieme fu nel 1968 durante il concerto di addio della band alla Long Beach Arena.
42 anni dopo rieccoli con le loro chitarre e con Rick Rosas(basso) e Joe Vitale(batteria) a sostituire gli scomparsi. Il Bridge school Benefit è un concerto annuale organizzato da Young e la moglie Pegi per raccogliere fondi a favore dei bambini disabili. Ad aprire i due concerti, importanti ospiti che hanno duettato con Young, sono stati della partita Pearl Jam, Elvis Costello, Emmylou Harris,Elton John e Leon Russell.
Questa la scaletta del concerto dei Buffalo Springfield:
On The Way Home
Rock & Roll Woman
A Child's Claim To Fame
Do I Have To Come Right Out And Say It?
Go And Say Goodbye
I Am A Child
Kind Woman
Burned
For What It's Worth
Nowadays Clancy Can't Even Sing
Bluebird
Mr. Soul
Rockin' In The Free World
RETRO RECENSIONE: BADLANDS Voodoo Highway (1991)
BADLANDS Voodoo Highway (Atlantic records, 1991)
Il secondo disco dei Badlands (nel 1999 ne uscì un terzo, postumo: "Dusk"), creatura di Jake E.Lee, ex chitarrista della Ozzy Osbourne band, periodo "Bark At The Moon","The Ultimate Sin", puo' a tutti gli effetti essere considerato come uno dei piu' fulgidi esempi di hard blues degli anni novanta. Uscito nel 1991, due anni dopo il piu' patinato e prodotto esordio-comunque ottimo-vedeva la band sporcare nettamente il sound con una produzione piu' scarna ed essenziale sposando nel suono il blues settantiano tanto caro a band come Free, Bad Company, Montrose,Whitesnake e Led Zeppelin.
Guidati dalla sei corde di Lee, che finalmente poteva esprimere in toto il suo grande talento di bluesman, questo rimarrà il disco di Ray Gillen, uno dei piu' talentuosi cantanti partoriti dagli anni '80 e purtroppo anche uno dei piu' sfortunati. Mancata, per motivi legali, l'occasione della vita: l'entrata nei Black Sabbath di meta' anni ottanta, quelli che si accingevano a registrare "The Eternal Idol", con cui riuscì pero' a portare a termine alcuni concerti e registrare alcuni demo, recuperabili in rari bootleg, la sua vita viene prematuramente interrotta da un brutto male che lo porto' via a soli 34 anni. Paragonabile ai migliori vocalist hard degli anni '70, da Paul Rodgers a Robert Plant, Gillen ebbe con questo disco, inspiegabilmente sottovalutato all'epoca, l'occasione di un riscatto di carriera e a distanza di piu' di quindici anni dalla sua morte possiamo dire che ci riuscì pienamente.
La copertina del disco, raffigurante una dispersa casetta, immersa in un ambiente paludoso e' altamente indicativa di dove andra' a parare il disco. La superformazione completata da Greg Chaisson al basso e Jeff Martin alla batteria si lancia subito, fin dalla'iniziale "The Last Time" in un frenetico Hard blues, con la chitarra di Lee sugli scudi e un organo in sottofondo a fare da tappeto alla voce imprendibile di Gillen. Pochi punti deboli in questo disco. Autentici intermezzi acustici vanno ad incastonarsi a riff piu' pesanti come in "Show Me The Way" . Perle di autentico hardblues sono "Whiskey Dust", la splendida "Silver Horses", "3 Day Funk" (un funk blues che non sfigurerebbe in nessun disco dei Black Crowes) mentre canzoni piu' metal oriented come "Shine On", "Soul Stealer" e "Heaven's Train", fanno riaffiorare il passato dei musicisti di questo gruppo.
"Joe's Blues" non e' altro che una breve prova di abilita' di Lee all'acustica, mentre in "Voodoo Highway" ci stupiscono con un blues acustico con tanto di Lee al Dobro. Le due perle finali sono una cover di James Taylor, "Fire And Rain", resa naturalmente in chiave rock e "In A Dream" una canzone a cappella di Gillen, tanto per dare una ulteriore prova della sua versatilita' vocale.
Un piccolo gioiello da tramandare ai posteri , per far capire che nei primi anni '90 non esisteva solo il grunge ma anche band come i Badlands che pur durando lo spazio di due soli dischi, seppe creare un disco ricco di calore e tradizione rimanendo con un piede nel presente. Poi si sa quando due talenti come Lee e Gillen devono convivere insieme sono spesso scintille. La band si sciolse quasi subito e il triste finale l'ho gia' raccontato...
pubblicato in origine su: http://www.debaser.it/recensionidb/ID_28486/Badlands_Voodoo_Highway.htm
domenica 24 ottobre 2010
RECENSIONE: ROBERT PLANT - BAND OF JOY
Il flirt di Robert Plant con il country/folk è cosa antica, mai nascosta nemmeno ai tempi dei Led Zeppelin e ancor prima di formare la grande rock band. Plant ripesca infatti il nome della suo primo gruppo, i Band of joy, (dove militava anche l'amico John Bonhan), lo piazza come titolo dell'opera e si butta a capofitto nell'interpretare dodici classici del genere, continuando in parte il lavoro fortunato iniziato in coppia con Alison Krauss. Coaudiuvato dall'esperto Buddy Miller, presente come produttore e musicista e con la supervisione dell'ormai onnipresente T-bone Burnett, compie un caldo e rassicurante viaggio intorno alla roots americana, costruendo uno dei suoi più riusciti dischi solisti e sappiamo che durante la sua carriera post-Zeppelin non ha mai amato adagiarsi sugli allori del passato o vivere di rendita.
Fermo nella sua coerenza atta alla ricerca di nuove sonorità in giro per il mondo, superati i sessant'anni , sembra aver trovato la sua nuova terra creativa in America tra pedal e lap steel, banjo e mandolini, in barba a chi sognava l'ennesima far(l)sa reunion del dirigibile. Mentre l'amico ed ex compagno John Paul Jones tortura i padiglioni auricolari con il post-stoner rock dei Them Crooked Vultures, Plant sceglie di accarezzare gli animi con la sua voce con gli anni diventata ancor più calda e ammaliatrice.
Un viaggio lungo l'America musicale tra folk, country,blues, rock'n 'roll e soul che parte da alcuni traditional come Satan your kingdom must come down, desertica e cupa tanto da risvegliare malvagi fantasmi sopiti nel tempo o Cindy, i'll marry you someday. House of cards è di Richard Thompson ed era contenuta in First light del 1978, mentre apre il disco con Angel dance degli ormai amici Los Lobos, con cui ha diviso il palco in tempi recenti.
Aiutato dalla voce femminile di Patty Griffin, presente in più brani, quasi a fare le veci della Krauss.
Monkey è una canzone dei Low, band contemporanea amata da Plant e ancora tutta da scoprire di cui ripropone anche Silver Rider, tanto per ribadire il profondo rispetto che nutre verso la musica dilatata di questa band indie di Duluth mentre con un salto a ritroso omaggia il grande Townes Van Zandt riproponendo e interpretando con grande maestria la sua Harm's swift way.
Central two-O-nine è l'unica canzone originale del disco composta con Miller ed è una western song da viaggio nel deserto mentre con You can't buy love va a ripescare un vecchio brano dei Kelly brothers e lo fa suo con una interpretazione che tanto si avvicina alle rock'n'roll ballads anni cinquanta e che avrebbe fatto invidia al miglior Elvis confidenziale.
Unica concessione alla modernità è la finale Even this shall pass away che con i suoi loop e rumori stona con il resto dell'album.
Un disco di covers che certamente non porterà nulla di nuovo nella carriera di chi la storia della musica l'ha già ampiamente scritta ma che cementa ancor di più il futuro musicale di un artista che tutto sommato non si è mai svenduto e mai come in questi ultimi anni( ascoltate anche il suo Mighty Rearranger del 2005, secondo me, stupendo) si sta prodigando ad esplorare nuove strade, aspettando il secondo capitolo in coppia con la Krauss di imminente uscita. Certo l'idea di andare a scavare nel passato, sembra la moda del momento messa in pratica da molti musicisti, seguendo le orme delle American Recordindg di Cash, ma alla voce di Plant si può perdonare tutto.
mercoledì 20 ottobre 2010
RECENSIONE: BLACK LABEL SOCIETY- ORDER OF THE BLACK
BLACK LABEL SOCIETY Order of the black (Roadrunner, 2010)
Quanto tempo è passato da quelle foto in bianconero presenti nella busta interna del vinile No rest for the wicked, album di Ozzy Osbourne che vedeva all'esordio un giovane e sbarbato chitarrista appena maggiorenne, dai capelli biondi e quasi cotonati come la moda hair -metal dell'epoca quasi imponeva, chiamato a confrontarsi nel ruolo che nei dischi precedenti fu occupato dal genio chitarristico di Randy Rhoads e dalla chitarra quasi blues di Jackie E.Lee. Magro, quasi esile, appoggiato ad un trespolo catacombale , poteva quasi confondere dall'assomiglianza con Rhoads. Sono passati 22 anni, il ragazzo è cresciuto e si è fatto vichingo. Il suo stile chitarristico che all'epoca iniziava a prendere forma ora è talmente caratteristico che papà Ozzy ha deciso, dopo più di vent'anni e 5 dischi registrati insieme, di abbandonarlo, colpevole di portare la musica del madman troppo sulla stessa strada dei Black Label society. Zakk accetta l'esonero da grande signore, arrivando addirittura ad elogiare il nuovo chitarrista della Ozzy-band, il greco Gus G, dichiarando pubblicamente che tecincamente lui stesso ne è inferiore.
E così a pochi mesi dal buon ritorno discografico di Ozzy Osbourne, evidentemente l'aria nuova ha fatto bene, tornano anche i Black Label Society, con un album che li riporta su territori molti vicini ai primi due album "Sonic Brew" e "Stronger Than Death".
Il precedente album "Shot To Hell", sacrificava l'energia a favore di un appeal più melodico, componente comunque sempre presente in tutti gli album di Wylde, ma questa volta circoscritta unicamente alle ballads.
Il trittico iniziale(Crazy Horse, Overload, Parade of the dead) lascia la scia di cenere al suo passaggio , tre classici esempi di Black Label Society-sound, riff pesanti e quadrati, assoli mai troppo invasivi ma incastrati alla perfezione in quel mix di Southern/Sabbath sound che lo cantraddistingue. Mescola sapientemente il sound sudista del suo primo progetto solistico Pride & Glory con la pesantezza dei primi lavori dei Black Label Society, creando un giusto mix di feeling e spontaneità chitarristica. Finalmente sembra lasciare anche da parte la voce "ozzyana" che si portava dietro da qualche tempo a favore della sua naturale ugola, perchè Zakk sa anche cantare e lo dimostra in quelle ballads come le pianistiche Darkest days, Time waits for no one e Shallow grave, che non avrebbero sfigurato in nessun disco delle grandi southern band americane degli anni settanta e che il nostro ha dimostrato di maneggiare sapientemente negli anni , incidendo interi dischi di roots-music.
Canzoni che fanno tirare il fiato per pochi minuti, perchè il barbuto Wylde riprende a marciare con i riff panteriani di Godspeed Hell bound e se mai i Pantera, io spero vivamente di no, decidessero di tornare insieme, Zakk sarebbe l'unico a poter sostituire il compianto Dimebag Darrell, per tecnica ma soprattutto per attitudine nei cuori dei fans.
Wylde si diverte e per una volta mette totalmente la sua tecnica a dispozione di un brano, nel breve intermezzo flamencato di Chupacabra.
Finale dedicato al padre nella toccante January, perchè Wylde ha un gran cuore, lo ha dimostrato in tante altre occasioni, cuore che speriamo rimanga tale visto i continui ricoveri ospedalieri causati dal suo vizio preferito chiamato alcol. Eppure aveva giurato di aver smesso ma come cantava Ozzy, il demone alcol(Demon Alcohol) è sempre in agguato. Canzone contenuta proprio in "No rest for the wicked". Il cerchio si chiude.
venerdì 15 ottobre 2010
RECENSIONE: WILLIE NILE ( The Innocent Ones)
Che Willie Nile, da qualche anno, stia vivendo una seconda parte di carriera è fuori da ogni dubbio. La sua prolificità artistica non è mai stata così alta e l'uscita di questo The Innocent Ones, a solo un anno di distanza dal più che buono House of a thousand guitars ne è la conferma tangibile.
Ascoltando il nuovo album si può percepire chiaramente quanto il piccolo cantautore di Buffalo, ma newyorchese d'addozione, stia vivendo un periodo di totale spensieratezza musicale e -penso- gioia interiore che vanno ad arricchire le sue liriche.
Visto questa estate sopra ad un palco, proporre alcune canzoni del nuovo album, si aveva l'impressione dell'impronta rock'n'roll e fun che il nuovo lavoro prometteva.
Echi di Ramones, da sempre amici e nel cuore di Willie, balzano subito all'orecchio nell'iniziale Singin'Bell, dopo che i rintocchi di campana annunciano e lasciano spazio a notizie di pace, amore e libertà per i soldati al fronte. Un punk'n'roll che si ripete nella corale dedica d'amore di Can't stay home e Hear you breathe. Nile si diverte, non deve più dimostrare nulla a nessuno e nemmeno a se stesso. I colleghi musicisti lo venerano e per i suoi fan è un idolo. Sembra aver trovato la sua speciale formula di giovinezza. La musica è parte integrante della sua vita e ha poca importanza dividere il palco con rockstar affermate come Springsteen o suonare in sperduti paesini italiani davanti a poche persone, quando si crede totalmente a quello che si fa.
Allora giù con il rock rollingstoniano nella storiaccia di provincia americana raccontata in Topless Amateur o con le ballate, quelle Folk/country come Rich and Broken, la pianistica e piena di speranza Song for you o il folk imtimo e solitario di Sideways beautiful.
Nile sa ancora essere un vecchio sognatore quando canta di una chitarra come unica arma a sua disposizione per combattere il mondo là fuori (One guitar) e sa catapultarsi nell'epicità della corale titletrack senza dimenticare il romanticismo che ancora vive dentro di lui.
Forse meno ispirato dei precedenti lavori, ma comunque un buon pretesto per far parlare di un artista, spesso dimenticato, ma che ha sempre messo in primo piano musica e fan. Assistendo ad un suo concerto si ha la prova di quanto Willie Nile sia un personaggio vero e schietto. Se vi capita a tiro...
vedi RECENSIONE: WILLIE NILE live ASTI musica 14 Luglio 2010
vedi anche RECENSIONE: WILLIE NILE-American Ride (2013)
mercoledì 13 ottobre 2010
RECENSIONE: THE SWORD (Warp Riders)
Se siete in giro per la galassia musicale in cerca di qualcosa di fortemente eccitante da ascoltare, fermatevi per un attimo nel pianeta dei The Sword. Partiti con due album di intransigente Stoner/doom, arrivano alla terza prova con un bagaglio di esperienze che ne hanno modificato in parte l'indirizzo musicale. Spesi gli ultimi due anni ad aprire i concerti di gente "ricca e famosa"come i Metallica, con Warp Riders, complice la produzione di Matt Bayles( già produttore di Isis e Mastodon), riescono ad indirizzare il loro suono verso una componente melodica legata all'hard rock anni settanta che ne arricchisce la proposta. Ascoltando Warp Riders mi sono venuti in mente in alcuni spunti, i Corrosion of Conformity di dischi epocali come Deliverance e i Trouble senza però un grande cantante come Eric Wagner alla voce. Le canzoni ruotano intorno ad un concept fantascientifico che parla di un pianeta della galassia che ha smesso la sua rotazione intorno al sole, vedendosi così diviso in due parti, una esposta costantemente ai raggi solari ed una in perenne ombra, con gli abitanti in cerca della collocazione vitale all'interno del pianeta, con tanto di eroi e cattivi.
Potrebbe sembrare il classico passo più lungo della gamba, ma il concept regge benissimo e la varietà delle canzoni, diversamente dalla monoliticità dei due precedenti lavori, comunque di tutto rispetto, aiutano l'ascolto del disco. Nuove sonorità southern/blues si aggiungono alla componente stoner/doom, portando alle canzoni quella melodia che a stento trovava posto prima, così come la voce del cantante e chitarrista John D. Cronise si arrichisce di nuove sfumature. Ascoltando la canzone scelta come singolo Tres Brujas , non si può non notare, fin dal titolo una certa ascendenza dai conterranei texani ZZ Top.
Cavalcate hard, riff di chitarra massicci, cambi di tempo dove si trovano spunti maideniani come in The Chronomancer II:nemesis, che dopo un' intro lenta ed oscura si trasforma in una cavalcata degna di Harris e soci o i riferimenti alla NWOBHM nella strumentale Astraea's Dream. Bella, infine, la marziale e saltellante Lawless Lands, canzone significativa della nuova strada musicale intrapresa dai texani.
lunedì 11 ottobre 2010
RECENSIONE: THE BLACK ANGELS ( Phosphene Dream)
THE BLACK ANGELS Phosphene Dream (Blue Horizon Records, 2010)
Abbiamo sempre bisogno di viaggiare e quando ciò non avviene per via terrena, cosa c'è di meglio che lasciarsi per qualche ora tutto alle spalle e compiere pindariche traiettorie con la fantasia a mille.I The Black Angels ci aiutano e supportano.
Dopo averti inizialmente stordito la percezione visiva con la copertina, ti conducono con la musica verso i posti immaginifici della perdizione sensoriale in compagnia dei fantasmi più allucinati della musica anni sessanta.
Nuotando nel fiume rosso(River of blood), che conduce diritto ai mantra doorsiani, accecati dai raggi solari che penetrano dalle foglie di alberi disposti in fila indiana lungo una veloce strada deserta, percorsa a tutta velocità(Entrance song), dentro psichedeliche visioni che animarono le stagioni di Roky Erickson e soci.
Perdersi, storditi, dentro le visioni caleidoscopiche di Phosphene dream o contemplare il viaggio verso la mecca di True Believers, con i suoi ritmi orientaleggianti.
La band texana guidata dalla voce di Alex Maas ci fa percorrere il mistero in Bad Vibrations e ci catapulta nel progressive-psichedelico, in caduta libera dentro ad un Yellow Elevator, alla ricerca della luce dorata.
Non cercate certezze in questo disco, ma solo sogni e se il vostro è quello di poter, per qualche minuto, entrare in quell'epoca stonata e allucinogena di fine anni sessanta raccontata da Barrett,13th Floor Elevators e Jefferson Airplane, spegnete il telefono (protagonista del singolo rock/beat'n'roll Telephone) e lasciatevi condurre dai nuovi discepoli.Buon viaggio.
giovedì 7 ottobre 2010
RECENSIONI...dischi in ascolto...RONNIE WOOD(I Feel Like Playing)...KILLING JOKE(Absolute Dissent)...
Che le sortite soliste dei vari Stones non avessero mai brillato è un dato di fatto, purtroppo inciso indelebilmente nella storia dei dischi, ma che toccasse a Ronnie Wood cercare di invertire la marcia, nessuno se lo sarebbe mai aspettato, soprattutto quando si è in competizione con due pezzi da novanta come la premiata ditta Jagger/Richards.
Lasciate per un attimo da parte le ultime poco edificanti notizie di gossip casalingo, Ron Wood si ributta nella mischia del rock'n'roll, tirando fuori un disco che manca alla discografia degli stessi Stones da parecchi anni. Per farlo si fa aiutare da un nutrito numero di prestigiosi ospiti:Slash, Flea(Red Hot Chili Peppers), Billy Gibbons(ZZ Top), Eddie Vedder(Pearl Jam), il vecchio amico "era Faces" Ian McLagan, Kris Kristofferson e tanti altri. Quello che esce è un onesto, puro e divertito disco di rock ruspante e stoniano fino al midollo.Dal rock di Lucky man , Thing about you e I don't think so, passando per il reggae di Sweetness my weakness, il soul di I gotta see e Catch you.
Wood si improvvisa a fare Dylan nell'apertura del disco con la bella ballad Why you wanna go and do a thing like that for e si diverte nei blues di Spoonful(Willie Dixon) e Fancy pants con tanto di armonica. E' solo rock, fatto e suonato da chi non sa fare altro nella vita( non è nemmeno vero, visto che Wood è anche un rispettabilissimo pittore) ci piace e ci fa ben sperare per il futuro delle "pietre", il chè non è poco per un gruppo che da più di vent'anni è additato come una band di dinosauri.
KILLING JOKE Absolute Dissent (Spinefarm records, 2010)
Testualmente sembrano due le correnti che animano le canzoni di questo nuovo lavoro dei veterani Killing Joke. Due correnti che vanno ad unirsi verso una unica parola "rabbia". Rabbia verso il destino che solo tre anni fa ha portato via l'amico e bassista Paul Raven e rabbia verso il maldestro destino verso cui sta sprofondando il nostro caro pianeta.
Da sempre proiettati in avanti, il sound non ha perso quella componente apocalittica che li ha resi protagonisti della scena più sperimentale del rock da trent'anni a questa parte.
Alti e bassi hanno accompagnato la carriera di Coleman e soci, con una netta rivincita di popolarità nel nuovo millennio, grazie a due dischi intransigenti come il metallico omonimo del 2003 e il claustrofobico, cacofonico e labirintico Hosannas from the basements of Hell del 2006.
Ora nel 2010, per festeggiare i trent'anni dall'uscita del loro inarrivabile esordio, si ripresentano con la stessa formazione di allora(Jaz Coleman,Kevin"Geordie"Walker, Martin"Youth"Glover e Paul Ferguson) e con una varietà nei suoni che va a ripescare le varie fasi della loro carriera. Capita così di imbattersi in canzoni come la quasi danzereccia European Super State( pesante critica agli stati uniti d'Europa), che non può che riportare alla mente il periodo elettronico di metà anni ottanta e un disco come Night Time o l'elettronica più atmosferica e darkeggiante di The Raven King, sentita dedica all'amico Raven scomparso nel 2007, omaggiato anche in Honor the fire.
La presa di posizione ambientalista è ben scandita nel brano di apertura Absolute Dissent mentre il lato rock compare con la pesantezza chitarristica di The great Cull, This world Hell o di Fresh Fever From the Skyes, dove la batteria tribale scandisce il pezzo.
E se Here comes the Singularity si candida ad essere la nuova Eighties, in Depthcharge, l'atmosfera si fa ipnotica e la velocità aumenta, fino ad arrivare alla lunga e conclusiva Ghosts Of Ladbroke Grove, suggestionante nel suo lento incedere guidato dal basso.
Senza mezzi termini la miglior prova degli ultimi anni, ispirata e purtroppo, spiace dirlo, ma dalle grandi perdite nascono sempre le cose migliori.
Deceduto STEVE LEE...frontman dei GOTTHARD
Stava coronando il sogno di una vita,percorrere le grandi highways americane con la propria Harley Davidson. Il destino ha voluto che il sogno si trasformasse anche nell'ultimo viaggio di Steve Lee, frontman degli svizzeri Ghottard, sicuramente la band rock svizzera più famosa in patria e anche oltreconfine degli ultimi quindici anni, andando a conquistare anche fans in Giappone e SudAmerica.
Le fredde cronache raccontano di un incidente fortuito, avvenuto martedì 5 Ottobre nei pressi di Mesquite(Las Vegas),quando Lee in compagnia di altri motociclisti si era fermato a bordo strada per indossare degli indumenti antipioggia.Destino ha voluto che in quel momento un pesante automezzo sbandasse, finendo fuori strada, travolgendo le moto parcheggiate e il povero cantante.L'impatto è stato fatale. Purtroppo il tragico destino, senbrò dare un avvertimento questa estate, quando il frontman in compagnia della famiglia, fu coinvolto in un incidente stradale in Toscana, fortunatamente con poche conseguenze, allora.
Steve Lee, 47 anni era sicuramente una delle migliori voci di hard rock melodico d'Europa e i Gotthard, nati nel 1992 e autori di almeno una decina di album, sicuramente una delle band di punta dell'hard melodico europeo, con milioni di dischi venduti e tour in compagnia delle più grandi rockstar mondiali. L'ultimo "Need to believe", uscito solo un anno fa, conteneva una canzone Unconditional Faith, scelta come colonna sonora per il film sul pugile tedesco Max Schmeling, atteso nelle sale proprio in questi giorni.