giovedì 26 giugno 2025

SAVATAGE live@Alcatraz, Milano, 24 Giugno 2025

 


Gods Of Metal nel Giugno 2001: durante l'esibizione dei suoi Motorhead, Lemmy indirizza un sonoro "fuck you" ai Savatage che nel palco opposto al loro, dentro al defunto Palatrussardi, o Palasharp, o come si chiamasse all'epoca non ricordo, stanno facendo un soundcheck piuttoso rumoroso (quell'edizione fu ricordata per l'assurda presenza di due palchi uno opposto all'altro). Ecco:  del concerto dei Savatage che suonarono immediatamente dopo i Motorhead ricordo solo quel sonoro "vaffanculo". Stavano portando in giro il controverso e difficoltoso da portare a termine Poets And Madmen, Zak Stevens era uscito dal gruppo, sostituito da un certo Damond Jiniya (che fine avrà fatto?). Un concerto non certo memorabile che li porterà piano piano a sciogliersi un anno dopo. Memorabili  furono invece i tre precedenti che vidi: nelle viscere dell'inferno del Rainbow a Milano nel 1996, concerto  che in una recente intervista Jon Oliva ha ricordato come uno dei più caldi della sua carriera, nell'esotico tendone del Palacquatica sempre a Milano nel 1997 in una versione serra con tanto di condensa misto sudore che pioveva nelle nostre teste e a due passi da casa al Babylonia di Biella nel 1998, quando a cinque minuti di macchina mi vedevo anche tre concerti a settimana. E che concerti!

E come memorabile, seppur fresco di nemmeno 24 ore, è stato il concerto di ieri sera. Uno dei concerti emotivamente più toccanti e  partecipati a cui abbia assistito negli ultimi anni. Le ragioni sono state tante: i Savatage sono tornati a suonare in Italia dopo 24 anni e il pubblico che ha riempito l'Alcatraz si divideva sostanzialmente in chi non li aveva mai visti prima e chi aspettava questo momento da circa un quarto di secolo dopo averli già visti negli anni d'oro. La formazione è quella del tour di Wake Of Magellan, ossia Zak Stevens alla voce, simpatico e coinvolgente con qualche trascurabile pecca vocale, un Chris Caffery alla chitarra che durante 'I Am' dimostra di poter sostuire più che degnamente anche la voce di Oliva volendo, un serafico e compassato Al Pitrelli alla chitarra solista, un Johnny Lee Middleton al basso, sereno e sempre sorridente,  Jeff Plate terremotante anche se nascosto dietro alla sua ingombrante batteria. Più due tastieristi. Già, perché per sostituire Jon Oliva, assente giustificato in riabilitazione dopo una brutta caduta, ci vogliono due musicisti. Ma l'ingombrante ombra di Oliva sembra sempre presenziare durante tutte le canzoni (lui ha dato l'ok per continuare comunque un tour già programmato anche senza la sua presenza) per poi materializzarsi davanti ai nostri occhi sul megaschermo, seduto davanti a un pianoforte in sala di registrazione (il prossimo anno uscirà un nuovo disco, si spera), mostrando tutti i segni fisici del tempo che però non hanno scalfito la voce che apre e chiude una commovente 'Believe' dedicata al fratello Criss. Uno dei tanti momenti da lacrima facile e pelle d'oca. La scelta di dare maggior spazio alle canzoni di The Wake Of Magellan invece (se ne conteranno sei), la vedo come un gesto di continuità con la propria carriera: se ai tempi fosse continuata come doveva, il concerto sarebbe stato questo.


Con 'Welcome' a dare il benvenuto allo show e la strumentale 'The Storm' per mettere in risalto la perizia strumentale.

 I Savatage non sono mai stati personaggi da prima pagina (singolare il fatto che raggiunsero il picco di notorietà dopo la morte di Criss Oliva): lo stupore davanti a un pubblico che ha cantato tutte le canzoni, dalla prima all'ultima (20 in scaletta, 1 ora e 50 la durata) e la tanta voglia di suonare e star bene si legge in faccia a ognuno di loro. Quando i musicisti suonano divertendosi si crea una speciale e naturale alchimia con i fan. Qualcosa di magico (semplici e azzeccati anche i  fondali con le copertine dei dischi), palpabile, sontuoso, che si percepiva ad ogni nota suonata. In tempi in cui le basi preregistrate abbondano, i Savatage tirano fuori l'antica artiglieria da veterani: gli intrecci vocali di una canzone come 'Chance' non sono da tutti, nemmeno i Queen ripetevano live certi cori registrati in studio, i Savatage sì. Una scaletta dove hanno trovato posto l'epicità di metà carriera ('Edge Of Thorns', 'All That I Bleed', 'Dead Winter Dead', 'Handful Of Rain') e la grezza attitudine power metal made in USA dei primi sei dischi (il crescendo di 'Gutter Ballett' sempre da brividi, 'Strange Wings', 'Sirens', 'Jesus Saves') che tocca il culmine con un finale d'altri tempi con 'Power Of The Night' e 'Hall Of The Mountain King' con Stevens a ringhiare come avrebbe fatto Oliva.

Riavvolgendo il nastro: dopo pochi mesi da quel Giugno del 2001 il mondo sociale e politico cambiò per sempre con gli attentati del 11 Settembre. Dopo ventiquattro anni si spera sempre che qualcosa sia cambiato. In meglio. Sbirciando fuori di casa ti accorgi che non è così. Tutto è immutato, perfino peggiorato. Con la musica, invece, speri che tutto rimanga uguale a vent'anni prima, perché, di solito, invecchiando si peggiora. I Savatage no, sembrano essere rimasti lì, quelli di sempre. Congelati. Un buon segno per il disco nuovo che arriverà. In più: il jolly da calare di nome Jon Oliva che se si dovesse rimettere in forma potrebbe regalarci ancora tante altre soddisfazioni. Serata da segnare e archiviare tra i concerti della vita. Ebbene sì.



Foto: Enzo Curelli


martedì 24 giugno 2025

RECENSIONE: JAMES McMURTRY (The Black Dog And The Wandering Boy)


JAMES McMURTRY  The Black Dog And The Wandering Boy (New West Records, 2025)




parole al posto giusto


In questi giorni si fa fatica a pensare che Donald Trump e James McMurtry siano entrambi cittadini americani. Mentre uno in una spirale di delirio misto di demenza e onnipotenza dice cose e ne fa altre, fa cose e dice il contrario quasi fosse dentro a un reality tv da consumare di giorno e dimenticare di notte con l'unico grave difetto di tenere  sotto scacco l'intero mondo, McMurtry da seguito al precedente e ottimo The Horses And The Hounds mantenendo lo stesso livello di scrittura di sempre: alto, tendente all' altissimo. Uno di cui ci si può sempre fidare, insomma. Un candidato alla presidenza perfetto.

"Segui le parole dove ti conducono. Se riesci a creare un personaggio, forse puoi creare una storia. Se riesci a impostare una struttura strofa-ritornello, forse puoi creare una canzone" dice lui come fosse una delle cose più semplici da fare. Il manuale del perfetto songwtiter è aperto ma non sono tantissimi quelli che l'hanno studiato come ha fatto McMurtry durante la sua ormai lunga carriera, cosparsa di dischi usciti però con parsimonia temporale.

Togliendo il capo e la coda del disco, due canzoni non sue, la prima da tempo nelle  setlist, il tagliente rock 'Laredo (Small Dark Something)' dell'amico texano John Dee Graham che indaga sulle dipendenze e i confini, l'ultima 'Broken Freedom Song' un raggio di speranza per il futuro cotruito però dalle profonde  cicatrici della vita, è una rilettura omaggio di un altro texano sconparso recentemente, Kris Kristofferson, faro guida per le generazioni che arrivarono dopo, in mezzo, nelle restanti otto canzoni un campionario esaustivo della sua scrittura. Personali e lucide riflessioni sull'invecchiamento come 'South Texas Lawman' dove il protagonista ripete "non sopporto di invecchiare, non mi si addice" e il blues della title track, in crescendo con l'esplosione nell'assolo di chitarra, che in accoppiata con il disegno di copertina, schizzo di Ken Kesey, ricordano il padre Larry romanziere scomparso nel 2021 che ha vissuto gli ultimi anni di vita con la compagnia della demenza; stoccate politiche messe giù con arguzia (per chi preferisce  la pancia c'è Neil Young) come 'Annie' che ritorna indietro all'Undici Settembre e alla presidenza di George W. Bush (con l'aiuto vocale e il banjo della texana Sarah Jarosz), momenti più leggeri disegnati con sottile ironia dove a contare sono sempre i dettagli e l'incastro delle parole che donano il ritmo come succede in 'Pinocchio In Vegas' dove rilegge da par suo la favola di Pinocchio donandole attualità e rivestendola con suoni d'archi o la descrittiva e più leggera 'Back To Coeur D'Alene' viaggio lungo i sempre affascinanti, se raccontati bene,  paesaggi americani con l'organo suonato da Red Young in evidenza.

Si fa aiutare in produzione da una vecchia conoscenza come Don Dixon, i fidati musicisti di sempre (BettySoo alla fisarmonica e cori, Cornbread al basso, Tim Holt alla chitarra e Daren Hess alla batteria) più qualche ospite (Sarah Jarosz, Charlie Sexton, Bonnie Whitmore e Bukka Allen) in dieci canzoni forse poco omogenee nei temi trattati rispetto al passato, McMurtry affonda bene nel tempo e nella storia, da attento osservatore raccoglie personaggi noti e "qualunque", perdenti e finti vincenti, percorre strade spesso secondarie, dipinge fondali e visita paesaggi. Più omogeneo musicalmente, con poche vere stoccate elettriche, ma giocando preferibilmente tra le ombre elettro-acustiche delle radici.

'The Color Of Night' rappresenta bene quanto musica e parole tarate con minuziosità di particolari possano viaggiare bene insieme. Ed è un bel viaggiare.

Tornando all'inizio: in 'Sons Of The Second Sons' McMurtry sembra proprio rivolgersi alla recente presidenza Trump, quando scavando indietro nella breve storia degli USA porta a galla malesseri e malattie che nonostante il tempo trascorso, a questo punto un "invano" ci può stare, sembrano rimanere croniche.

No,  Trump e McMurtry non possono essere figli della stessa terra, ci dev'essere un errore. Cotanta cialtroneria non può correre in parallelo con questa limpida visione delle cose. 





sabato 21 giugno 2025

RECENSIONE: WILLIE NILE (The Great Yellow Light)

WILLIE NILE  The Great Yellow Light (River House, 2025)





sing me a song

Lo so, travolti da mille uscite il nuovo disco di Willie Nile, il ventunesimo della sua carriera, rischia di passare velocemente con il marchio "l'ennesimo disco" stampato sopra. Io invece ad ogni nuova uscita del piccolo uomo di Buffalo esulto perché so che dentro ci troverò ancora la passione e la coerenza che lo hanno seguito fin dal principio. Cose rare in tempi che vogliono che tutto scorra veloce, possibilmente diverso per poter stupire. Avanti il prossimo. Un debutto, il suo, uscito nel 1980, un disco di canzoni straordinarie, perfettamente in bilico tra il vecchio folk, sporco di polvere preziosa, tramandato dal Greenwich Village, i sixties marchiati da una Rickenbacker dei Byrds e l'assalto urbano del punk rock che visse sulla propria pelle in anni irripetibili che oggi sembrano veramente preistoria del rock. Quella da studiare a scuola.

Quando tra il CBGB e il Max's Kansas City potevi stringere amicizie, rubare consigli a Patti Smith, Ramones e Television, tenendo una radio sempre sintonizzata dall'altra parte dell'oceano, in UK. 

Sono passati quarantacinque anni, nel mezzo Nile, dopo anni di esilio forzato dalla musica, è tornato prepotentemente ad agitare le mille chitarre, scrivere canzoni, incidere dischi, girare il mondo, e camminare per le vie della sua amata  New York con lo stesso impeto e lo sguardo sempre curioso di allora, occhi penetranti che si posano su loser e marciapiedi poco frequentati e quando lo sono, calpestati da chi non ha più nulla da perdere.

Forse non è più disincantato come allora, c'è più consapevolezza, ma la sincerità è sempre la stessa. Come l'attitudine da rocker, ribelle e romantico insieme che si chiede qual è il colore dell'amore nella riflessiva 'What Color Is Love', canta inni che sono una sorta di chiamata alle armi per tutti quelli che vogliono un mondo migliore di questo, sotto il ritmo incalzante di 'We Are We Are' o dimostra che a 77 anni si possa ancora pestare duro in 'Electrify Me', punk rock nervoso e immediato che rincorre la giovinezza ma pare con il fiato ancora buono.

Allora sei sicuro che mettendo su queste nuove dieci canzoni ci puoi trovare ancora tutta la curiosità, l'impegno (fin dal classic rock d'apertura 'Wild Wild World') e l'ironia di sempre che esce prepotente in canzoni come 'Tryin' To Make A Livin' In The USA'.

"Le mie canzoni sono molto semplici, ma scrivo di cose che vedo. Adoro l'ampia tavolozza. Adoro questa enorme tela bianca. Puoi scrivere d'amore, di perdita, di feste il sabato sera, di dolore, di estasi..." ha detto recentemente in una intervista. 

E proprio da delle tele si è ispirato per la title track, ballata squarciata da fulmini elettrici: quelle di  Vincent Van Gogh venute in dono grazie alla luce mediterranea di Arles che ispirarono molte opere "luminose" durante il soggiorno francese del pittore e che in qualche modo la bella foto di copertina, scattata in un piccolo tendone da circo europeo  dalla moglie e fotografa Cristina Arrigoni, vuole rappresentare e sottolineare. 

Un invito a cogliere i migliori momenti della vita, anche in periodi cupi come questi, ben raccontati dall'accoppiata a fine disco formata una 'Wake Up America' , uscita già un paio di anni fa e cantata insieme a Steve Earle, uno che ha sempre viaggiato dalla parte giusta, dove si domanda dove sia finita l'America che conosceva ("anche se la nostra storia è costellata di dolore e ingiustizia e le divisioni tra noi sono più grandi che mai, so che possiamo fare di meglio" disse presentando la canzone) e le speranze di libertà affidate alla conclusiva 'Washington's Day' con la presenza di Rob Hyman e Eric Brazilian degli storici Hooters.

Un disco corale, registrato all' Hoobo Sound nel New Jersey e prodotto insieme a Stewart Lerman, che oltre ai già citati ospiti, alla sua fedele band che lo accompagna live composta da Jimi Bones alle chitarre elettrica, Johnny Pisano al basso Jon Weber alla batteria, vede anche il cantautore irlandese Paul Brady in 'Irish Goodbye', folk non troppo lontano dai Pogues che proprio in questi giorni l'amico Little Steven dal suo programma radio ha proclamato canzone della settimana.

E allora speriamo che l'ultimo "arrivederci" scambiato con Willie Nile nell'ultimo suo viaggio in Italia, sua seconda patria, possa materializzarsi presto in qualche nuovo concerto dalle nostre parti, tanto per ribadire quanto il rock’n’roll non abbia bisogno di soli stadi pieni e sterminati luoghi pagati con un rene per espandere il proprio verbo, a volte non c'è bisogno di gridare troppo, il messaggio arriva chiaro e forte anche nei piccoli club delle periferie del mondo.


Foto: Enzo Curelli



giovedì 12 giugno 2025

RECENSIONE: NEIL YOUNG And The CHROME HEARTS (Talking To The Trees)

 


NEIL YOUNG And The CHROME HEARTS  Talking To The Trees (Reprise, 2025)




famiglia e politica

Ad ogni nuova uscita di Neil Young sembra quasi d'obbligo fare un punto su tutti i dischi che l'hanno preceduta. Bene, salto a piè pari questa pratica, lunga e dispendiosa di tempo e righe.

Talking To The Trees è un disco, il primo di inediti da World Record del 2022, che si infila dentro deciso ai suoi dischi dal piglio country e acustici anche se non mancano un paio di song rumoriste a disturbare l'atmosfera: 'Big Change' che fu il primo singolo, una chiara chiamata alle armi contro le mire espansionistiche  di Donald Trump. Il natio Canada nel mirino. Quando uscì, Young aveva appena annunciato il tour europeo che salta l'Italia ma che sarebbe dovuto passare addirittura in Ucraina per un concerto che avrebbe avuto il sigillo dell'epicità. Poi il peggiorare della situazione fece saltare il tutto.

"Esatto, gente, se dite qualcosa di negativo su Trump o sulla sua amministrazione, potreste essere esclusi dal rientro negli Stati Uniti.  Se siete canadesi ... Se avete la doppia cittadinanza come me, chi lo sa? Lo scopriremo tutti insieme...".

C'è poi 'Lets Roll Again': che a Neil Young stia particolarmente sul culo Donald Trump lo avevamo già capito cinque anni fa quando fece uscire l'Ep The Times che conteneva una versione riveduta e corretta della sua vecchia 'Looking For A Leader' dove cantava: "non abbiamo bisogno di un leader  che costruisce muri intorno alle nostre case, che non conosce Black Lives Matter, è ora di mandarlo a casa". Non solo Trump non andò a casa ma ritornò.

Ora, in 'Lets Roll Again', una riscrittura di 'This Land is Your Land' di Woody Guthrie ('Silver Eagle' che la precede pure ma in acustico con parole d'amore per il tour bus), che nel titolo rimanda anche alla sua vecchia 'Let's Roll' presente su Are You Passionate? non le manda a dire a  Elon Musk: "se sei un fascista, allora prendi una Tesla, se è elettrica, non importa, se sei un democratico, assapora la tua libertà, prendi quello che vuoi, e assapora la tua libertà”.

Ad accompagnarlo in questa nuova avventura ci sono i  Chrome Hearts, ossia: Micah NelsonCorey McCormickAnthony LoGerfo, tutti presenti nei Promise Of The Real, e il vecchio compare Spooner Oldham, gli stessi che lo accompagneranno in tour da inizio Giugno. A produrre l'aiuto del novantenne Lou Adler.

A fare da ponte verso i prevalenti momenti acustici, lo sferragliante blues 'Dark Mirage'  dove tira in ballo sua figlia Amber Jean e la ex moglie Pegi, scomparsa nel 2019. E sono proprio i quadretti famigliari a uscire con maggior frequenza tra i testi: Family Life', un  folk con armonica che la sua attuale voce rende sgangherato, tanto da sembrare uscita  da American Stars And Bars, 'First Fire Of Winter' è 'Helpless' con un altro testo, altro monumento alla vita domestica e bucolica con la moglie Daryl Hannah , quella che abbiamo ammirato durante il lockdown con i suoi video davanti al caminetto.

Sono però le quattro canzoni finali quelle più interessanti: 'Talkin To The Trees', un classico Neil Young acustico, ecologista, che cita pure Bob Dylan tra le righe, una speranzosa 'Movin Ahead', dove finalmente si sente  Spooner Oldham, canzone quasi inusuale nel suo repertorio, 'Bottle Of Love', ballata al pianoforte e la finale 'Thankful' un dolce e rarefratto country che trova la sua collocazione ideale su Comes A Time.

Il vecchio Neil, alla soglia degli ottant'anni, continua in qualche modo la sua battaglia, continuando a vivere la sua vita agreste che pare concedere poco ai lussi. Sì ok, il suo parco macchine è grande come quello di un concessionario però scarpe grosse, t-shirt e camicia a quadri sono quelle di sempre.  Sicuramente non è un disco epocale anche se uno dei migliori dell'ultimo decennio,  ma come sempre, ultimamente, per lui sembra contare più il messaggio (ricorda l'incompiutezza e la genuinità di Peace Trail) e Neil Young ci ha sempre messo la faccia con onestà, coraggio e un po' di quella sana ingenuità che ce lo fa ancora amare anche ora che la voce è debole, spesso copia se stesso,  nessuna di queste canzoni entrerà in un suo greatest hits ma il cervello sembra funzionare ancora molto bene, sia nel riparo della sua fattoria, sia quando mette fuori la testa osservando l'involuzione della società.




lunedì 9 giugno 2025

DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 87: THE ROLLING STONES (Some Girls)

The ROLLING STONES  Some Girls (CBS, 1978) 


 “Volevamo essere più punk dei punk. Pensavamo, loro non sanno suonare, noi sì”. Keith Richards.


 

Some Girls rappresentò un importante e salvifico segnale di vita. Così immerso nella seconda metà dei settanta, dopo un album da spiaggia caraibica (mica tanto) come Black and Blue (oh, io lo adoro) e con i piedi immersi totalmente dentro alla rivoluzione punk che diede la caccia feroce ai dinosauri del rock. E gli Stones poco più che trentenni erano già animali preistorici per molti. Gli Stones non potevano affondare dentro alla melma che loro stessi contribuirono a foraggiare per attitudine e suoni. Un colpo di coda sfavillante partorito da una delle loro sedute di registrazioni più lunghe e prolifiche in assoluto (vedere la deluxe edition uscita qualche anno fa): entrarono negli studi parigini  nell’Ottobre del 1977, ne uscirono fuori nel Febbraio 1978. “Parigi è sempre stato un bel posto per gli Stones, motivo per cui mi piace registrare là. È un luogo molto più calmo, senza la solita fan-mania, solo tossici e spacciatori” parola di Ron Wood. Bene.

Uscito nel 1978 con una geniale copertina di Peter Corriston, che inseguendo Warhol, crea un giornale vintage che nell'originale idea doveva immortalare importanti e famose star femminili del cinema e dello spettacolo (tra cui la nostra Sophia Loren), ma che per motivi di copyright e beghe legali divenne una sfilza di parrucche con i volti intercambiabili dei componenti del gruppo. Anche alcuni versi della canzone ‘Some Girls’  (un blues con l’armonica di Sugar Blue) vennero fraintesi, creando  non pochi problemi.

SOME GIRLS rimane, per qualcuno, l'ultimo vero colpo di coda della band, calcolando che i seguenti Emotional Rescue e Tattoo You gli devono molto. Il primo estremizzò l'esperimento, il secondo fu un buon album ma costruito con tante canzoni provenienti dalle prolifiche session parigine. 

Le sedute di registrazione per Some Girls ebbero sempre il vento in poppa dal primo momento in cui cominciammo le prove negli studi parigini Pathè Marconi…fu come ringiovanire, una cosa sorprendente per quel momento così buio, quando era possibile che sarei andato in prigione e che gli Stones si sciogliessero. Ma forse in parte era per questo. Mettiamo giù qualcosa prima che succeda”, scriverà Keith Richards in Life.

È proprio ‘Miss You’, messa lì all'inizio, a far capire quanto gli Stones potessero giocare ancora a loro piacimento con la musica. In verità ‘Hot Stuff’ anticipò il giochetto di un paio di anni. La disco music che imperava venne assorbita, digerita e risputata fuori con un brano disco/funk, appiccicoso e contagioso nel suo coro ma che emana groove e sensualità, venuto in dono a Jagger frequentando lo Studio 54 e dall’intuito di Billy Preston che segnò la strada da seguire. Jagger ci va a nozze e forse fu l'inizio di un abuso per tante future mosse.

Il resto del disco però va da tutt'altra parte. Un disco di strada, chitarristico (Richards usò un pedale nuovo, MXR, un riverbero) e prodotto grezzamente il giusto, con pochi interventi esterni. Un disco marcato Jagger ma le chitarre di Richards e Wood (fu il suo primo vero disco dopo il battesimo di Black And Blue) sono protagoniste, nonostante il buon Keith in quegli anni continuava a bisticciare con le porte dei carceri (l’arresto a Toronto nel 77) e le tasche delle giacche piene di droghe. Come egli stesso racconta nella biografica ‘Before They Make Me Run’. L'aggressiva ‘When The Whip Comes Down’ con Jagger che si unisce alla terza chitarra, ‘Respectable’, ‘Lies’, i paesaggi urbani di ’Shattered’ presentano tipiche rasoiate quasi punk e sbeffeggianti verso qualunque novizio Steve Jones di turno. “Volevamo essere più punk dei punk. Pensavamo, loro non sanno suonare, noi sì” sempre Richards a rincarare la dose. 

Ma c’è molto di più appunto: il piacevole retrogusto country di ‘Far Away Eyes’ evidentemente  ispirata dall’amico Gram Parsons, scomparso qualche anno prima e con Ron Wood alla pedal steel, l’omaggio al soul con la cover di  ‘Just My Imagination’ dei Temptations e il secondo singolo ‘Beast Of Burden’, ballata che diventerà un classico e segno che i Rolling Stones erano  tutto fuorché dei dinosauri passati di moda.





lunedì 2 giugno 2025

JERRY CANTRELL live@Magazzini Generali, Milano, 1 Giugno 2025

 


L' ultimo disco solista I Want Blood, uscito lo scorso anno, aveva tutte le peculiarità per uscire con il nome Alice In Chains stampato sopra per quanto in grado di irrorare anni novanta da ogni solco. Se alle cinque canzoni estratte da quel disco eseguite stasera (dalla heavy title track alla melodica Afterglow), aggiunge altri cinque brani degli Alice In Chains messi in scaletta, Dirt a dominare (Them Bones, Man In The Box, Would?, Rooster e una straordinaria e sabbathiana Hate To Feel dedicata a Layne Staley, per me vertice assoluto del concerto) per un attimo mi è parso di essere catapultato indietro tra il 1992 e il 1996, almeno fino a quando mi sono toccato la testa in cerca dei miei capelli, trovando solo sudore. Jerry Cantrell, t-shirt con Mickey Mouse, si conferma ultimo depositario di certi suoni, sempre fedele a sé stesso ma comunque in cammino, chitarrista eccelso (forse sempre troppo sottovalutato?), emotivamente coinvolto nelle sue liriche quando certe ferite erano ancora fresche, due gli estratti rispettivamente da Degratation Trip del 1998 (apertura affidata a Psychotic Break) e Boggy Depot (2002) i primi due album solisti e con i bei contrasti di luce e ombra del più acustico e seventeen Brighten (2021) (belle le sfumature roots di Atone). Cantrell continua a scavare nell'oscurità dell'anima e del mondo lasciando sempre delle fessure  aperte per dei raggi più luminosi di speranza.

Ha funzionato tutto a meraviglia in un locale sold out (forse troppo stretto e sacrificato per il gran numero di persone) e con un pubblico coinvolto e affettuoso che ha cantato vecchie e nuove canzoni dall'inizio alla fine (un'ora e quaranta minuti la durata).

Peccato per una batteria che spesso ha sovrastato tutto, questa la percezione dalla mia postazione (certamente Roy Mayorga è uno che pesta giù duro ma l'acystica in generele non era il massimo, mentre Eliot Lorango al basso e Zach Throne alla seconda chitarra hanno lavorato di fino e mestiere) ma vorrei inveve  sottolineare lo splendido e rispettoso lavoro alle voci di Greg Puciato (ex Dillinger Escape Plan) nelle sempre difficili e ingombranti parti vocali di Staley: l'intreccio e il sincrono con la voce di Cantrell sono stati perfetti.



Foto: Enzo Curelli