giovedì 12 giugno 2025

RECENSIONE: NEIL YOUNG And The CHROME HEARTS (Talking To The Trees)

 


NEIL YOUNG And The CHROME HEARTS  Talking To The Trees (Reprise, 2025)




famiglia e politica

Ad ogni nuova uscita di Neil Young sembra quasi d'obbligo fare un punto su tutti i dischi che l'hanno preceduta. Bene, salto a piè pari questa pratica, lunga e dispendiosa di tempo e righe.

Talking To The Trees è un disco, il primo di inediti da World Record del 2022, che si infila dentro deciso ai suoi dischi dal piglio country e acustici anche se non mancano un paio di song rumoriste a disturbare l'atmosfera: 'Big Change' che fu il primo singolo, una chiara chiamata alle armi contro le mire espansionistiche  di Donald Trump. Il natio Canada nel mirino. Quando uscì, Young aveva appena annunciato il tour europeo che salta l'Italia ma che sarebbe dovuto passare addirittura in Ucraina per un concerto che avrebbe avuto il sigillo dell'epicità. Poi il peggiorare della situazione fece saltare il tutto.

"Esatto, gente, se dite qualcosa di negativo su Trump o sulla sua amministrazione, potreste essere esclusi dal rientro negli Stati Uniti.  Se siete canadesi ... Se avete la doppia cittadinanza come me, chi lo sa? Lo scopriremo tutti insieme...".

C'è poi 'Lets Roll Again': che a Neil Young stia particolarmente sul culo Donald Trump lo avevamo già capito cinque anni fa quando fece uscire l'Ep The Times che conteneva una versione riveduta e corretta della sua vecchia 'Looking For A Leader' dove cantava: "non abbiamo bisogno di un leader  che costruisce muri intorno alle nostre case, che non conosce Black Lives Matter, è ora di mandarlo a casa". Non solo Trump non andò a casa ma ritornò.

Ora, in 'Lets Roll Again', una riscrittura di 'This Land is Your Land' di Woody Guthrie ('Silver Eagle' che la precede pure ma in acustico con parole d'amore per il tour bus), che nel titolo rimanda anche alla sua vecchia 'Let's Roll' presente su Are You Passionate? non le manda a dire a  Elon Musk: "se sei un fascista, allora prendi una Tesla, se è elettrica, non importa, se sei un democratico, assapora la tua libertà, prendi quello che vuoi, e assapora la tua libertà”.

Ad accompagnarlo in questa nuova avventura ci sono i  Chrome Hearts, ossia: Micah NelsonCorey McCormickAnthony LoGerfo, tutti presenti nei Promise Of The Real, e il vecchio compare Spooner Oldham, gli stessi che lo accompagneranno in tour da inizio Giugno. A produrre l'aiuto del novantenne Lou Adler.

A fare da ponte verso i prevalenti momenti acustici, lo sferragliante blues 'Dark Mirage'  dove tira in ballo sua figlia Amber Jean e la ex moglie Pegi, scomparsa nel 2019. E sono proprio i quadretti famigliari a uscire con maggior frequenza tra i testi: Family Life', un  folk con armonica che la sua attuale voce rende sgangherato, tanto da sembrare uscita  da American Stars And Bars, 'First Fire Of Winter' è 'Helpless' con un altro testo, altro monumento alla vita domestica e bucolica con la moglie Daryl Hannah , quella che abbiamo ammirato durante il lockdown con i suoi video davanti al caminetto.

Sono però le quattro canzoni finali quelle più interessanti: 'Talkin To The Trees', un classico Neil Young acustico, ecologista, che cita pure Bob Dylan tra le righe, una speranzosa 'Movin Ahead', dove finalmente si sente  Spooner Oldham, canzone quasi inusuale nel suo repertorio, 'Bottle Of Love', ballata al pianoforte e la finale 'Thankful' un dolce e rarefratto country che trova la sua collocazione ideale su Comes A Time.

Il vecchio Neil, alla soglia degli ottant'anni, continua in qualche modo la sua battaglia, continuando a vivere la sua vita agreste che pare concedere poco ai lussi. Sì ok, il suo parco macchine è grande come quello di un concessionario però scarpe grosse, t-shirt e camicia a quadri sono quelle di sempre.  Sicuramente non è un disco epocale anche se uno dei migliori dell'ultimo decennio,  ma come sempre, ultimamente, per lui sembra contare più il messaggio (ricorda l'incompiutezza e la genuinità di Peace Trail) e Neil Young ci ha sempre messo la faccia con onestà, coraggio e un po' di quella sana ingenuità che ce lo fa ancora amare anche ora che la voce è debole, spesso copia se stesso,  nessuna di queste canzoni entrerà in un suo greatest hits ma il cervello sembra funzionare ancora molto bene, sia nel riparo della sua fattoria, sia quando mette fuori la testa osservando l'involuzione della società.




lunedì 9 giugno 2025

DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 87: THE ROLLING STONES (Some Girls)

The ROLLING STONES  Some Girls (CBS, 1978) 


 “Volevamo essere più punk dei punk. Pensavamo, loro non sanno suonare, noi sì”. Keith Richards.


 

Some Girls rappresentò un importante e salvifico segnale di vita. Così immerso nella seconda metà dei settanta, dopo un album da spiaggia caraibica (mica tanto) come Black and Blue (oh, io lo adoro) e con i piedi immersi totalmente dentro alla rivoluzione punk che diede la caccia feroce ai dinosauri del rock. E gli Stones poco più che trentenni erano già animali preistorici per molti. Gli Stones non potevano affondare dentro alla melma che loro stessi contribuirono a foraggiare per attitudine e suoni. Un colpo di coda sfavillante partorito da una delle loro sedute di registrazioni più lunghe e prolifiche in assoluto (vedere la deluxe edition uscita qualche anno fa): entrarono negli studi parigini  nell’Ottobre del 1977, ne uscirono fuori nel Febbraio 1978. “Parigi è sempre stato un bel posto per gli Stones, motivo per cui mi piace registrare là. È un luogo molto più calmo, senza la solita fan-mania, solo tossici e spacciatori” parola di Ron Wood. Bene.

Uscito nel 1978 con una geniale copertina di Peter Corriston, che inseguendo Warhol, crea un giornale vintage che nell'originale idea doveva immortalare importanti e famose star femminili del cinema e dello spettacolo (tra cui la nostra Sophia Loren), ma che per motivi di copyright e beghe legali divenne una sfilza di parrucche con i volti intercambiabili dei componenti del gruppo. Anche alcuni versi della canzone ‘Some Girls’  (un blues con l’armonica di Sugar Blue) vennero fraintesi, creando  non pochi problemi.

SOME GIRLS rimane, per qualcuno, l'ultimo vero colpo di coda della band, calcolando che i seguenti Emotional Rescue e Tattoo You gli devono molto. Il primo estremizzò l'esperimento, il secondo fu un buon album ma costruito con tante canzoni provenienti dalle prolifiche session parigine. 

Le sedute di registrazione per Some Girls ebbero sempre il vento in poppa dal primo momento in cui cominciammo le prove negli studi parigini Pathè Marconi…fu come ringiovanire, una cosa sorprendente per quel momento così buio, quando era possibile che sarei andato in prigione e che gli Stones si sciogliessero. Ma forse in parte era per questo. Mettiamo giù qualcosa prima che succeda”, scriverà Keith Richards in Life.

È proprio ‘Miss You’, messa lì all'inizio, a far capire quanto gli Stones potessero giocare ancora a loro piacimento con la musica. In verità ‘Hot Stuff’ anticipò il giochetto di un paio di anni. La disco music che imperava venne assorbita, digerita e risputata fuori con un brano disco/funk, appiccicoso e contagioso nel suo coro ma che emana groove e sensualità, venuto in dono a Jagger frequentando lo Studio 54 e dall’intuito di Billy Preston che segnò la strada da seguire. Jagger ci va a nozze e forse fu l'inizio di un abuso per tante future mosse.

Il resto del disco però va da tutt'altra parte. Un disco di strada, chitarristico (Richards usò un pedale nuovo, MXR, un riverbero) e prodotto grezzamente il giusto, con pochi interventi esterni. Un disco marcato Jagger ma le chitarre di Richards e Wood (fu il suo primo vero disco dopo il battesimo di Black And Blue) sono protagoniste, nonostante il buon Keith in quegli anni continuava a bisticciare con le porte dei carceri (l’arresto a Toronto nel 77) e le tasche delle giacche piene di droghe. Come egli stesso racconta nella biografica ‘Before They Make Me Run’. L'aggressiva ‘When The Whip Comes Down’ con Jagger che si unisce alla terza chitarra, ‘Respectable’, ‘Lies’, i paesaggi urbani di ’Shattered’ presentano tipiche rasoiate quasi punk e sbeffeggianti verso qualunque novizio Steve Jones di turno. “Volevamo essere più punk dei punk. Pensavamo, loro non sanno suonare, noi sì” sempre Richards a rincarare la dose. 

Ma c’è molto di più appunto: il piacevole retrogusto country di ‘Far Away Eyes’ evidentemente  ispirata dall’amico Gram Parsons, scomparso qualche anno prima e con Ron Wood alla pedal steel, l’omaggio al soul con la cover di  ‘Just My Imagination’ dei Temptations e il secondo singolo ‘Beast Of Burden’, ballata che diventerà un classico e segno che i Rolling Stones erano  tutto fuorché dei dinosauri passati di moda.





lunedì 2 giugno 2025

JERRY CANTRELL live@Magazzini Generali, Milano, 1 Giugno 2025

 


L' ultimo disco solista I Want Blood, uscito lo scorso anno, aveva tutte le peculiarità per uscire con il nome Alice In Chains stampato sopra per quanto in grado di irrorare anni novanta da ogni solco. Se alle cinque canzoni estratte da quel disco eseguite stasera (dalla heavy title track alla melodica Afterglow), aggiunge altri cinque brani degli Alice In Chains messi in scaletta, Dirt a dominare (Them Bones, Man In The Box, Would?, Rooster e una straordinaria e sabbathiana Hate To Feel dedicata a Layne Staley, per me vertice assoluto del concerto) per un attimo mi è parso di essere catapultato indietro tra il 1992 e il 1996, almeno fino a quando mi sono toccato la testa in cerca dei miei capelli, trovando solo sudore. Jerry Cantrell, t-shirt con Mickey Mouse, si conferma ultimo depositario di certi suoni, sempre fedele a sé stesso ma comunque in cammino, chitarrista eccelso (forse sempre troppo sottovalutato?), emotivamente coinvolto nelle sue liriche quando certe ferite erano ancora fresche, due gli estratti rispettivamente da Degratation Trip del 1998 (apertura affidata a Psychotic Break) e Boggy Depot (2002) i primi due album solisti e con i bei contrasti di luce e ombra del più acustico e seventeen Brighten (2021) (belle le sfumature roots di Atone). Cantrell continua a scavare nell'oscurità dell'anima e del mondo lasciando sempre delle fessure  aperte per dei raggi più luminosi di speranza.

Ha funzionato tutto a meraviglia in un locale sold out (forse troppo stretto e sacrificato per il gran numero di persone) e con un pubblico coinvolto e affettuoso che ha cantato vecchie e nuove canzoni dall'inizio alla fine (un'ora e quaranta minuti la durata).

Peccato per una batteria che spesso ha sovrastato tutto, questa la percezione dalla mia postazione (certamente Roy Mayorga è uno che pesta giù duro ma l'acystica in generele non era il massimo, mentre Eliot Lorango al basso e Zach Throne alla seconda chitarra hanno lavorato di fino e mestiere) ma vorrei inveve  sottolineare lo splendido e rispettoso lavoro alle voci di Greg Puciato (ex Dillinger Escape Plan) nelle sempre difficili e ingombranti parti vocali di Staley: l'intreccio e il sincrono con la voce di Cantrell sono stati perfetti.



Foto: Enzo Curelli