Ma che bello! Erano anni che non mi succedeva: mi sembra di essere tornato negli anni novanta quando aspettavo l'uscita di un disco con quella ingenua carica di aspettative che poi in un modo o nell'altro venivano rispettate, spesso a forza di tanti ascolti. The Spin, il quarto disco dei Messa è uscito da una settimana e si sta rivelando per quello che mi aspettavo: un disco importante che segnerà un prima e un dopo.
Per di più di un gruppo italiano. Cosa volere di più?
Sono determinati i quattro veneti, sanno cosa vogliono ma allo stesso tempo sono una band che sembra non porre limiti alla propria ispirazione e crescita artistica. Dove vorranno mai arrivare? Intanto il mondo si è accorto di loro, prima di noi naturalmente, e il contratto con la Metal Blade è il sigillo di garanzia.
Ad oggi credo siano la più importante band rock italiana di questi ultimi anni ( chi può vantare una cantante come Sara e un chitarrista come Alberto di questi livelli? E i loro live rapiscono. Sempre) e The Spin seppur diverso, mantiene saldamente la loro identità, un pò come l'uroboro (la ruota di motocicletta) raffigurato in copertina, svisa e si apre in mille direzioni, verso blues, jazz, hard rock, metal e dark wave targata eighties (la maggior novità) per poi tornare all'origine doom. Difficile oggi appiccicare loro delle etichette. Tanti spunti, tanta bravura, tanta sana ambizione, cura dei dettagli, professionalità con i piedi ben a terra, songwriting eccelso (Void Meridian, The Dress), idee mai scontate (Immolation, At Races), e canzoni che funzionano anche se non capisci bene dove finisca la loro semplicità (Reveal) e inizi la complessità (Fire On The Roof, Thicker Blood).
Quando comprai il biglietto per il concerto, il Festival di Sanremo era un'entità lontana e avevo una sola grande aspettativa: godermi l'ennesimo concerto di Lucio Corsi, così come avvenne le altre volte. Dopo Sanremo con il mio biglietto in mano e l'esplosione della "Luciocorsimania" l'aspettativa cambiò radicalmente: si aggiunse un "speriamo", speriamo che Lucio Corsi non cambi davanti a questo incredibile successo che lo ha travolto. Pensiero stupido il mio.
Dopo questo concerto posso dirlo agli scettici come me: andate tranquilli e in pace, nulla e poco è cambiato ma in cuor mio, forse, forse, lo sapevo già. Mi fidavo.
Gli unici cambiamenti sono:
- l'età del suo pubblico. Ora ci sono tanti, ma tanti bambini accompagnati da mamma e papà e tanti ragazzini che prima non ricordavo. Che poi, è un bene eh, anche perché prima del concerto hanno potuto ascoltare le canzoni di Rolling Stones, Led Zeppelin, Crosby, Stills & Nash, Doobie Brothers uscire dalle casse in filodiffusione. Speriamo che Shazam abbia fatto il suo sporco lavoro.
Ora il suo pubblico è veramente trasversale al cento per cento. Ma poi vuoi mettere avere dieci anni e trovarti un palco con una decina di chitarre sopra invece di un trapper con basi campionate? Qui ci si prenota il futuro.
- la scenografia del palco. Due enormi amplificatori in stile Rust Never Spleeps Tour di Neil Young vegliano da dietro e sembrano minacciare le nostre orecchie.
Un cambiamento da poco che fa però il suo effetto perché il concerto sarà molto "rock and roll can never die".
- nella band che lo accompagna si è aggiunto un secondo chitarrista. In molte canzoni c'erano tre chitarre elettriche e... (vedi il punto sopra: rock and roll can never die).
In più sopra al palco si è materializzato Francis Delacroix, che fino a pochi mesi fa sembrava essere un eroe mitologico senza né corpo né volto. Ora si aggira con discrezione con la sua macchina fotografica e la canzone a lui dedicata è stata eseguita due volte in due versioni diverse full band (Fast e rock’n’roll) diversa da come l'abbiamo conosciuta fino ad oggi (vedi il punto sopra che vede il punto sopra ancora: rock and roll can never die).
- Lucio Corsi parla molto meno, racconta meno storie, lasciando spazio alle canzoni.
Ora ha un album in più e tante canzoni nuove da eseguire (l'ultimo album è stato eseguito nella sua completezza).
E a qualche improvvisazione: a un "Lucio sposami" gridato da una voce maschile, risponde a "Las Vegas però", poi invita un tizio del posto a cantare sopra al palco, sventolava da tempo un cartello con su scritto "vorrei cantare una mia canzone". La canzone era poca cosa ma lui sembrava contento. Quando mai gli ricapiterà?
Anche le cover sono diminuite, solo Randy Newman (Short People tradotta La Gente Bassa "Randy Newman è quello che ha scritto anche Hai un Amico in Me. Le sue canzoni sono tutte belle. Cercatelo." dice), accenna Lucio Dalla, gli immancabili T.Rex (20th Century Boy) e quel Domenico Modugno già sentito a Sanremo sono i sopravvissuti. Una ragazza del pubblico gli suggerisce Taglia La Testa Al Gallo di Ivan Graziani, lui ne esegue il ritornello e poi..." la prossima volta che veniamo da queste parti me la preparo".
Per il resto: godetevi il concerto. Lucio Corsi sembra ancora più affamato di musica di prima (non rinuncia a scendere dal palco e materializzarsi in mezzo al suo pubblico).
Due ore e dieci di canzoni senza sosta (senza inutili orpelli e uscite per il bis) con una varietà di soluzioni musicali che, ripeto, ora come ora nessuno in Italia può vantare con questa naturale disinvoltura.
E se qualcuno osa ancora dubitare del suo talento, del suo vestire, lasciatelo parlare (il concerto lo conclude quasi nudo), prima o poi se ne farà una ragione.
L'ennesimo "chapeau" da parte mia. Non ho altro da aggiungere.
ELTON JOHN & BRANDI CARLILEWho Believes In Angels? (EMI, 2025)
in due è meglio
Quando finisce 'When This Old World Is Done With Me', ultima canzone in scaletta delle dieci, la sensazione di trovarsi di fronte al testamento finale della coppia artistica formata da Elton John e Bernie Taupin è forte, tangibile, quasi dichiarata con firme in calce, che se davvero dovesse esserlo di meglio davvero non si potrebbe fare. Elton John si stacca, rimane solo con il suo pianoforte e poco altro (un synth e alcuni fiati nel finale) a cantare, con voce segnata dal tempo, la summa di una carriera, unica, trionfale senza eguali. "Quando questo vecchio mondo avrà finito con me, quando chiuderò gli occhi, rilasciatemi come un'onda dell'oceano, restituitemi alla marea".
Ma questo disco non è un matrimonio a due ma uno di quelli allargati, quelli che vanno di moda oggi direbbe qualcuno, ma funziona benissimo, certo meglio di alcuni matrimoni "classici", quelli "normali" direbbe sempre quel qualcuno. Un vero matrimonio a quattro. Da una parte chi ci mette voce, volto, corpo e talento: Elton John e Brandi Carlile. Dall'altra: chi ci lavora dietro con eguale talento, ossia il paroliere Bernie Taupin e il produttore, musicista (suona un po' tutto) e autore Andrew Watt, uno che ci sa fare e qui lo fa bene, nonostante sia diventato come il prezzemolo, portandosi sempre dietro alcuni amici fidati. Questa volta sono della famiglia i due Red Hot Chili Peppers Chad Smith (batteria) e Josh Klinghoffer (chitarra ma più impegnato con le tastiere) più Pino Palladino (basso), session man con il curriculum lungo e di spessore (The Who, NIN, Eric Clapton, Jeff Beck).
Ma se il disco finisce con un velo di malinconia per ciò che è stato, l'inizio non è da meno, sembra di tornare indietro a quei fine anni sessanta quando Elton John e Taupin iniziarono il loro sodalizio artistico, aggiungete una Brandi Carlile sempre sul pezzo (spesso è lei in prima linea) e una canzone dedicata a Laura Nyro ('The Rose Of Laura Nyro', dopo una lunga intro strumentale, è piena di riferimenti alle sue canzoni nel testo) e il disco potrebbe già stare in piedi con i suoi due estremi.
In mezzo invece c'è tutto il resto: una giostra colorata, a tratti kitsch come la copertina, di pop rock frizzante, nato in soli venti giorni da fogli completamente bianchi e da imbrattare liberamente di parole e musica. La missione è riuscita particolarmente bene.
Un omaggio alla California musicale degli anni settanta dove rock’n’roll ('Little Richard's Bible' è l'omaggio a uno dei miti di Elton John che va oltre la musica, concentrandosi anche alla vita personale, dura e piena di insidie dell'architetto del rock and roll), il country (l'accopiata formata da 'A Little Light' e 'The River Man', una delle migliori dell'album) e gli anni cinquanta alla Everly Brothers ('Someone To Belong To') si incontrano, trovando la sublimazione nella title track che sembra iniziare là dove finiva Goodbye Yellow Brick Road.
Brandi Carlile, una carriera in continuo crescendo la sua, che già aveva contribuito a riportare sulle scene Joni Mitchell, corona il sogno di duettare con uno dei suoi miti: "è sempre stato il mio super eroe e abbiamo fatto un disco fantastico", e per lui scrive il testo di 'Never Too Late' che compare nella colonna sonora del documentario dedicato a Elton John, dallo stesso titolo e uscito per Disney Channel. I due hanno molte cose in comune: l' omosessualità, i figli, le famiglie. "Ho iniziato pensando: io sono una donna gay, Elton è un uomo gay e entrambi abbiamo figli e famiglia. I nostri sogni sono diventati realtà". Ecco allora la contagiosa e liberatoria 'Swing For The Fences', un invito a essere sempre se stessi e 'You Without Me', neo folk, dedicata alla figlia undicenne.
Un disco, corto (lungo il giusto nei suoi 44 minuti), essenziale, che pare riportare le lancette indietro agli anni settanta e Elton ad una forma artistica che gli ultimi due dischi parevano aver un poco annebbiato. Gioia, armonia e freschezza senza tempo.
"Questo disco verte esattamente alla ricerca di gioia ed euforia" chiosa la Carlile. Mentre scrivo l'ennesima bomba russa fa strage di civili ucraini. E allora sotto che di questi tempi ne abbiamo bisogno: schiaccio il tasto play, faccio ripartire il tutto.
L'adolescenza di Tennessee Jet (il cui vero nome è TJ McFarland) potrebbe essere uguale a quella di tanti altri ragazzini americani che grazie al lavoro dei genitori hanno potuto girare in lungo e in largo gli Stati Uniti. Sua madre e suo padre bazzicavano per rodei con un pick up Ford Ranchero (ecco titolo e copertina di questo nuovo disco) e i cavalli al seguito mentre ad accompagnare il susseguirsi dei paesaggi c'era sempre una radio accesa che passava Bob Dylan, Willie Nelson, Waylon Jennings, Steve Earle e se si cambiava canale uscivano pure le chitarre '90 del grunge che influenzeranno i suoi primi due dischi.
Ecco che quegli ascolti hanno lasciato un segno indelebile venuto utile quando il giovane TJ ha iniziato a imbracciare una chitarra seguendo le orme di quelli che nel frattempo erano diventati per lui importanti quanto e più dei cavalli dei rodei. Iniziò a svrivere canzoni, anche per gente come i Whiskey Myers e Cody Jinks.
"Una volta che ho iniziato a fare la mia musica, ho capito che anche se avessi imparato quei suoni, avrei comunque emulato qualcun altro. Ho dovuto fare musica tutta mia. Per sapere cosa puoi apportare a un genere, a volte è bene fare l'opposto di quel genere, così puoi provare quei vestiti e vedere come ti stanno. Le cose che sono autentiche per te, le conservi. Le cose che non vanno, le scarti" racconta.
Lo avevamo lasciato nel 2021 con il suo quarto disco South Dakota, un disco folk minimale, armonica, chitarra e voce, figlio diretto del lockdown, lo ritroviamo con questo Ranchero che invece ci mostra più lati della sua personalità musicale, legata comunque all'America.
A prevalere questa volta sembra il lato più elettrico: 'The Oklahoma Rose', hillbilly arricchito da un violino che apre l'album in quarta, un altro singolare omaggio allo stato del Midwest e a un suo grande artista come Ray Wylie Hubbard, nella canzone omonima che avanza fiera e baldanzosa ricordando 'Come Toghether' dei Beatles, una tenebrosa e tagliente 'The Only High', il country rock di To Know Her, l'honky tonk di 'Poetry In Blood' con un banjo a condurre la marcia.
Ma la tensione non cala nemmeno nei momenti più soft: 'Bury My Bones' ha tutta l'epicità delle migliori ballad southern rock, 'From To River To The Sea' è l'episodio più folkie di tutto il disco con un testo "importante" che punta l'occhio alle guerre in medio oriente, la finale 'Love & Anarchy' chiude il disco con sottile fantasia di psichedelico country.
Nei suoi brevi 37 minuti di durata c'è anche il tempo per la cover di 'Runaway Train' dei Soul Asylum, passati poche settimane fa in Italia.
Anche se in giro da una decina di anni, ormai, anche se è un forte conservatore musicale, Tennessee Jet è uno dei giovani cantautori americani più promettenti degli ultimi anni, sa scrivere mantenendo una freschezza invidiabile dentro alla tradizione.