giovedì 28 novembre 2019

An Evening With MANUEL AGNELLI feat. Rodrigo D'Erasmo live @Teatro Display, Brescia, 23 Novembre 2019




An Evening With MANUEL AGNELLI feat. Rodrigo D'Erasmo live @Teatro Display, Brescia, 23
Novembre 2019

metti una serata con Manuel Agnelli
Più di trenta anni di carriera sulle spalle e spesso sento parlare di lui in tv ancora come “nuova musica italiana”. Ha scritto almeno uno degli album fondamentali del rock alternativo italiano, volenti o nolenti, sfido chiunque a ripetere un album di quella intensità (anni novanta ma anche di sempre: Hai Paura Del Buio?), anche se credo che la discografia degli Afterhours almeno fino a Ballate Per Piccole Iene non abbia punti deboli.
Ha suonato negli States accompagnando gente come Greg Dulli e Mark Lanegan ottenendo il loro rispetto (e non è il solito rocker pecoreccio che fuori dai confini italiani non conta nulla), va in TV in un canale di stato a fare cover di Springsteen, Van Morrison, Jackson Browne/Nico, Lou Reed, Nick Drake, Beatles, Radiohead, Pixies, Suicide e qualcuno riesce ancora a trattarlo come l’ultimo arrivato. Lo so che ci siete, vi ho letto qualche tempo fa quando in TV c'era il suo programma Ossigeno.
Passa spesso per antipatico, forse perché è un artista determinato e con una forte personalità, viscerale, che fa scelte, che si sbatte per la musica mettendoci la faccia. Che sia mettere in piede un festival come il Tora! Tora! (ricordate?) o fare il giudice a X Factor.
Uno che divide: o lo ami o lo odi. Però non si può riconoscergli o fare finta di nulla davanti alla sua importanza nel rock italiano degli anni 90, 2000.
Ora sta portando in giro questo spettacolo (An Evening With Manuel Agnelli) intimo, caldo, avvolgente e coinvolgente, fatto di tante canzoni ma anche di poesia, letteratura, aneddoti, accompagnato sul palco dal solo Rodrigo D'Erasmo e da un semplice quando accattivante gioco di luci.
Agnelli sfodera la sua potenza vocale, mai così in luce e in primo piano, il suo bagaglio musicale e il suo essere musicista a tutto tondo: dalle sue canzoni ai Joy Division, da una 'Lost in The Flood' che nemmeno più Springsteen fa così al pianoforte, a un "tributo" a Nick Cave con una toccante 'Skeleton Tree', 'Berlin' di Lou Reed (seguita dai ricordi delle sue disavventure giovanili in Germania) , 'True Love Will Find You In The End' omaggio a Daniel Johnston, passando da Battisti a Lana Del Rey (captata dagli ascolti della figlia). Pochi saprebbero affrontare certi repertori così vari, uscendone vincenti.
E non meno importante: esce la sua simpatia che tocca l'apice nell'aneddoto sul viaggio con Emidio Clementi in India. Già, proprio così.
Se amate la musica è uno spettacolo assolutamente da non perdere (una delle cose più belle viste quest'anno) e forse chissà: se siete tra coloro che non lo hanno mai sopportato potreste anche cambiare la vostra visuale. Non è forse questo il bello della musica? Sorprendere.




mercoledì 27 novembre 2019

DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 81: MAMA'S PRIDE (Mama's Pride)

MAMA’S PRIDE-Mama’s Pride (1975)




I figli di Saint Louis
Si potrebbe partire dal famigerato terzo disco (il secondo fu Uptown & Lowdown, 1977) che avrebbe potuto svoltare la loro carriera: Ronnie Van Zant si era impegnato nel prendere sotto le sue ali protettrici la band di Saint Louis e produrre l' album. Purtroppo in quel 1977 non vi fu tempo e le ali del fato, trasformate in ali d'aereo, portarono il cantante dei Lynyrd Skynyrd in ben altri posti, chissà dove. I Mama’s Pride si bloccarono, il disco non vide mai la luce e fu anche la loro prematura fine, avvenuta con lo scioglimento nel 1982. La storia riprese negli anni novanta quando il terzo disco della carriera arrivò ma i tempi erano veramente diversi. E dire che tutto iniziò nel migliore dei modi per la band dei fratelli Pat e Danny Liston che scelsero proprio di omaggiare loro madre nel nome da dare al gruppo, ex cantante country e western negli anni 30, piazzandola anche in una copertina quasi rassicurante, “una chioccia intorno ai suoi ragazzi”, salvo ribaltare le cose nel retro, carico dei tipici eccessi e stereotipi della vita rock’n’roll che alla fine finirono veramente per inghiottirli.
Situazione che rispecchia anche la loro musica: devota al verbo sudista dei padri Allman Brothers (‘’Who Do You Think You’re Foolin’) ma capace anche di improvvisi e saettanti scatti soul boogie (‘Missouri Sky Line’). “Eravamo ragazzi di South St. Louis. Mio fratello ed io siamo stati cresciuti da una madre single. All'improvviso, siamo passati dal nulla a enormi dimore e limousine e tutto era a nostra disposizione. Voglio dire, dovevi stare attento a ciò che chiedevi, perché sarebbe successo” racconta un Danny Liston ora più che mai rifugiato tra le mani di Dio, ma che ai tempi cadde con facilità nell’alcolismo “l'unica volta che ero felice era quando stavo suonando. Ma, ricordo l'ultima canzone del set, solo perché volevo che non finisse mai perché so che sarebbe successo - nel momento in cui la canzone sarebbe finita e nel momento in cui sarei uscito da questo palco, la depressione mi avrebbe colto”. Ottenuto un buon contratto con la Acto, etichetta satellite della Atlantic, e la produzione di Arif Mardin, uno con già dei Grammy in tasca, i Mama’s Pride racchiudono nelle nove canzoni tutto il meglio e i difetti del southern rock. Citano gli Allman Brothers nella voglia di allungare e jammare, i Marshall Tucker Band nelle canzoni più epiche, articolate e cangianti, la melodia dei Doobie Brothers in ‘Blue Mist’, gli Outlaws quando si adagiano sicuri sui verdi campi del country (la ballata acustica ‘Laurie Ann’). Un disco che avrebbe meritato più fortuna, comunque trainato dal buon successo di ‘In The Morning’, rispetto a quell'aurea da band da seconda fila del southern rock americano che i Mama’s Pride si trascinano dietro ancora oggi. Ma se tutti i generi hanno bisogno anche delle seconde file per rinforzarsi, i Mama’s Pride fanno la loro bella (davanti) e sporca figura dietro (girate la copertina). Ogni tanto i fratelli Liston, ancora oggi, si riuniscono per ricordare le cose più belle di quella brevissima stagione.




venerdì 22 novembre 2019

RECENSIONE: BLACK STAR RIDERS (Another State Of Grace)

BLACK STAR RIDERS  Another State Of Grace (Nuclear Blast, 2019)



the boys are back in town
Il legame con i Thin Lizzy è ancora presente (ascoltate l'iniziale 'Tonight The Moonlight Let Me Down' con il sax ospite di Michael Monroe) e non potrebbe essere diversamente vista la presenza del chitarrista Scott Gorham che i palchi con la band irlandese li ha calcati dall'inizio alla fine dell'avventura e visto che la band è nata proprio da una costola dei riformati Thin Lizzy. Da questo disco però..., il quarto, la band sembra gridare forte e chiaro la propria indipendenza e la propria nuova identità. Ricky Warwick, forte del suo pesante passato con gli Almighty, si prende per mano la band e la conduce verso un futuro che sarà sicuramente carico di grandi soddisfazioni. Nella ballata 'What Will It Take', cantata insieme a Pearl Aday (figlia di Meat Loaf), si può misurare la sua bravura di songwriter anche quando calca meno la mano sul lato rock. Cercate i suoi dischi solisti.
Quando hard rock e melodia viaggiano così bene insieme (chitarre e cori, più la straordinaria voce del rosso Warwick) e quando le radici americane e celtiche si intrecciano senza danneggiarsi tra loro, escono fuori canzoni dal carattere forte, heavy, come la dura 'Soldier In The Ghetto' (il lavoro delle due chitarre-con Gorham c'è il nuovo entrato Christian Martucci-porta inevitabilmente ai Thin Lizzy d'annata), dai testi impegnati come la title track dove Warwick ritorna indietro in quell'Irlanda degli anni settanta segnata dal sangue dell'Ira o come 'Why Do You Love Your Guns' una semi ballad di forte denuncia contro il proliferare delle armi da fuoco negli Stati Uniti d'America.
"Sono osservazioni sulla vita e cosa sta succedendo nel mondo. Posso solo scrivere quello che so e come influenza i miei amici e la mia famiglia. Ho libri pieni di testi e scarabocchio tutto il tempo" racconta il cantante.
I Black Star Riders continuano a tenere in vita la luce di Phil Lynott afferrando il rock a due mani, una chiusa a pugno pronta a sferrare fendenti e a combattere (la componente barricadera è viva e pulsante) e l'altra aperta per accarezzare. Tutto in modo onesto e da vecchi ed esperti operai del rock.






 

domenica 17 novembre 2019

RECENSIONE: MICHAEL KIWANUKA (Kiwanuka)

MICHAEL KIWANUKA  Kiwanuka (Polydor Records, 2019)




light
Non è certamente un disco immediato il terzo lavoro di Michael Kiwanuka. L'imperativo è non scoraggiarsi per essere ricompensati.
Se c'è una canzone da cui partire per affrontare l'ascolto però non la troverete qui ma all'inizio del precedente Love & Hate: questo terzo album sembra ripartire proprio dai dieci minuti di 'Cold Little Heart'. Ne ha fatta di strada da Home Again e tante cose sono successe dopo, il debutto uscito nel 2012, un disco che rappresentava la via di uscita di un giovane ragazzo di origini ugandesi cresciuto in un quartiere bianco di Muswell Hill a Londra (dove i genitori si trasferirono per sfuggire al violento e sanguinario regime imposto da Amin Dada), dipingeva ancora incertezza musicale legata al folk e al soul nonostante i riferimenti fossero ben forti e chiari ma soprattutto una debolezza caratteriale, una timidezza (ricordo bene il primo concerto ai Magazzini Generali di Milano) che per poco non lo indussero a mollare tutto prima del tempo, pressato dall'industria discografica che voleva persino cambiargli il nome. Dove vai con quel nome?
 "Non cambierò il mio nome, non importa come mi chiamano" canta ora con grande orgoglio. Sarebbe stato un delitto.
Kiwanuka tra il primo e il secondo album ha lavorato su se stesso, scavando nella propria indole e i risultati sono stati incredibili. L'incontro con Danger Mouse ha portato al clamoroso successo di Love & Hate ma soprattutto lo hanno portato ad imboccare le strade della personalità e presa di coscienza delle proprie capacità. In copertina si è fatto dipingere come un sovrano, metà africano metà inglese, e ha intitolato l'album semplicemente Kiwanuka. Un messaggio forte: questo sono io. Prendere o lasciare. Prendiamo. Grazie. E tra i testi compare sovente questa sua dichiarazione di indipendenza, orgoglio e identità. Certamente un consiglio da seguire. Lo fa nella maniera più sofisticata mischiando personale e politico, inserendo sampler di peso sociale e dove il vero "eroe" è Fred Hampton, attivista e rivoluzionario, ucciso a sangue freddo dalla polizia a Chicago (Kiwanuka si domanda: può essere un vero eroe?).
Un flusso musicale, certo ambizioso, diviso in tredici canzoni ma che deve essere preso in blocco dall'inizio alla fine. Una lunga suite, dove orchestrazioni d'archi, influssi jazzati, cori gospel e soul, funk, chitarre rock, impegno folk, psichedelia ballano insieme in un flusso di coscienza che cattura, ammalia e rapisce, scandito dalla voce vellutata, calda e avvolgente. È il passato della black music che amoreggia calorosamente con il presente.
 Ho tralasciato volutamente titoli e influenze (in rete troverete di tutto e di più) perché l'insieme sembra essere più importante delle singole tracce. Al primo ascolto è stata una smorfia dubbiosa poi è diventato droga vera. Da ripetere in loop. Dategli tempo.
 Appuntamento al Fabrique di Milano in Dicembre, consapevole che quella timidezza di inizio carriera ora si possa chiamare personalità.





RECENSIONE: MICHAEL KIWANUKA -Home Again (2012)
RECENSIONE/REPORT: MICHAEL KIWANUKA live@Magazzini Generali, Milano, 21 Aprile 2012
RECENSIONE: MICHAEL KIWANUKA-Love & Hate (2016)



giovedì 14 novembre 2019

RECENSIONE: MARK LANEGAN BAND (Somebody's Knocking)

MARK LANEGAN BAND  Somebody's Knocking (Heavenly Recordings, 2019)




 bene ma non benissimo...
a Mark Lanegan gli si vuole bene: ad ogni disco post Blues Funeral (che grande disco fu quello! Il primo che metteva il blues fuori dalla porta a giocare con l'elettronica) speri sia riuscito a fare quelle due ultime bracciate che gli permetterebbero di uscire da quel vortice new wave in cui continua beatamente a girare. E invece no, Somebody's Knocking per certi versi è la punta più estrema toccata fino ad ora. Che gran bastardo Mark. Alla fine vince sempre lui. Vorrei scrivere e gridare: "non riesco nemmeno più a dire lo salva la voce perché per la prima volta non c'è una canzone che mi sia entrata nel cuore, nell'anima, in qualunque altro posto…" e invece no. Non lo faccio perché queste canzoni alla fine arrivano insieme a tutta la libertà artistica che si sta prendendo. In una recente intervista è stato chiaro: se non vi piace quello che faccio, girate pure alla larga.
" Faccio dischi per far piacere a me stesso, e se a qualcun altro piacciono è la ciliegina sulla torta" racconta a Northern Transmissions. Com
A questo punto è chiaro: ci crede veramente, anche se l'album si apre con questa frase:" going downtown in the wrong direction".
"Quando avevo dodici anni la scuola in cui mio padre lavorava era chiusa e qualcuno gli diede una scatola di dischi che era stata dimenticata. Uno dei dischi era Autobahn dei Kraftwerk. Un altro degli album era un disco dI Lightnin Hopkins, quindi per la prima volta mi sono presentato alla musica elettronica e al blues." Ecco spiegato. Ricorda Lanegan.
Qui bisogna prendere tutto in blocco (quelle più danzerecce, a pensarci bene, forse sono troppo) e forse bisogna farsene una ragione visto il tanto tempo trascorso tra queste onde. Mark Lanegan sta bene così, adagiato e comodo tra la new wave e il synth rock a cui dona la sua rauca e inimitabile voce: echi di Joy Division e New Order, Sisters of Mercy, Depeche Mode. Ma anche i Gun Club quelle poche volte che ritorna al rock vecchia maniera, ci sono pure echi di  Nick Cave, David Bowie e Leonard Cohen quando accompagna le canzoni più atmosferiche. I fidati amici Alaian Johannes (produttore) e Greg Dulli appaiono invece in carne e ossa.
 Mancano i fantasmi folk blues che scavano la terra dell'anima, sostituiti da beat a volte troppo ghiacciati ma in qualche modo suadenti in grado di catturare.
Sempre più freddo. Io aspetto comunque il prossimo…prima o poi ritornerà anche a nuotare in posti più caldi.
E già si intravede all'orizzonte la prossima mossa: nel 2020 è in uscita l'autobiografia accompagnata da un nuovo disco.




lunedì 11 novembre 2019

DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 80: RORY GALLAGHER (Tattoo)

RORY GALLAGHER   Tattoo (1973)



chi si ferma è perduto

Se l'ispirazione chiama, Rory Gallagher risponde. A pochi mesi di distanza da Blueprint, in quel 1973 funestato dalla violenza che serpeggia per le strade dell’ Irlanda del nord, ritorna in studio di registrazione e senza cali di qualità registra uno dei suoi migliori dischi in carriera. Una vita frenetica su e giù dai palchi europei e americani, in mezzo poche settimane per registrare canzoni che nascevano on the road, tra un palco e le camere d'albergo. Questa volta nessun produttore esterno a dare fastidio e creare intralcio. TATTOO lo afferma e lo proietta ancora più in alto.
La genesi dell’album prende il via nell’amata Cork in un club preso in affitto che si trovava in una barca ormeggiata sulla riva del fiume. “Poteva scrivere canzoni, rilassarsi, mangiare cibo casalingo. Le prove si tennero lì e quando tornammo a Londra era tutto pronto” racconterà il fratello Donal.
A Londra, ai Polydor Studios, registra con la band composta da Gerry McAvoy (basso), Lou Martin (tastiere) e Rod de ‘Ath (batteria), la stessa del precedente Blueprint.
La doppietta d'apertura non lascia scampo: ‘Tattoo ‘d Lady’ è un rock carico di rimandi all'infanzia (il circo, il luna Park) ma che si proietta nel suo presente, mentre ‘Cradle Rock’ è una furia a tutta bottleneck destinata a segnare l’intera carriera. Mentre con ‘20:20 Vision’, un breve sipario acustico, e con ‘They Don’t Make Them Like You Anymore’ mette in fila le influenze jazz suonando il bouzouki di Manolis Chiotis omaggiando il musicista greco con la sua Perasmenes Mou Agapes, con ‘Livin’Like A Trucker’ riprende a macinare rock blues sopra ai ricordi e alle suggestioni delle recenti trasferte americane.
‘Sleep On A Clothes-Line’ è un trascinante boogie a cui ‘Who’s That Coming’ risponde con il blues più classico in scaletta costruito su slide e bottleneck. C’è ancora il tempo per ‘A Million Miles Away’ una delle più intense ed evocative canzoni d’amore del suo repertorio, venuta in ispirazione tra le scogliere di Ballycotton e per il riff pesante che guida la conclusiva ‘Admit It’.
Via, si riparte per un altro tour che diventerà Irish 74, schivando ma affrontando di petto il sangue che bagna la sua Irlanda. Non rinuncerà a suonare nei posti più pericolosi. “Sono un musicista, non un politico” era il suo mantra e lo rispetterà fino in fondo, perché “penso che diverrei terribilmente pigro se mi prendessi un anno di pausa o qualcosa del genere”.




martedì 5 novembre 2019

RECENSIONE: TOM KEIFER BAND (Rise)

TOM KEIFER BAND   Rise (Cleopatra Records, 2019)
 
 
 
 
 
cenerentola dopo mezzanotte
 
Per uno che si è trovato davanti alla possibilità di vedere la propria carriera di cantante stroncata da un serio problema alle corde vocali (quante operazioni e giorni di riabilitazione), RISE è un altro piccolo miracolo, il disco che in qualche modo i Cinderella di Tom Keifer avrebbero dovuto fare dopo Still Climbing, uscito nel 1994. Invece tutto si interruppe sul più bello. Come confessato in una recente intervista, di rimettere in piedi la vecchia band, TOM KEIFER non ci pensa nemmeno, però questa volta per il secondo disco a suo nome, dopo il precedente The Way Life Goes del 2013, fa aggiungere il nome della nutrita band stile seventies in copertina (anche due coriste tra cui la moglie Savannah). Sembra già una piccola apertura e riconoscenza al gioco di squadra.
"C'è un'energia completamente nuova. È un nuovo capitolo. È una nuova band. In termini di performance, lo spettacolo, se esci e lo guardi, il modo in cui eseguo, canto e suono la chitarra è sempre lo stesso di sempre, e lo show è molto energico, ma c'è una nuova band."
In Rise convivono le tre anime di Keifer: da una parte quella rock fatta di chitarre hard a volte ai limiti del metal (la modernista 'Hype') che l'ascolto dell'accoppiata di apertura ('Touching The Divine' e 'The Death Of Me') conferma e canzoni come 'All Amped Up' e 'Life Was Here' ribadiscono; dall'altra quella sentimentale fatta di ballate mai scontate cantate con la voce aspra e abrasiva di sempre come l'acustica dai forti sapori southern 'Waiting On Demons', il pianoforte che guida la belle 'Rise' dal carattere soul e 'Taste For The Pain' e la finale 'You Believe In Me' condotta in solitaria, voce e chitarra che confermano la bontà di Keifer come songwriter e quanto il suo ormai ventennale trasferimento a Nashville si faccia sentire nella sua arte; in mezzo il blues di 'Untitled' e la viziosa 'Breaking Down' in grado di riportare l'orologio indietro ai tempi di Long Cold Winter e Heartbreak Station quando i Cinderella confermarono di essere diversi dalle tante band con cui condividevano il red carpet dello street glam di quegli anni. Possessori di quel retaggio roots che faceva la differenza.
"Tento di rendere ogni disco interessante. Non mi piace fare due dischi consecutivi uguali anche se c'è sempre un filo conduttore che li unisce".
Il segnale lanciato da Keifer con i suoi due dischi solisti sembra molto chiaro: è tornato per restare.