lunedì 30 dicembre 2024

DISCHI e CONCERTI del mio 2024

 



il mio 2024 in 24 dischi

BLACK CROWES - Happiness Bastards

BLOOD INCANTATION - Absolute Elsewhere

JERRY CANTRELL - I Want Blood

CURSE OF THE SON - Delirium

THE CURE - Songs Of A Lost World

THE DECEMBERISTS - As It Ever Was, So It Will Be Again

GILLIAN WELCH & DAVID RAWLINGS - Woodland Studios

HIGH ON FIRE- Cometh The Storm

JUDAS PRIEST - Invincible Shield

RAY LAMONTAGNE - Long Way Home

THE OBSESSED - Gilded Sorrow

OPETH - The Last Will And Testament

ANDERS OSBORNE - Picasso's Villa

THE PEEWES - One Ride

PRIMAL SCREAM - Come Ahead

THE RODS - Rattle The Cage

STARSAILOR - Where The Wild Things Grow

ANDREA VAN CLEEF - Horse Latitudes

JACK WHITE - No Name

X - Smoke & Fiction

(in ordine alfabetico)



box, live, cover, raccolte, reissue, album di morti e altre amenità varie uscite e ascoltate nel 2024

-THE LONG RYDERS - Native Sons 3cd box

-RAIN PARADE - Emergency Third Rail Power Trip (Deluxe)

-MARK LANEGAN - Bubblegum XX

-THE ROLLING STONES - Live At The Wiltern

-SLASH - Orgy Of The Damned

-JOHNNY CASH - Songwriter

-CSN&Y - Live At The Fillmore 1969

-NEIL YOUNG & CRAZY HORSE - Fu ## kin' Up

-HELLACOPTERS - Grande Rock Revisited

-D-A-D - Greatest Hits 1984-2024


10 CONCERTI per il mio  2024 (e poi tutti gli altri)

-JUDAS PRIEST/SAXON, Forum Assago, 6 Aprile

-KULA SHAKER, Alcatraz, Milano, 13 Maggio

-BONNIE PRINCE BILLY, Spazio 211, Torino, 15 Maggio

-GLENN HUGHES, Alcatraz, Milano, 22 Maggio

-THE CULT , Carroponte, Milano, 27 Luglio

-BLACK PUMAS, Fabrique, Milano, 4 Novembre

-STARSAILOR, Spazio 211, Torino, 7 Novembre

-D-A-D, Legend, Milano, 25 Novembre

-THERAPY? Magazzini Generali, Milano, 6 Dicembre

-VINICIO CAPOSSELA, Venaria Reale, 21 Dicembre 

13 Gennaio WINO, Circolo Kontiki, Torino

18 Gennaio SABBIA, Cinema Verdi Candelo

26 Gennaio BACHI DA PIETRA, Spazio 211, Torino

3 Febbraio ANANDA MIDA Blah Blah, Torino

17 Febbraio LUCIO CORSI, Settimo Torinese

23 Febbraio EDDA, Spazio 211, Torino

8 Marzo DIRTY HONEY, Alcatraz, Milano

13 marzo CISCO, Hiroshima Mon Amour, Torino

 29 marzo LOVE GANG, Blah Blah, Torino

30 Marzo TYGERS OF PAN TANG, Legend, Milano

3 Aprile CACAVAS/STEVE WYNN, Blah Blah, Torino

12 Aprile THE ATTREZZIS, Ned Kelly, Vigliano Biellese

25 Aprile FATOUMATA DIAWARA, Teatro Regio, Torino

27 Aprile ACID MAMMOTH, Blah Blah, Torino

6 Maggio PFM canta DeAndrè, Teatro Alfieri, Torino

25 maggio KADABRA, Blah Blah, Torino

6 Giugno DIRTY DEEP, Blah Blah, Torino

17 giugno Mr. BUNGLE, Magnolia, Milano

4 Luglio HIGH ON FIRE, Torino 

21 luglio KING HANNAH, Triennale, Milano

31 Luglio OBSESSED, Ziggy Club, Torino

1 Agosto SACRIMONTI, Blah Blah, Torino

4 Agosto BRANT BJORK, Blah Blah, Torino

9 agosto EL PERRO, Blah Blah, Torino

14 Agosto WOLFMOTHER, Brescia

19 Agosto EXODUS, Brescia

22 agosto MDOU  MOCTAR, Magnolia, Milano 

2 sett ENRICO RUGGERI, Bolle di Malto, Biella

6 settembre MESSA, Legend, Milano

13 settembre MUDHONEY, Santeria, Milano

20 settembre TWO HEADED, Blah Blah, Torino

28 settembre The PEEWEES, Blah Blah, Torino

2 Ottobre BLACKBERRY SMOKE, Alcatraz, Milano

6 Ottobre RILEY WALKER, Arci Bellezza, Milano

20 Ottobre MARCUS KING, Fabrique, Milano

29 Ottobre The WHITE BUFFALO, Magazzini Generali, Milano

15 novembre SABBIA, Biella

23 novembre The WINSTONS, Spazio 211, Torino

4 dicembre KING HANNAH, Spazio 211, Torino

12 dicembre DIAFRAMNA, Hiroshima Mon Amour, Torino

mercoledì 25 dicembre 2024

RECENSIONE: DEWOLFF (Muscle Shoals)

 

DEWOLFF  Muscle Shoals (Mascot Records, 2024)



sogni

Se suoni certa musica e ami certi suoni prima o poi sogni un volo verso l' Alabama, direzione Muscle Shoals e i suoi studi di registrazione. Gli olandesi Dewolff dall'alto di una prolificità tarata in altri tempi, così lontani dal presente quando registrare dischi era cosa naturale, buona e giusta e le classifiche di Spotify un futuro non immaginabile, in Alabama ci atterrano nel Maggio del 2024, piantano tende, posano i bagagli e nei Fame Muscle Shoals Studios (in copertina l'indirizzo 3614 Jackson Highway e la foto sembrano citare l'album di Cher)  con l'aiuto del produttore Ben Tanner  registrano tredici nuove canzoni che andranno a rimpolpare i loro già ricchi e infuocati live set.

"Anche prima che ci appassionassimo al southern rock, da ragazzino, Luka ha ricevuto un album di southern soul, e la maggior parte è stata registrata al FAME" dicono i fratelli Pablo (chitarra e voce) e Luka Va De Poel (batteria e voce) che con Robin Piso (hammond, piano, synth e Wurlitzer) e con l'aiuto di Levi Vis al basso  hanno suonato nel disco.

Chi già li conosce qui va a colpo sicuro: trovando lo smisurato amore per il soul blues imbastardito del trio di  Geleen, cittadina di poco più di 30.000 abitanti nel sud dei Paesi Bassi. Personalmente li ho conosciuti in apertura ai Black Crowes  dove hanno catturato tutti i presenti con un infuocato set di hard blues. Li vidi poi da soli al Legend Club nel 2023, lì a prevalere fu il lato più soul che sta caratterizzando questi ultimi anni.

L' hammond sempre ben presente e protagonista in tracce come 'Hard To Make A Buck' e 'Natural Woman' tradisce tutto l'amore per i suoni seventies, la tensione ritmica che vira al funk di 'Out On The Town', la chitarra che piange southern rock in 'Ophelia' che piano piano sale in un rock sporcato di gospel e che si trasforma nella più selvaggia e boogie 'Truce' dove compare un incisivo sax.

Il pianoforte honky-tonk alla Leon Russell di 'Book Of Life', Leon Russell che negli studi Fame era di casa, il soul notturno di 'Winner' con la chitarra solista ben in evidenza, l'andamento funky blues alla Free di 'Fools & Horses', i giochi soul alls Stevie Wonder della ballad 'Ships In The Night' che si stempera nei rumori ambientali registrati nella notte ('Cicada Serenade') probabilmente fuori dagli studi. Poi tutta quella voglia e la capacità di allungare verso la jam che troviamo negli otto minuti di 'Snowbird'.

Un disco a suo modo intrigante che ribadisce tutto l'amore e la devozione del trio per la musica ma che in un certo senso sembra lasciare ancora spazio e margine per ulterori future svolte (dopotutto sono poco più che trentenni), mancando anche di quel colpo da knock out che devono ancora sferzare per fare veramente la voce grossa. Anche se in Europa pochi sono come loro.

E la loro età fa da buon garante che  prima o poi possa succedere qualcosa di grande.




domenica 22 dicembre 2024

VINICIO CAPOSSELA live@Teatro Della Concordia, Venaria Reale, 21 Dicembre 2024


La mia verità è che ci vorrebbe una 'sciustenfesta' messa in piedi da Vinicio Capossela almeno una volta al mese. A fine mese per azzerare tutto e ripartire. Che meraviglioso spettacolo d'altri tempi ha messo in piedi: il miglior regalo di Natale che si possa fare o ricevere per uscire dal mondo reale  per un paio di ore ed entrare in un cosmo dove ognuno ha potuto perdere liberamente  ogni inibizione. A proprio piacimento: il giovane ragazzo di fianco che a fine concerto ha versato litri di lacrime sulle note di 'Ovunque Proteggi' è stata la testimonianza più diretta che ho avuto.

Persi tra gioia e innocenza, sacro e profano, redenzione e illusione. rivoluzione e allegoria, lasciando fuori dalla porta  i "guastafeste" come la rumorosa alzata di voce mediatica che di questi tempi vorrebbe dettarci proprio i "nostri" tempi. Riprendiamoci gli spazi:"almeno per questa sera, non soffriamo più ".


Ricordi d'infanzia e folklore, tavole imbandite e scimmie saltellanti, giochi di prestigio e campanelle, Erode e Kerouac, mambo e swing, un Santa Claus "vestito come una lattina di Coca Cola" che si spara un colpo ('Santa Claus Is Coming To Town'), San Nicola (santo emigrante) che si porta dietro al guinzaglio un Krampus di taglio economico e pieno di grosse zecche, la gioia e la malinconia tra la voglia di far festa di Louis Prima ('Angeliba/Zooma Zooma') e un malinconico biglietto di Natale recapitato da un Tom Waits d'annata che parte da un locale fumoso di Minneapolis e arriva direttamente giù a  Scandiano ('Christmas Card From A Hooker in Minneapolis). "Cristo Charlie!". 

Con "S'alza l'asta del ginnasta quando passa il Marajà" si balla, con 2Che Cos'è L'a Amor, un sasso nella scarpa..." ci si abbraccia.

Una 'Fairytile Of New York' di Shane McGowan e i suoi Pogues regalata a Torino, perché "Torino è la città più rock'n'roll d'Italia" in un finale di concerto svestito dagli abiti da festa, quando sul palco rimangono solo i ricordi colorati, ma già vecchi di un anno in più, del veglione di poche ore  prima.

Direi che abbiamo "sopportato" tutto, anche chi dietro di me, fatto o alticcio, ha parlato ad alta voce dei cazzi  suoi per una buona parte del concerto. Buon Natale anche a voi!


foto: Enzo Curelli


lunedì 9 dicembre 2024

THERAPY? live@Magazzini Generali, Milano, 6 Dicembre 2024

 


Avere un disco come Troublegum nella propria discografia è un privilegio non da poco (un milione di dischi venduti) ma per i nordirlandesi è stato anche un muro da superare ogni volta per arrivare fino ad oggi. Difficile avvicinarsi alla perfezione di quelle quattordici canzoni che li catapultarono in cima alle chart di tutto il mondo e che Andy Cairns anni dopo spiegò così:"nel corso degli anni, molte persone hanno proclamato Troublegum come disco pop dei Therapy? per via di 'Screamager' e 'Nowhere'. Riascoltandolo è molto, molto oscuro, dal punto di vista dei testi e musicalmente". Ecco serviti gli anni novanta.

Da quel 1993 non hanno mai smesso di produrre musica (dove noise, metal, punk e pop convivono senza fare a pugni) e fare concerti con entusiasmo e rara abnegazione. Questo tour del trentennale però è tutto dedicato a quell'album che è stato sviscerato praticamente da cima a fondo, non in sequenza però (scelta saggia), intervallato solo da vecchie canzoni uscite in precedenza ('Nausea', 'Teethgriner', 'Opal Mantra', 'Potato Junkie') senza nessuna concessione al post. In verità c'è una 'Diane' elettrica più vicina all'originale degli Husker Du rispetto alla versione uscita su Infernal Love, anno 1995.


Ne è uscito sì un concerto per nostalgici (guardandosi intorno l'età media era molto elevata) ma anche uno dei live set più divertenti, partecipati e intensi del mio 2024. La voglia di divertirsi è ancora tanta: Michael Mckeegan salta ancora come il primo giorno d'uscita di Troublegum, il batterista Neil Cooper che all'epoca non c'era ma è nella band da ventidue anni festeggia gli anni ma non è mica vero (ho controllato, una goliardata che si ripete ogni sera per farlo sfogare in un assolo), Andy Cairns guida il tutto, scherza sulle lingue (italiano e irlandese), aizza i fan che rispondono senza lesinare cori, tira fuori il riff di 'Iron Man' dei Black Sabbath, dedica 'Die Laughing' a tutti i caduti del rock’n’roll (da Shane McGowan a Paul Di Anno, da Steve Albini a Kurt Cobain ma la lista sarebbe infinita), si ferma per farci pensare a chi in questo momento mentre noi siamo qui a cantare e ballare sulle note di 'Nowhere', 'Screamager' e sorelle, è sotto un ponte o le bombe di una guerra. 

Sì torna a casa con un pezzo di paraurti danneggiato (maledetti marciapiedi milanesi ma c'è un po' di rock’n’roll anche in questo) con la consapevolezza di aver vissuto due volte un album a suo modo epocale: in diretta a vent'anni e oggi con trenta in più sulla carta d'identità. Più tutto quello che ci sta in mezzo e nel futuro naturalmente: "non riesco a pensare a niente di peggio che essere bloccato in un'epoca o in un genere" spiegò Cairns in una recente intervista e i dodici dischi pubblicati dopo Troublegum ne sono la testimonianza, non conosciuta a tutti ma ci sono.



domenica 8 dicembre 2024

KING HANNAH live@Spazio 211, Torino, 4 Dicembre 2024


Che il pubblico italiano abbia adottato i King Hannah lo si capisce dal caloroso abbraccio con il quale  lo Spazio 211 avvolge la band di Liverpool durante tutto il concerto: dalla lunga e iniziale 'Somewhere Near El Paso' che ben rappresenta le tematiche del viaggio americano che hanno caratterizzato il secondo album Big Swimmer, uscito quest'anno e che a molti non è andato giù (io lo adoro più del primo), alla cover finale di 'Blue Christmas', conosciuta nella versione di Elvis, un saluto pre natalizio cantato a due voci, che ben si è calato tra le maglie dell'intima atmosfera che si è creata all'interno del piccolo locale torinese, sold out per l'occasione.


Perché è francamente difficile voler male al gruppo di Hannan Merrick e Craig Whittle quando percepisci la loro sincera emozione difronte a tanto entusiasmo e quando il loro mood dove il continuo contrasto nel saliscendi emotivo creato dal profondo velluto del cantato (a declamare testi super minimalisti)  e dall'asprezza delle chitarre elettriche (quando a tratti ci senti i Sonic Youth che jammano con Neil Young) in qualche modo riesce a rapirti e portarti via, lontano con loro. Fosse anche solo il Regno Unito, andrebbe gia bene.

Più invecchio, più mi guardo intorno, scruto il pubblico. Ascolto i discorsi, anche se alcune volte sarebbe meglio non farlo visto le castronerie che sento o vedo: un tizio mentre si aspettava il concerto, ha fatto una foto alla setlist appiccicata sulle assi del palco, convinto fosse quella dei King Hannah (con tanto di commenti sulle canzoni), ma si capiva chiaramente (ho sbirciato sì) che era quella di Joe Gideon che ha aperto il concerto. I King Hannah manco la avevano, andavano a braccio.

Un pubblico vario, fatto di tanti giovani ma pure di persone oltre gli anta perché in fondo i King Hannah, in tutta la loro semplicità, purezza e apparente fragilità hanno un animo "da anziani" e lo dimostrano quando cantano di 'John Prine On The Radio' (però ho sentito pochi "yes" alla domanda:" conoscete John Prine?" evidentemente i giovani superavano in numero i vecchi) e quando rifanno una 'State Trooper' di Bruce Springsteen con una lunga coda noise che da sola varrebbe il costo del biglietto (comunque popolare). È la terza volta che li vedo, la seconda quest'anno. E andrei a rivederli pure domani. Ah no, domani sera ci sono I Therapy?. Altra bella storia. Da vecchi naturalmente. 



giovedì 28 novembre 2024

D-A-D live@Legend Club, Milano, 25 Novembre 2024


Il primo Novembre i D-A-D hanno festeggiato i quarant'anni di carriera in casa a Copenhagen davanti a 15.000 persone. Un'istituzione per la musica danese.

 Ieri sera al Legend non eravamo certamente così tanti ma il locale era caldo e pieno per augurare alla band altrettanti anni a questo livello. Sì perché credo sia raro trovare un'altra band della loro generazione ancora così in forma: tante sono scomparse, altre arrancano con superstiti e comparse, qualcuno si è venduto. Loro hanno sempre tenuto dritta la barra del rock'n'roll, surfando le mode musicali di quattro decenni senza mai cadere in acqua. Questa sera di quei periodi "duri" per certa musica sono comparse canzoni come  Reconstrucdead e Monster Philoshopy.

Ed ogni volta che li vedo sono sempre meglio della volta precedente. Come è possibile? Sarà quella autoironia che li mantiene sempre allegri e gioviali anche quando decidono di mettere mani e piedi nella concretezza: qui è il batterista Laust Sonne a tenere il tempo. E che tempo. Per i giochi di fino ci pensa invece la chitarra di Jacob Binzer che come un mago vestito fa magie.


" Cantare vecchio e cantare nuovo" è il mantra che Jesper Binzer va ripetendendo per buona parte della serata fino a quando si riesce a fargli capire che "cantare"  andrebbe sostituito con "canzoni". Ecco così che "canzoni" (con quella Z pronunciata come solo un danese potrebbe fare) di vecchissimo stampo come It's After Dark, Jonnie e Riding With Sue dall'album Call Of The Wild, quando ancora la loro proposta cavalcava il cowpunk e il country vengono sparpagliate con l'album nuovo e fresco di stampa Speed Of Darkness, un album che non sfigura affatto con il passato. Anche se poi i pezzi forti sono quelli pescati da No Fuel Left For The Pilgrims e Riskin' It All, dischi che a cavallo tra gli anni ottanta e novanta li hanno fatti uscire dalla Danimarca per conquistare il mondo: Jihad, Point Of View, Rim If Hell, Sleeping My Day Away e Bad Craziness, Grow Or Pay e la ballad acustica Laugh 'n' 1/2 hanno primeggiato.

Durante il concerto ero vicino a un papà con un figlio poco più che adolescente: è stato bellissimo sentire i commenti del giovane tra lo stupito e il meravigliato di fronte alla conseuta sfilata di bassi che Stig Pedersen ha indossato e suonato come se tutto rientrasse nella normalità. Un fottuto genio fuori testa.

I D-A-D normali non lo sono mai stati e la loro miscela di country western, cowpunk, hard rock e heavy sta resistendo alla prova del tempo. Una inossidabile macchina da rock'n'roll che in Europa ha pochi rivali. Ora però la prossima volta li voglio vedere riempire l'Alcatraz (certo non sarà un'arena da 15.000 posti ma...) perché tutti quelli che non c'erano meritano di vedere almeno una volta nella vita un loro concerto.



THE WINSTONS live@Spazio 211, Torino, 23 Novembre 2024


Zigzagare. I Winstons sono campioni in quest'arte: per tutta la serata hanno schivato malanni di stagione e problemi tecnici all'ampli del basso trasformando il disagio in divertimento ("noi non facciamo mai prove, stavolta le abbiamo fatte!: ecco il risultato! Non bisogna mai fare prove, gli strumenti si usurano") e per due ore hanno sciorinato la loro sconfinata idea di musica ad ampio spettro che se proprio bisogna trovare una collocazione, "a cavallo tra i 60 e i 70" va sempre bene: quasi tutto era stato fatto e i Winstons quasi tutto fanno. Ci sono i Beatles a benedire tutto dall'alto, poi il primo prog ancora così legato a psichedelia e pop, l'amata scena di Canterbury con i Soft Machine in testa (e Third è anche il titolo del loro nuovo album con tanto di occhiali 3D all'interno, sarà un caso?), il glam rock, il funk. 


Roberto Dell'Era al basso e chitarra, Lino Gitto alla batteria, Enrico Gabrielli circondato da tastiere, sax e flauto all'evenienza e qualunque diavoleria abbia voglia di suonare. Tutti e tre alla voce solista, tutti e tre ai cori. I Winstons per due ore hanno portato lo Spazio 211 (mi aspettavo più gente in verità) in giro per la galassia musicale tra lunghe jam, ritratti pop, improvvisi e repentini cambi di atmosfera con tutta la libertà che tre straordinari musicisti possono permettersi. E proprio l'osservazione di Gabrielli che prende spesso la parola (divertenti anche gli aneddoti su Torino, città dove ha vissuto per cinque anni) sembra racchiudere l'era musicale dalla quale la band dei fratelli Winstons si nutre e che vogliono raccontarci alla loro maniera:"perché in questa era dominata dal digitale in cui volendo puoi permetterti di non avere confini di registrazione la stragrande maggioranza racchiude l'arte in pochi minuti?". E allora ben vengano i Winstons che non conosco confini. E poi si sa, dove ci sono barriere non ci sono mai buone notizie. Quella buona è una: i Winstons sono tornati.



martedì 19 novembre 2024

RECENSIONE: WARREN HAYNES (Million Voices Whisper)

WARREN HAYNES
  Million Voices Whisper (Fantasy Records, 2024) 





l'uomo perfetto


Già solo l'occasione di sentire Warren Haynes e Derek Trucks collaborare e suonare insieme dopo tanti anni rende il quarto album solista di Haynes motivo di interesse. Succede in tre canzoni: l'apertura 'These Changes', in 'Real, Real Love' e nei nove minuti conclusivi 'Hall Of Future Saints' un omaggio ai grandi della musica con i quali è cresciuto con tanto di nomi e cognomi nel testo (ecco sfilare B.B King, Jimi Hendrix, Albert King, Elmore James, Miles Davis, John Coltrane...). 
"Poiché avevo scritto diverse canzoni che non sembravano canzoni dei Gov't Mule ma che sembravano tutte funzionare insieme, ciò indicava che era giunto il momento di fare un disco solista. Inoltre, non facevo un disco solista da nove anni. Di solito riesco a capire subito se qualcosa suona come una canzone dei Gov't Mule, o una canzone per un disco solista, o nessuna delle due" ha raccontato recentemente a Glide Magazine.
E proprio 'Real, Real Love' rischia di diventare una della canzoni con più DNA della Allman Brothers Band di questi ultimi anni visto che porta anche la firma del compianto Gregg Allman. "Gregg ha iniziato a scrivere la canzone 'Real, Real Love'. La canzone risale a parecchio tempo fa. Mi aveva mostrato il testo incompleto, ma non aveva scritto la musica. Quindi, ho preso il testo incompleto e l'ho finito. Poi, ho aggiunto musica e melodia, ho chiamato Derek Trucks al telefono e gli ho chiesto se gli sarebbe piaciuto essere coinvolto nella registrazione". Ecco servita sul piatto una delle migliori canzoni di un disco al quale la parola "eccelso" non è affatto sprecata. 
Million Voices Whisper è un disco con testi carichi di speranza per il futuro e che musicalmente sembra abbandonare il rock blues a favore di un soul marchiato Muscle Shoals che tocca territori cari a Van Morrison in 'Go Down Swinging' e 'From Here On Out' con tanto di fiati, vie funky in canzoni come 'Terrified' (con Stevie Wonder nel cuore) e la più leggera e spassosa 'Lies Lies/Monkey Dance/Lies Lies', le strade notturne del R&B in 'You Ain't Above Me' con i battiti dell'Hammond a fare luce. 
Ad accompagnarlo la band formata da Kevin Scott, solidissimo bassista visto recentemente negli ultimi Gov't Mule, il batterista Terence Higgins, il tastierista John Medeski che spesso e volentieri si prende la scena e da altri due ospiti come Lukas Nelson e Jamey Johnson in 'Day Of Reckoning', la traccia più classic rock dell'album. Traccia ripresa anche nella versione deluxe intrecciata con 'Find The Coast Of Freedom' di CS&N e che contiene altre tre composizioni tra cui la solida e rockeggiante 'Baby' s On The Move' per gli orfani dei Gov't Mule.
La naturale superiorità di Warren Hayes non aveva certamente bisogno di ulteriori conferme, uno degli ultimi grandi chitarristi in grado di fare con estrema semplicità ciò che altri suderebbero le proverbiali sette camicie per arrivarci: voce calda e sempre sul pezzo, composizioni di classe cristallina e chitarra sempre ispiratissima nelle undici canzoni che mediamente superano i sei minuti dove piazza assoli e sconfina sovente nelle jam risultando sempre sontuoso, brillante e mai banale. E per completare il cerchio Allman Brothers Band iniziato con la composizione di 'Real, Real Love', l'intero disco è dedicato a un altro pezzo importante della leggenda che se n'è andato quest'anno: Dickey Betts. Per ora è ancora tutto in buone mani. E che mani!




domenica 10 novembre 2024

RECENSIONE: CHUCK PROPHET with ¿QIENSAVE? (Wake The Dead)

CHUCK PROPHET with ¿QIENSAVE?  Wake The Dead (Yep Roc Records, 2024)





che Cumbia!

Gli artisti non puoi certo imbrigliarli dentro a qualche schema, non puoi pretendere che ti diano quel che vuoi tu. Viaggiano, si muovono, cambiano, vivono, a volte molto più velocemente dei loro fan, fermi a un palo, legati da un'apertura mentale miope, tarata spesso sul "bel" passato.

Se poi l'artista in questione si chiama Chuck Prophet, uno che in carriera si è sempre comportato come una palla da flipper esploratrice ed indagatrice, devi accettare tutto quel che gli passa per la testa. E molto spesso sono cose fighissime.

"Ogni due anni, in un modo o nell'altro, mi imbatto in qualcosa che mi entusiasma e mi porta da qualche parte, dove sento di non essere mai stato prima. Tutti i miei dischi sono una specie di reazione a quello che è venuto prima, e poi una svolta a sinistra".

Wake The Dead si candida a diventare uno dei dischi più divertenti e trascinanti del mio anno musicale. E pensare che ha preso forma in uno dei periodi più critici e neri per Prophet: nel 2022 esattamente a cavallo tra la fine della pandemia e la diagnosi di una brutto linfoma al quarto stadio fortunatamente poi guarito, anche per merito di questa musica. 

"Dopo che hanno scoperto che avevo una massa nell'intestino, sono stato in una specie di terra di nessuno per circa 14 giorni" ha raccontato.

In attesa di buone notizie per il futuro fu rapito da una band che sentì suonare per caso, si chiamano ¿Qiensave?, un gruppo di fratelli che non arrivano ai trent'anni di casa a Salinas, comunità agricola sulla costa centrale della California. I fratelli Gomez hanno una casa studio di registrazione in mezzo al bosco e dopo la conoscenza con l'ex Green On Red, incuriosito, è diventata la base di partenza di questo suo sedicesimo disco.

Ma cosa suoneranno mai questi ¿Qiensave? per aver ipnotizzato così tanto il buon Prophet? Risposta: la Cumbia, genere tradizionale della costa caraibica colombiana, una miscela musicale di culture indigene, africane ed europee fatta di congas, farfisa, kalimba, banjo, guiro a cui Prophet e i suoi musicisti (i Mission Express)  hanno aggiunto la classica strumentazione del country, del rock'n'roll e del surf.

"È la musica dei weekend della classe operaia e del Miller Time. La cumbia è romanticismo, cibo, famiglia, musica, ballo, da soli nell'ombra o con il partner. La musica può farti piangere, ma sono tutte lacrime di gioia, ed è meravigliosa" ha raccontato Prophet. Ecco così undici travolgenti canzoni dove tutta l'esperienza di Prophet viene filtatrata dai ritmi latini, quasi in stile Los Lobos ('Wake The Dead', 'Betty's Song' invitano a muoversi) anche il trotto country di 'Give Boy A Kiss' , la ballata con arrangiamenti d'archi e voci femminili  'Red Sky Night' che richiama fortemente Van Morrison, il rock di 'First Came The Thunder', le influenze sixties di 'Sugar Into Water', il blues a ritmo di valzer 'One Lie For Me, One For You' che vede la partecipazione di Charlie Sexton alla chitarra (i due sono stati in tour insieme recentemente) flirtano con quei ritmi mantenendo il trade mark di Prophet.

Non mancano due incursioni nell'attualità: 'In The Shadows (For Elon)' si imbarca nei viaggi spaziali che si è inventato Elon Musk e poi c'è quella 'Sally Was A Cop', viaggio più terreno nella disperazione senza date di scadenza che scrisse con Alejandro Escovedo, disperata e con le chitarre in primo piano. 

Quando tocchi con mano le prime lettere della parola "fine" capita di assaporare con più gusto quelle piccole cose quotidiane per cui vale la pena vivere e lo canta bene nella ballata finale 'It's Good Day To Be Alive' con la moglie Stephanie Finch che partecipa ai cori.

Prophet celebra la vita mettendo sul piatto della bilancia la consueta arguzia di scrittura, le speranze e le paure e ci mette sul piatto un disco piacevolissimo (che invoglia ad alzare il volume) e a suo modo originale ma che soprattutto guarda avanti con musica sempre stimolante e mai banale.




venerdì 8 novembre 2024

RECENSIONE: CROSBY, STILLS, NASH & YOUNG (Live At Fillmore East 1969)

 

CROSBY, STILLS, NASH & YOUNG - Live At Fillmore East 1969 (Rhino, 2024)




magia eterna

Quando escono questi dischi mi sorge sempre la stessa domanda: fino a dove possono spingersi in profondità i pozzi da cui poter attingere vecchia musica registrata in passato? Un giorno si sarà ascoltato tutto il possibile, ma soprattutto arriverà prima questo giorno o arriverà prima l'epoca abitata da generazioni alle quali di tutte queste canzoni con una certa età sul groppone non interesserà più nulla, tanto da rendere vane e inutili (che brutta parola in questo contesto) queste uscite? Forse solo allora tutto si fermerà. Dispiace per chi non ci arriverà mai ma egoisticamente mi godo ancora queste purissime vette.

Quindi godiamoci questo ennesimo scavo nel passato che porta alla luce uno dei concerti al Fillmore East di New York (quello del 20 Settembre 1969 tra i quattro eseguiti in due giorni), che seguirono il loro debutto live come quartetto in quel di Chicago e la epocale apparizione a Woodstock dove un Neil Young quasi fantasma non volle nemmeno farsi riprendere dalle telecamere.

E l'entrata di Neil Young nel trio che aveva già pubblicato un disco di debutto, inizialmente fu proprio vista quasi come un lusso, "noi possiamo anche dar forma all'album ma sarà Neil a darci quel tocco in più di cui c'è sempre bisogno" disse Stephen Stills poco prima che la band entrasse in studio per registrare il seguito Deja Vu. Quella spinta fu data e questo live anche se forse non riuscirà a rubare i cuori di chi si avvicinò a certa musica con il doppio live Four Way Street (eccomi! ma siamo in tanti lo so) in qualche modo può dirsi pure migliore di quel disco. Difficile dire chi eccelle su chi perché la combinazione tra David Crosby, Stephen Stills, Graham Nash e Neil Young, quattro artisti diversi ma incastrati alla meraviglia, era capace di emanare pura magia che andava gustata in blocco. L'ho sempre vista così.

Basti l'ascolto di 'Helplessly Hoping' con quegli impasti vocali che spesso scivolano in risate e divertimento, una 'Guinnevere' che lascia gli stessi brividi della prima volta, la cristallina classe di Stills in 'Go Back Home', le voci ariose di 'You Don't Have To Cry' o una 'Our House' che Nash dedica a Joni Mitchell presente in sala nel set acustico o il blues di 'Long Time Gone', l'acidità elettrica di 'Wooden Ships' presa per mano da Crosby, l'espressività soul blues di Stills in 'Bluebird Revisited', quella chilometrica 'Down By The River' di Young dal set elettrico con l'aggiunta dei fedeli Dallas Taylor alla batteria e Greg Reeves al basso.

"Grandi momenti che non dimenticherò mai" dice Neil Young ricordando quelle serate. A chi lo dici... 




mercoledì 6 novembre 2024

BLACK PUMAS live@Fabrique, Milano, 4 Novembre 2024


L'arma di pace in possesso dei texani Black Pumas ha un nome, un cognome e una presenza di tutto rispetto: Eric Burton. La sinergia che il cantante è riuscito a creare con il pubblico sin dal suo primo passo sopra al palco è stata incredibile ed è andata avanti senza sosta fino alla fine dell'ora e quaranta di concerto. Burton ha carisma nell'incarnare in un solo corpo l'immediatezza della rockstar, la comunicatività della popstar e il calore confidenziale del soul singer. Canta divinamente (toni bassi e acuti: la hit 'Colors'  è servita su un piatto tutto da gustare, il contagioso pop di 'Ice Cream (Pay Phone)' fa ballare e cantare) intrattiene il pubblico, scende dal palco per camminare e cantare nel mezzo del parterre di un Fabrique pieno, stringe mani e abbraccia corpi, si concede ai selfie alla faccia di chi sequestra cellulari, danza, imbraccia una chitarra e canta 'Fast Car' di Tracy Chapman in solitaria come primo bis. Fa emozionare con l'esecuzione di 'Angel'.


Alla sua sinistra il compagno, mente del gruppo,  Adrian Quesada, chitarrista, produttore (e attivista) guarda compiaciuto e compassato mentre con la sua chitarra e i suoi effetti dirige una band formata dalle due brave coriste Angela Miller e Lauren Cervantes; il tastierista JaRon Marshall; il bassista Brendan Bond, il batterista Stephen Bidwell e un percussionista, che sanno il fatto loro per classe e buon gusto esecutivo.

 Se a inizio concerto sembrano gigioneggiare intorno al pianeta pop,  quando ingranano la marcia con brani che indagano con più sostanza nella

Motown degli anni 60, 70, il folk, il rock, il funky e il soul, trasportandoli abilmente ai giorni nostri e trovando sublimazione nella jam finale  di 'Rock And Roll', ultima traccia del loro secondo album Chronicles Of Diamonds, diventano irresistibili, dimostrando quanto possano allargarsi e spingersi  ancora in futuro. Ecco, l'unico difetto: avrei voluto un po' di "sporcizia" in più. 

La questione è proprio questa: i Black Pumas sembrano in pista da una vita ma lo sono solo da sette anni e due soli album e quando Burton e Quesada si incontrarono per puro caso con il primo che aveva una buona quantità di canzoni già pronte che trovarono finalmente la voce giusta ( che cercava fortuna negli angoli delle strade di Austin) per diventare reali e concrete, nessuno pensava a questo grande  successo a livello mondiale. E invece: tanto divertimento e tanti giovani tra il pubblico che se uniti a quelli che negli stessi momenti stavano  riempiendo l'Alcatraz per il concerto dei Fontaines DC rendendo un semplice lunedì sera a Milano in una serata ad altra gradazione rock, non può che far ben sperare per il futuro della musica e di un mondo continuamente sotto assedio, a partire dalla lunga nottata americana che ci aspetta. Viva la musica. Sempre.

Ps. Ad aprire il concerto il bravo Son Little che con voce, chitarra e simpatia riesce a conquistare il pubblico con il suo folk blues piacevole e diretto.


Foto: Enzo Curelli


giovedì 31 ottobre 2024

THE WHITE BUFFALO live@Magazzini Generali, Milano, 29 Ottobre 2024

La prima volta che vidi White Buffalo rimasi un po' deluso (Brescia, anno 2016), per lo stesso motivo per il quale ieri sera mi sono invece divertito. L'approccio in your face dei loro concerti è molto diverso da quanto prodotto in studio di registrazione. La prima volta mi sorprese in negativo, questa volta, preparato alla serata mi sono goduto ogni passo, salto e smorfia di Jake Smith con i suoi due inseparabili sodali: il sempre simpatico e sorridente Christopher Hoffee alla chitarra elettrica e tastiere e il martellatore Matt Lynott dietro a una batteria che fa miracoli per non distruggersi sotto i suoi colpi (un pezzo infatti partirà via durante la serata. Miracolo non riuscito!).

La copertina del recente disco live A Freight Train Through The Night sembra simboleggiare bene cosa ci si trova davanti durante un loro concerto: gli abbellimenti da studio di registrazione (Jake è un perfezionista quando vuole) vengono lasciati in un angolo a favore di una visceralità quasi cowpunk dove tutto è permesso e che viaggia e sbuffa come un vecchio treno in corsa, senza paura di sbavature e imprevisti che invece ci sono e rendono tutto più "umano e più vero".


Le sue storie di vita dove si cerca di fare luce attraverso oscurità e difficoltà, la voce profonda e calda (innalzata al massimo quando rimane solo con l'acustica), la sua America musicale, incrocio tra country, folk (la sua prima chitarra la prese in mano a vent'anni folgorato da John Prine e Bob Dylan) e rock'n'roll suonato con foga, sono riuscite a riempire il lungo e stretto locale dei Magazzini Generali (mi lascia sempre un po' interdetto la planimetria del posto) di persone variegate che vanno da un perfetto suo sosia in prima fila ("hey Jake ma cosa fai ancora lì non sali sul palco? Ah no!") a tanti giovani e giovanissimi (tante donne), da chi l'ha conosciuto attraverso la serie Sons Of Anarchy (ecco una sempre splendida versione di House Of The Rising Sun e Come Join The Murder) e chi attraverso  l'ancora per me insuperato album Once Upon A Time  In The West (The Pilot, Stunt Driver, BB Guns And Dirt Bikes).

Spezzare la settimana con un concerto così fa bene all'umore tanto che il viaggio di ritorno, pur ostacolato da mille imprevisti tra lavori sulla tangenziale e uscite autostradali imposte, traffico in tilt per un concerto al Forum di Assago (Ghali?) e onnipresente partita di calcio a San Siro, sembra una tranquilla gita fuori porta con tanto di paesaggio da osservare (operai autostradali ovunque). Mi addormento alle due con le intense note del concerto che mi rimbombano ancora in testa. Alle 5 sono già sveglio. Maledetto cambio d'ora!




martedì 22 ottobre 2024

MARCUS KING BAND live@Fabrique, Milano, 20 Ottobre 2024

Foto: Curelli Enzo

Di cose belle ne capitano anche sotto il palco. Per esempio quando si aspetta il bis: mi sento stringere un braccio da due mani, un signore già con una certa età, con voce quasi rotta dall' emozione mi sussurra " che bravi, che bravi, sa che non li conoscevo". "Ah sì?" rispondo io. "Merito suo" mi dice, indicando quello che potrebbe essere suo figlio. Ecco: mi ha fatto una grande tenerezza e subito sul momento ho pensato che per conoscere nuova musica si abbia sempre tempo davanti a noi. Non si finisce mai di imparare.

Già, proprio bravo Marcus King from South Carolina, uno uscito con il cordone ombelicale con la musica che già gli scorreva dentro, quando poi il padre Marvin gli mise pure in mano la prima chitarra  a tre anni, il gioco fu fatto. Star is born. Che sia un fuoriclasse lo si capisce dalla estrema naturalezza con quale lega insieme decenni di american music (southern rock, hard blues, soul, R&b, ricami jazz e country) con la stessa naturalezza di un veterano dalle mille vite ma di anni Marcus King ne ha solo ventotto. La stessa naturalezza con la quale, oltre a suonare la chitarra divinamente, canta. Una voce soul che se ce l'hai ce l'hai, se non ce l'hai cambia mestiere. Voce che esce in tutta la sua limpidezza quando imbraccia una chitarra acustica e rimane solo sul palco.


Poi che sia pure un'ottima penna lo si capisce anche solo dagli ultimi album dove si è messo completamente a nudo, svelando le tante debolezze che lo hanno circondato negli ultimi anni e da cui è uscito vincente. Anche qui la musica ha avuto la sua importanza.

Basterebbe poi confrontare la diversità dei suoi ultimi due dischi per capire come sappia muoversi con naturalezza tra i generi: da una parte l'hard rock fumante seventies di Young Blood, dall'altra la morbidezza dell'ultimo album Mood Swings con canzoni che si portano a spasso un carezzevole soul e che hanno fatto storcere il naso a molti ma che in verità se prese una per volta sono tutt'altro che brutte ('Save Me', 'Bipolar Love', 'Mood Swings', 'This Far Gone', 'Fuck My Life Up Again' tra quelle suonate) e live, allungate con code strumentali e jam virano anche in altri campi poco arati.

Ad aiutarlo la seconda chitarra di Drew Smithers con il quale duella spesso e volentieri, il tastierista  Mike Runyon che ha lo sguardo rivolto sempre al cielo, il batterista Jack Ryan che detta bene i tempi  e il solido bassista di cui non so il nome.

Tra i paletti delle nuove canzoni inserisce qualche vecchio brano, l'immancabile 'Goodbye Carolina' e una serie di cover. Sì  perché è ancora così appassionato di musica che dopo cinque album continua a infarcire i suoi concerti di cover, passando da una ruspante  'Are You Ready For The Country' di Neil Young a una nuova 'Honky Tonk Hell' di Gabe Lee che uscirà nel suo prossimo disco (almeno così ho capito), da 'Good Time Charlie's Got the Blues' di Danny O'Keefe fino alla finale 'Ramblin Man' della Allman Brothers Band  eseguita con mestiere e devozione, saluto e omaggio a Dickey Betts che ci ha lasciato lo scorso Aprile. 

Io saluto il signore di prima ancora emozionato. Al ritorno in macchina  mi ascolto Wild God di Nick Cave che stasera a Milano, in contemporanea, nella sua personale chiesa ha fatto il pienone (il Fabrique è pieno ma a mezzo servizio). Chissà se il signore, non quello divino, ma quello emozionato lo conosce?



domenica 20 ottobre 2024

RECENSIONE: GILLIAN WELCH * DAVID RAWLINGS (Woodland)

GILLIAN WELCH * DAVID RAWLINGS  Woodland (2024)




in due è meglio

Gillian Welch e David Rawlings sembrano posare con orgoglio ma facce stanche sotto la scritta Woodland Studios, studi di registrazione a Nashville di loro proprietà che solo per un miracolo sono ancora in piedi dopo il terribile tornado che nel 2020, in piena pandemia, si è abbattuto sulla città. Lo studio è rimasto scoperchiato, tutto ciò che vi era all'interno è stato salvato con abnegazione e fatica, anni e anni di registrazioni e vita sotto la clemenza delle intemperie. Quattro anni dopo, ben tredici dall'ultimo disco di inediti insieme (The Harrow & the Harvest del 2011, in mezzo un album di cover All The Good Times) ritornano con dieci canzoni che per la prima volta vedono in copertina i loro nomi uniti, uno di fianco all'altro (anche se non ci sono), e per la prima volta decidono di colorare le liriche con nuove e tenui sfumature strumentali (una band dietro, lap steel, archi, violino, banjo) mantenendo però intonsa quella comunione d'intenti e spirituale che li accompagna da sempre. Compagni di musica e di vita, sono oggi tra i pochi a portare avanti con continuità, nonostante uscite discografiche ponderate, valori musicali che certi grandi songwriter americani si sono portati dietro nell'aldilà. Le loro canzoni viaggiano tra motel e parcheggi, lungo antiche ferrovie, sbirciano dentro le vite. Viaggiano in una continuità quasi senza tempo.

"Questo disco più di ogni altro nostro disco è un prodotto dei tempi in cui è stato creato" ha raccontato la Welch.

Guardano a un futuro quasi apocalittico con occhio critico e un po' satirico in The Day the Mississippi Died, stanno nel presente con le liriche della ipnotica Hashtag ma con il cuore aperto verso il compianto Guy Clark, Lawman entra nel blues di un omicidio, il fingerpicking costruisce e addolcisce The Bells And The Birds cantata con leggerezza impalpabile, in Turf The Gambler si insinua un'armonica, Empty Trainload of Sky scruta un panorama tutto americano dal finestrino di un treno, cantano della loro salda unione in What We Had (con l'ombra di Neil Young a fare ombra) e duettano nella finale Howdy Howdy, tutta la classicità del folk americano marchiato a fuoco in Here Stands A Woman tra Woody Guthrie e Bob Dylan racconta di passato, presente e futuro. È un per sempre.

Dieci canzoni di pura Americana tra folk e country a due voci, registrate in un studio di registrazione superstite e sopravvissuto e che sanno tanto di nuovo inizio.

Uno "splendido" nuovo inizio costruito, con quella pura limpidezza concessa a pochi, sopra alle macerie, un po' come quando vedi il tuo fiore preferito crescere forte e florido nel luogo più ameno e impensabile. C'è qualcosa di magico ma è tutto così estremamente naturale.

Nel suo universo uno dei dischi dell'anno.





giovedì 10 ottobre 2024

RECENSIONE: D-A-D (Speed Of Darkness)

D-A-D  Speed Of Darkness (AFM Records, 2024) 







danish breeze 

Quanti gruppi indossano così bene i propri quarant'anni (di carriera) come sanno fare i D-A-D? Pochissimi. Tanti compagni di strada si sono persi tra le vie sbiadite del rock nel nuovo secolo, altri arrancano bolsi senza meta e futuro, statici di fronte alla gloria passata, taluni sono impegnati da anni in reunion posticce e poco credibili. I danesi invece non mi deludono mai, ogni loro uscita discografica sprigiona freschezza, autoironia, goliardia senza mai sfiorare la banalità, anche se a volte fa capolino l'autocitazione ma c'è poco da preoccuparsi è solo il consolidato trade mark che ci parla. Sarà forse l'aria frizzante della Danimarca che ce li conserva ancora così bene? 
La formazione è la stessa di sempre (a parte il batterista Laust Sonne in formazione da venticinque anni ormai): gli incredibili bassi di tutte le forme e numero di corde di Stig Pedersen, l'inconfondibile voce di Jesper Binzer (anche chitarra) capace di graffiare e di morbide carezze melodiche, la chitarra indispensabile del fratello e mago Jacob A. Binzer. Campioni indiscussi nell'unire melodie malinconiche e dark con lo street rock’n’roll e quelle inconfondibili chitarre dal suono così americano che conservano ancora un po' di vecchia polvere country western degli edordi, questo tredicesimo disco è pieno zeppo di belle melodie. Circola voce che avessero qualcosa come quaranta canzoni pronte da cui attingere: ne hanno scelte quattordici per costruire un album che supera i cinquanta minuti. Forse non sono più i tempi di 'Sleeping My Day Away' o 'Grow Or Pay' in cima alle classifiche (in Danimarca rimangono un'istituzione da prima serata nella Tv nazionale) ma canzoni come 'The Ghost', 'Speed Of Darkness', 'Head Over Heels' e 'Crazy Wings', la ballata finale 'I'm Still Here' continuano ad emanare quell'antica magia, contenendo tutte quelle caratteristiche che all'ascolto ti fanno sobbalzare dalla sedia e dire questi sono i D-A-D nessun dubbio. È sempre il trade mark di prima. 
In mezzo a tanta melodia (uno dei loro migliori dischi sotto questo aspetto) sanno ancora grattare la superficie del rock'n'roll magari con meno esuberanza, ma certamente con più mestiere e controllo: dall'accoppiata iniziale 'God Prays To Man' (se solo la suonassero gli Ac Dc una canzone così oggi) e '1st 2nd & 3rd' cariche di groove, ai rock'n'roll 'Live By Fire' e 'Everything Is Gone Now', i rimasugli punk che innescano 'Waiting Is The Way', il singolo che inchioda 'Keep That Mother Down', il blues 'In My Hands', fino ai momenti più heavy come 'Strange Terrain' e la più "modernista"'Automatic Survival', hard al punto giusto tanto per non dimenticare quanto siano ancora capaci a far rumore. 
Per chi avesse voglia di festeggiare con loro i quarant'anni di attività (a inizio anno era pure uscita una raccolta) l'appuntamento è fissato per il 25 Novembre al Legend di Milano. Immancabili. Sono usciti vivi dagli anni ottanta, hanno superato brillantemente il ciclone grunge dei novanta, sono entrati nei 2000 con il vento in poppa come se nulla fosse. Cosa volete che siano quarant'anni da festeggiare?




sabato 5 ottobre 2024

RECENSIONE: THE CROWSROADS (Spaceship)

THE CROWSROADS
Spaceship (Slang Records, 2024) 





il futuro è adesso


Ricordo benissimo il mio primo incontro con i Crowsroads tra le strade di Brescia durante la festa della musica: chitarra, armonica, cajon e le loro armonie vocali che sposavano blues e west coast music. Giovanissimi e affamati di musica allora come oggi. Era il 2015, feci un post con una loro foto e scrissi "segnatevi questo nome". Quell'anno uscì anche il loro primo album Reels che metteva in fila i loro ascolti giovanili (come se fossero vecchi!) attraverso tante cover. 
Negli anni li ho incrociati ancora svariate volte tra concerti (il "mitico" 4/quarti, in apertura a Steve Forbert ) e dischi (On The Ropes uscito nel 2019, primo disco che conteneva brani autografi) ed ogni volta si poteva notare il miglioramento, constatare quanto quelle cover suonate sul ciglio di un marciapiede siano state assimilate per trovare una propria strada musicale che oggi si intravede molto più nitidamente anche se, ne sono sicuro, porterà ancora più lontano. 
I fratelli bresciani Matteo (voce e chitarra) e Andrea Corvaglia (armonica e voci) con Spaceship fanno non uno ma due passi in avanti in un solo colpo aiutati da Poncio Belleri (basso), Sebastiano Danelli (batteria) e Nicola Ragni (tastiere e ingegnere del suono): si percepisce la maturità acquisita, la voglia di crescere, di sorprendere e sorprenderci con la musica. Di quel folk blues scarno e quasi primordiale è rimasto lo spirito che serpeggia vivo e vivace le loro anime, musicalmente invece volano alto con un songwriting mai banale, pieno e ricco di vissuto e dettagli dove chitarre hard blues più toste del solito ('If It Wasn't', 'Hot Blood/Weak Knees') sposano ballate come 'Spaceship' e la finale, evocativa e sorprendente 'Showdown', le armonie vocali di 'More Than Everywhere', e dove un certo blue collar rock tutto americano fa spesso capolino nel crescendo di 'Last Glimpse Of You' e 'Isolate'. Insomma: il blues si fa maturo, si contamina e non ha paura di incontrare le belle melodie pop di una canzone vincente come   'Theseus & The Moon'. 
 E poi questa copertina che colpisce ingannando: potrebbe portare verso lo space rock ma come spiegano bene loro nelle note che accompagnano il disco:"questo album ha poco a che fare con la fantascienza. Parla delle cose più 'terrestri' che vi possano venirvi in mente...". E allora a me piace accomunarla alla copertina dove i Canned Heat vestiti da astronauti piantavano la bandiera americana sulla luna. Il disco si intitolava Future Blues. Il futuro è arrivato, la bandiera è italiana e Spaceship è un bell'esempio di Blues contemporaneo che guarda già al prossimo futuro. Intanto noi aspettiamo le prossime mosse comodamente seduti nel divano (ecco un altro divano in copertina!).






venerdì 4 ottobre 2024

BLACKBERRY SMOKE live@Alcatraz, Milano, 2 Ottobre 2024

foto: Curelli Enzo

Non sono mai uscito deluso da un concerto dei Blackberry Smoke. Perché? Perché ti danno esattamente quello che ti aspetti: giusto, pulito, con mestiere, facce allegre e molta onestà. Sempre confortanti. Va da sé che confermano i tanti pregi e alcuni difetti di sempre. Da una parte: gusto melodico, la capacità di unire chitarre (tre come piace al vecchio southern rock, ecco allora il sempre sorridente Paul Jackson e il sempre compassato Benji Shanks unirsi a Charlie Starr) con quella ariosa melodia country cara a gruppi come Outlaws e Eagles che fa spesso capolino. La concretezza di voce, chitarre, basso, batteria e tastiere e poche seghe strumentali (le chitarre fanno il loro lavoro senza eccessi da prima donna) e scenografiche, il fondale con la farfalla che campeggia nella copertina dell'ultimo disco Be Right Here e le giuste luci. Dall'altra manca sempre quel briciolo di spregiudicatezza,  pur nelle loro capacità, che li faccia osare di più spingendosi in  divagazioni strumentali più coraggiose che il vecchio southern rock, sempre lui il metro di paragone, ha tramandato. Charlie Starr si conferma un signor frontman e songwriter (non so perché ma mi immagino sempre una sua carriera solista parallela alla band): carisma, voce e chitarra guidano il gruppo, ecco l'unica mancanza è non avere nella band almeno un altro elemento con lo stesso carisma che possa rivaleggiare ad armi pari e portare quella "sana" rivalità che il rock conosce bene. A volte pretende. O porta distruzione o meraviglie, il rischio è dietro l'angolo. Forse i Blackberry Smoke amano poco i rischi. Forse questa è la loro natura e piacciono per questo: belle canzoni, suoni nitidi e puliti, perfino canticchiabili da tutti. L'ultimo album e The Whippoorwill i dischi più saccheggiati con quest'ultimo, forse il loro migliore, che regala canzoni diventate dei piccoli classici come la title track e One Horse Town. 


Un Alcatraz pieno di fan ormai fidelizzati vorranno pur dire qualcosa. Negli anni abbiamo visto gruppi con una storia ben più importante suonare nel locale dimezzato.

Anni fa quando scrissi del loro disco The Whippoorwill (2012) su una rivista mai avrei pensato potessero raggiungere questa notorietà qui in Italia. Lo sapete che a Biella esiste l'unica (credo) tribute band italiana a loro dedicata?

Ieri sera a Milano la band di Atlanta, Georgia, ha festeggiano la fine del tour europeo e ricordato pure chi non c'è più: con un accenno di Don't Come Around Here No More di Tom Petty, anche se l'avevano fatta anche due anni fa ma oggi è una data significativa, il 2 Ottobre di sette anni fa ci lasciava, ma soprattutto hanno tributato il loro storico batterista Brit Turner scomparso il 3 Marzo di quest'anno a soli 57 anni. E a rinsaldare l'amore con il pubblico italiano, a fine concerto mostrano uno stendardo a lui dedicato donato da alcuni fan. Vera commozione sui loro volti. Rock’n’roll, boogie rock (Waiting For The Thunder, Rock'n'roll Again) e ariose ballate country si alternano, accennano pure Willin dei Little Feat anche se pochi sembrano accorgersene, si divertono e ci si diverte nel finale. Portarsi a casa una serata di sano rock’n’roll americano (ad aprire il tosto rock blues di Bones Owens da Nashville) con poco più di 30 euro è impresa sempre più rara, meglio approfittarne sempre a patto di non spendere i soldi risparmiati in birra: 10 euro per una media di birra Ipa è un'esagerazione da non provare. L'ho lasciata lì. I soldi serviranno per il prossimo concerto.




domenica 29 settembre 2024

RECENSIONE: JACK WHITE (No Name)

 

JACK WHITE  No Name (Third Man, 2024)






assalto rock

Detroit, Nashville e Londra. Sono le tre città, le uniche tre al mondo ad ospitare negozi della Third Man Records, da cui si è iniziato a spargere il nuovo verbo che poi è un ritorno a una vecchia lingua lasciata decantare un po' di tempo a favore di altri strani e bizzarri svolazzi sul pianeta musica. 

Capita che un giorno d'estate,  esattamente il 19 Luglio del 2024,  in contemporanea, i clienti che fecero un acquisto nei negozi della Third Man ricevessero un regalo in cassa, un vinile anonimo intitolato No Name  con due sole scritte, una per lato: "heaven and hell" e "black and blue". Ogni riferimento è puramente "non casuale". Me li vedo una volta  arrivati a casa, dimenticare i loro nuovi acquisti sul tavolo della cucina e incuriositi mettere subito sul piatto quel vinile misterioso. Non ci sono nemmeno i titoli ma appena appoggiata la puntina una scarica hard blues ha vibrato lungo la spina dorsale : è l'opener 'Old Scatch Bkues'. Perché  i titoli poi, sono arrivati con calma. E se ti sei recato alla Third Man Records e fai 1+1 capisci che quella voce, quella chitarra selvaggia, che macina riff e assoli acidi  sono di Jack White che ha deciso di promuovere così il suo nuovo disco in uscita. Il giorno dopo la notizia si è già propagata in tutto il mondo, l'invito a scaricarlo fa il suo "sporco" lavoro ma visto che Jack White è uno alla vecchia maniera, dopo un paio di mesi ecco anche la versione fisica per tutti. Ora si può dire: No Name è il nuovo disco di Jack White.  Un'operazione di marketing che aleggia tra passato e presente, romanticismo e spavalderia, cose da sempre comuni al suo autore. 

Che stia vivendo un periodo di grande ispirazione lo si era capito dall'ultima uscita Entering Heaven Alive (2002) che viaggiava in coppia con il più sperimentale Fear Of The Dawn. Ma se lì abbracciava l'intero universo musicale americano (spaziando tra rock e folk) su No Name a stagliarsi sopra tutto è l'urgenza elettrica di un hard blues ('Missionary')  sporcato di garage punk (l'assalto di 'Bombing Out') e qualche seme crossover anni novanta ('Bless Yourself' potrebbe uscire da un disco dei Rage Against The Machine, 'Number One With A Bullet' batte ritmi funk metal). La fascinazione per i Led Zeppelin è la torcia accesa che tiene vivo il suono delle tredici canzoni: 'It's Rough On Rats (If You're Asking)', 'Tonight (Was A Long Time Ago)' e 'Underground' camminano sul terreno delle brughiere britanniche calpestato da Plant e Page. Pure il passato a strisce ritorna prepotente in tracce come 'What's The Rumpus'. 

Un assalto sonoro (placato in parte nella finale 'Terminal Archenemy Endling') che mette in guardia tutti gli aspiranti rocker di questa terra. Una visione romantica di come si può lasciare ancora un segno nero e blu dopo averlo lasciato bianco e rosso. Se il rock vuole libertà e anarchia Jack White le indossa ancora con disinvoltura alle soglie dei cinquant'anni e in un mercato discografico che vivacchia grazie a uscite nostalgiche che guardano al passato (vecchi concerti come se piovesse), un'uscita del genere non può fare che bene. Una rinfrescata strabordante e sopra le righe. Che amiate o meno White: così è.






sabato 21 settembre 2024

RECENSIONE: BLUES PILLS (Birthday)

 

BLUES PILLS  Birthday (BMG, 2024)




nuovi nati

Molto probabilmente nell'imminete tour dei Blues Pills che toccherà l'Italia l'8 Dicembre (al Magnolia di Milano), la cantante Elin Larson viaggerà di città in citta, di palco in palco, in compagnia del piccolo pargolo nato da poco. La gravidanza l'ha accompagnata durante la registrazione del loro quarto disco Birthday appena uscito e la copertina e le foto interne che  ritraggono il pancione della Larson in bella evidenza  non cercano di nascondere nulla, anzi testimoniano la nuova vita, anche musicale e perché no cercano di lanciare un messaggio chiaro a una società che vede nelle gravidanze un ostacolo alla produttività. Ecco una buona risposta. 

Il chitarrista, ex bassista,  Zack Anderson in una recente intervista: "la musica rock è dominata da band composte esclusivamente da uomini, quindi sembra una cosa fantastica avere una cantante solista super incinta in copertina".

Un disco importante per la loro carriera: per come è nato e si è sviluppato, per la libertà di scrittura che hanno adottato, per verificare se i vecchi fan accetteranno queste novità.

L'impianto blues (che da sempre sposa l'hard blues targato seventies con Janis Joplin) è lo stesso di sempre, anche se con l'uscita di Dorian Sorriaux, visto recentemente live con gli americani El Perro ha portato via la componente più heavy, eterea e psichedelica. Il calore soul della voce della Larson si è mantenuto intatto, le chitarre graffiano ancora anche se meno sovente rispetto al passato (l'apertura 'Birthday' è comunque d'impatto) ma in questa raccolta di undici canzoni si percepisce la voglia di sintetizzare al massimo la forma canzone, di arrivare prima al punto anche cavalcando nuovi suoni che a qualcuno potranno far storcere il naso: 'Piggyback Ride', che loro dicono ispirata addirittura dai Gorillaz, è la più moderna con un riff di chitarra in bella evidenza, sezione ritmica funky e chorus che straborda con tutto il suo peso nel pop, 'Holding Me Back' è rock ma di quello che le radio più commerciali da pomeriggi settimanali non disdegrerebbero, 'Don't You Love It' tocca invece quei  territori boogie quasi danzerecci cari agli ultimi Black Keys.

Passate queste novità più spiazzanti i Blues Pills immergono le loro canzoni nel vecchio classico rock che include l'urgenza funky di 'Bad Choices', il blues in crescendo di 'Somebody Better' e quello acustico che va giù di slide ('Shadows')  più due ballate  ('Top Of The Sky' e  'What Has This Life Done To You') che sembrano spingersi indietro fino agli anni cinquanta. C'è pure una cover ('I Don't Wanna Get Back On That Horse') di un misconosciuto gruppo svedese, i Grande Roses,  con interventi di pianoforte e dai forti richiami gospel.

Gli svedesi con questo disco si giocano la carta della notorietà su scala mondiale. Hanno perso le spigolosità hard, gli allunghi psichedelici, fumosi e jammati, hanno guadagnato le canzoni, tutte belle secondo me. Il disco è piacevole ma per chi ha amato i primi due dischi potrebbe essere veramente troppo. Aspetteremo il prossimo nato (disco naturalmente) per vedere quale sarà la loro strada futura.