La prima volta che vidi White Buffalo rimasi un po' deluso (Brescia, anno 2016), per lo stesso motivo per il quale ieri sera mi sono invece divertito. L'approccio in your face dei loro concerti è molto diverso da quanto prodotto in studio di registrazione. La prima volta mi sorprese in negativo, questa volta, preparato alla serata mi sono goduto ogni passo, salto e smorfia di Jake Smith con i suoi due inseparabili sodali: il sempre simpatico e sorridente Christopher Hoffee alla chitarra elettrica e tastiere e il martellatore Matt Lynott dietro a una batteria che fa miracoli per non distruggersi sotto i suoi colpi (un pezzo infatti partirà via durante la serata. Miracolo non riuscito!).
La copertina del recente disco live A Freight Train Through The Night sembra simboleggiare bene cosa ci si trova davanti durante un loro concerto: gli abbellimenti da studio di registrazione (Jake è un perfezionista quando vuole) vengono lasciati in un angolo a favore di una visceralità quasi cowpunk dove tutto è permesso e che viaggia e sbuffa come un vecchio treno in corsa, senza paura di sbavature e imprevisti che invece ci sono e rendono tutto più "umano e più vero".
Le sue storie di vita dove si cerca di fare luce attraverso oscurità e difficoltà, la voce profonda e calda (innalzata al massimo quando rimane solo con l'acustica), la sua America musicale, incrocio tra country, folk (la sua prima chitarra la prese in mano a vent'anni folgorato da John Prine e Bob Dylan) e rock'n'roll suonato con foga, sono riuscite a riempire il lungo e stretto locale dei Magazzini Generali (mi lascia sempre un po' interdetto la planimetria del posto) di persone variegate che vanno da un perfetto suo sosia in prima fila ("hey Jake ma cosa fai ancora lì non sali sul palco? Ah no!") a tanti giovani e giovanissimi (tante donne), da chi l'ha conosciuto attraverso la serie Sons Of Anarchy (ecco una sempre splendida versione di House Of The Rising Sun e Come Join The Murder) e chi attraverso l'ancora per me insuperato album Once Upon A Time In The West (The Pilot, Stunt Driver, BB Guns And Dirt Bikes).
Spezzare la settimana con un concerto così fa bene all'umore tanto che il viaggio di ritorno, pur ostacolato da mille imprevisti tra lavori sulla tangenziale e uscite autostradali imposte, traffico in tilt per un concerto al Forum di Assago (Ghali?) e onnipresente partita di calcio a San Siro, sembra una tranquilla gita fuori porta con tanto di paesaggio da osservare (operai autostradali ovunque). Mi addormento alle due con le intense note del concerto che mi rimbombano ancora in testa. Alle 5 sono già sveglio. Maledetto cambio d'ora!
Di cose belle ne capitano anche sotto il palco. Per esempio quando si aspetta il bis: mi sento stringere un braccio da due mani, un signore già con una certa età, con voce quasi rotta dall' emozione mi sussurra " che bravi, che bravi, sa che non li conoscevo". "Ah sì?" rispondo io. "Merito suo" mi dice, indicando quello che potrebbe essere suo figlio. Ecco: mi ha fatto una grande tenerezza e subito sul momento ho pensato che per conoscere nuova musica si abbia sempre tempo davanti a noi. Non si finisce mai di imparare.
Già, proprio bravo Marcus King from South Carolina, uno uscito con il cordone ombelicale con la musica che già gli scorreva dentro, quando poi il padre Marvin gli mise pure in mano la prima chitarra a tre anni, il gioco fu fatto. Star is born. Che sia un fuoriclasse lo si capisce dalla estrema naturalezza con quale lega insieme decenni di american music (southern rock, hard blues, soul, R&b, ricami jazz e country) con la stessa naturalezza di un veterano dalle mille vite ma di anni Marcus King ne ha solo ventotto. La stessa naturalezza con la quale, oltre a suonare la chitarra divinamente, canta. Una voce soul che se ce l'hai ce l'hai, se non ce l'hai cambia mestiere. Voce che esce in tutta la sua limpidezza quando imbraccia una chitarra acustica e rimane solo sul palco.
Poi che sia pure un'ottima penna lo si capisce anche solo dagli ultimi album dove si è messo completamente a nudo, svelando le tante debolezze che lo hanno circondato negli ultimi anni e da cui è uscito vincente. Anche qui la musica ha avuto la sua importanza.
Basterebbe poi confrontare la diversità dei suoi ultimi due dischi per capire come sappia muoversi con naturalezza tra i generi: da una parte l'hard rock fumante seventies di Young Blood, dall'altra la morbidezza dell'ultimo album Mood Swings con canzoni che si portano a spasso un carezzevole soul e che hanno fatto storcere il naso a molti ma che in verità se prese una per volta sono tutt'altro che brutte ('Save Me', 'Bipolar Love', 'Mood Swings', 'This Far Gone', 'Fuck My Life Up Again' tra quelle suonate) e live, allungate con code strumentali e jam virano anche in altri campi poco arati.
Ad aiutarlo la seconda chitarra di Drew Smithers con il quale duella spesso e volentieri, il tastierista Mike Runyon che ha lo sguardo rivolto sempre al cielo, il batterista Jack Ryan che detta bene i tempi e il solido bassista di cui non so il nome.
Tra i paletti delle nuove canzoni inserisce qualche vecchio brano, l'immancabile 'Goodbye Carolina' e una serie di cover. Sì perché è ancora così appassionato di musica che dopo cinque album continua a infarcire i suoi concerti di cover, passando da una ruspante 'Are You Ready For The Country' di Neil Young a una nuova 'Honky Tonk Hell' di Gabe Lee che uscirà nel suo prossimo disco (almeno così ho capito), da 'Good Time Charlie's Got the Blues' di Danny O'Keefe fino alla finale 'Ramblin Man' della Allman Brothers Band eseguita con mestiere e devozione, saluto e omaggio a Dickey Betts che ci ha lasciato lo scorso Aprile.
Io saluto il signore di prima ancora emozionato. Al ritorno in macchina mi ascolto Wild God di Nick Cave che stasera a Milano, in contemporanea, nella sua personale chiesa ha fatto il pienone (il Fabrique è pieno ma a mezzo servizio). Chissà se il signore, non quello divino, ma quello emozionato lo conosce?
Gillian Welch e David Rawlings sembrano posare con orgoglio ma facce stanche sotto la scritta Woodland Studios, studi di registrazione a Nashville di loro proprietà che solo per un miracolo sono ancora in piedi dopo il terribile tornado che nel 2020, in piena pandemia, si è abbattuto sulla città. Lo studio è rimasto scoperchiato, tutto ciò che vi era all'interno è stato salvato con abnegazione e fatica, anni e anni di registrazioni e vita sotto la clemenza delle intemperie. Quattro anni dopo, ben tredici dall'ultimo disco di inediti insieme (The Harrow & the Harvest del 2011, in mezzo un album di cover All The Good Times) ritornano con dieci canzoni che per la prima volta vedono in copertina i loro nomi uniti, uno di fianco all'altro (anche se non ci sono), e per la prima volta decidono di colorare le liriche con nuove e tenui sfumature strumentali (una band dietro, lap steel, archi, violino, banjo) mantenendo però intonsa quella comunione d'intenti e spirituale che li accompagna da sempre. Compagni di musica e di vita, sono oggi tra i pochi a portare avanti con continuità, nonostante uscite discografiche ponderate, valori musicali che certi grandi songwriter americani si sono portati dietro nell'aldilà. Le loro canzoni viaggiano tra motel e parcheggi, lungo antiche ferrovie, sbirciano dentro le vite. Viaggiano in una continuità quasi senza tempo.
"Questo disco più di ogni altro nostro disco è un prodotto dei tempi in cui è stato creato" ha raccontato la Welch.
Guardano a un futuro quasi apocalittico con occhio critico e un po' satirico in The Day the Mississippi Died, stanno nel presente con le liriche della ipnotica Hashtag ma con il cuore aperto verso il compianto Guy Clark, Lawman entra nel blues di un omicidio, il fingerpicking costruisce e addolcisce The Bells And The Birds cantata con leggerezza impalpabile, in Turf The Gambler si insinua un'armonica, Empty Trainload of Sky scruta un panorama tutto americano dal finestrino di un treno, cantano della loro salda unione in What We Had (con l'ombra di Neil Young a fare ombra) e duettano nella finale Howdy Howdy, tutta la classicità del folk americano marchiato a fuoco in Here Stands A Woman tra Woody Guthrie e Bob Dylan racconta di passato, presente e futuro. È un per sempre.
Dieci canzoni di pura Americana tra folk e country a due voci, registrate in un studio di registrazione superstite e sopravvissuto e che sanno tanto di nuovo inizio.
Uno "splendido" nuovo inizio costruito, con quella pura limpidezza concessa a pochi, sopra alle macerie, un po' come quando vedi il tuo fiore preferito crescere forte e florido nel luogo più ameno e impensabile. C'è qualcosa di magico ma è tutto così estremamente naturale.
Quanti gruppi indossano così bene i propri quarant'anni (di carriera) come sanno fare i D-A-D? Pochissimi. Tanti compagni di strada si sono persi tra le vie sbiadite del rock nel nuovo secolo, altri arrancano bolsi senza meta e futuro, statici di fronte alla gloria passata, taluni sono impegnati da anni in reunion posticce e poco credibili. I danesi invece non mi deludono mai, ogni loro uscita discografica sprigiona freschezza, autoironia, goliardia senza mai sfiorare la banalità, anche se a volte fa capolino l'autocitazione ma c'è poco da preoccuparsi è solo il consolidato trade mark che ci parla.
Sarà forse l'aria frizzante della Danimarca che ce li conserva ancora così bene?
La formazione è la stessa di sempre (a parte il batterista Laust Sonne in formazione da venticinque anni ormai): gli incredibili bassi di tutte le forme e numero di corde di Stig Pedersen, l'inconfondibile voce di Jesper Binzer (anche chitarra) capace di graffiare e di morbide carezze melodiche, la chitarra indispensabile del fratello e mago Jacob A. Binzer.
Campioni indiscussi nell'unire melodie malinconiche e dark con lo street rock’n’roll e quelle inconfondibili chitarre dal suono così americano che conservano ancora un po' di vecchia polvere country western degli edordi, questo tredicesimo disco è pieno zeppo di belle melodie. Circola voce che avessero qualcosa come quaranta canzoni pronte da cui attingere: ne hanno scelte quattordici per costruire un album che supera i cinquanta minuti. Forse non sono più i tempi di 'Sleeping My Day Away' o 'Grow Or Pay' in cima alle classifiche (in Danimarca rimangono un'istituzione da prima serata nella Tv nazionale) ma canzoni come 'The Ghost', 'Speed Of Darkness', 'Head Over Heels' e 'Crazy Wings', la ballata finale 'I'm Still Here' continuano ad emanare quell'antica magia, contenendo tutte quelle caratteristiche che all'ascolto ti fanno sobbalzare dalla sedia e dire questi sono i D-A-D nessun dubbio. È sempre il trade mark di prima.
In mezzo a tanta melodia (uno dei loro migliori dischi sotto questo aspetto) sanno ancora grattare la superficie del rock'n'roll magari con meno esuberanza, ma certamente con più mestiere e controllo: dall'accoppiata iniziale 'God Prays To Man' (se solo la suonassero gli Ac Dc una canzone così oggi) e '1st 2nd & 3rd' cariche di groove, ai rock'n'roll 'Live By Fire' e 'Everything Is Gone Now', i rimasugli punk che innescano 'Waiting Is The Way', il singolo che inchioda 'Keep That Mother Down', il blues 'In My Hands', fino ai momenti più heavy come 'Strange Terrain' e la più "modernista"'Automatic Survival', hard al punto giusto tanto per non dimenticare quanto siano ancora capaci a far rumore.
Per chi avesse voglia di festeggiare con loro i quarant'anni di attività (a inizio anno era pure uscita una raccolta) l'appuntamento è fissato per il 25 Novembre al Legend di Milano. Immancabili. Sono usciti vivi dagli anni ottanta, hanno superato brillantemente il ciclone grunge dei novanta, sono entrati nei 2000 con il vento in poppa come se nulla fosse. Cosa volete che siano quarant'anni da festeggiare?
Ricordo benissimo il mio primo incontro con i Crowsroads tra le strade di Brescia durante la festa della musica: chitarra, armonica, cajon e le loro armonie vocali che sposavano blues e west coast music. Giovanissimi e affamati di musica allora come oggi.
Era il 2015, feci un post con una loro foto e scrissi "segnatevi questo nome". Quell'anno uscì anche il loro primo album Reels che metteva in fila i loro ascolti giovanili (come se fossero vecchi!) attraverso tante cover.
Negli anni li ho incrociati ancora svariate volte tra concerti (il "mitico" 4/quarti, in apertura a Steve Forbert ) e dischi (On The Ropes uscito nel 2019, primo disco che conteneva brani autografi) ed ogni volta si poteva notare il miglioramento, constatare quanto quelle cover suonate sul ciglio di un marciapiede siano state assimilate per trovare una propria strada musicale che oggi si intravede molto più nitidamente anche se, ne sono sicuro, porterà ancora più lontano.
I fratelli bresciani Matteo (voce e chitarra) e Andrea Corvaglia (armonica e voci) con Spaceship fanno non uno ma due passi in avanti in un solo colpo aiutati da Poncio Belleri (basso), Sebastiano Danelli (batteria) e Nicola Ragni (tastiere e ingegnere del suono): si percepisce la maturità acquisita, la voglia di crescere, di sorprendere e sorprenderci con la musica. Di quel folk blues scarno e quasi primordiale è rimasto lo spirito che serpeggia vivo e vivace le loro anime, musicalmente invece volano alto con un songwriting mai banale, pieno e ricco di vissuto e dettagli dove chitarre hard blues più toste del solito ('If It Wasn't', 'Hot Blood/Weak Knees') sposano ballate come 'Spaceship' e la finale, evocativa e sorprendente 'Showdown', le armonie vocali di 'More Than Everywhere', e dove un certo blue collar rock tutto americano fa spesso capolino nel crescendo di 'Last Glimpse Of You' e 'Isolate'. Insomma: il blues si fa maturo, si contamina e non ha paura di incontrare le belle melodie pop di una canzone vincente come 'Theseus & The Moon'.
E poi questa copertina che colpisce ingannando: potrebbe portare verso lo space rock ma come spiegano bene loro nelle note che accompagnano il disco:"questo album ha poco a che fare con la fantascienza. Parla delle cose più 'terrestri' che vi possano venirvi in mente...".
E allora a me piace accomunarla alla copertina dove i Canned Heat vestiti da astronauti piantavano la bandiera americana sulla luna. Il disco si intitolava Future Blues. Il futuro è arrivato, la bandiera è italiana e Spaceship è un bell'esempio di Blues contemporaneo che guarda già al prossimo futuro. Intanto noi aspettiamo le prossime mosse comodamente seduti nel divano (ecco un altro divano in copertina!).
Non sono mai uscito deluso da un concerto dei Blackberry Smoke. Perché? Perché ti danno esattamente quello che ti aspetti: giusto, pulito, con mestiere, facce allegre e molta onestà. Sempre confortanti. Va da sé che confermano i tanti pregi e alcuni difetti di sempre. Da una parte: gusto melodico, la capacità di unire chitarre (tre come piace al vecchio southern rock, ecco allora il sempre sorridente Paul Jackson e il sempre compassato Benji Shanks unirsi a Charlie Starr) con quella ariosa melodia country cara a gruppi come Outlaws e Eagles che fa spesso capolino. La concretezza di voce, chitarre, basso, batteria e tastiere e poche seghe strumentali (le chitarre fanno il loro lavoro senza eccessi da prima donna) e scenografiche, il fondale con la farfalla che campeggia nella copertina dell'ultimo disco Be Right Here e le giuste luci. Dall'altra manca sempre quel briciolo di spregiudicatezza, pur nelle loro capacità, che li faccia osare di più spingendosi in divagazioni strumentali più coraggiose che il vecchio southern rock, sempre lui il metro di paragone, ha tramandato. Charlie Starr si conferma un signor frontman e songwriter (non so perché ma mi immagino sempre una sua carriera solista parallela alla band): carisma, voce e chitarra guidano il gruppo, ecco l'unica mancanza è non avere nella band almeno un altro elemento con lo stesso carisma che possa rivaleggiare ad armi pari e portare quella "sana" rivalità che il rock conosce bene. A volte pretende. O porta distruzione o meraviglie, il rischio è dietro l'angolo. Forse i Blackberry Smoke amano poco i rischi. Forse questa è la loro natura e piacciono per questo: belle canzoni, suoni nitidi e puliti, perfino canticchiabili da tutti. L'ultimo album e The Whippoorwill i dischi più saccheggiati con quest'ultimo, forse il loro migliore, che regala canzoni diventate dei piccoli classici come la title track e One Horse Town.
Un Alcatraz pieno di fan ormai fidelizzati vorranno pur dire qualcosa. Negli anni abbiamo visto gruppi con una storia ben più importante suonare nel locale dimezzato.
Anni fa quando scrissi del loro disco The Whippoorwill (2012) su una rivista mai avrei pensato potessero raggiungere questa notorietà qui in Italia. Lo sapete che a Biella esiste l'unica (credo) tribute band italiana a loro dedicata?
Ieri sera a Milano la band di Atlanta, Georgia, ha festeggiano la fine del tour europeo e ricordato pure chi non c'è più: con un accenno di Don't Come Around Here No More di Tom Petty, anche se l'avevano fatta anche due anni fa ma oggi è una data significativa, il 2 Ottobre di sette anni fa ci lasciava, ma soprattutto hanno tributato il loro storico batterista Brit Turner scomparso il 3 Marzo di quest'anno a soli 57 anni. E a rinsaldare l'amore con il pubblico italiano, a fine concerto mostrano uno stendardo a lui dedicato donato da alcuni fan. Vera commozione sui loro volti. Rock’n’roll, boogie rock (Waiting For The Thunder, Rock'n'roll Again) e ariose ballate country si alternano, accennano pure Willin dei Little Feat anche se pochi sembrano accorgersene, si divertono e ci si diverte nel finale. Portarsi a casa una serata di sano rock’n’roll americano (ad aprire il tosto rock blues di Bones Owens da Nashville) con poco più di 30 euro è impresa sempre più rara, meglio approfittarne sempre a patto di non spendere i soldi risparmiati in birra: 10 euro per una media di birra Ipa è un'esagerazione da non provare. L'ho lasciata lì. I soldi serviranno per il prossimo concerto.
Detroit, Nashville e Londra. Sono le tre città, le uniche tre al mondo ad ospitare negozi della Third Man Records, da cui si è iniziato a spargere il nuovo verbo che poi è un ritorno a una vecchia lingua lasciata decantare un po' di tempo a favore di altri strani e bizzarri svolazzi sul pianeta musica.
Capita che un giorno d'estate, esattamente il 19 Luglio del 2024, in contemporanea, i clienti che fecero un acquisto nei negozi della Third Man ricevessero un regalo in cassa, un vinile anonimo intitolato No Name con due sole scritte, una per lato: "heaven and hell" e "black and blue". Ogni riferimento è puramente "non casuale". Me li vedo una volta arrivati a casa, dimenticare i loro nuovi acquisti sul tavolo della cucina e incuriositi mettere subito sul piatto quel vinile misterioso. Non ci sono nemmeno i titoli ma appena appoggiata la puntina una scarica hard blues ha vibrato lungo la spina dorsale : è l'opener 'Old Scatch Bkues'. Perché i titoli poi, sono arrivati con calma. E se ti sei recato alla Third Man Records e fai 1+1 capisci che quella voce, quella chitarra selvaggia, che macina riff e assoli acidi sono di Jack White che ha deciso di promuovere così il suo nuovo disco in uscita. Il giorno dopo la notizia si è già propagata in tutto il mondo, l'invito a scaricarlo fa il suo "sporco" lavoro ma visto che Jack White è uno alla vecchia maniera, dopo un paio di mesi ecco anche la versione fisica per tutti. Ora si può dire: No Name è il nuovo disco di Jack White. Un'operazione di marketing che aleggia tra passato e presente, romanticismo e spavalderia, cose da sempre comuni al suo autore.
Che stia vivendo un periodo di grande ispirazione lo si era capito dall'ultima uscita Entering Heaven Alive (2002) che viaggiava in coppia con il più sperimentale Fear Of The Dawn. Ma se lì abbracciava l'intero universo musicale americano (spaziando tra rock e folk) su No Name a stagliarsi sopra tutto è l'urgenza elettrica di un hard blues ('Missionary') sporcato di garage punk (l'assalto di 'Bombing Out') e qualche seme crossover anni novanta ('Bless Yourself' potrebbe uscire da un disco dei Rage Against The Machine, 'Number One With A Bullet' batte ritmi funk metal). La fascinazione per i Led Zeppelin è la torcia accesa che tiene vivo il suono delle tredici canzoni: 'It's Rough On Rats (If You're Asking)', 'Tonight (Was A Long Time Ago)' e 'Underground' camminano sul terreno delle brughiere britanniche calpestato da Plant e Page. Pure il passato a strisce ritorna prepotente in tracce come 'What's The Rumpus'.
Un assalto sonoro (placato in parte nella finale 'Terminal Archenemy Endling') che mette in guardia tutti gli aspiranti rocker di questa terra. Una visione romantica di come si può lasciare ancora un segno nero e blu dopo averlo lasciato bianco e rosso. Se il rock vuole libertà e anarchia Jack White le indossa ancora con disinvoltura alle soglie dei cinquant'anni e in un mercato discografico che vivacchia grazie a uscite nostalgiche che guardano al passato (vecchi concerti come se piovesse), un'uscita del genere non può fare che bene. Una rinfrescata strabordante e sopra le righe. Che amiate o meno White: così è.
Molto probabilmente nell'imminete tour dei Blues Pills che toccherà l'Italia l'8 Dicembre (al Magnolia di Milano), la cantante Elin Larson viaggerà di città in citta, di palco in palco, in compagnia del piccolo pargolo nato da poco. La gravidanza l'ha accompagnata durante la registrazione del loro quarto disco Birthday appena uscito e la copertina e le foto interne che ritraggono il pancione della Larson in bella evidenza non cercano di nascondere nulla, anzi testimoniano la nuova vita, anche musicale e perché no cercano di lanciare un messaggio chiaro a una società che vede nelle gravidanze un ostacolo alla produttività. Ecco una buona risposta.
Il chitarrista, ex bassista, Zack Anderson in una recente intervista: "la musica rock è dominata da band composte esclusivamente da uomini, quindi sembra una cosa fantastica avere una cantante solista super incinta in copertina".
Un disco importante per la loro carriera: per come è nato e si è sviluppato, per la libertà di scrittura che hanno adottato, per verificare se i vecchi fan accetteranno queste novità.
L'impianto blues (che da sempre sposa l'hard blues targato seventies con Janis Joplin) è lo stesso di sempre, anche se con l'uscita di Dorian Sorriaux, visto recentemente live con gli americani El Perro ha portato via la componente più heavy, eterea e psichedelica. Il calore soul della voce della Larson si è mantenuto intatto, le chitarre graffiano ancora anche se meno sovente rispetto al passato (l'apertura 'Birthday' è comunque d'impatto) ma in questa raccolta di undici canzoni si percepisce la voglia di sintetizzare al massimo la forma canzone, di arrivare prima al punto anche cavalcando nuovi suoni che a qualcuno potranno far storcere il naso: 'Piggyback Ride', che loro dicono ispirata addirittura dai Gorillaz, è la più moderna con un riff di chitarra in bella evidenza, sezione ritmica funky e chorus che straborda con tutto il suo peso nel pop, 'Holding Me Back' è rock ma di quello che le radio più commerciali da pomeriggi settimanali non disdegrerebbero, 'Don't You Love It' tocca invece quei territori boogie quasi danzerecci cari agli ultimi Black Keys.
Passate queste novità più spiazzanti i Blues Pills immergono le loro canzoni nel vecchio classico rock che include l'urgenza funky di 'Bad Choices', il blues in crescendo di 'Somebody Better' e quello acustico che va giù di slide ('Shadows') più due ballate ('Top Of The Sky' e 'What Has This Life Done To You') che sembrano spingersi indietro fino agli anni cinquanta. C'è pure una cover ('I Don't Wanna Get Back On That Horse') di un misconosciuto gruppo svedese, i Grande Roses, con interventi di pianoforte e dai forti richiami gospel.
Gli svedesi con questo disco si giocano la carta della notorietà su scala mondiale. Hanno perso le spigolosità hard, gli allunghi psichedelici, fumosi e jammati, hanno guadagnato le canzoni, tutte belle secondo me. Il disco è piacevole ma per chi ha amato i primi due dischi potrebbe essere veramente troppo. Aspetteremo il prossimo nato (disco naturalmente) per vedere quale sarà la loro strada futura.
Forse il segreto sta tutto lì, in quella linea tentatrice che dal culto si espone al mainstream. I Mudhoney continuano a cavalcarla con lo stesso impeto, la stessa sregolatezza e lo stesso impulso primordiale degli esordi guardandosi bene nell'oltrepassarla.
Nella sua autobiografia Steve Turner ha scritto: "Eddie Vedder non poteva andare al supermercato, ma io sì". Tutto detto.
Furono tra i primi a dare visibilità a una generazione (i Green River subito ma immancabile è Touch Me I'm Sick dietro) e possiamo dirlo: sono tra gli ultimi rimasti in piedi, fedeli a sé stessi. Quasi due ore di concerto pregne di calci sugli stinchi ben assestati e pure ben simboleggiati dalle due pedate che Mark Arm rifila ai due malcapitati (forse era pure lo stesso, recidivo) che hanno surfato per raggiungere il palco per un stage diving prontamente neutralizzato sul nascere. Una sala sold out tenuta in pugno da tre ex ragazzi in buonissima forma (Mark Arm, Steve Turner, e Dan Peters) più l'ultimo entrato, comunque venticinque anni fa (il bassista Guy Maddison) che di posare le armi non hanno assolutamente voglia, tuttalpiù Arm posa la chitarra per impugnare il microfono e diventare il "crooner" del loro lato più punk e anarchico.
Non si tira mai il fiato in mezzo alla loro commistione di garage rock, blues rumoroso e psichedelia acida, l'unica pausa la regala il basso di Maddison che richiede cinque minuti di manutenzione, Arm ne approfitta per per presentarci il suo bicchiere di Vermentino.
Presente, ben rappresentato dagli ultimi album Digital Garbage e Plastic Eternity (saccheggiati a dovere) e passato (Superfuzz Bigmuff e Mudhoney usciti poco prima di entrare nei novanta) sono dati in pasto (quasi una trentina i brani in scaletta) con l'antica veemenza che negli anni ha guadagnato in esperienza e il rispetto che si deve a una band che stasera, ma lo farà fino alla fine dei suoi giorni, ha impartito una lezione di coerenza rock'n'roll che pochi possono vantare ed esibire con tale esuberanza dopo quarant'anni di carriera e che noi presenti ricorderemo certamente a lungo.
RED SHAHANLoose Funky Texas Junky (Lemon Pepper Records, 2024)
la buona tradizione
Forse per molti basterà sapere che Marc Ford è il produttore del quarto disco del songwriter texano Red Shahan per avvicinarsi incuriositi. O forse basterebbe questa copertina che mi ha catturato ricordandomi il primo Little Feat, dove là c'era un muro qui c'è un vecchio vagone merci abbandonato.E sorpresa: ascoltando le canzoni lo spirito di Lowell George sembra avvolgerne molte, anche la voce di Shaham a volte ricorda George.
Se cresci nella desolazione del West Texas e in qualche modo ne esci fuori con le tue forze, qualche qualità dovrai pur averla. Red Shehan, che prima di scegliere la musica ha cercato la sua strada nel baseball, nei rodeo e perfino nel corpo dei pompieri, con Loose Funky Texas Junky cala tutte le sue carte vincenti confezionando un album profondamente americano giù fino alle viscere che potrebbe piacere a molti. La sbandata funky, promessa dal titolo, rispetto ai precedenti dischi (l'album è stato registrato nei leggendari Fame Studio, Muscle Shoals) è netta e preponderante fin dall'apertura Evangeline, dove serpeggia un po' dello spirito di Dr. John nell'uso di tastiere e piano, continua in canzoni come Wish Me Well e Ain't A Shame e nella più soul Desperate Company.
Uno stacco dal classico country texano che comunque continua là dove dominano chitarre e lap steel: Supernova è un country rock che ha l'incedere del Tom Petty dei tempi andati, Midnight Tiger un vivace honky tonk da consumare in strada, Room Full Of Desirée una ballata con il piano a dettare la falcata, Big Wide Open puro cantautorato texano.
Shehan canta di bar poco raccomandabili ma è anche molto introspettivo quando ci racconta le difficoltà famigliari post covid nel country folk di Clues.
Un album certamente piacevole che punta ad arrivare a più persone possibili senza svendersi. La firma di Marc Ford in produzione è la garanzia di qualità e la coda d'estate invita a salire su un'auto e viaggiare con queste canzoni a fare compagnia.
In una recente intervista Ray Lamontagne parlando di 'I Wouldn' t Change A Thing', canzone contenuta in questo bellissimo disco, che in qualche modo si e ci chiede "se siamo felici di dove siamo in questo momento" confessa che qualche anno fa ebbe la fortuna di chiacchierare con Bob Dylan: lo ringraziò e gli confessò che attraverso la sua musica aveva trovato un posto dove stare, un mondo che pensava non esistesse. Da allora trovò la sua strada di musicista. Se c'è un artista che in questi ultimi vent'anni è riuscito a farmi fare un giro intorno alla musica che amo quello è certamente Ray Lamontagne. Un antidivo che per continuare a mantenersi e mantenere la famiglia con la quale vive in una fattoria del Massachusetts (famiglia composta da sua moglie conosciuta quando entrambi avevano otto anni e i due figli nati dalla relazione) ha lavorato duro dentro e fuori la musica. Fece pure il falegname per qualche anno.
Long Way Home ha un sottile filo conduttore che vuole portarci a cercare la serenità dentro di noi (la contemplazione di 'Yearning') lasciando fuori da corpo e mente tutto ciò che potrebbe fare da ostacolo. Un viaggio dalla fanciullezza all'età adulta che viene ben spiegato nella title track raccolta di ricordi d'infanzia dove canta di prati verdi, ruscelli di montagna e frutteti sulla collina. Mi è impossibile non riportare alla mente polaroid di certe mie estati in campagna quando l'unico pensiero della giornata era cavalcare una bicicletta con una rudimentale canna da pesca in mano e raggiungere il fiumiciattolo in mezzo al bosco, sperando che qualche pescetto di acqua dolce si lasciasse fregare da un bambino di dieci anni.
"Ogni canzone di Long Way Home in un modo o nell'altro onora il viaggio. I giorni languidi della giovinezza e dell'innocenza. Le innumerevoli battaglie dell'età adulta, alcune vinte, più spesso perse. È stata una strada lunga e dura, e non cambierei un minuto. Mi ci sono volute nove canzoni per esprimere ciò che Townes è riuscito a dire in un verso. Immagino di avere ancora molto da imparare" spiega Lamontagne. Il verso della canzone di Townes Van Zandt a cui di riferisce è "when here you been is good and gone, all you keep is the getting there" da 'To Live Is To Fly'.
All'uscita di Ouroboros (2016) pensavo che il vecchio Lamontagne dei primissimi dischi lo avessimo perso definitivamente, dentro a album, sì sempre più coraggiosi che si spingevano in territori psichedelici e sperimentali (salutando i Pink Floyd) ma che in qualche modo tradivano quelle origini così semplici costruite su folk, country, soul e blues che ci aveva donato agli esordi. Poi arrivò Monovision (2020) che tornava alla semplicità di un tempo, e ora questo Long Way Home che mette nuovamente in fila i suoi primi grandi amori musicali: da Van Morrison che influenza il giubilio musicale di 'My Lady Fair' arricchito dai fiati, la west coast dei settanta e il Neil Young bucolico di Harvest rivivono in 'And They Called California', il soul e il gospel marchiato Stax nell'apertura 'Step Into Your Power'.
Registrato e prodotto nel suo studio di registrazione insieme al fidato Seth Kauffman con l'aiuto di pochissime persone tra cui le Secret Sisters ai cori e Carl Broemel (My Morning Jacket) alla pedal steel e Ariel Bernstein alla batteria. La sua incredibile voce e i tanti strumenti che suona.
Se tutti fossimo in grado di trovare bellezza e pace interiore negli accadimenti della vita come ha fatto Ray Lamontagne nelle nove canzoni di Long Way Home (poco più di mezz'ora tra cui la strumentale 'So, Damned, Blue') il mondo sarebbe un posto migliore per tutti. Bentornato, anzi no, perché in fondo Lamontagne non se n'è mai andato e se oggi è qui è perché ha onorato tutto il suo passato. Bello e brutto.
Positivo, riflessivo, introspettivo. Semplice. L'album di questo quieto fine Agosto. Comunque il fatto che la mia canna da pesca di legno non tirò mai su nessun pesce poteva già mettermi in guardia su cosa potesse essere la vita che avevo davanti a soli dieci anni.
CEK & THE STOMPERSMr. Red (Gulf Coast Records, 2024)
salto americano
Il Cek (Andrea Franceschetti) ha iniziato il tour per presentare il nuovo album Mr. Red nel biellese, aprendo per la Fabio Treves Band. E io non c'ero, quella sera ero emigrato in quel di Torino ma sempre per la buona causa musicale. Peccato: per una volta che lo avevo sotto casa...
Discograficamente lo avevo invece lasciato sulle rive del suo lago d'Iseo sulle sponde di Pisogne, paese che lo ha visto crescere, l'ultimo che si specchia sul lago prima di salire in Valcamonica. Era in attesa dell'arrivo della Sarneghera, tempesta che nelle giornate estive porta scompiglio e che diede il titolo all' ultimo album Sarneghera Stomp uscito nel 2021. Un disco segnato fortemente dalle cicatrici (anche personali) lasciate dal lockdown.
Lo ritroviamo tre anni dopo con un progetto completamente diverso, quasi corale, che si avvale dell'aiuto dei suoi Stompers formati da Luca Manenti (chitarre, mandolino e co autore di dieci pezzi insieme a lui), Pietro Ettore Gozzini dai Slick Steve and The Gangsters (contrabbasso), Federica Zanotti (percussioni) e Andrea Corvaglia dei Crowroads (armonica), l'aiuto di Annalisa G. Favero ai cori e della cantautrice, amica e conterranea Laura Domeneghini, autrice di 'Please Me'. L'altra cover è 'Thirteen Days' di JJ Cale che chiude il disco registrato ai Poddighe Studio di Brescia, saga sulla vita on the road dei musicisti e arrangiata in linea con lo stile molto roots che aleggia su tutto il disco.
L'importante firma per l'etichetta americana Gulf Coast Records, prima band europea a entrare nel rooster, con una distribuzione che coprirà anche l'America naturalmente è solo uno dei tanti pregi di cui si fregia questo disco.
L'album Mr. Red prende il titolo dall'omonima canzone, un veloce blues'n'roll, dedicata a Lousiana Red, bluesman e chitarrista americano scomparso nel 2012, vero mago della slide che visse una buona parte degli ultimi suoi anni in Germania. Molti tour in Europa e in Italia quindi e proprio durante questi viaggi di città in città che il Cek ebbe modo di incontrarlo e passarci molto tempo insieme. La canzone è un po' un diario di quegli incontri ricchi di scambi musicali.
Uno dei dischi più vari della sua carriera, ricco di sfumature musicali come insegnato da Ry Cooder, dal blues dell'iniziale 'The Peach And The Snake' e di 'Seventh Heaven', alle atmosfere autunnali che accompagnano 'The Heat' a quelle irish che soffiano dentro 'Fairy Tales', al contrasto vincente che contrappone l'elettrica 'Once Upon A Time In The South' alla folkie e solitaria 'Going To The Circus'.
C'è poi 'Juanita', storia di un ragazzo innamorato del blues che molla tutto e va nel sud degli Stari Uniti, a New Orleans, per realizzare il suo sogno: finirà in Spagna, innamorato, dove sposerà la sua Juanita. Storia che accomuna.
Storpiando un vecchio detto possiamo dire "non si possono insegnare nuovi trucchi a un vecchio bluesman", e il Cek raggiunta la mezza età è a tutti gli effetti uno dei migliori alfieri del blues italiano che potrebbe insegnare un po' di cose a tanta gente. Sempre unico e inimitabile.
Tutto ciò che passa in mezzo tra un Mr E gigione e ciarliero che l'anno scorso (Aprile 2023) all'Alcatraz di Milano aveva imbottito la scaletta di un concerto superbo dall'anima rock'n'roll con tante canzoni dell'ultimo disco Earth To Dora (2020), quello scritto in piena pandemia ("abbiamo finito per fare alcuni dei migliori spettacoli che abbiamo mai fatto" ) e una foto in bianco e nero postata sui social da Mr E a inizio Maggio di quest'anno che lo ritrae a torso nudo in piedi con fare quasi orgoglioso mostrare una cicatrice lunga 30 cm che gli divide in due il petto, ricordo perenne dell'operazione a cuore aperto che gli ha probabilmente salvato la vita.
"Sembra che l'operazione a cuore aperto non sia riuscita a rallentarmi" scrive lui.
Ecco l'ultimo suo anno! In tutto questo ha trovato il tempo di incidere un disco che intitola Eels Time! E potrebbe già bastare così. Scritto in parte prima dell'intervento (molte canzoni le ha buttate giù collaborando con Tyson Ritter degli All-American Rejects), indaga con serafica calma pop sul trascorrere del tempo (in 'Time' lo dice chiaramente di quanto a volte ce ne servirebbe "di più") preannunciando in qualche modo ciò che gli sarebbe poi capitato di lì a poco e sbircia tra le pieghe impalpabili dell'amore ('Sweet Smile', in 'If I'm Gonna Go Anywhere' si chiede“ Cos’altro c’è se non l’amore?" in una atmosfera psichedelica). Beatlesiano ('I Can't Believe it's True') con echi Beach Boys ('And You Run') e surreale come sempre quando racconta che la sua relazione più duratura è quella con il pesce rosso di casa ('Goldy').
Un disco a tratti quasi fragile, dalle atmosfere rarefatte, contemplativo sulla fugacità della gioia che sembra cozzare con l'esuberanza rock'n'roll vista e ascoltata nell'ultimo tour visto. Ecco cos'è la vita: un saliscendi emozionale che conosce fin troppo bene.
Non rientrerà tra i dischi migliori della sua discografia, certamente tra i più importanti e salvifici (quasi tutti in verità e purtroppo), ma dona comunque un caldo e sincero abbraccio. Già solo il fatto di essere qui ad ascoltarlo dopo che il suo cuore di neo sessantenne è uscito fuori dal corpo per una messa a punto è già di per se un buon ascoltare.
C'è una foto simbolica all'interno del disco: mostra Mr. E, con occhiali da sole, giacca e cravatta sotto il "leggero" peso un immenso cielo azzurro...
Sì va avanti, di tempo ce n'è anche se mai abbastanza naturalmente.
Se il sogno di Ian Astbury è suonare alla Scala di Milano come ci ha confessato a fine concerto direi che dopo la performance di stasera potrebbe anche meritarsela. Una prestazione vocale da tempi d'oro mentre con i tamburelli si è divertito fino alla fine, lanciandoli, riprendendoli al volo e colpendoli con il tacco del piede come il miglior fromboliere calcistico. Regalandoli. Da sempre camaleontico, sciamano che negli anni ha curato anima e corpo con la musica, a volte non riuscendoci, folgorato in giovane età sulla via dei nativi americani, ha sempre lottato sotto il continuo attacco dei demoni ed in perenne viaggio verso la ricerca della pace interiore.
Da lui non sai mai cosa aspettarti, oggi era in forma splendida (e carisma strabordante), esempio per giovani frontman in erba e coetanei che alla sua età sembrano arrancare già. Esempio: prima del bis è sceso dal palco e ha firmato autografi ai primi sotto la transenna. Non è così scontato.
Eh sì, a momenti non sembrava, ma c'erano quarant'anni di musica da festeggiare e mi ha fatto estremamente piacere che nella setlist non abbiano dimenticato album dignitosi ma spesso in secondo piano realizzati negli ultimi vent'anni: il pesante e moderno Beyond Good And Evil ('Rise') che aveva aperto gli anni duemila con il botto, lo sciamanico Choice Of Weapon ('Lucifer') e l'ultimo ammaliante e visionario Under The Midnight Sun ('Mirror') per me degno di stare tra i migliori dischi della loro carriera e credetemi pochi gruppi dopo quarant'anni di musica sono in grado di far uscire dischi così intensi. C'è pure una 'Star' estrapolata dal disco controverso e grungy con la pecora in copertina che fu preludio allo scioglimento in quegli anni novanta difficili per tutti. Quando hai due personalità così forti in formazione (naturalmente l'altra metà è Billy Duffy) i rischi sono sempre in agguato. Loro ne pagarono le conseguenze
Che siano sempre stati difficili da inquadrare lo si capisce osservando il pubblico, diviso tra i nostalgici della prima ora (con look rigorosamente eighties) devoti al post/punk a tinte gotiche dei primi dischi che comunque tornano a casa soddisfatti con le immancabili canzoni di Love ('Brother Wolf, Sister Moon, Rain, She Sells Sanctuary, The Phoenix) e Dreamtime ('Resurection Joe' e 'Spiritwalker'), e i rocker devoti al brusco cambio in direzione hard rock portato da Electric ('Love Removal Machine', 'Wild Flower') e consolidato dal loro best seller Sonic Temple ('Fire Woman', 'Sweet Soul Sister' e il sipario acustico della sempre commovente 'Edie (Ciao Baby)') che ha garantito grandi palchi e pubblico più numeroso. Manca all'appello Ceremony completamente snobbato. Peccato.
Se a centro palco Ian Astbury intrattiene, sparando fuori anche poco comprensibili parole in italiano, John Tempesta (con il suo passato "pesante" tra White Zombie, Exodus e Testament) e Charlie Jones (alla corte di Page e Plant negli anni novanta) sono garanzia di solidità ritmica, alla sinistra di Astbury, Billy Duffy con la sua Gretsch White Falcon è instancabile e perennemente concentrato a tenere in pugno quarant'anni di riff legati alla melodia. Potrebbe prendersi la scena come il più vanesio dei chitarristi, non lo fa mai. Uno dei più grandi della sua generazione con l'umiltà che l'ha però sempre tenuto inchiodato alle assi del palco quasi dovesse tenere fede alla sua provenienza: la classe operaia di Manchester. Un lavoratore crudo, semplice e istintivo. Influente. Un chitarrista che ogni band pagherebbe oro per avere.
Sono arrivato al concerto spossato da una settimana faticosa, inoltre sigillata dal caldo della giornata, nonostante tutto appena è partito il concerto sulle note di 'In The Clouds' tutti i malanni sono sembrati sparire per un'ora e mezza veramente ad alti livelli, intensi e diretti, vissuti in ogni particolare che mi hanno fatto pensare a cosa potrebbe restare del rock'n'roll quando anche questi vecchi gruppi passeranno la mano. Dove andremo a trovare le cure giuste? Come si dice? "Concertone"? Sì!
MDOU MOCTAR Funeral For Justice (Matador Records, 2024)
mondi lontani sempre più vicini
Da alcuni anni è ormai palese: chi ha voglia di trovare quell'urgenza limpida, genuina e viscerale che scorreva nel vecchio rock’n’roll occidentale e che ora chiamiamo vintage o solo revival per farcelo piacere ancora, chi vuole trovare dei veri testi di denuncia combattivi e incazzati con ragione, mica per finta per fare solo un po' di scena, deve guardare in basso e puntare occhi e tutto quanto verso l'Africa. Mdou Moctar, chitarrista del Tuareg di casa in Niger, con Funeral For Justice si conferma, insieme alla sua band, un vero combattente del desert blues. E non è il solo. Missione: far conoscere all'Occidente la condizioni del popolo Tuareg. Quando non suona porta avanti la sua missione umanitaria, quando imbraccia la chitarra smuove le coscienze con il suo blues che questa volta sembra farsi meno psichedelico per diventare più hendrixiano e incazzato. Un assalto sonoro ipnotizzante e con poca tregua: ritmi magnetici e persuasivi tra gioia e consapevolezza, triste realtà e radiosa speranza. Ed è forse quest'ultima, che spesso manca dalle nostre parti a rendere tutto così fresco e dannatamente stimolante.
Basterebbe l'attacco al fulmicotone, punk e rabbioso, della title track per portare a casa tutto:"Dear African leadership, hear my burning question, Why does your ear only heed France and America?", cantato in inglese per arrivare a tutti, il resto del disco è quasi tutto cantato in Tamasheq.
La psichedelia, distorta e velocizzata di 'Imouhar' o i ritmi desertici di 'Takoba' per capire quando la band sappia lavorare dentro al pianeta musica con straordinaria naturalezza. 'Oh France' per capire quanti dsnni abbiano procurato i vecchi "padroni". Produce l'americano Michael Coltun.
“La gente qui non guadagna nemmeno 2 dollari al giorno, eppure viene bombardata da missili che costano milioni. A mio avviso, tutti i leader mondiali sono responsabili di ciò che sta accadendo in Niger” dice Mdou Moctar. Uno stile chitarristico tutto suo: costruì la sua prima chitarra a dodici anni con un pezzo di legno e dei freni di biciletta, è mancino, adora Hendrix ma ancor di più Van Halen dal quale rubò qualche segreto imparando dai video in rete ma soprattutto è in grado di riaccendere quella fiammella del rock un po' assopita alle nostre latitudini. Per vedere come brucia basterà presenziare al concerto di fine Agosto al Magnolia di Milano.
DAVE ALVIN & JIMMIE DALE GILMORETexicali (Yep Roc Records, 2024)
buon viaggio
È ancora il tema del viaggio ad unire Dave Alvin e Jimmie Dale Gilmore proprio come avvenne nel precedente disco Downey To Lubbock uscito nel 2018.
In mezzo tra Dave Alvin proveniente da Downey, California, e Jimmie Dale Gilmore da Lubbock, Texas, c’è la grande America “centinaia di miglia, deserti, montagne e fiumi” come dice Dave Alvin, in profondità, giù radicate, le radici musicali comuni, quelle che si sviluppano verso il vecchio blues, il folk, il R&B di New Orleans, la country music, le border songs, il rock’n’roll dei ‘50, persino il reggae come avviene nella rilettura di 'Roll Around' brano del vecchio amico Butch Hancock datato 1997.
"Veniamo da posti diversi, ma musicalmente veniamo dallo stesso posto" dicono.
Seppur con qualche anno di differenza, esattamente dieci, anni di stima reciproca e un'amicizia nata nei primi anni novanta hanno trovato sfogo in alcune date live suonate insieme nel 2017. Da lì a incidere il primo disco, il passo fu veramente corto, veloce e senza sforzo alcuno. Due passati importanti da ricordare, uno nei Blasters, l’altro con i Flatlanders, entrambi vecchi frequentatori del folk club The Ash Grove a Los Angeles, entrambi con le stesse canzoni nel cuore.
Questa volta rivisitano loro canzoni ('Borderland' è una vecchia canzone di Gilmore), omaggiano Alan Wilson dei Canned Heat con 'Blind Owl' canzone scritta da Dave Alvin, riprendono un vecchio blues di Blind Willie McTell ('Broke Down Engine'), viaggiano placidamente nel folk 'Trying To Be Free' e sopra ad un treno nell'ariosa ballata 'Southwest Chief'. 'Down the 285' di Austin Josh White affronta la libertà del viaggio in solitaria, mentre il rock’n’roll di 'Why I'm Walking' infiamna e alza polvere e sudore.
Celebrano la loro resistenza nella finale e autobiografica 'We're Still Here', sopravvissuti alla malattia (un cancro per Alvin), al Covid che ha fermato questo secondo progetto per un paio di anni, a tanti amici incontrati lungo la strada e passati a miglior vita.
Potrebbe essere il disco da viaggio di questa estate: che stiate percorrendo la Interstate 10 che unisce la California al Texas o la congestionata A4 sotto il sole rovente di un'estate italiana.
LIFE IN THE WOODSLooking For Gold (Moletto/Universal, 2024)
born in Italy
Ache l'Italia ha i suoi Rival Sons! Detta così potrebbe essere una boutade pretenziosa che sa di revival del revival. Fermi tutti: il trio romano composto da Logan Ross (chitarra e voce), Frank Lucchetti (basso) e Tomasch Tanzilli (batteria) è al momento la miglior band di classic rock italiana così come i californiani lo sono a livello mondiale ormai. La partita è per ora chiusa.
Esordirono nel 2019 con Blue prodotti da Gianni Maroccolo che col senno di poi si può dire abbia visto giusto e lungo. La pandemia non aiutò certo quel disco fatto di poche canzoni a raggiungere il grande pubblico anche se chi doveva accorgersi del loro talento l'ha fatto: critici e colleghi musicisti con più anni alle spalle avevano alzato le antenne di fronte al trio romano.
Ora è arrivato il momento che tutti si accorgano di loro. Eccoli qua con un disco d'esordio fresco, elettrico ma anche crepuscolare e poetico, appassionato e genuino che raccoglie tutto il meglio del passato per sputarlo fuori in forma alquanto attuale, moderna e internazionale. Quello che sorprende di più è proprio la capacità di rendere fresche e contemporanee canzoni con un DNA attaccato al collo che pesca nel pozzo quasi ottuagenario del rock'n'roll tutto.
Il "One, two, three, four" che apre 'Caravan' e il disco sono i numeri che trascinano l'hard rock in questo 2024 con convinzione da veterani (e loro sono giovanissimi), 'Trick Man' abbassa i toni addentrandosi nel soul, 'Nothing Is' rende doveroso pegno al vecchio blues, 'Mad Driver' è una dinamitarda fast song che sembra esulare dal resto ma ha il compito di dividere il disco mostrando il lato più diretto e selvaggio, in netto contrasto con la epica coralità della title track che vede la partecipazione del soprano Olivia Calò e i momenti acustici come 'Without A Name', americana nel suono, e 'Hey Blue' dal sapore più british.
E poi una canzone come 'Fistful Of Stones' non è da tutti: Logan Ross unisce in un solo colpo Jeff Buckley e Robert Plant, avvicinandosi in modo impressionante alla voce di Jay Buchanan dei Rival Sons e il suono hard rock dei seventies porge la mano al grunge degli anni novanta.
Non hanno il look stereotipato di chi cerca di emulare le grandi rockstar del passato, il disco è confezionato nei minimi dettagli e avvolto dentro all'evocativo disegno di copertina creato dall'artista Mark Kostabi (Guns N'Roses, Ramones). Insomma tutte le prerogative per fare il botto anche fuori dall'Italia anche se sarebbe molto bello se i Life In The Woods aprissero veramente le porte del vero rock nel nostro paese, cosa che si pensò potesse avvenire con il successo planetario dei Maneskin poi rivelatasi più facciata che sostanza. Qui di sostanza c'è n'è da vendere: la finale 'Manifesto' basti per avvalorare questa tesi...pardon: verità.
Scaricato a metà anni ottanta da una Columbia delusa dalle scarse vendite di un personaggio che i loro occhi con pupille a forma di dollaro consideravano ormai perso in un lento declino se non finito del tutto, anche lo stesso Johnny Cash non nascose delusione e stanchezza di fronte all'etichetta che da circa trent'anni pubblicava i suoi dischi, un odio reciproco: "ero stufo di sentirli parlare di statistiche, ricerche di mercato, di nuove evoluzioni del genere country e di tutta una serie di tendenze che remavano contro la mia musica…". Avevano ragione entrambi.
Ma in quegli anni le cose che andavano storte erano maggiori di quelle positive nella vita di Cash: scosso dalla morte del padre Ray a ottantotto anni con il quale dopotutto aveva dei rapporti non troppo idilliaci, Johnny Cash trova un tetto apparentemente sicuro sotto la Mercury Records che inizialmente sembra lasciargli l'illusione della migliore carta bianca su cui scrivere il proprio futuro. Sei dischi incisi, tanto freschi e ispirati quanto ignorati dal grande pubblico e dimenticati troppo in fretta, complice la scarsa promozione dell'etichetta (allora è un vizio!). Se ci mettiamo alcuni problemi di salute tra cui un ricovero per aritmia cardiaca nel 1987 che lo porterà all'inserimento di un bypass due anni dopo (Roy Orbison morì per lo stesso motivo in quei mesi) e anche la morte della madre avvenuta nel 1991, ne esce un quadro generale non troppo esaltante per un personaggio in cerca di riscatto in un mondo musicale che stava viaggiando veloce lontano dalle sue rotte.
Anche questa parentesi verrà archiviata velocemente e lo stesso Cash che nonostante tutto considerava questo periodo "il più felice della mia carriera discografica", sconfortato, dirà: "per un po' mi sentii sollevato ma i vertici della Mercury a New York cambiarono opinione e scivolai lentamente nel dimenticatoio. I miei dischi non meritavano di essere promossi nel migliore dei modi. Jack (Clement) e io ci impegnammo a fondo in sala di registrazione e abbiamo prodotto brani di cui sono molto orgoglioso ma era come se avessi cantato in un teatro vuoto. I miei singoli non passavano alla radio e non c'era nessun investimento pubblicitario per promuovere i miei album".
Un disco rotto che gira.
Entra negli anni novanta con un tentativo di tornare ai suoni delle origini con Boom Chicka Boom (1990) e al suono dei Tennessee Two, prodotto da Bob Moore e che inizia con la classica intro live "Hello, I'm Johnny Cash" a introdurre la giocosa 'A Backstage Pass', scherzosa rappresentazione del backstage di un concerto di Willie Nelson, con 'Hidden Shame' scritta per l'occasione da Elvis Costello e 'Cat' s In The Cradle' di Harry Chapin, con alcune B-side aggiunte e la forte identità che lo porta a essere il suo miglior disco targato Mercury, e poi The Mistery Of Life (1991) con in scaletta vecchi successi consolidati e alcune riletture tra cui 'The Hobo Dong' di John Prine, disco fresco e da rivalutare che chiude la parentesi Mercury e che include anche 'The Wanderer' insieme agli U2, "del mio ultimo album per la Mercury sono state realizzate solo cinquecento copie. Anche da parte loro mi sono sentito propinare le solite storie su statistiche e ricerche di mercato". La solita vecchia storia.
Fortunatamente dietro l'angolo c'era già uno scalpitante Rick Rubin pronto a dare inizio all'ultima incredibile parte di carriera di Johnny Cash, questa volta sì baciata da successo e pubblico.
Ma immediatamente prima di Rubin Johnny Cash registrò alcune demo in solitaria negli studi LSI di Nashville, versioni grezze di canzoni scritte anche molti anni prima da proporre a qualche nuova etichetta discografica per raccimolare un contratto. Con l'arrivo di Rubin furono accantonate e dimenticate per essere riportate alla luce solo recentemente dal figlio John Carter che con l'aiuto di David Fergie Ferguson, vecchio ingegnere del suono di Cash, uno che conosce bene il man in black, hanno costruito intorno alla voce di Cash undici nuove canzoni complete e finite cercando di rimanere il più possibile fedeli alle originali o comunque cercando di immaginare come le avrebbe completate Cash in vita. Se due abbiamo avuto il tempo di conoscerle sotto la cura Rubin, trattasi di 'Driven On' e 'Like A Soldier' (ma qui in versioni diverse), le altre grazie all'intervento di navigati musicisti che con Cash avevano già lavorato come la chitarra del pupillo Marty Stuart già con i Tennessee Three, il bassista Pete Abbot e il batterista Dave Roe hanno raggiunto una forma finale che veste sulla voce di Cash come un abito di alta sartoria vestirebbe uno sposo all'altare. Sembra fatto tutto con rispetto e delicatezza e si sa quanto queste operazioni siano sempre un'arma a doppio taglio non troppo amate dai puristi del rock.
Il titolo dell'album Songwriter vuole proprio sottolineare e portare s galla quanto Johnny Cash, oltre a essere un grande interprete, fu anche un paroliere dalla scrittura incisiva pungente e ironica, a volte anche molto semplice e popolare nei temi trattati come l'amore per la famiglia ('I Love You Tonite' è una lettera d'amore indirizzata a June), il rispetto della propria terra ('Have You Ever Been To Little Rock'), la redenzione, le perdite (di un amore in 'Spotlight' dove compare la chitarra di Dan Auerbach), le vittorie sui propri demoni che ne hanno segnato gran parte della vita ('Like A Soldier' dove compare pure la voce di Waylon Jennings).
A partire da una 'Hello Out There', canzone ispirata dall'astronave Voyager che pare volare direttamente nel futuro trainata da un effetto echo nella voce, straniante quanto suggestivo cosmic country che non ti aspetti ma che funziona, fino al rockabilly anni cinquanta di 'Well Allright', un semplice quanto cinematografico quadretto d'amore dipinto dentro a una lavanderia a gettoni, i suoi testi scrivono un immaginario popolare in parte scomparso ma in grado di arrivare ancora oggi giocando sulla suggestione. 'Poor Valley Girl' è un country, atto d'amore verso June Carter e la mamma di lei Maybelle, in 'She Sang Sweet Baby' racconta di una madre che per addormentare il proprio piccolo si affida alla canzone di James Taylor.
Sentire nuovamente la straordinaria voce di Johnny Cash in canzoni nuove, mai sentite prima mi fa superare e dimenticare il modo in cui ci sono arrivate in questa estate del 2024, ventuno anni dopo la morte. Molti non la penseranno così ma riesco a sentirci dentro tutto l'amore e il rispetto di chi ha voluto questo disco di un gigante della musica americana.
STEVE CONTEThe Concrete Jangle (Wicked Cool Records, 2024)
rock'n'roll solo rock'n'roll
Sarebbe veramente un delitto lasciar passare questo 2024 senza nominare uno dei migliori dischi di schietto e spavaldo rock'n'roll usciti in questi mesi. Sappiate che Ian Hunter che partecipa ai cori in una canzone scrive nello sticker che accompagna la copertina:"grandi voci, armonie, arrangiamenti, produzione e chitarre", sembra tutto perfetto per il vecchio Ian! Steve Conte, con una mamma jazzista e battezzato in giovanissima età da un concerto di Chuck Berry, non ha bisogno di troppe presentazioni: chitarra nella seconda vita dei New York Dolls, dell'attuale band di Michael Monroe e di altre decine di artisti con i quali ha collaborato e suonato. In questo disco che esce per la Wicked Cool Records di Steve Van Zandt (anche questa è una garanzia visto i gusti "vintage" del piccolo Steven) che inizialmente fu anche il primo prescelto come produttore ma alla fine ha fatto tutto Conte. Ma le sorprese non finiscono visto che il disco si divide in due facciate abbastanza distinte. Un lato A che vede la partecipazione di Andy Partridge degli XTC come co-autore nelle cinque canzoni che battono la strada del rock'n'roll stradaiolo ('Fourth Of July', 'Hey, Hey, Hey (Aren't You The One)'), del glam dal chorus contagioso ('We Like It'), del power pop ('Shoot Out The Stars') e delle strade più ardite come in 'One Last Bell' con la tromba di Chris Anderson a disegnare traiettorie. La collaborazione con Partridge sembra un sogno che di avvera per Steve Conte, da sempre fan degli XTC: "Andy è il mio eroe del rock 'n' roll e del cantautorato".
Il lato B si apre con uno scatenato omaggio alla musica uscita dalla città di Detroit ('Motor City Love Machine'), una 'Girl With No Name' omaggio al r&b sixties, la melodica 'All Tied Up' sembra uscire dalla migliore stagione del Jersey Sound caro a Little Steven e al suo "capo", ma poi a prevalere sono due esercizi beatlesiani come 'I Dream Her' e 'Decomposing A Song For You' con i suoi fiati che soffiano vento british.
Peccato siano solo 34 minuti perché di sano e vecchio rock'n'roll così non ci si stufa mai. Ottimo disco.