venerdì 28 aprile 2023

RECENSIONE: THE DUCKS (High Flyin')

THE DUCKS  High Flyin' (Shakey Pictures Records, 1977/2023)




Neil Young e quella calda estate del 1977 a Santa Cruz

Venghino signore e signori, per soli tre dollari possono vedere la più calda garage band dell'estate californiana. E che sorpresa quando entrando nel bar che esponeva il manifesto,  sopra al palco, alla chitarra, ci trovavi un Neil Young trentunenne, appena uscito sul mercato con il più defilato American Stars 'N Bars ma già una leggenda grazie a Buffalo Springfield, CSN&Y, album come After The Goldrush, Harvest, la ditch trilogy. Con tre dollari oggi ci prenderemmo giusto due caffè per tenerci svegli e superare la nottata. Perché quelle notti erano spesso davvero lunghe, pubblicizzate di bocca in bocca, con la presenza di Neil Young in formazione tenuta segreta. L'unico indizio della presenza del gruppo dentro a un locale era dato dalla presenza di una Duckmobile parcheggiata fuori. 

Quella band che sopra al palco visse una sola estate, quella del 1977, si chiamava The Ducks (nel suo libro Special Deluxe Neil Young dedica tre divertenti pagine a quei giorni) e oltre ad avere Neil Young alla chitarra e voce era composta da Bob Mosley (basso e voce) membro dei Moby Grape, Jeff Blackburn (chitarra e voce) già nei suoi Blackburn & Snow e che in seguito diventerà famoso per aver collaborato alla stesura di 'My My Hey Hey (Out of the Blue)' e Johnny Craviotto (batteria), un surfer scavezzacollo, piccola leggenda di Santa Cruz che aveva suonato per Ry Cooder, Captain Beefheart e Arlo Guthrie.

Neil Young si trasferì a Santa Cruz in cerca di tranquillità lontano dallo star system, trovò sollievo suonando la chitarra, defilato e dividendo democraticamente la leadership con gli altri componenti. Uno dei tanti.

"Sto iniziando a ritrovare quella certa sensazione di suonare la mia musica", disse Young a Coyro per una intervista pubblicata su Good Times “in questo momento siamo in un posto dove siamo puri... è come rinascere. Siamo giovani e abbiamo bisogno della sicurezza di una piccola città in cui crescere. Siamo autosufficienti in questo momento, ma forse quando diventeremo più grandi, potremmo andare avanti... le possibilità ci sono. Ma in questo momento, i Ducks si stanno solo sviluppando e io sono solo uno dei Ducks".

Come però sappiamo tutto terminò finita l'estate quando le comparsate a sorpresa non erano più tali e la voce iniziò a girare: era chiaro che l'attrazione principale fosse Neil Young.


La breve avventura dei Ducks iniziò invece quasi per gioco dopo un concerto per festeggiare il compleanno di Jerry Miller dei Moby Grape.

La cosa piacque talmente tanto che proseguì per circa due mesi dal 15 Luglio al 2 Settembre del 1977 a volte anche con due set a serata in locali chiamati Back Room, Crossroads Club, The Catalyst, Veterans Auditorium, The Steamship fino al loro spettacolo finale al Civic Auditorium. Tutti nell'area di Santa Cruz.

Durante i concerti Neil Young, Blackburn e Mosley si dividevano voce principale e canzoni, tutte le inedite arrivano dalla penna di Blackburn e Mosley.

Di Neil Young sono state scelte una urgente versione di 'Mr. Soul', 'Are You Ready For The Country', 'Little Wing',  'Human Highway' e una allora nuova 'Sail Away' ancora inedita e che uscirà su Rust Never Sleeps.

L'alchimia tra i componenti  funzionava e ascoltando le venticinque canzoni scelte tra le tante suonate si percepisce. Serpeggiano divertimento e svago, voglia di suonare, lasciarsi andare senza steccati ne regole.

Facile così passare dal country rock di 'I Am A Dreamer' al funky di 'Gypsy Wedding' dei Moby Grape, dal blues di 'My My My (Poor Man)' al country folk di 'Hold On Boys', dal R&B al country folk di 'I'm Tore Down', la psichedelica 'Sailor Man', il southern rock di 'Silver Wings' e  'Truckin Man', il garage rock 'Bone Dead Train', la ballata 'Leaving Us Now'.

Ci sono le chitarre tese di 'Your Love', il rock’n’roll di Fats Domino ('I'M Ready'), la tambureggiante 'Honky Tonk Man', la strumentale 'Windward Passage' condotta sulle stesse strade calpestate dai Crazy Horse.

Per anni le registrazioni sono girate nei bootleg, ora dagli archivi di Neil Young escono queste registrazioni prese da più serate  che rendono giustizia a quelle settimane di spasso, gioia e divertimento.

"Parte della magia di quell'estate è che eravamo tutti così giovani, appassionati e intensi" raccontò Blackburn. Ascoltando le 25 canzoni si percepisce tutto. Un disco spassosissimo.






domenica 23 aprile 2023

OVERKILL - EXHORDER - HEATHEN live@Phenomenon, Fontaneto (NO), 22 Aprile 2023

 


Perché un locale come il Phenomenon di Fontaneto d'Agogna sia usato con il contagocce rimane un mistero tutto italiano visto che è a tutti gli effetti una delle miglior location del nord Italia. Ieri sera ci sono passati gli Overkill che si sono trascinati dietro vecchi compagni di antiche battaglie come Heathen e Exhorder (più i giovani croati Keops) per quello che è diventato a tutti gli effetti un mini festival di thrash metal americano vecchia scuola. 

I californiani HEATHEN si stanno godendo una seconda giovinezza da quando agli albori degli anni duemila si sono riformati. La chitarra di Kragen Lum e la voce di David White-Godfrey sono sempre una garanzia che viaggia tra il presente (due gli album post reunion) e quel passato segnato da due dischi epocali per lo speed thrash come Breaking The Silence del 1987 da cui estraggono la cover degli Sweet 'Set Me Free' e Victims Of Deception ('Opiate Of The Masses', 'Hypnotized'). Una mezz'ora maiuscola e di tutto rispetto che dimostra quanto la vecchia guardia abbia ancora tanto da dare e insegnare.





Pure per gli EXHORDER che vengono spesso ricordati per essere stati gli ispiratori di quel suono che fece la fortuna dei Pantera, si può parlare di una seconda rinascita dopo la reunion anche se la recente separazione dal chitarrista e fondatore Vinnie LaBella è pesante da mandare giù. È tutto in mano a un Kyle Thomas in forma strepitosa (sempre una gran voce!) che guida la band attraverso quel suono affilato (il loto esordio Slaughter In The Vatican del 1990 viene saccheggiato) che sa però assorbire tutti gli umori rallentati e southern della loro New Orleans. A sorpresa esce fuori una cover dei Grip.Inc visto che alla chitarra "siede" Waldemar Sorychta che ne ha fatto parte e a cui va un plauso per aver suonato con un piede ingessato.




Sulle note di 'Scorched' che apre il nuovo disco uscito da una sola settimana, gli OVERKILL rimangono una delle band più intransigenti e cazzute uscite dal metal USA anni ottanta. Una di quelle che non ha mai mollato la presa. Sono entrati nel quinto decennio della loro vita con uno dei migliori dischi degli ultimi anni che viene giustamente presentato con orgoglio ('Wicked Place', 'Surgeon'). Bobby Blitz Ellsworth che piaccia o meno la sua voce rimane uno dei cantanti più carismatici della sua generazione, unico e originale, e sul palco va e viene, esce e rientra come un pipistrello nella notte. In piedi o piegato con l'asta del microfono perennemente incollata alla mano ha dimostrato di non avere perso nulla della sua "graffiante" voce. Alla sua sinistra il sempre fedele D.D. Verni, fondatore del gruppo e vero motore della band, un bassista con i controcoglioni che ha sempre dato il suo marchio alle canzoni. I due chitarristi  Dave Linsk e Derek Tailer sono ormai i più longevi tra i tanti passati nella band e l'ultimo entrato, il batterista Jason Bittner sembra perfettamente amalgamato. 


Gli Overkill sotto le inconfondibili luci verdi mantengono vive le tre anime della band,  quella più propriamente thrash ('Coma', 'Elimination'), quella votata al groove, doomy ('Long Time Dying', 'Horrorscope') e quella punk, degli esordi, nata dal basso, dall'underground newyorchese dei primi anni ottanta ('Rotten To The Core', Overkill') e a distanza di tanti anni quel 'Fuck You!' (rubata ai Subhumans ma ormai quasi loro) piazzato in chiusura rimane il loro grido distintivo e di battaglia. Tanto semplice quanto liberatorio.

Quando esco per riprendere la macchina e accendo l'autoradio mi accorgo di non essere nel 1990 perché non trovo la cassetta di The Years Of Decay ma solo una chiavetta USB. È stato bello pensarlo per quasi quattro ore. 




sabato 22 aprile 2023

RECENSIONE: IAN HUNTER (Defiance Part 1)

 

IAN HUNTER  Defiance Part 1 (Sun Records, 2023)



l'ultimo eroe del rock'n'roll 

Durante il lockdown c'è stato chi usciva fuori nel balcone in tuta, ciabatte e canottiera con macchie di sugo d'ordinanza a gridare "ce la faremo" e chi come Ian Hunter si è chiuso nel personale studio di registrazione nel Connecticut e ha continuato a scrivere canzoni ricevendo feedback che solo una leggenda del rock'n'roll è in grado di catalizzare su di sé. "È incredibile quello che è successo" ha raccontato l'oggi prossimo ottantaquatrenne Hunter. 

Se c'è uno che ce l'ha fatta, quello è proprio lui.

Insieme al fedele Andy York ha buttato giù una serie impressionante di demo che aspettavano solo di essere ampliati e finiti. Mancando sull'immediato la fedele Rant Band (che sarà poi presente su tutte le canzoni), il blocco del lockdown ha suggerito loro tramite il manager Mike Kobayashi di provare a contattare alcuni musicisti che avrebbero potuto aggiungere qualcosa a quelle canzoni abbozzate. 

"Eravamo noi che facevamo demo nel mio seminterrato, e le demo nel mio seminterrato si sono trasformate in quello che avete".

Da lì in avanti fu una cascata di adesioni senza precedenti. È pur sempre Ian Hunter, ex leader dei Mott The Hoople, uno che se il mondo girasse alla giusta velocità siederebbe accanto a tutti i grandi songwriter che hanno calpestato questa terra.

Noi lo sappiamo e i grandi pure ed è questa la ragione per cui i featuring del disco sono un lungo e impressionante elenco di rockstar che hanno lasciato un po' della loro arte. A leggerlo di seguito manca quasi il fiato: Jeff Beck e Johnny Depp presenti nella evocativa 'No Hard Feelings', una delle ultime canzoni su cui ha suonato Beck prima di morire, Duff McKagan e Slash dei Guns N' Roses, Joe Elliott dei Def Leppard, Billy Gibbons  dei ZZ Top, Taylor Hawkins dei Foo Fighters (anche lui scomparso), Todd Rundgren, Jeff Tweedy  dei Wilco, Robert Trujillo dei Metallica, Ringo StarrWaddy Wachtel, Brad Whitford  degli Aerosmith, Dane Clark, Billy Bob Thornton, JD Andrew, Dean DeLeo , Robert De Leo  e  Eric Kretz dei redivivi Stone Temple Pilots.

Molto spesso dischi con troppi ospiti rischiano di diventare una inutile passerella che snatura il mood di un album, altre volte non si percepiscono nemmeno e rimangono solo nomi da leggere.

Con Ian Hunter non c'è stato questo pericolo e Defiance Pt.1 (naturalmente il materiale è così tanto che ci sarà un seguito) è un riuscito gioco di equilibrio dove il songwriting di Hunter rimane intatto e gli ospiti aggiungono e abbelliscono: l'ennesimo disco riuscito di una carriera con veramente pochi passi falsi. Lo avevamo lasciato nel 2016 con Fingers Crossed, disco che omaggiava l'amico David Bowie e ultimo di una serie di dischi partiti da Shrunken Heads che avevano segnato una terza parte di carriera impeccabile e ad alti livelli, lo ritroviamo ultra ottantenne con i consueti ricci e occhiali sugli occhi come se il tempo non avesse scalfito nulla della sua classe.

Il disco parte ad alti volumi con la title track, un hard rock a cui partecipano Slash e Robert Trujillo (i bene informati dicono abbia suonato lo stesso basso suonato da Pastorius in All American Alien Boy, secondo album solista di Hunter del 1976) e che farebbe comodo a tutte quelle band bollite che continuano a calcare i palchi per l'inerzia disegnata dei verdi dollari. Lungo le undici tracce ritroviamo un po' tutto l'universo di Hunter dove convivono rock'n'roll robusti come 'Pavlov' Dog' (in compagnia dei Stone Temple Pilots) e il boogie 'This Is What I'm Here For' e ballate come 'Angel' e 'Guenica' con il piano a condurre i giochi.

"La maggior parte delle tracce di questo album le ho scritte al pianoforte. Due di loro le ho scritte alla chitarra" lascia detto Hunter.

Una nota particolare per la già conosciuta 'Bed Of Roses' che ha fatto da primo singolo, suonata insieme a Ringo Starr e Mike Campbell degli Heartbreakers di Tom Petty, una canzone fortemente evocativa che pare guidare indietro nel tempo per le strade californiane degli anni settanta e che nel testo scava ancora più indietro arrivando allo Star Club di Amburgo dove lo stesso Starr suonò con i Beatles, per la frizzante, esplicita e diretta 'I Hate Hate' presente in due versioni, una delle quali con Jeff Tweedy, per una 'Don't Tread On Me' con l'ospite Todd Rundgren che emana forte tutto il mai nascosto amore di Hunter per Bob Dylan e che nel suo incedere black e gospel pare uscire da un disco della trilogia cristiana di Dylan, una  Kiss N' Make Up, bluesy, sorniona e desertica con Billy Gibbons ospite.

In un verso di 'This Is What I'm Here For', Hunter canta:"quando avevo trent'anni ero oltre la collina/cinquant'anni dopo uccido ancora" e mai verso fu più azzeccato per descrivere quanto questo "eroe del rock'n'roll" sia ancora in forma, ispirato e performante, certamente più di tanti altri che si guadagnano prime pagine per inerzia e meriti acquisiti troppi anni fa ma mai più confermati negli anni. Tutto da godere con una seconda parte già all'orizzonte.





mercoledì 19 aprile 2023

EELS live@Alcatraz, Milano, 18 Aprile 2023


Quando l'album più saccheggiato è uno degli ultimi (Earth To Dora del 2020 ) sembra chiaro che Mr. E dopo 30 anni di carriera creda ancora alla sua ispirazione che nonostante non abbia più le prime pagine di un tempo è ancora ad alti livelli. I dischi sono lì a testimoniarlo anche se non trattati più come un tempo. O più semplicemente vuole riprendere il discorso da lì, dove si era interrotto prima del lockdown,  il nome dato al tour è chiaro.

È un Mr.E gigione e ciarlone, a piedi nudi ma elegantemente vestito quello di questa sera:  l'ultima volta che lo vidi era nascosto dentro a una tuta bianca da meccanico e una bandana calata in testa, era il 2010 e l'Alcatraz era esattamente quello di stasera, diviso a metà. Regaliamo un Alcatraz pieno agli Eels la prossima volta! 


Una macchina da rock'n'roll  irrefrenabile, pura e grezza ( il vecchio sodale The Chet in cattedra con la sua chitarra) che sale sul palco sulle note di Also Sprach Zarathustra e accanto alle sue canzoni, un concentrato di emotività da montagne russe esistenziali dove pop, blues, garage, psichedelia e rock'n'roll si tengono per mano (immancabile Novocaine For The Soul, grezza Dog Faced Boy che piacerebbe a Billy Gibbons), sparge schegge di storia raccolte nel tempo: dagli Small Faces, ai NRBQ, i Kinks (My Beloved Monster cantata su You Really Got Me) , Nancy Sinastra e conclude in gloria con gli Argent di God Gave Rock And Roll To You dopo due ore di una serata magnifica che vorresti prolungare ancora almeno fino a mezzanotte. Il vecchio lupo ha il pelo bianco ma sa ancora ululare, raccontare  storie e riversarci addosso i propri irrequieti stati d'animo seppure mitigati dal tempo. 



martedì 11 aprile 2023

RECENSIONE: TIJUANA HORROR CLUB (Tales Of A Sinnerman)

 

TIJUANA HORROR CLUB  Tales Of A Sinnerman (2023)




scagliate la prima pietra

Una volta (ecco: parlo già da neo cinquantenne) la prima cosa che colpiva in un disco era la copertina. Quanti dischi avete comprato o lasciato dov'erano per colpa delle copertine? Ora viaggia tutto sui singoli ascolti e se le canzoni non sono raggruppate sotto a una foto o un disegno sembra importare a pochi.

I bresciani e camuni TIJUANA HORROR CLUB pur ancora giovani (è sempre il vostro cinquantenne che vi scrive) hanno "l'antico" dentro e radicato nel profondo per cui ci tengono ancora a presentare la loro musica con qualcosa ad effetto: dopo gli "affetti" personali del  loro svuota tasche che riempivano lo spazio del precedente album Naked Truth uscito nel 2020, proprio a ridosso della pandemia e del lockdown (che io ricordi furono i primi a suonare un concerto in diretta streaming), questa volta rovistano ancora più indietro nel tempo pescando un vecchio quadro "il moschettiere addormentato" di Francesco Domenighini, pittore camuno di fine 800. Del perché il moschettiere si sia addormentato si possono azzardare tante ipotesi ma ne sono quasi certo: è stordito per aver peccato e abusato dei piaceri della vita.

Già, quella vita a cui andiamo incontro alla nascita senza sapere nulla tanto che firmare un contratto a inizio vita potrebbe essere necessario come cantano nella iniziale dal tiro psychobilly 'Life '(Terms And Conditions)' uscita quasi un anno fa. I Tijuana Horror Club continuano a mischiare con sapienza antichi ingredienti musicali come rock'n'roll, blues e swing, componendo canzoni dal tiro rock blues micidiale come 'Mandatory Love Song', 'On The Reef' e 'All Work And No Party' con la batteria di Mattia Bertolassi e il basso di Davide Rudelli in grande spolvero,

non così distanti dai più "vicini" e attuali Black Keys a soluzioni musicali che intrecciano peccato e redenzione, il Tom Waits più orco e spregiudicato e lo Screaming Jay Hawkins più malefico (la voce del cantante e chitarrista Joey Gaibina è sempre malvagiamente cavernosa) come avviene nella ballata nera 'All Fake', in 'Jesus Made Me A Sinnerman' con quelle tastiere vintage suonate da Alberto Ferrari in grado di portare le lancette indietro di qualche decennio, nel giro funky soul di 'The Shy Bragger (Get Up And Boogie)', nella veloce e contagiosa 'The Rebound Blues' o nella finale 'Silver And Gold' un lento giro di valzer guidato dal pianoforte che ci congeda consegnandoci nelle mani della notte.

Prodotto dell'esperto Ronnie Amighetti, Tales Of A Sinnerman è un disco, come tutti quelli della band bresciana, che non ha tempo, e scadenze: tra cento anni ci saranno ancora tanti racconti di peccatori da tramandare ai posteri e il blues non ha avrà certamente finito di ardere dalle parti di Brescia, ancora isola felice per un certo modo di intendere e vivere la musica. I Tijuana Horror Club sono uno dei tanti esempi, certamente tra i più originali nel loro essere totalmente demodè.






sabato 8 aprile 2023

RECENSIONE: THE LONG RYDERS (September November)

THE LONG RYDERS   September November (Cherry Red, 2023)


si continua...

Erano passati trentadue anni dall'ultima incisione in studio quando nel 2019 uscì Psychedelic Country Soul, un disco sorprendentemente fresco e brillante che riportava agli onori delle cronache il gruppo di Sid Griffin e soci (Stephen McCarthy e Greg Sowders), il più rootsy di quel movimento Paisley Underground che negli anni ottanta tenne alta la bandiera di un certo modo di suonare rock’n’roll.

Pochi mesi dopo l'uscita di quel disco arrivarono anche in Italia e conservo tutt'ora un buon ricordo della data di Chiari, un concerto un po' confuso ma animato da tanti amici scatenati.

Ora sono passati altri quattro anni e nel mezzo è successo un po' di tutto: una pandemia, una guerra ancora in corso ma soprattutto un lutto che messi insieme hanno dato un'impronta diversa alle canzoni di questo nuovo album.

È proprio il trascorrere del tempo, la mortalità ('Hand Of Fate') a dettare ritmo e parole: la band che in quel fortunato ritorno era ritratta in piedi e battagliera nella foto di copertina, ora è intagliata nel legno, quasi a riposo e con i segni del tempo che sembrano farsi strada con più ferocia. Un disco amaro, a tratti dimesso, dedicato all'amico bassista Tom Stevens, scomparso due anni fa che viene omaggiato con una delicata e malinconica ballata ( 'Tom Tom'), e che lascia per l'ultima volta la sua firma e voce nella finale e già conosciuta 'Flying Out Of London In The Rain', tra l'altro una delle migliori delle dodici canzoni in scaletta.

"Due terzi del genere alt-country distillato che abbiamo contribuito a fondare negli anni '80 (e) un terzo di avventurismo Paisley  Underground... condito con un pizzico della nostra folle anima" così Griffin (recentemente in Italia per un tour in solitaria) ha descritto questo nuovo album. Un disco meno diretto, che ha bisogno di più attenzioni per essere assimilato e che lascia alle sole 'September November' (comunque un buon inizio), alle melodie byrdsiane di 'Seasons Change', alla tambureggiante 'Elmer Gantry Is Alive And Well', al tagliente rock’n’roll di 'To Be Manor Born' scritta dal chitarrista Stephen McCarthy il compito di ricordare la freschezza della gioventù andata.

Regnano così il passo agro-dolce della country 'Flyin Down', la malinconia folkish della strumentale 'Song For Ukraine' condotta dal violino di Kerenza Peacock, lo swing di 'That's What They Say About Love', il blues acustico  'Country Blues (Kitchen)',  la carezza beatlesiana di 'Until God Takes Me Away'. Prodotto da una vecchia e conosciuta volpe come Ed Stasium e con Murry Hammond (degli Old 97's) che si occupa del basso in alcune canzoni, cosi come DJ Bonebrake degli X è presente in un paio di pezzi, September November ha tutti i tratti di un disco di passaggio, seguito di un brillante ritorno e speriamo precursore di un nuovo ennesimo  inizio.




domenica 2 aprile 2023

RECENSIONE: MOLINA TALBOT LOFGREN YOUNG (All Roads Lead Home)

MOLINA TALBOT LOFGREN YOUNG  All Roads Lead Home (NYA Records/Reprise,  2023)



comunque Crazy Horse

È notte fonda, una di quelle notti che potrebbero durare all'infinito. Sono pervaso da continui pensieri, sembrano perlopiù positivi, nuvole bianche e serene sopra a una giornata negativa e faticosa da portare a termine. Nonostante tutto mi giro e rigiro nel letto. Quei pensieri mi portano lontano, con i piedi immersi su infiniti prati verdi, gli occhi attenti dentro a fitti boschi che la primavera sta svegliando e colorando. 

Con strade che si inerpicano sopra a colline, i raggi del sole che sbattono sulle lenti degli occhiali, il vento in faccia. Un quadretto di libertà semplice, il più semplice da immaginare.

Ho voglia di musica, mi alzo dal letto, dal cofanetto degli archivi di Neil Young sfilo un CD a caso, lo metto su, mi corico nuovamente e spengo la luce. Quando parte la prima canzone i Crazy Horse galoppano veloci e fieri su quei prati, proseguono imbizzariti, sono nel pieno della loro gioventù ma il povero Danny Whitten ci aveva già lasciati. È il momento di provare a richiudere gli occhi, le chitarre si inseguono in una di quelle classiche code jammate, lisergiche e malate che li ha resi famosi accompagnando l'amico canadese. La notte è arrivata, ma il mattino sembra più vicino.

Quando riapro gli occhi vedo il cavallo, è in piedi, ha corso tutta la notte, è stanco, segnato dal tempo, dai tempi, dalle perdite, dai faticosi giorni di questi tre ultimi anni. Nonostante tutto sembra sereno, in pace con se stesso e la natura che lo circonda. Ieri è uscito un disco che sarebbe dovuto uscire intestato ai Crazy Horse, quelli datati 2023: Billy Talbot, Ralph Molina e Nils Lofgren  decidono invece di metterci solo i loro cognomi. In tre fanno 229 anni, i primi due sono quasi ottantenni , Lofgren con i suoi 71 è il più giovane. Poi ci aggiungono anche Young che di anni ne ha 77.

Ma sarebbe stata una vera fregatura far uscire questo album sotto il nome Crazy Horse: i tre componenti attuali del cavallo pazzo non suonano mai insieme in nessuna delle tracce. Strano no? È un disco anomalo, nato nei giorni bui della pandemia quando si era tutti lontani e inaviccinabili. Quando si inventavano leggi per tenerci lontani. Ho sempre pensato fossero arrivati veramente i "strani giorni" cantati da Franco Battiato.  Quando non si poteva nemmeno lavorare a patto tu non fossi un musicista. I musicisti non si sono mai fermati.

Tre canzoni a testa scritte e registrate ognuno a casa propria con i musicisti più vicini in quel momento, più una canzone di Neil Young registrata live: hanno scelto una versione, sette minuti, voce, chitarra, armonica di 'Song Of The Seasons' che apriva Barn uscito nel 2021.

E All Roads Leave Home sembra un'appendice di Barn  anche se qui nessuno dei tre osa mai cavalcare le praterie elettriche, preferendo sempre le vie più leggere, melodiche e nostalgiche. Le canzoni di Billy Talbot ('Rain', 'Cherish', 'The Hunter') suonate con la Billy Talbot Band cavalcano la malinconia e la saggezza, quelle di Lofgren ('You Will Never Know', 'Fill My Cup', 'Go With Me') hanno un tocco musicale più aspro e blues e lo vedono impegnato su tutti gli strumenti, le canzoni di Molina ('It's Magical', la più rockeggiante 'Look Through The Eyes Of Your Heart', la ballata al pianoforte e sax 'Just For You') suonate anche insieme agli italiani Marco Cecilia, Francesco Lucarelli, Fabrizio Settimi e Marco Molino sono quelle con l'impronta più Younghiana.

Un disco che sulla carta per come è stato assemblato sembrava non promettere nulla di buono e che invece rivela un suo carattere, emanando pace e rilassatezza.

I Crazy Horse prendono posto dentro al mio semplice quadretto di libertà. Il paesaggio della foto interna e sul retro scattata a Rico in Colorado da Jay Dusard sembra combaciare con il mio sogno iniziale. La dedica a Danny Whitten, David Briggs e Elliott Roberts chiudono un cerchio. Il passato, il presente e un futuro che aspetta altre galoppate.





domenica 19 marzo 2023

RECENSIONE: THE ANSWER (Sundowners)

 

THE ANSWER  Sundowners (Golden Robot Records, 2023)


dopo sette anni

I nordirlandesi The Answer hanno atteso sette lunghi anni e il giorno di San Patrizio del 2023 per tornare sulle scene più in forma che mai. Dei tempi lunghissimi per un mondo che stritola rockstar e presunte tali con la stessa velocità con la quale qualunque buon irlandese si tracanna la prima pinta di Guiness dopo il lavoro in un normale giorno feriale giù al pub. Fortunatamente la band guidata dal rosso Cormac Neeson ha alle spalle delle buone basi inchiodate con ferro, martello e alcol appiccicoso (sei i dischi usciti) e quella maturità guadagnata negli anni partendo dall'essere semplicemente dei cloni del classic rock targato seventies fino ad aprire per colossi come Rolling Stones e AC/DC.

Oggi tocca a loro tirare la carretta, cosa che sembra riuscire bene.

"Non abbiamo fatto molti concerti da quando siamo tornati insieme, ma abbiamo fatto il disco e tutte le cose extra che lo accompagnano e stiamo iniziando a fare interviste e roba adesso. Quindi per certi aspetti sembra di essere tornati sul tapis roulant come qualche anno fa" ha dichiarato il chitarrista Paul Mahon

È una partenza diesel la loro con una title track da sei minuti che in verità pare più una lunga introduzione per le restanti dieci canzoni chiamando in causa più volte i Led Zeppelin nel suo avanzare sciamanico. E fu proprio Jimmy Page a decantare le qualità e sciorinare le somiglianze del gruppo con il dirigibile ai tempi dell'esordio Rise. Correva l'anno 2006. L'influenza  Led Zeppelin ritorna prepotente più avanti in Get Back On It.

Si cambia registro nella successiva Blood Brother, marziale e sincopata nel suo incedere, ricordando gruppi come Black Keys e White Stripes. Tra riff circolari di chitarra con un Hammond a fare da morbido cuscino (California Rust), chorus micidiali in salsa street glam (Livin' On The Line), suadenti messaggi con la sezione ritmica formata da Micky Waters al basso e James Heatley alla batteria in grande evidenza (Want You To Love), incursioni soul e funky (Oh Cherry) e due ballate come la bluesy e gospel No Salvation e una finale e acustica Always Alright che sa tanto di anni novanta, il disco scorre liscio come tutte le birre spillate durante una tipica serata irlandese, anche senza avere una vera canzone traino o hit.

Un ritorno alla semplicità del passato che il cantante Cormac Neeson, voce che a tratti ricorda il compianto  Dan Mc Cafferty dei Nazareth, ha spiegato così: "dopo sei album e un sacco di chilometri abbiamo sentito il bisogno di fare un passo indietro e resettare tutto".

Ok, si può riinanziare a riempire il boccale. Cheers!





domenica 12 marzo 2023

THE DAMNED + SMALLTOWN TIGERS live@Alcatraz, Milano, 11 Marzo 2023



Era stato presentato come il tour del Black Album del 1980 che doveva essere omaggiato (solo due i pezzi suonati: Waiting For The Blackout e Lively Arts), è stato invece il concerto di presentazione del nuovo disco Darkadelic in uscita in Aprile ma con solo un paio di pezzi già fuori e conosciuti tra cui il singolo The Invisible Man.

Chi ha presenziato con queste aspettative sarà forse rimasto deluso. Per tutti gli altri non c'è stata delusione alcuna credo, i Damned sono sempre una garanzia anche quando suonano una decina di canzoni che arrivano per la prima volta alla orecchie dei fan. Che sia sempre stato un gruppo camaleontico, disimpegnato e autoironico lo si sapeva e lo capisce anche da come si presentano ancora oggi sul palco. 


Captain Sensible con la consueta maglia a righe rossonere e baschetto rosso, smorfie e sorrisi lasciano pochi dubbi su quanto si diverta ancora con una chitarra tra le mani. Dave Vanian in perfetto completo nero da vampiro dark wave, cappello da gangster e una voce che a parte i primi momenti viene fuori ancora come un tempo quando fece scuola a molti. Paul Gray, t-shirt degli MC 5 per lui, non la tocca piano con il suo basso tanto da farsi sanguinare un dito a metà concerto, Monty Oxymoron è incatalogabile dietro le tastiere, con il suo pigiama di teschi, mosse tarantolate e capelli arruffati da scienziato pazzo (si prende la scena a centro palco per pochi secondi nel finale) , mentre il giovane e compassato batterista  Will Glanville-Taylor sembra  appena uscito dall'ufficio per sfogare la sua rabbia quotidiana nel pub di turno che questa sera è il palco di un Alcatraz diviso a metà ma comunque pieno. Incredibile in cambio generazionale che avverrà a fine concerto quando prenderà inizio il sabato sera danzereccio dei teenager.


Per il resto è un concentrato di vecchi punkster con figli al seguito (ho visto i papà pogare e i figli godersi il concerto davanti alle transenne) che non aspettavano altro che l'esecuzione di pezzi come Neat Neat Neat, Smash It Up, Love Song e quella New Rose che all'epoca passò alla storia come primo vero singolo punk e oggi è giustamente l'ultima e la più attesa in scaletta. Anche se poi non sarà proprio l'ultima: ecco una inaspettata, anche per il batterista, White Rabbit. Onesti, divertenti, stoici e storici. Per presentare così un disco che ancora deve vedere la luce vuol dire credere ancora in quel che si fa. Il passato, pesante, è stato omaggiato ma il presente sembra più importante. Una buona filosofia di vita per una band con quasi cinquant'anni di storia.






Sarà perché le all female band sono sempre cosa rara da vedere sopra i palchi che contano ma le romagnole SMALLTOWN TIGERS sono state una bella scoperta. Un po' per tutti credo. Stanno aprendo tutte le date del tour europeo dei Damned (Captain Sensible seduto a bordo palco le segue attentamente e tiene il tempo con testa, mani e piedi) e oggi senza timori reverenziali suonano finalmente in casa. Appena la cantante e bassista Valli ha aperto bocca presentando la band (Monty alla chitarra, Castel alla batteria) ho sentito uno dietro di me pronunciare con stupore "ah ma sono italiane!'. Ebbene sì.


Da Suzie Quatro alle Runaways di Joan Jett fino ad arrivare agli anni novanta di L7, Hole e Donnas, il trio è un concentrato di punk rock'n'roll senza fronzoli e pronto a partire ad ogni attacco di bacchette della batterista.

Si parte dai Ramones, dal surf rock'n'roll, dal garage, arrivando fino a toccare il grunge con spensieratezza, disinvoltura e sorrisi sempre stampati in faccia che non guasta mai. Ci fanno conoscere il loro debutto Five Things e concludono con una R.A.M.O.N.E.S. dei Motorhead che racchiude bene la loro proposta musicale senza fronzoli e in your face. Applausi per loro e si alza pure un meritatissimo "belle e brave!" alla loro uscita che condivido con piacere.





mercoledì 8 marzo 2023

BLACKBERRY SMOKE live@Alcatraz, Milano, 7 Marzo 2023




Qualche tempo fa scrissi un articolo sui Blackberry Smoke su una rivista, parlai bene del loro doppio disco dal vivo Leave A Scar. Giorni dopo un mio contatto di Facebook mi scrisse "sentiti responsabile per i soldi che ho buttato". Lasciando da parte quell'accusa che negli anni duemila suona quantomeno gratuita: "ascoltateli prima gratis, non siamo nel 1973" fu più o meno la mia risposta. Non gli erano piaciuti. Questo può anche starci. 
Ecco, però: per me è veramente difficile per chi ascolta rock’n’roll di stampo classico non farsi piacere un live di un gruppo onesto come lo sono i Blackberry Smoke, che non saranno dei fuoriclasse assoluti e da prima pagina, derivativi quanto si vuole, ma che sicuramente sanno come intrattenere un'audience con gusto e mestiere, senza piedistalli o mosse da poser. A Gregg Allman piacevano un sacco, ci si può sempre fidare di lui almeno. Potrei ripetere le stesse parole che usai per descrivere il loro concerto che vidi al Fabrique di Milano nel 2017. Poco è cambiato, Charlie Starr rimane ancora l'unico motore trainante di tutta la band: carisma, voce e chitarra guidano sostanzialmente il gruppo, ecco l'unica mancanza è non avere nella band almeno un altro elemento con lo stesso carisma che possa rivaleggiare ad armi pari e portare quella "sana" rivalità che il rock conosce bene. O porta distruzione o meraviglie, il rischio è dietro l'angolo. Forse i Blackberry Smoke amano poco i rischi. Forse questa è la loro natura. Però da quel 2017 in scaletta in più possono vantare un disco come l'ultimo You Hear Georgia che viene ben saccheggiato (mi è piaciuta particolarmente una 'Hey Delilah' pregna di umori sudisti) e che di fatto è uno dei loro migliori insieme a The Whippoorwill del 2012. Nel frattempo se ne sono andati anche maestri come Tom Petty e Gary Rossington, solo pochi giorni fa, omaggiati, il primo con un accenno di 'Don't Come Around Here No More'. 

Tre chitarre, basso, batteria e percussioni, uno fondale semplice e desertico e due ore di musica che hanno la forza di portarti per un attimo lontano dalla pigra quotidianità: 'Six Ways To Sundays', 'Waiting For The Thunder', 'Pretty Little Lie', 'The Whippoorwill', schitarrate e ballate si succedono che è una meraviglia. 
 Dei Blackberry Smoke ho sempre apprezzato l'onestà musicale, il gusto melodico, la capacità di unire chitarre (tre come piace al southern rock, ecco allora Paul Jackson e Benji Shanks) con quella melodia country pop cara a gruppi come Outlaws e Eagles. Concretezza e poche seghe strumentali anche se nelle loro capacità se solo osassero un po' di più. 
Ritornando all'inizio: per me sono sempre soldi spesi bene, e nemmeno troppi di questi tempi (meno di trenta euro). 






Setlist 

All Over the Road 
Let It Burn 
Six Ways to Sunday 
Live It Down 
Good One Comin' On 
Waiting for the Thunder 
Pretty Little Lie 
Living in the Song 
Hey Delilah 
Sleeping Dogs 
The Whippoorwill 
All Rise Again 
Ain't Gonna Wait 
Ain't the Same 
Ain't Got the Blues 
Run Away From It All 
Restless 
One Horse Town 
Old Scarecrow 
Flesh and Bone 
Ain't Much Left of Me



sabato 4 marzo 2023

RECENSIONE: MYRON ELKINS (Factories, Farms & Amphetamines)

 

MYRON ELKINS  Factories, Farms & Amphetamines (Elektra, 2023)



il giovane vecchio

"Sono inciampato nei posti giusti al momento giusto e ho stretto le mani giuste" sembra ben consapevole della grande fortuna che ha avuto il ventiduenne Myron Elkins. Dal lavoro di meccanico saldatore nella contea di Allegan nel Michigan ai palchi di Nashville il passo è stato più breve del previsto. Anche se non mancano determinazione e faccia tosta che oggi gli permettono di cantare al mondo il suo universo bluecollar popolato da chi è nato dalla parte sbagliata del fiume.

Le tappe di questo novello Forrest Gump della musica, come ama definirsi lui, sono ben scandite: la sua grande passione dopo il lavoro è la musica (molte canzoni sono state pensate con un saldatore tra le mani) e alcuni amici lo iscrivono a una un concorso per band. Lui raccatta su un gruppo, vince la manifestazione e viene notato da Dave Cobb che se lo porta nel  RCA Studio A di Nashville, gli fa incidere le sue canzoni che oggi grazie a una etichetta come la Elektra escono sotto il titolo Factories, Farms & Anphetamines che sembra ben racchiudere tutto il suo micro mondo. Partito dal grande amore per la country music (Johnny Cash, Waylon Jennings ma anche Sturgill Simpson e Chis Stapleton tra i suoi primi modelli) Myron Elkins si apre musicalmente verso tante altre strade che per ora, pur piacevoli, confondono un po' le idee: derivativo ma con un futuro davanti tutto da scrivere. A suo favore l'età e la voglia di raccontare le sue storie nate dal basso e a chilometro zero. 

Ma poi si scopre che è proprio la varietà a far scorrere il disco così bene. Un disco decisamente elettrico con chitarre sempre in primo piano (oltre a Elkins ecco Caleb Stampfler e Avry Whitaker): fin dall'apertura 'Sugartooth', numero "born on the bayou" che richiama John Fogerty e i CCR, dalla title track, southern rock che ricorda i Lynyrd Skynyrd, il blues di 'Mr. Breadwinner', l'honky tonk country di 'Wrong Side Of The River', una 'Nashville Money' che sa di catrame e asfalto.

E poi ancora il funky di  'Hands To Myself' e quello più "danzereccio" di 'Machine' fino al country arioso della finale 'Good Time Girl'.

Myfon Elkins merita senza dubbio un ascolto in attesa di una seconda prova che potrebbe già svelare le sue reali intenzioni future.







domenica 26 febbraio 2023

RECENSIONE: LUCERO (Should've Learned By Now)

 

LUCERO  Should've Learned By Now (Liberty & Lament, 2023)



canzoni da tarda notte e primo mattino

Se il precedente When You Found Me (2021) visse i suoi giorni scanditi dai synth tra le nubi della pandemia e le ombre più cupe ma ben a fuoco del precedente e splendido Among The Ghosts (2018) senza dubbio il loro disco migliore della seconda parte di carriera (anche il preferito del cantante Ben Nichols che lo scrisse fresco di paternità), con questo nuovo Should've Learned By Now la band di Memphis cerca di ritornare a un suono più diretto, elettrico, essenziale e rock'n'roll certamente legato agli inizi senza però mai mollare quella corda che lega così bene la loro intera carriera costruita su una formazione inossidabile e su dodici album dove hanno toccato country, folk, punk rock, Americana e Memphis sound. I lati più oscuri e gotici della loro America raccontati negli ultimi anni sono stati lasciati da parte ma non più di tanto perché Nichols è uno che sa scrivere testi e con la sua voce rauca e vissuta sa raccontarli bene e anche qui lo dimostra: in tutte le canzoni pervadono sentimenti di rivalsa e abbandono, di bevute, rimpianti e scommesse con quel tocco di ironia che fa la differrnza. I protagonisti dipinti dall'attento osservatore Nichols vagano tra bar solitari trascinando i loro cuori infranti, tutti in cerca di compagnia, perdono e rivincita. 

"Doveva essere uno stupido disco rock 'n' roll, ma i testi sono sempre una storia diversa. Forse perché non ci stavo pensando, forse questo è un disco più personale di quanto intendessi, un disco più significativo di quanto mi aspettassi".

Musicalmente i Lucero riabbracciano quella spontaneità musicale dove l'approccio diretto del punk rock sa abbracciare l'anima rootsy cucita su  country e folk ed escono canzoni come l'apertura 'One Last F.U.' anticipata dal battere di campanacci, una canzone scritta per Among The Ghosts ma che non possedeva quel mood nero  ("quando la prima canzone dell'album si intitola "One Last Fuck You", puoi andare dove vuoi con il resto del disco dopo. Niente è off limits" scherza Nichols) 'Macon If We Make It',  'Nothing's Alright', 'Buy A Little Time' (con Cory Branan ai cori), la title track potrebbe entrare nel canzoniere di qualsiasi heartland rocker americano, dove la chitarra di Brian Venable è sempre protagonista così come il piano di Rick Steff ricama dietro come nella migliore tradizione rock'n'roll ('Raining For Weeks'). Non mancano ballate di pura americana: la springsteeniana 'At The Show', in grado di mischiare romantico amore e ricordi adolescenziali, 'She Leads Me', una  malinconica 'Drunken Moon' e la finale 'Time To Go Home', un country con tanto di pedal steel e fisarmonica che ci avverte che dopo ogni sbronza "di vita" arriva sempre il tempo di ritornarsene a casa. I Lucero dopo 25 anni di onorata carriera rimangono una garanzia: prima ti fanno ubriacare ma poi ti riaccompagnano a casa sano e salvo.







domenica 19 febbraio 2023

WILLIE NILE live@il Magazzino di Gilgamesh, Torino, 18 Febbraio 2023



Willie Nile è sempre (e ancora) una garanzia di ottima e trasudante passione rock’n’roll. Sia quando seduto al pianoforte (il suo primo grande amore  a cui ha dedicato un disco, il sempre troppo dimenticato If I Was A River), accompagnato dalla chitarra sempre ispirata e ricamata di Marco Limido ("sono fortunato ad avere Marco" ripete spesso Willie), esegue una intensa Across The River da quel debutto incorniciato e appeso tra i dischi della mia vita, sia quando nel finale omaggia i suoi vecchi amici Ramones con Sheena is Punk Rocker agganciata a California Sun accompagnato dai torinesi Wooden Brothers di Renato Tammi che in precedenza avevano aperto.la serata: la "one guitar" di venta la house of thousand guitars che si costruisce le fondamenta sul piccolo palco del Gilgamesh.

Poi per un attimo ho chiuso gli occhi e immaginato a cosa potessero essere i locali newyorchesi in quei fine anni settanta: stasera il Magazzino di Gilgamesh credo proprio sia stata quella cosa lì. Quella dimensione ideale piena di antiche vibrazioni che ti avvicina e non crea barriere. Willie è  lo stesso che divide il palco con Springsteen e Steve Earle ma che poi impegna il suo tempo a stringere mani, fare foto e firmare vecchi dischi mentre lo reclamano al banchetto del merchandising dove presumibilmente continuerà fare le stesse cose. Sempre un grande.




sabato 11 febbraio 2023

RECENSIONE: CARLO LANCINI & ELISA MARIANI (Alive & Well)

CARLO LANCINI & ELISA MARIANI   Alive & Well (2022)


strade positive

Ho conosciuto Carlo ai tempi dei Mojo Filter, band  lombarda che si cimentava in un classic rock a tinte hard, southern blues totalmente devoto ai seventies e che ebbe modo di mettersi in mostra aprendo per alcuni grandi nomi americani ( Willie Nile, North Misssissippi All Stars). Ci siamo pure incrociati un paio di volte in qualche concerto dei nostri idoli musicali (Calexico e Ryan Adams se ricordo bene), l'ho seguito nei suoi altri vari progetti musicali e collaborazioni (i più  duri Stone Garden). Un chitarrista e autore che lavora sempre bene e sodo, lontano dalle grandi luci, ma con la grande passione che pulsa e pompa rock’n’roll e derivati. Ora rieccolo con un nuovo progetto figlio dei precedenti Godspell Twins ma questa volta ci mette il nome in copertina condividendolo con la brava Elisa Mariani al microfono. Alive & Well è un disco caldo, carico di calore rock (la bella apertura 'Time To Go' sembra bussare alla porta degli Stones, 'Gypsy Dancer' è la più movimentata del disco), di blues ('Flowers From A Stone' mi ha ricordato i Dr.Feelgood di Wilko Johnson, pace all'anima sua), di R&B ('Rock Me Off'), southern rock ('Sugar Mama' con la bella prova vocale di Elisa), country con la ballata finale 'April'.

Suonato e registrato benissimo insieme a un ben nutrito gruppo di amici tra cui spiccano certamente Jono Manson, cantautore e produttore di Santa Fe ormai di casa in Italia che lascia la sua voce nella tambureggiante e psichedelica  'Love Revolution' che mi ha ricordato i Crazy Horse, il sax di Pasquale Brolis e la chitarra di Stefano Galli.

In scaletta anche due cover: 'The Letter' dei Box Tops e 'Angel From Montgomery' di John Prine, una delle sue canzoni più saccheggiate. Ta le versioni più famose da ricordare quella di Bonnie Raitt, fresca vincitrice di un Grammy. La cantautrice disse che quella canzone di Prine le cambiò la vita, ecco: spero possa succedere qualcosa di simile anche a Carlo e Elisa.




domenica 5 febbraio 2023

RECENSIONE: DEWOLFF (Love, Death & In Between)

DEWOLFF  Love, Death & In Between (Nuclear Blast, 2023)



pausa soul

Conquistare una platea quando non suoni per il tuo pubblico ma aprendo per star mondiali come i Black Crowes, o quel resta di loro, non è mai facile. Si rischia sempre grosso e già solo l'indifferenza di chi si fa i cazzi suoi con una birra al bar sembra una conquista.

Il trio di olandesi DEWOLFF oltre a suonare senza timore reverenziale quella sera d'autunno conquistò il pubblico al suono di un hard blues con venature sudiste e psichedeliche super seventies tutto chitarra, voce  (Pablo Van De Poel), hammond (Robin Piso) e batteria (Luka Van De Poel). Fu un'ovazione meritata e le birre in alto sotto al palco, non al bar, servirono a salutarli sperando di rivederli presto con un concerto tutto loro.

Ecco uscire a pochi mesi da quel bel biglietto da visita (per quanto mi riguarda) il loro ottavo album in carriera, un disco che però mostra un altro lato, meno rock e irruento, più  riflessivo e sfumato. Maturo. Diverso. Canzoni nate dopo l'ascolto di tanto soul, gospel e R&b, dopo aver assistito a un sermone di Al Green e dopo la lettura di molta letteratura americana. 

"Perché, dopo tutto, la musica ci sembra una religione. È qualcosa che è nella nostra mente tutto il tempo. È ciò a cui dedichiamo tutta la nostra vita” spiega Pablo Van De Poel. E i giovani Dewolff, comunque in pista dal 2007, sembrano veramente aver barattato l'anima nel nome del rock'n'roll, lo si capisce sul palco e lo confermano in studio, che poi sembra quasi la stessa cosa.

Il risultato sono dodici canzoni registrate senza troppe sovrastrutture dietro, dal vivo su nastro analogico, in uno studio di Kerwax nella Bretagna in compagnia di una nutrita sezione fiati e coristi. Un disco che gira intorno a 'Rosita', pezzo da sedici muniti che racchiude bene tutte le influenze del trio: si sente il southern rock, la Motown, la Stax, il rock’n’roll, il gospel. Fughe strumentali, acidità psichedelica e terra blues si susseguono in un brano che è un vero monumento eretto alla musica. Difficile che qualcuno ci pisci sopra, potrebbe accontentare tutti.

Il disco si apre invece ad alta velocità con 'Night Train' e subito lo spirito di James Brown sembra volare e sbuffare aria black sopra a fiati e chitarre. Si prosegue tra boogie blues che chiamano in causa gli Stones di Exile e Joe Cocker con i suoi cani pazzi (la bella e convincente 'Heart Stopping Kinda Show'), soul ('Will O' The Wisp', Gilded (Ruin Of Love')), blues notturni e piangenti ('Mr. Garage Man'), gospel trascinanti e esaltanti ('Counterfeit Love'), R&B tosti e pieni di chitarre e fiati ('Message For My Baby', 'Wontcha Wontcha') fino alla soffusa 'Queen Of Space &Time' dove i Doors amoreggiano con i Jethro Tull e ne nasce il finale di disco perfetto.

Un disco caldo, corposo, pieno di sfumature e bei suoni che mantiene alte le quotazioni di questi tre olandesi pieni di talento e totalmente innamorati e devoti a tutta la musica, naturalmente con data di scadenza 1979.

Guardo le date del loro tour per curiosità, dell'Italia neppure l'ombra e come sempre ci si domanda: perché?



sabato 28 gennaio 2023

RECENSIONE: URIAH HEEP (Chaos & Colour)

URIAH HEEP   Chaos & Colour (Silver Lining, 2023)



inossidabili

Guidati dall'inossidabile Mick Box, compositore e chitarrista mai troppo lodato, gli Uriah Heep ritornano a riprendersi la "vecchia" scena hard rock dopo gli anni di pandemia che hanno visto crescere e germogliare questo Chaos & Colour che ne vuole raccontare luci, ombre, incubi e speranze. 

"Quando il blocco ha iniziato ad allentarsi nel Regno Unito, siamo stati in grado di andare in studio (Chapel Studios, Lincolnshire) e registrare il nuovo album con il produttore Jay Ruston che era arrivato dall'America. Jay aveva anche registrato il nostro precedente album Living The Dream e siamo rimasti molto contenti del risultato. Quindi volevamo lavorare di nuovo con Jay su questo progetto" racconta il batterista Russell Gilbrook in una recente intervista.

Un album che prosegue in qualche modo il trend del precedente Living The Dream (2018) e se possibile migliorandone ancor di più ispirazione, freschezza e tiro. Con più di cinquant'anni di carriera, arrivati al venticinquesimo album, chiunque potrebbe sedersi sugli allori e godersi i fasti del passato, anche se bisogna dirla tutta, gli Uriah Heep hanno sempre dovuto lottare per farsi largo tra critica, cangianti mode musicali e cambi di formazioni.

Eppure, quando parte 'Save Me Tonight' scritta insieme a Jeff Scott Soto, capisci subito che non sarà così, ancora una volta. L'essere ancora qui, presenti e scalcianti nel 2023 è la loro miglior risposta e vittoria. La straordinaria voce di Bernie Shaw e le tastiere di Phil Lanzon, entrambi in formazione dell'ormai lontano 1986 sono diventate un nuovo marchio di fabbrica degli ultimi trent'anni di carriera ma in perfetta continuità con la storia della band. La freschezza della sezione ritmica formata dal batterista Russell Gilbrook e dal bassista Davey Rimmer donano invece dinamicità a un suono che cerca di legare la tradizione del passato con i nostri tempi. In mezzo alla già citata apertura e alla finale 'Close To Your Dreams', che sembra iniziare là dove finiva la vecchia 'Easy Livin', c'è tutto il loro universo fatto di massiccio hard rock ('Hurricane', 'Fly Like An Eagle'), di incalzante groove melodico ('Silver Sunlight'), break psichedelici ('Hail The Sunrise' con il suo Hammond imperante sembra uscita dai 70, la cangiante e fantasy 'You'll Never Be Alone'), fughe progressive (gli otto minuti di 'Freedom To Be Free', 'Golden Light', 'Age Of Changes') e ballate (il pianoforte e la voce si Shaw sono protagoniste di 'One Nation, One Sun').

Un album compatto che cerca di unire tanti anni di carriera e tutte le sfumature musicali che hanno da sempre caratterizzato il loro suono. L'inconfondibile miscela di chitarre e tastiere, le fughe strumentali, l'intersecarsi perfetto tra potenza e melodia, le armonie vocali e le atmosfere epiche  sono quelle di sempre. Riconoscibili.

Potrebbe essere impresa difficile dopo tanti anni, e invece il miracolo continua a compiersi con rigenerante vivacità.




giovedì 26 gennaio 2023

DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 86: DAVID CROSBY (Croz)

DAVID CROSBY  Croz (Blue Castle Records, 2014)


un ricordo

Quando lo vedi sopra al palco catalizza l'attenzione con il solo carisma senza spostarsi di un centimetro, tanto da mettere in ombra i suoi fidi compagni di sempre: il lunatico e bizzoso Stephen Stills e l'etereo e più ginnico Graham Nash. I pochi ma sempre lunghi e candidi capelli bianchi al vento, i baffoni come li portava già nel 1969-gli manca solamente la giacca di renna scamosciata con le frange, la stessa indossata poi da Dennis Hopper in Easy Rider-la voce inconfondibilmente pura che fluttua nell'aria, il fisico segnato dalla vita- ma poi nemmeno troppo diverso rispetto a noi comuni mortali-David Crosby ha sempre incarnato lo spirito del suo tempo "migliore", quello sognante, quello ancora lontano da una tentata autodistruzione culminata negli anni ottanta e costruita su abusi, armi da fuoco illegali, galere e dalle inevitabili conseguenze prodotte da un trapianto di fegato avvenuto nel 1994 e da ripetuti attacchi al suo debole ma roccioso cuore. Nonostante tutto sembra ancora lo specchio di quel periodo, epoca che apriva e chiudeva il sogno americano con la conseguente rassegnazione di chi si è bruciato tutto, troppo in fretta, per troppi ideali disattesi e troppe utopie. Una generazione che ci ha provato: "un grande uomo disse 'ho un sogno'. Un altro arriva e gli spara in testa" canta in Time I Have. La fortuna di guardarsi indietro e spiare in avanti fa spesso capolino tra i testi (Slice Of Time, Holding On To Nothing). La  fortuna di un sopravvissuto. Crosby ringrazia. Di tutte queste cadute con relative rinascite canta nella personale Set That Baggage Down, uno dei picchi confessionali e musicali del disco con una chitarra elettrica che fa il suo, un groove che sale ed un'esortazione ad alzarsi sempre e comunque davanti ad ogni sciagura: "Rise Up, Rise Up" canta nel finale.

Dopo un capolavoro epocale e tanto "malato" da non fargli nemmeno ricordare il proprio nome (If I Could Only Remember My Name del 1971), disco che lo consacrò guida spirituale dell'intero movimento della West Coast Californiana e tra i manifesti più puri e lisergici dell'epoca, dopo la risposta a quella domanda avvenuta a quasi vent'anni di distanza, anni di rinascita soprattutto fisica (Oh,Yes I Can del 1989), dopo le tante strade percorse, anche sbagliate, del poco significativo disco di cover Thousand Roads del 1993: ad altri vent'anni dal quest'ultimo disco, ci rivela il nome, la sua identità. Chiamatemi tutti Croz sembra voler dire, sbattendo un significativo primo piano del suo faccione in copertina senza nessuna remora nel mostrare rughe e segni di vecchiaia (il CD è avvolto in un digipack veramente ben rifinito). Con l'unico rimpianto-suo e nostro-di essere arrivato al solo quarto disco solista in cinquant'anni di carriera, trascorsi come si farebbe sopra ad una montagna russa senza fine, dai fasti inarrivabili di Byrds e CSN & Y ai buchi degli anni ottanta pur con qualche sporadica e buona perla da cercare nei dischi targati CSN (Delta, Compass, Dream From Him).



Un disco che non lascia sorprese epocali, non si avvicina minimamente al capolavoro della vita anche se ha in comune quella impalpabile flessuosità che lo accompagna da sempre, ma  è una foto fedele del suo autore negli ultimi anni, uno sguardo attento alla sua anima interiore e a quello che lo circonda, perché lontano dalle scene e dalla vita, nell'ultimo ventennio, non ci è mai stato veramente. In pista sia con i compagni di una vita girando il mondo in tour, con il solo fraterno Nash (bello e spesso dimenticato è il loro disco del 2004), e con il gruppo CPR messo in piedi con il figlio ritrovato James Raymond (qui arrangia, produce e suona molto). Proprio da qui si riparte. Scritto interamente con il figlio, Croz è un album  dal passo lento, armonico, dal feeling jazzato che non ha fretta di arrivare, che non cerca i facili consensi: "l'ho scritto per me stesso" dice Crosby.

Un album contemplativo fin dall'iniziale What's Broken con la chitarra carezzevole di Mark Knopfler, brano piacevole anche se i due non si sono mai incontrati veramente-hanno collaborato a distanza-un qualcosa che ai tempi d'oro non sarebbe mai successo. A pensarci si perde un po' di quella antica magia che invece sembra avvolgere tutto il lavoro. Se ne prende atto e si va avanti tra stoccate alla moderna politica militare USA (la fumosa Morning Falling); acuti quadretti sulla prostituzione giovanile condotti con sola voce e chitarra arpeggiata (If She Called) e dipinti con la saggezza paterna dopo aver visto delle giovani ragazze al lavoro in un marciapiede fuori da un hotel dove soggiornava in Belgio; le immancabili armonie vocali che escono da Radio; i raffinati velluti jazzistici sia in Holding On To Nothing offerti dalla tromba di Wynton Marsalis che si mescola ad una chitarra acustica e nella finale Find A Heart vetrina musicale per i virtuosi ospiti Steve Taglione (sax) e Leland Sklar (basso); ma anche la sorprendente esplosione elettrica nella seconda metà di The Clearing, tra le più rock delle undici tracce -insieme a Set That Baggage Down- con il synth del figlio James Raymond e le chitarre di Marcus Eaton e di Shane Fontayne (che qualcuno ricorderà alla corte di Bruce Springsteen nel tour del 1993) a  dar battaglia. Però non tutto gira bene e Dangerous Night cade nello scalino di un AOR stanco e poco incisivo.

Eterno rispetto per un uomo (superstite) che ci fa visita solo quando ha qualcosa da dire. Un disco che avrà scritto solamente per se stesso, come dice, ma con la classe appartenente a pochi e la capacità di arrivare ancora a molti.




giovedì 12 gennaio 2023

LUCINDA WILLIAMS live@Teatro Lirico Giorgio Gaber, Milano, 10 Gennaio 2023

 


Quando parte 'Blessed', la prima canzone ma dopo poche parole Lucinda si ferma confusa in preda a chissà quali fantasmi, si capisce che sarà un concerto tutto in salita. Fortunatamente il caos mentale (oltre alla deambulazione sofferente lascito dell'ictus che l'ha colpita un paio di anni fa) dura circa un quarto d'ora  infarcito da colpi di tosse, soffiate di naso, strofe e attacchi  di canzoni sbagliate e così anche l'esecuzione della mia tanto attesa 'Drunken Angel' va a farsi "benedire". I suoi bravi musicisti con Doug Pettibone in prima fila cercano di metterci una pezza. A questo punto o va tutto in vacca, ciao e arrivederci, o ci si aggrappa a un miracolo. E qualcosa avviene veramente. Come quelle partite di calcio che si mettono subito male dopo il fischio d'inizio: dopo pochi minuti perdi due a zero e giochi pure in dieci perché un giocatore viene espulso. Ma con il cuore e la caparbietà a fine partita porti a casa un pareggio che vale come una vittoria. Lucinda Williams da metà concerto e soprattutto nel finale rinasce e pareggia ciò che ha fatto, o non  ha fatto all'inizio. La sua voce, a tratti straordinaria, e l'esecuzione di 'Essence', 'Copenhagen', 'Honey Bee' e 'Joy' pareggiano il conto. Dalla truffa al trionfo il passo è stato breve ma sudato. Un po' cone nella vita e stasera Lucinda ce l'ha messa tutta davanti agli occhi la sua vita, le sue debolezze, il suo fisico, il suo cervello e il suo cuore. 

Ecco, io il finale non lo avrei regalato a Neil Young, ma sono particolari e Rockin' In The Free World sembra messa lì come atto simbolico e Lucinda Williams con la mano in alto e le dita a "v" di vittoria con il teatro in piedi è il fotogramma che mi porto a casa di una serata sofferente che verrà ricordata, non come una delle migliori ma una delle più umane certamente.

Setlist

Blessed

Protection

Right in Time

Stolen Moments

Drunken Angel

Lake Charles

Big Black Train

Born to Be Loved

Copenhagen

All I Want

Essence

Pray the Devil Back to Hell

Honey Bee

Joy

Righteously

Rockin' in the Free World