A proposito di Guns N’ Roses…
Quel borioso di Axl Rose non lo ammetterà mai nemmeno sotto tortura, Slash ci ha provato in mille modi diversi e cento cantanti possibili (Snakepit, Velvet Revolver…) ma il miglior disco solista di un ex gunners rimane (secondo me) il debutto del buon IZZY STRADLIN. Uscito dalla band prima di tutti (se non è intuito questo), anche se in fondo non trovò mai veramente i suoi spazi là dentro pur comparendo nei credits di molte canzoni, Izzy mise su i Ju Ju Hounds composti da Jimmy Ashhurst (ora Buckcherry) al basso, Charlie Quintana degli Havalinas alla batteria e Rick Richards dei Georgia Satellites alla seconda chitarra (mica comparse da poco) e confezionò un disco perfetto per inquadrare l’anima più sleaze e stradaiola della sua ex band, tenendosi il più lontano possibile dagli eccessi hard/metal. Un pizzico di punk spruzzato di hammond (la rivisitazione di ‘Pressure Drop’ di Toots And The Maytals, ‘Bucket O’ Trouble’) e tanto sano rock’n’roll pescato a piene mani dal glam sudicio di NY Dolls e Johnny Thunders e dai migliori Stones di strada targati ‘70. Tutto come dovrebbe suonare un buon disco solista di Keith Richards. E proprio i Rolling Stones marcano gran parte delle canzoni, grazie alle presenze di chitarra e voce di Ronnie Wood in ‘Take a look At The Guy’, vecchia canzone dello stesso Wood annata 1974, e il “sesto stones degli anni settanta” Nicky Hopkins al piano nella ballata gospel ‘Come On Now Inside’ che chiude il disco. Aggiungete l’hammond di Ian McLagan che impazza in gran parte dei pezzi, Craig Ross, il riccioluto chitarrista di Lenny Kravitz e il produttore Eddie Ashworth e avrete quaranta minuti di godibilissimo rock blues, suonato con ardore, passione e senza troppe menate da rockstar. ‘Somebody Knockin’, ‘Shuffle It All’ e ‘Time GoneBy’ sono alcuni titoli.
Quindi cari Guns N’Roses, per il sottoscritto: una reunion senza Izzy Stradlin non è una reunion vera. Pensateci.
[comprai questo CD all'uscita, era contenuto dentro a quegli involucri di cartone grandi due volte la confezione del Cd stesso. C’era un problema non da poco, però. Dovetti aspettare un paio di mesi prima di ascoltarlo: non avevo ancora con me un lettore di compact disc! Rimasi stoicamente fedele a cassette e vinili fino all'ultimo. Deduco, quindi, che questo sia uno dei primi album in versione CD che entrarono in casa.]
JOHN DOEThe Westerner (Cool Rock Records/Thirty Tigers, 2016)
La polvere aspra alzata dai Calexico durante il recente concerto al Teatro Creberg di Bergamo è stata, seppur piacevole e solleticante, inferiore alle attese, superata dai fumi dolci e speziati dei sigari cubani che aleggiavano in teatro con molta più consistenza. A riportare il tutto ai livelli ottimali sembra pensarci il nuovo disco di John Doe, una carriera solista spezzettata ma che ha ormai doppiato (in anni) quella dei seminali X. Questo nono disco arriva a cinque anni dal precedente ma ne conferma lo status di songwriter di altissimo livello. Il disco è stato registrato a Tucson negli studi di HoweGelb (Giant Sand) e proprio durante i primi giorni di registrazione è avvenuto l’episodio che ha influito sensibilmente sul percorso musicale e concettuale del disco: la morte dell’amico scrittore, sceneggiatore e regista Michael Blake, conosciuto per essere l’autore del romanzo Balla Coi Lupi, da cui fu tratto il film. “Il primo giorno che sono arrivato a Tucson, ho trascorso un po’ di tempo con Michael che era in cura in ospedale. Tre ore più tardi, appena abbiamo iniziato la registrazione, ho ricevuto una telefonata che mi diceva che era passato a miglior vita. Averlo visto un’ultima volta è stato un regalo e l'intensità che ho messo su questo disco non l’ho mai sperimentata prima, in nessuna sessione di registrazione.” Racconta Doe nel suo sito ufficiale. L’amicizia con Blake fa da filo conduttore a canzoni che viaggiano placide sotto il sole, perse tra i grandi spazi del deserto dell’Arizona, con lo sguardo rivolto indietro ai nativi americani, il pensiero verso la libertà (la metafora dei treni nell’iniziale singolo’ Get On Board’) e la morte, e con lo spirito dei Doors che fa capolino in più occasioni, un ascolto comune di Doe e Blake da cui viene presa in prestito perfino la copertina disegnata da Shepard Fairey e Aaron Huey, già usata per un’uscita targata Doors in occasione del Record Store Day 2014.
Suoni desertici e psichedelia (‘Alone In Arizona’), intense ballate che si trascinano lente sulla sabbia, lasciando impronte tra il folk (‘Sweet Reward’, la pianistica ‘A Little Help’, ‘The Other Shoe’) e il western (‘Sunlight’) con non rari passi di danza rock: decise incursioni nel garage ( ‘Drink Of Water’ e ‘Go Baby Go’ con l’ospite Debbie Harry alla voce) e nel mantra blues doorsiano (‘My Darling, Blue Skies’). Un disco che sembra andare oltre la musica, perfettamente in bilico tra border ballads e scatti elettrici (la finale ‘Rising Sun’), per avvicinarsi sensibilmente all’anima. Il bel ritorno di Grant-Lee Phillips con THE NARROWS, sembra avere già un gemello: THE WESTERNER. Bellissimo e…consigliatissimo.
MALCOLM HOLCOMBE-Another Black Hole (Proper/ IRD, 2016)
Sotto troverete alcune righe scritte per la rubrica Cantastorie di Classix!, in presentazione del precedente disco THE RCA SESSIONS, una raccolta di suoi pezzi risuonati per l’occasione. Parole sempre valide. Quello che vedete in questa foto, invece, è il freschissimo album uscito a Febbraio, a soli sei mesi dal precedente. Holcombe prosegue il buon periodo di tormentata creatività con altre dieci canzoni che lo confermano uno dei songwriter americani più veri, aspri, puri e genuini degli ultimi anni. La voce strisciante, burbera che raschia e pare sempre ferita e sanguinante dice, ancora una volta, tutto. Registrato a Nashville con la sua ormai rodata band (Jared Tyler, Ken Coomer, Dave Roe) e con l’aiuto di un pezzo da novanta come Tony Joe White alla chitarra elettrica, prosegue sulle strade folk country blues tracciate con tanta fatica in questi anni, aggiungendo un tocco soul dato dai cori di Drea Merritt eaccenni swamp portati in dote da Tony Joe White, meritando il titolo di album più completo e vario della sua carriera. Storie di vita (dura) penetranti, presenze a volte spettrali, saggezza guadagnata sul campo con pochi calci nel culo, e redenzione ('Heidelberg Blues'), si incontrano in ogni angolo del disco, tra le pieghe, le rughe e i silenzi. Canzoni blues dal taglio elettrico come la title track e 'Papermill Man', il folk di‘ 'To Get By' , 'September’ e il country ('Someone Missing') disegnano i tratti amari di un album come sempre troppo sincero per essere vero e troppo ostico per trovare la via del facile successo. Ma ne sono sicuro: a lui sta bene così.
Se c’è un cantautore che impersona al meglio il titolo e il sottotitolo di questa rubrica (Cantastorie), è Malcolm Holcombe. Prima di raccontarvi chi è, però, soffermatevi per un attimo su una sua foto, guardate poi un video qualunque caricato in rete ma a volume spento: scrutate i lineamenti del viso, gli occhi sgranati e inquieti che fissano il pubblico, seguite le rughe della sua faccia, le smorfie, la saliva che cola dagli angoli della sua bocca quando canta con più fervore, osservate le mani nodose che afferrano la chitarra e la percuotono, i piedi che battono il tempo sul pavimento.
Ecco, credo potrebbe bastare come presentazione. Ora alzate il volume e ascoltate i silenzi e le esplosioni delle sue canzoni. Malcolm Holcombe la sa lunga sulla vita, nonostante una carriera decollata soltanto in prossimità dei quarant'anni: con la sola voce potrebbe mangiarsi in un boccone metà di tutti quei cantautori che spuntano come funghi oggigiorno. Holcombe ha la scorza dura di chi ha sceso le verdi colline delle Blue Ridge Mountains in North Carolina per cercare più fortuna in città (Nashville), trovando spesso più disagi che bellezza (l'alcolismo è stata una piaga dura da sconfiggere, la depressione pure) ma le tante verità che ha raccolto riesce a raccontarle con la rara naturalezza dei puri. Sopravvissuto all'illusione del successo promesso ma mai arrivato concretamente (un contratto con la Geffen Records ed un album mai uscito nel 1996), Holcombe ha sia l'onestà che la sapienza concesse a pochi, la capacità di non costruire arsenali davanti alla voce che potrebbe bastarsi da sola: una chitarra fingerpicking, belle chitarre dobro, un banjo, un violino costruiscono dolenti ballate folk/country nella struttura, ma blues giù fino al profondo dell'anima. Tanto scure e amare quanto raggianti e speranzose. Se ancora avete dei dubbi, l’ultimo dei tanti album usciti vi verrà in soccorso: THE RCA SESSIONS che contiene sia un CD che un DVD, ripercorre la sua carriera attraverso sedici canzoni risuonate live, estrapolate dai dieci album composti dal 1994 ad oggi. Se volete scavare nel passato cercate le sue tracce anche in A HUNDRED LIES (1999) e TO DRINK THE RAIN (2011), i suoi due lavori migliori. E se ancora non siete convinti, ascoltate chi la musica la mastica bene. Steve Earle disse di lui: “Malcolm Holcombe è il miglior cantautore che abbia mai fatto uscire dal mio studio di registrazione”.Dave Roe, invece, il leggendario bassista dell'ultima band di Johnny Cash, i Tennessee Three, non perde occasione per suonare con lui: "Malcolm è l'unico artista per cui combatto per essere presente durante le sue registrazioni".
Queste le date del suo imminente tour italiano 2016: 28/4 VEROLANUOVA (BS) - Parco Nocivelli 29/4 TALMASSONS (UD) - Mondelli Stable 30/4 PARMA -Mentana 104 1/5 VIGNOLA (MO) - Stones Cafe 2/5 TORINO - Folk Club 3/5 CANTU' (CO) - 1e35 Circa
CHEAP TRICK Bang Zoom Crazy...Hello (Big Machine Records, 2016)
Con l'uscita del batterista Bun E. Carlos si interrompe quella spiritosa dualità interna che li ha sempre caratterizzati: da una parte i belli da prima pagina (Robin Zander, Tom Petersson), dall'altra i brutti con la sostanza (Carlos e l'eterno nerd Rick Nielsen). Ma i fan lo rivorrebbero già a casa. In questo 2016, però, hanno guadagnato la rock'n' roll Hall Of Fame e la voglia di rimanere in pista con un nuovo disco (a sette anni dall'ultimo THE LATEST) che cambia poco le carte in tavola della loro carriera: l'hard rock spianato dal pop rimane il miglior ingrediente delle canzoni, con meno freschezza rispetto al passato ma con ancora tanto mestiere. Perché cambiare? Chitarre e assoli in canzoni dal tiro hard street ('Heart on The Line', 'Roll Me'), cori come fossero gli anni 60 ('No Directipn Home', ''The Sun Never Sets'), qualche puntata nella new wave più leggera degli eighties ('When I Wake Up Tomorrow') e nel glam di scuola T Rex ('Blood Red Lips'). Per il resto solo divertimento da ascoltare in buona compagnia. Party band per eccellenza, ancora oggi a quarantadue anni dalla nascita. Aperitivo in spensieratezza salvato anche se non usciranno hit da tramandare ai prossimi anni di carriera i ai concerti in programma. Dimenticavo: c'è pure una cover di Dobie Gray, conosciuta anche nella versione di Bryan Ferry ('In The Crowd') e il sostituto di Carlos è stato allevato in casa (il figlio del chitarrista Nielsen).
STURGILL SIMPSONA Sailor’s Guide To Earth (Atlantic, 2016)
Salutato come il salvatore del country americana dopo l’uscita dei precedenti HIGH TOP MOUNTAIN (2013), il debutto, e il più sorprendente METAMODERN SOUNDS IN COUNTRY MUSIC (2014), Sturgill Simpson mette la freccia a sinistra e supera tutti in volata. Va da altre parti, spiazzando e convincendo ancora di più. Vola sopra a tutto, fregandosene delle etichette. Se tutti gli album avessero questa gioiosa voglia di giocare con i generi musicali, il mondo (musicale) sarebbe anche meno brutto di quanto appaia ad un primo sguardo. Ambizioso ma rispettoso di certe tradizioni. E di bello e gioioso non c’è molto dentro alle sue liriche, anche se spesso viene usata l’ironia come metodo per convincere. Le nove canzoni sono una lettera aperta, intima e personalissima, cantata con una voce che fa la differenza e indirizzata al piccolo figlio di due anni per avviarlo sulle strade del mondo nel modo più giusto e meno traumatico possibile, un avviso al futuro navigante: Simpson lo mette in guardia fin da subito nell’apertura ‘Welcome To Earth’, una canzone che si apre come farebbe un vero outlaw countryman dei ’70 per poi scoppiare in una babilonia di fiati (suonano i The Dap-Kings) che sembrano provenire direttamente dalle strade di Memphis e trascinati da una sezione ritmica caricata a funk. Avrebbe già vinto con questa sola canzone. Questa commistione tra country e Stax sound caratterizza tutte le restanti otto tracce con poche eccezioni. E la scelta di ‘In Bloom’ dei Nirvana di Kurt Cobain come cover da stravolgere la dice tutta sul coraggio di questo trentasettenne proveniente dal Kentucky con la voce che pare un bastardo mix tra Waylon Jennings, Marvin Gaye e Otis Redding . Qui diventa confidenziale e incastra perfettamente la canzone nel concept da lui creato. Al figlio racconta anche la sua vita: dagli anni di marina militare nell’esercito U.S Navy (il country di ‘Sea Stories’) all’incontro e la relazione con la donna che è diventata compagna e madre (la profonda ‘Oh Sarah’) fino al finale honk y tonk ‘Call To Arms’, una vera antiwar song, di quelle che non scrive più nessuno, che porta a tutta velocità verso fine disco, come un treno lanciato in corsa. Trentanove minuti giusti, senza pause e silenzi. Non c'è più Dave Cobb a produrre ma fa tutto da solo, impegnandosi nel costruire canzoni strutturate e piene fino all'orlo. Non mi piace mai gridare al capolavoro, ma questo è uno dei dischi più sorprendenti ascoltati in questi primi quattro mesi del 2016. Quelli capaci di inchiodarti all’istante.
Vi siete mai persi in un negozio di dischi? Io spesso, quasi sempre: quello sì, quello no, quello aspetto, questo mi manca per completare la discografia, questi non li conosco ma mi incuriosiscono. Sì, insomma, avete capito. Eppure qualcuno sa perdersi in maniera diversa, buffa, quasi originale. Sentite qua...
Un sabato pomeriggio a Ivrea. Il negozio Discoccasione è in centro, in salita, in una via laterale che porta al castello, è piccolo ma stipato di vinili di tutti i tipi e generi, facile perdersi sì: vinili nuovi e usati, economici e più costosi, scatole e scatolette in ogni buco ma anche CD. Aggiungete un commesso competente, simpatico e super disponibile, e la bussola va in tilt per una buona oretta. Poi, all'improvviso, l'attenzione si sposta completamente: lo sguardo smette di lavorare sulle copertine dei Del-Lords e e si attivano le orecchie. Passi per un signore che confonde un disco di Townes Van Zandt con i fratelli Van Zant, quelli dei Lynyrd Skynyrd, ma poi...entrano in scena loro: due ragazzi sedicenni/diciottenni, dall'aria un po' sfigata, sembra si siano persi completamente. Ma non in quel senso come me. Ragazzi: "ciao, stiamo cercando un disco dei Guns N' Roses per un regalo, uno che abbia tutte le canzoni che si sentono alla radio. Però questi..." indicando i vinili a 33 giri nello scaffale e balbettando qualcosa tipo: "sono troppo grandi, vogliamo quelli piccoli".
Stupore generale: "ohhhh". Commesso: "ah 45 giri? No non ne ho, mi spiace".
Nel sentire nominare" 45 giri" qualcosa si inceppa. Questi giri sconosciuti. Ma come? 45 giri e il disco è più piccolo di uno che di giri ne ha 33? Qualcosa non torna nella loro testa.
Ragazzi:" No, vogliamo i dischi piccoli. Quelli!" indicando i CD, questi sconosciuti detti anche compact disc. Termine mai pervenuto dalle loro parti.
Ah ok. Tratteniamo il respiro per non scoppiare a ridere. Ma il tutto è rimandato di pochi minuti dopo la loro uscita di scena.
I ragazzi usciranno dal negozio con una copia di un disco GRANDE di Appetite For Destruction in una mano (che tanto, a quanto pare, l'amico possiede il "coso" per ascoltarlo) e con una lezione di geometria musicale imparata nell'altra. Le misure contano.
Si può ridere.
Da due settimane, la radio continua a ripetere che sabato 16 Aprile è la festa dei negozi di dischi. Il consueto Record Store Day, utile solamente per ricordarci che esistono ancora nelle parti più sperdute delle nostre città. La festa a cui partecipano i soliti volti noti, quelli che si vedono durante i restanti giorni dell'anno, e visto che anch'io, insieme a miei soldi, dentro ai negozi di dischi ci trascorro almeno due giorni a settimana, come ogni anno salterò l'appuntamento e lascerò libero il mio spazio per nuovi possibili alunni dell'ultima generazione.
Ah: comprate i dischi, piccoli o grandi non ha importanza. Durante tutto l'anno (possibilmente), e nei piccoli negozi dove potrete fare anche di questi buffi incontri. Ora capisco come ha fatto Maurizio Blatto a scrivere il suo 'L'ultimo disco dei Mohicani'(bellissimo e divertentissimo, cercatelo).
HAYES CARLLLovers And Leavers (Thirty Tigers, 2016)
Hayes Carll è uno di quelli buoni. Mi è sempre piaciuto. Il texano ritorna dopo cinque anni di assenza discografica. Tanti. Senza fretta e con una relazione importante fallita alle spalle. Succede. Da qui, e dalla nascita di un figlio, a cui dedica il country di 'The Magic Kid' riparte tutto. Perché bisogna sempre ripartire. Dopo aver raccontato di vagabondi, poeti e epiche bevute (TROUBLE IN MIND), dopo le stoccate politiche lanciate con il precedente KMAG YOYO, questa volta scava nella profondità delle relazioni umane con dieci ballate acustiche intense, profonde, illuminanti, ma anche ironiche, dove i paesaggi schiariti dalle luci di città e quelli dimenticati nelle ombre della profonda America fanno da sfondo alla vita e a ciò che ci riserva. Dieci canzoni (scritte a quattro mani con diversi autori tra cui Jim Lauderdale) cariche di riflessioni, confessionali (il lento walzer 'You Leave Alone') e avvolte intorno ai tanti cambiamenti di questi ultimi anni. Un salto quasi abissale dalla gioventù alla maturità. Si mette a nudo da autentico heartbreaker, non ha freddo ma trasmette calore e qualche speranza. Autentico.
Produce Joe Henry, una garanzia, che gioca di sottrazione con i risvolti acustici della musica americana infarciti da chitarre dal passo spesso pigro ('Drive') con rari scatti in avanti (la più frizzante 'Love Is So Easy'); suonano Jay Bellerose alla batteria, David Pilch al basso, Tyler Chester al piano e Wurlitzer e Eric Heywood alla pedal steel. Altre garanzie. Un po' Townes Van Zandt, John Prine e Guy Clark, un po' Steve Earle, un po' Ray Wylie Hubbard e Todd Snider, due amici questi ultimi. Un bel ritorno, a voce bassa e atmosfere unplugged.
Non mi fido di chi continua a ripetere: “non escono più album belli”. Non ci credo, ma spesso sono di bocca buona. Io continuo a trovarli in qualche modo. In queste ultime due settimane ne sono usciti almeno un paio degni di nota: Grant-Lee Phillips e Richmond Fontaine, per esempio. E mi tengo al paio che ho detto. A questi aggiungo volentieri il nuovo album di Zakk Wylde, perché, a suo modo, va nella stessa direzione di bellezza, quella costruita con la sincerità, la passione e la spontaneità dei puri. Il disco è stato pensato e lavorato mentre era in tour e pur peccando di omogeneità, le quattordici canzoni (chiamiamole anche ballate) viaggiano tutte alla stessa velocità di crociera, o meglio galleggiano sopra le acque torbide e ferme di un fiume sotto il caldo sole del sud, rilasciando forti segni di vita. Il fiume è ancora navigabile. "Un viaggio nello spirito e nella psiche" dice lui. L’irsuto chitarrista lanciato da Ozzy Osbourne nel lontano 1988 si mette a nudo per la seconda volta a ben vent’anni dal debutto solista BOOK OF SHADOWS (1996), uscito quando era ancora uno sbarbato ragazzo dalla lunga criniera bionda che lasciò il New Jersey in cerca del grande successo. Che naturalmente troverà. Vent’anni sono tanti, e qui sembra che voglia espiare i tanti peccati accumulati in anni di bagordi sopra e sotto i palchi di mezzo mondo a capo delle sue creature: i PRIDE AND GLORY prima (magnifico progetto southern rock ma abortito quasi sul nascere) e i più longevi e pesanti BLACK LABEL SOCIETY.
Lo fa nella stessa maniera di allora e gli riesce ancora bene, nonostante negli anni novanta si respirasse un’aria più pesante e tesa rispetto a oggi. Appoggia la chitarra elettrica in un angolo non troppo lontano, giusto per essere ripresa all’occorrenza per assoli melodici e misurati, abbandona le pose da guitar hero per le masse metallare per sedersi davanti a quel pianoforte che, in gioventù, lo fece avvicinare alla musica, ripetendo le lezioni che uscivano in modo gratuito dai vinili del migliore Elton John (‘The King’), o arpeggiando con una chitarra acustica come faceva Neil Young quando era in cerca di “cuori d’oro” (‘ Eyes Of Burden’, ‘The Leeve’). Il canadese è uno dei suo eroi musicali e non ne ha mai fatto mistero . Nell'ariosa ‘Sleeping Dogs’ duetta con Corey Taylor, cantante di Slipknot e Stone Sour, e ci ironizza su durante un'intervista: “siamo i nuovi Simon & Garfunkel”. Zakk Wylde ha un talento musicale smisurato e una voce che sa fare la differenza quando graffia, e quando non picchia con i BLS e riesce a lavorare con lentezza, tira fuori l’anima più malinconica (‘Autumn Changes’), introspettiva (‘Tears Of December’) e romantica che vive sotto alla sua lunga barba, lì un pochino più sotto nella parte sinistra del torace. Dove si intravede la prima goccia rossa.
ZAKK WYLDE Book Of Shadows (1996)
La calata di Zakk Wylde al Teatro degli Arcimboldi di Milano, fissata per il 9 Giugno 2016, è la mia notizia musicale del mese. L’atmosfera raccolta e la buona acustica saranno perfette per presentare BOOK OF SHADOWS II, seguito di questo primo disco, unico della carriera uscito con il solo nome in copertina. Nel 1996 Zakk Wylde è ancora uno sbarbato, ma talentuoso, ragazzo del New Jersey, lontano dall’immagine che prenderà corpo solo qualche anno dopo e con una voce personale e bellissima, che si perderà negli anni inseguendo e spesso scimmiottando Ozzy. Già, da otto anni è il chitarrista di Ozzy Osbourne, ma nel 1994 con il progetto PRIDE & GLORY tenta di dare sfogo alle sue vere radici musicali legate al blues e al southern rock, fino ad allora ancora imprigionate e ben nascoste. Ci riesce benissimo, ma il progetto rimarrà un episodio isolato. Con BOOK OF SHADOWS quelle radici scavano ancora più in profondità, cercando l’aspetto più introspettivo e romantico della sua musica, senza abbandonare mai il rock (‘1,000,000 Miles Away’ è la più dura del lotto) che spesso fa capolino dagli assoli di chitarra: al southern rock di Allman Brothers e Lynyrd Skynyrd si aggiungono pagine di country folk dal passo younghiano (‘Between And Hell’), arrangiamenti d’archi sparsi un po’ ovunque (‘Dead As Yesterday’), ballate pianistiche (‘Too Numb To Cry’, Road Back Home’) e sentite dediche che si bagnano di lacrime. ‘Throwin’ It all away’ è per Shannon Hoon , cantante dei Blind Melon, morto un anno prima, la finale, delicata e arpeggiata ‘I Thank You Child’ con esplosione finale è per il piccolo figlio. Lavoro intenso, sentito e intimista, per certi versi anche semplice, che però svela la parte migliore del musicista Wylde, quella che la creatura BLACK LABEL SOCIETY, che debutterà tre anni dopo, spianerà sotto pesanti macigni heavy non sempre sorretti dalla migliore ispirazione, salvo ripresentarsi sporadicamente a ricordarci la completezza musicale del personaggio. HANGOVER MUSIC VOL.VI (2004) è l’esempio migliore. Con i BLS la quantità ha finito per mangiarsi la qualità. Peccato. Comunque un puro, sanguigno e genuino come pochi. Sotto alla lunga barba rossa da vichingo americano di oggi batte un cuore, ultimamente sfinito dagli eccessi, ma ancora romantico. Carismatico. Accompagnano: James Lo Menzo al basso e Joe Vitale alla batteria.
Gli anni ottanta avevano spento il tizzone ardente del southern rock, quello che bruciava incandescente solo qualche anno prima. Nei primi anni novanta alcune band iniziarono a soffiare forte sul carbone e improvvisamente la fiamma riprese a scaldare l’ambiente: Black Crowes, Gov’t Mule, Cry Of Love, Brother Cane, The Screamin’ Cheetah Wheelie e i (...o le) MOTHER STATION appunto. Qualcuno di questi gruppi sta continuando a soffiare, chi con il fiato corto, chi ancora con immutato fervore, alcuni come la band nata a Memphis ha dato tutto e subito. Un respiro profondo e tutto il fiato dei polmoni è riversato sulle dodici canzoni che compongono il debutto (e unico disco in carriera) BRAND NEW BAG prodotto dal veterano Joe Hardy, a oggi tra le migliori classic rock songs ascoltate negli anni novanta. Guidati dalla carismatica voce di Susan Marshall, una micidiale miscela tra Janis Joplin e Tina turner o un Chris Robinson in abiti femminili se preferite, dalla sei corde ispiratissima e selvaggia della chitarrista Gwin Spencer, lasciando agli uomini RickShelton (batteria) e Michael Jaques (basso) il compito di tenere il ritmo e a Paul Brown di ricamare con le tastiere. Tra assalti hard di stampo zeppeliniano (‘Put TheBlame On Me’), il singolo ‘Show You The Way’, la cover (l’unica del disco) di ‘Fool For A Pretty Face’ degli Humble Pie, funky blues vicini ai primissimi Black Crowes (‘Black Beauty’), la presenza di un flauto (‘Love Me’) e di un violino (la ballata ‘Spirit In Me’) a primeggiare è l’aria soul che sbuffa e si intrufola in ogni singola nota trasformandosi presto in forte uragano, e la grande interpretazione in ‘Heart Without A Home’ ne è la dimostrazione più ficcante.
La storia, purtroppo, finisce esattamente dopo la dodicesima traccia, la bucolica e crescente ‘ Stranger To My Soul’. Le orme della rossa cantante Susan Marshall le troveremo in numerosi dischi dove presterà la voce come corista, tra cui gli Afghan Whigs di Greg Dulli, periodo 1965, i Lynyrd Skynyrd, Lenny Kravitz, Willy deVille, Lucinda Williams. Poi il nulla. Peccato. Poteva essere una lunga e bella storia. Rimane un solo disco. Bellissimo.
WILLIE NILE World War Willie (River House Records, 2016)
Dopo la breve parentesi, unica e forse irripetibile, di IF I WAS A RIVER (2014), disco notturno di ballate suonate al pianoforte, WILLIE NILE si rituffa con immutato spirito combattivo nel rock’n’roll. Quello più divertente e cazzone, quello registrato live in studio da quasi buona alla prima. Un disco che si apre in modo epico con il testo di ‘Forever Wild’, un' esplicita dichiarazione di eterna giovinezza (sognare si può ancora), e con la seguente ‘Let’s All Come Togheter’, una chiamata alle armi, un invito a trasformare le cattive notizie che ci assalgono da ogni direzione in buone speranze. Non a caso nella foto di copertina (scattata da Cristina Arrigoni) Nile si è fatto ritrarre davanti ad una gigantografia che mostra le macerie di una Dresda bombardata durante la seconda guerra mondiale. Come a dire: davanti a tutto ciò possiamo solo fare di meglio. Ricostruiamo.
E se c'è qualcuno che di ricostruzioni se ne intende, questo è proprio il cantautore di Buffalo. Nile sta vivendo una seconda giovinezza che ha cancellato gli anni più bui piombati sulla sua carriera dopo i primi due basilari album d'esordio.
Allora sotto, ancora una volta, con il rock'n'roll.
Spinge sul rockabilly sporcato punk con la divertentissima ‘Grandpa Rocks’ dai contagiosi cori “oi!”: un simpatico giretto sopra a una Chevy 57 in compagnia del vostro nonno rock preferito, ascoltando gli Stones in autoradio e indossando con orgoglio la vecchia t-shirt dei Clash.
Un nonno che non vuole mollare. Chi può dargli torto? Chi può fermarlo?
Una botta di vigore e divertimento attraversa quasi tutto il disco: ancora energici rockabilly con le chitarre di Matt Hogan davanti (‘World War Willie’, ‘Hell Yeah’), e (auto)ironici blues (‘Citibank Nile’, ‘Bad Boy’), interrotti solamente dalle romantiche parentesi d’amore (‘Beautiful You’, Runaway Girl’). Ad accompagnarci in questo giro tra le strade di New York, con le quattro frecce accese davanti ai vecchi mattoni del CBGB, i fidi Johnny Pisano al basso, Matt Hogan alle chitarre e Alex Alexander alla batteria siedono davanti al fianco dell’autista, con alcuni ospiti adagiati nel sedile posteriore: “l’Eagles” Steuart Smith, James Maddock, Leslie Mendelson, Christine Santelli.
In più, due omaggi al rock da “artista fan del rock”: la sua folkie ‘When Levon Sings’ dedicata a Levon Helm e The Band (“Once Upon a time was a drummer in a band/He kept a mighty beat ‘cross the Promised Land/ He Played with a smile from ear to ear/ Now up in heaven all the angels wanna ear” ) e una ‘Sweet Jane’ per Lou Reed che chiude degnamente un disco, tra i più divertenti e spensierati della sua produzione, che conferma (ma non ne avevo bisogno) quanto Willie Nile sia un rocker senza carta d’identità.
PARKER MILLSAPThe Very Last Day (Thirty Tigers, 2016)
"Non di soli Rolling Stones che suonano a Cuba si vive", fortunatamente. Lo penso mentre sto ascoltando la versione di 'You Gotta Move', spiritual interpretato da Mississippi Fred McDowell e portato sulle prime pagine rock dagli stessi Stones in STICKY FINGERS, che Parker Millsap ha rifatto splendidamente, caricata d'enfasi, nel suo nuovo, terzo, album THE VERY LAST DAY. Una rilettura personale (l'unica del disco) cantata quasi fosse Robert Plant nel 1969 sopra a un dirigibile che deve ancora lasciare terra, interpretazione che può solo ridare fiducia a chi non crede che il futuro della musica debba ripartire necessariamente dal passato. Un disco intenso che lancia direttamente il ventitreenne nell'olimpo dei songwriter (in erba) che contano, perché Millsap non ha paura di mettere in discussione la sua infanzia, ancora troppo vicina e lì dietro l'angolo vista la faccia ancora così pulita, trascorsa a Purcell, un piccolo paese di seimila anime dell' Oklahoma, un angolo tra i più conservatori degli States. "Non c'è molto da fare a Purcell. Se ti regalano una chitarra quando sei abbastanza giovane, scrivere musica è un buon modo per passare il tempo".
Pur crescendo in una comunità evangelica a diretto contatto con la chiesa Pentacostale, continua a raccogliere buoni spunti di osservazione sulla religione, mettendola in discussione, e pescandone pregi e difetti, come fatto nel precedente e apprezzato disco PARKER MILLSAP (2014), e come fa, immedesimandosi in un ragazzo omosessuale alle prese con un padre predicatore, in 'Heaven Sent'. Pezzo di punta che sa conquistare e commuovere fin dal primo ascolto grazie al suo crescendo emozionale. "Io non sono gay e non sono discriminato, ma mi infastidisce molto quando persone che lo sono vengono trattate male"
C'è poi tutta la sua curiosità sul mondo nell'apertura 'Hades Pleades', rock'n'roll veloce che si rotola nella polvere del bluegrass, scritta dopo aver letto un libro sulla mitologia greca, e nella descrizione dell' ultimo giorno in terra prima di una imminente apocalisse nucleare, un tema presente in più pieghe dei suoi testi, cantata nella title track, caricata a gospel. Registrato con il produttore Gary Paczosa e con la sua efficace band ridotta all'osso: un basso (Michael Rose), una chitarra acustica e un violino presentissimo (Daniel Foulks) che si uniscono nel frizzante ma antico rockabilly 'Heads Up' e nel trascinante blues alla Bo Diddley di 'Pining', lasciando il compito agli oscuri folk solitari e intimisti di 'Jealous Sun' e 'A Little Fire' di mettere in risalto la sua voce, e alla finale 'Tribulation Hymn', di avvicinarsi ad un irish folk che pare uscito dal catalogo del primo Rod Stewart. Un ragazzo cresciuto a buona musica (la collezione di dischi dei genitori) e con le idee chiare e giuste. "Ho iniziato a suonare quando avevo nove anni. Ero sempre circondato dalla musica, i miei genitori anche, mio padre aveva una collezione di dischi piuttosto interessante (Lyle Lovett, Ry Cooder, Robert Earl keen, Muddy Waters). Non abbiamo mai ascoltato troppo la radio". Racconta in un'intervista.
Dopo la sorpresa del disco del neo zelandese Marlon Williams, ecco un' altra raccolta di canzoni (undici per trentasei minuti) fresche, viscerali, intense e frizzanti che amano e rispettano la tradizione roots americana ma allo stesso tempo sanno soffiare sopra alla polvere depositata nel tempo e osare quel poco necessario per differenziarsi dalla massa. Millsap si candida a nuovo trascinatore del movimento Red Dirt Music e questo THE VERY LAST DAY lascerà sicuramente il segno.
“Non ero più un ragazzo: avevo 20, 22 anni. Io e un mio amico eravamo seduti a bere delle birre, quando suo padre iniziò a suonare canzoni di John Prine e Bob Dylan. Un giorno gli chiesi di mostrarmi alcuni accordi appena avessi avuto una chitarra tra le mani. E lui rispose: sicuramente. Così appena uscito di casa, sono corso al banco dei pegni ad acquistarne una da pochi soldi, da lì ho iniziato a scrivere canzoni”. Così Jake Smith, l’omone grande e grosso che fisicamente pare un incrocio tra Warren Haynes e il grande Lebowski, racconta i suoi tardivi approcci con la musica. Ora di anni ne ha qualcuno in più, la chitarra la suona bene ed è arrivato al quinto disco in carriera. Dopo l’esordio del 2007, il grande pubblico si accorse di lui grazie alla serie tv Sons Of Anarchy (i brani di Smith sono stati ospitati più volte nella serie. e a lui è toccato l'onore di chiudere in maniera struggente l'ultima puntata della saga dei criminali motociclisti, con la lunga 'Come Join The Murder) e a quel ‘Once Upon The Time In The West’ (2011) che sembrava costruire il ponte ideale tra la vecchia America cantata dagli outlaw country men degli anni settanta e l'America della generazione grunge di metà anni ’90, che celebrò il funerale di tutte le vecchie speranze. “Beh, io sono una persona abbastanza gioviale ma so che il lato più oscuro della vita può essere più interessante. Sono un uomo di famiglia, ma ogni tanto possono esserci ancora problemi. Alcune cose di cui scrivo sono d'attualità, ma cerco sempre di lasciarle vaghe, per fare in modo che ognuno possa interpretarle a modo suo”. Dopo l’ambizioso concept ‘Shadows, Greys & Evil Ways’ (2013) che intrecciava amore e guerra, nel nuovo album ‘Love And The Death Of Damnation’ le canzoni, pur vivendo di vita propria, sembrano ancora una volta seguire un percorso narrativo ben preciso dove i protagonisti lottano contro la diabolica oscurità che gravita intorno alle loro strade.
Qualcuno troverà la luce, altri no. Buio mimetizzato negli accadimenti di tutti i giorni (‘Dark Days’, ‘Modern Times’), nelle disperata ricerca di fede e redenzione, nei complicati meccanismi delle relazioni umane: nei rapporti d’amore ( ‘I Got You’ cantata in coppia con Audra Mae), tra genitori e figli, tra uomini in perenne conflitto. "Musicalmente e liricamente, questo è l'album più diversificato che abbia mai fatto. Amore, morte, luce e oscurità. Vi farà ridere e vi farà piangere. Un concentrato di emozioni." Alta drammaticità serpeggiante dentro ai repentini e sbuffanti attacchi cow rock (‘Rocky’) ben sostenuti dalla sezione ritmica (Matt Lynott alla batteria, Bruce Witkin al basso), alle eteree ballate pianistiche (‘Radio With No Sound’), alle trombe mariachi che colorano gli spietati confini geografici delle terre del sud in ‘Chico’, allo strepitoso gospel soul condotto dall’hammond nella finale ‘Come On Love, Come On In’ e al traditional folk americano che si fa anche scuro e tenebroso come un abito da giorno del giudizio in ‘Last Call To Heaven’, dove protagonista è ancora una volta la sua inconfondibile voce. Ricca, profonda, intensa e sincera come la parte nascosta di quell’ America che ci vuole raccontare. (Enzo Curelli) da CLASSIX! #46 (Gennaio/Febbraio 2016)
THE WHITE BUFFALOOnce Upon A Time In The West ( Unison Music, 2012 )
[...]Once Upon A Time In The West (omaggio a Sergio Leone?) è il secondo album dopo Hoghtide Revisited(2008) ed alcuni Ep. I White Buffallo, nome che oltre a rievocare il sacro bisonte dei nativi americani , ricorda vecchi western con Charles Bronson, comprendono oltre a Jake Smith, Tommy Andrews al basso e Matt Lynott alla batteria, e sono una vera e propria band proveniente dalla California.
La voce di Jake Smith è l'elemento catalizzante delle canzoni che, obiettivamente, non hanno nulla di veramente originale: americana che staziona in perfetto equilibrio tra le ombre crepuscolari di desolate ballate folk, oppure up-tempos trascinanti e sporcate sul polveroso ritmo di un country/rock viscerale che ripercorre i sentieri tracciati da vecchi fuorilegge come Waylon Jennings o lo Steve Earle di Copperhead Road, perdendone la parte più elettrica.
Ma un qualcosa di magico sembra sempre prevalere. Uno storyteller, quasi d'altri tempi, che affascina e seduce con il divino dono di una profonda voce da rocker che contrasta con il carattere intimo, nostalgico e doloroso delle sue liriche. Il contrasto è una delle armi di questo disco. [...] leggi recensione completa
THE WHITE BUFFALOShadows, Greys & Evil Ways (Unison Music, 2013)
[...] narrativo conceptche ci fa addentrare nell'appassionato amore di una giovane coppia di amanti: Joe e Jolene, divisa dalla guerra con i suoi orrori ben descritti nelle drammaticità acustiche di Redemption #2 e Fire don’t Know, dagli eventi della vita non meno violenti, dal difficile ruolo di un reduce all'interno degli schemi vitali della quotidiana routine, ma riunita, redenta e salvata (forse) dalla fede come testimonia la finale Pray To You Now. Tante domande esistenziali, con le risposte lì, in sospeso, affidate all'ascoltatore[...] Meno immediato del suo predecessore Once Upon The Time In The West, più impegnativoe ambizioso, ma con la forza di uscire vincitore alla lunga distanza, confermando Jake Smith come uno dei più interessanti songwriters di “americana” degli ultimi anni, con tutte le credenziali per arrivare anche al (grande) pubblico più distratto che evidentemente sta ancora sonnecchiando. Meglio così o lo svegliamo? leggi recensione completa
THE WHITE BUFFALO Love And The Death Of Damnation (Unison Music/Earache Records, 2015)
[...]LOVE AND THE DEATH OF DAMNATION è il suo quarto disco. Anche se non è propriamente un concept album come il precedente e ambizioso Shadows, Greys, and Evil Ways uscito nel 2013, le canzoni che lo compongono, pur vivendo tutte di vita propria, sembrano ancora una volta seguire un percorso narrativo ben preciso dove i personaggi protagonisti lottano contro la diabolica oscurità che gravita intorno alle loro strade, ma non tutti riescono ad arrivare all’agognato traguardo dove, ai bordi dei marciapiedi meno battuti, nuove luci irradiano chiarezza sull’esistenza. Buio mimetizzato negli accadimenti di tutti i giorni (‘Dark Days’, ‘Modern Times’ accompagnata da un divertente video), nelle disperata ricerca di fede e redenzione (‘Where Is Your Saviour’), nei complicati meccanismi delle relazioni umane: nei rapporti d’amore (‘Go The Distance’, ‘I Got You’ cantata in coppia con Audra Mae), tra genitori e figli, tra uomini in perenne conflitto e prevaricazione[...] leggi recensione completa
Bagana Rock Agency e PMA Promotion presentano:
THE WHITE BUFFALO, per la prima volta in Italia
giovedì 28 Luglio STRADE BLU, Ravenna
venerdì 29 Luglio Hot In The City,Trieste
sabato 30 Luglio Arena Sonica, Brescia
Ingressi gratuiti
MARLON WILLIAMS Marlon Williams (Dead Oceans, 2016)
I venti minuti (di più con traffico intenso) del tragitto casa lavoro spesso diventano il tempo meglio speso della mattinata. Quello giusto per ascoltare le tante cose nuove. Il debutto solista (ma uscito l'anno scorso in patria) del neo zelandese venticinquenne Marlon Williams ha i sapori di altre epoche: parte in quarta come un treno nel selvaggio west con l'uptempo rockabilly 'Hello Miss Lonesome' ma poi si assesta su tempi distesi, carichi di sentimento, riempiti da murder ballads intense, emozionali e molto più lente. Anche la sua voce cambia dalla terza canzone in avanti. Ci sono gli anni 50 e 60, ci sono Hank Williams, Roy Orbison e Bob Dylan, c'è il folk, il bluegrass, il soul, ci sono tre cover rilette benissimo ( 'I'm Lost Without You' di Teddy Randazzo e Billy Barberis, 'Silent Passage' di Bob Carpenter e il traditional 'When I Was A Young Girl'). Ha una voce straordinaria allenata nell'adolescenza cantando nei cori di Chiesa. Un talento da coltivare. 35 minuti per un debutto che lascerà sicuramente il segno anche se il secondo disco potrà dare risposte più convincenti e restringere il suo raggio d'azione che ora pare essere fin troppo dispersivo, quasi fosse in cerca della strada giusta da imboccare. Intanto io sono arrivato a destinazione e questo sarà uno dei migliori dischi dell'anno in corso.
Le versioni restaurate dei due film HUMAN HIGHWAY e RUST NEVER SLEEPS (prodotti tra il 1978 e il 1979) sono state presentate in anteprima nei cinema americani il 29 Febbraio scorso nel corso di una serata denominata An Evening With NEIL YOUNG. I due film, da tempo fuori catalogo, usciranno il 22 Aprile in versione DVD. HUMAN HIGHWAY è una commedia "anti nucleare" ambientata tra l’officina meccanica del proprietario Lionel Switch (interpretato dallo stesso Neil Young) e il ristorante dove lavorano vari personaggi interpretati da veri attori come Dennis Hopper (il cuoco), Dean Stockwell e Sally Kirkland. Neil Young veste anche i panni della rockstar Frankie Fontaine e nel film compaiono pure i Devo. Tutti i protagonisti stanno vivendo come se fosse l’ultimo giorno della loro vita, attentata dall’imminente esplosione della vicina centrale nucleare. “Human Highway prevedeva che filmassimo su un set interno che sembrasse una stazione di servizio situata in un luogo immaginario, la Linear Valley. In lontananza si vedeva Megapolitan City e sullo sfondo, a meno di due chilometri, una centrale nucleare…Finite le riprese, durante il montaggio il film passò attraverso varie versioni. Ci fu una proiezione a San Diego, dove furono distribuite delle cartoline al pubblico perché commentasse il film. Fu un disastro, ma fu molto divertente…” RUST NEVER SLEEPS documenta, invece, il famoso concept tour diviso in due atti (acustico ed elettrico con i Crazy Horse), caratterizzato dai vestiti bianchi e candidi di Neil Young, nel ruolo di un bambino che si sveglia dal sonno in mezzo ad un palco-dove tutto è gigante- che lo avvolge, dopo aver sognato di diventare una rockstar. “ Un ragazzo sogna di essere in un gruppo rock, ma è un ragazzino per cui tutto è più grande della realtà, ogni aggeggio è enorme. Così se ne sta lì addormentato in cima a questo amplificatore, poi si sveglia e suona un paio di canzoni sulla gioventù”.Famose anche le figure dei roadie (road-eyes) vestiti come Jawa di Guerre Stellari. “ La saga di Guerre Stellari era appena iniziata ed era una gran cosa per i giovani, così ho preso tutto ciò che poteva fare effetto sui giovani e l’ho mischiato”. Uno dei tour più bizzarri della storia del rock. Un buon passatempo davanti alla TV in attesa dell’ennesimo album (EARTH?) che uscirà in estate e dei quattro concerti programmati a Luglio in Italia.
THE RECORD COMPANY Give It Back To You (Concord Records, 2016)
Nati a Los Angeles nel 2011, i Record Company potrebbero bleffare benissimo sulla loro età. Dandosi qualche decennio in più, naturalmente. Il progetto prende forma dopo aver fatto bisboccia intorno ad un tavolo colmo di birre di un pub, con un disco di John Lee Hooker e Canned Heat in sottofondo (il mitico doppio Hooker 'N Heat del 1970), e proprio ad una birra (massì facciamo pubblicità: la birra Miller Lite), che ha scelto la loro canzone ‘Off The Ground’ per uno spot commerciale, devono il primo grande successo in larga scala. Da lì all'incisione del debutto il passo è stato breve: esattamente un anno dopo, nonostante avessero già all'attivo diversi EP e aperture live per nomi importanti come Buddy Guy, B.B. King e Social Distortion. La copertina del disco è fin troppo chiara su quale sia la loro vera attitudine. Qualcuno li avrà anche visti lo scorso autunno a Milano in apertura per i southern rockers Blackberry Smoke. Il loro primo album è appena uscito: un sentiero sonoro lungo dieci tracce per quaranta minuti che lascia pochi dubbi sui dischi che hanno girato nei loro piatti dopo le serate stonate al pub: tanto blues di casa Chess Records (Muddy Waters, Bo Diddley), di conseguenza Canned Heat (‘On The Move’), Stones e Led Zeppelin (‘Hard Day Coming Down’), il vecchio rockabilly (‘Don’t Let Me Get Lonely’), soul (‘This Crooked City’ con le voci femminili di Maesa e Rosa Pullman), coralità contagiante ('Feels So Good') a cui si aggiunge la sporca urgenza della Detroit rock a cavallo tra i 60 e i 70 (la finale ‘In The Mood For You’ fa tanto Stooges).
A spiccare: l'armonica, le chitarre e la voce del vocalist Chris Vos, un cantante rubato all’agricoltura (non è un insulto, Vos è cresciuto veramente in una fattoria del Wisconsin), e una sezione ritmica (Alex Stiff al basso e Marc Cazorla alla batteria) carica di groove degna dei migliori power trio degli anni che contano. Derivativi come tanti altri ma con quella voglia di sbattersi che li fa galleggiare a testa alta tra l'inevitabile selezione naturale di questo folle music business marchiato 2.0 e senza regole scritte. Se le ultime mosse dei Black Keys vi hanno deluso, The Record Company non lo faranno. Per ora.