lunedì 19 agosto 2013

COVER ART# 6 : BOB SEGER (Against The Wind-1980)

autore: BOB SEGER
titolo: AGAINST THE WIND
anno: 1980
disegno: JIM WARREN
art direction: ROY KOHARA
canzoni da ricordare: Her Stut, No Man's Land, Against the Wind, Fire Like

Una delle ultime copertine create dal sessantaquatrenne artista californiano Jim Warren è stata Horses and High Heels(2011) di Marianne Faithfull . Nel disegno campeggia un cavallo immerso in un panorama naturale da paradiso terrestre, dove spiccano due scarpe rosse da donna con lunghi tacchi.
I cavalli, nelle opere di Warren, sono spesso presenti. Ma non è stato sempre così, e la colpa-o merito- è di Bob Seger.
Warren racconta che nel 1979 spedì alcune foto dei suoi dipinti al direttore artistico della Capitol Records, alla ricerca di qualche collaborazione di lavoro con il mondo musicale. Dopo due settimane non aveva ancora ricevuto risposte e, scoraggiato, la prima cosa che pensò fu che i suoi disegni avessero preso la via poco romantica e remunerativa della spazzatura.
La grande sorpresa arrivò un anno dopo. Il direttore della Capitol si fece vivo proponendo a Warren la copertina per un disco di Bob Seger che però doveva avere come soggetti dei cavalli. Warren cercò di opporsi a quella richiesta, giustificandosi con il fatto che non aveva mai disegnato cavalli nelle sue opere. Insomma, non erano il suo "cavallo" forte d'artista. Alla fine, l'offerta era talmente allettante che cedette, disegnando la copertina che tutti conosciamo.
Passò un altro anno, Against The Wind nel frattempo raggiunse il primo posto nella classifica dei dischi più venduti, fu la prima volta per Seger. Against the wind fu un album diverso dai precedenti per il rocker del Michigan.
Quei cinque cavalli selvatici e liberi di correre contro vento immersi nell'acqua che ne proietta le ombre in avanti, rendendoli ancora più veloci, rappresentavano benissimo un disco che, grazie alle parole della stupenda title track, esorta a ritrovare se stessi dopo cocenti delusioni. La speranza è l'ultima a morire. C'è sempre un nuovo inizio."Bene, ora ho superato quei giorni movimentati/Adesso ho molte più cose a cui pensare/Scadenze e consegne/cosa lasciare e cosa tralasciare/Controvento/Sto ancora correndo controvento/Ora sono più vecchio, ma sto ancora correndo/Controvento".
Un disco che all'epoca fece storcere il naso ai devoti fan di Seger per via della leggerezza musicale che prendeva il sopravvento, forse più leggero rispetto al recente passato (il trittico Beautiful Loser, Night Moves, Stranger In Town rimane ineguagliabile), ma che comunque riusciva a mantenere intatte le caratteristiche del suo autore che non mancò mai di tesserne le lodi, considerandolo uno dei suoi migliori lavori di sempre. Against The wind rimase l'ultimo vero guizzo, la chiusura della prima parte di carriera. Gli anni ottantta, appena iniziati, porteranno pochissima gloria.
Nel 1981 il telefono bollente di Warren squillò un'altra volta. Dall'altra parte una voce lo informava con un assordante "Abbiamo vinto! Abbiamo vinto!!". La sera prima si svolse il Grammy Award e Against the Wind vinse il premio per la migliore copertina dell'anno. Warren, che quella sera non guardò la televisione, cascò dalle nuvole. Sarà lui stesso a raccontare la morale di tutta questa storia: proprio lui che non aveva mai disegnato un cavallo in vita sua, da allora non smise più di disegnare equini. Ora sì, sono il suo piatto forte d'artista!


vedi anche COVER ART # 4: NEIL YOUNG- On The Beach (1974)




vedi anche COVER ART # 5: AMERICA- Homecoming (1972) 



 

venerdì 9 agosto 2013

RECENSIONE:ALICE IN CHAINS (The Devil Put Dinosaurs Here)

ALICE IN CHAINS The Devil Put Dinosaurs Here  (Virgin/EMI, 2013)

"La nostra musica è un gigantesco ed efficace atto di esorcismo nei confronti di tutto quello che non amiamo o che finirebbe per portarci nella tomba...". Fa un certo effetto rileggere questa dichiarazione estrapolata da una vecchia intervista apparsa su HM nel Marzo del 1993, alla luce di quello che successe il 5 Aprile 2002, quando Layne Staley raggiunse il fondo di quell'abisso che lo accompagnò per tutti i suoi (soli) 35 anni di vita.  Qualcosa non deve aver funzionato a dovere. Gli Alice In Chains hanno nuotato in acque torbide negli anni novanta, il loro disco di maggior successo commerciale, Dirt (1992), fu la ricetta  per esorcizzare tutto ciò, premiata anche dalle vendite, ma nulla potè per depurare l'acqua, che anzi via via si fece sempre più nera e inzaccherata, preferendo seguire il pericoloso percorso scavato dal loro cantante. Gli Alice In Chains di oggi, però, vivono nel presente, Jerry Cantrell continua a ribadirlo a più riprese: non amano girarsi troppo indietro e già lo hanno dimostrato con Black Gives Way To Blue, il loro buonissimo ritorno di quattro anni fa. Continuano a camminare per la loro strada, lasciando ai critici il compito di nominare il nome di Layne Staley una volta su tre in cerca di paragoni (impossibili e deleteri). C'è la voglia di sotterrare i ricordi negativi (quelli pesanti, vissuti in prima persona) ma c'è anche la difficoltà nel farlo completamente; quelli che hanno segnato profondamente le liriche rimangono a dare l'imprinting della loro musica, lasciando solamente alle canzoni il compito di parlare, un po' come se la copertina di Dirt rappresentasse il loro status odierno: un po' dentro, un po' fuori da quelle sabbie. Se in questo momento dovessi scegliere la mia band preferita tra quello che ci è rimasto delle "big four" nate a Seattle negli anni '90, non avrei dubbi nel puntare su Jerry Cantrell e soci, con i Nirvana fuori dai giochi, ma soprattutto dopo la mezza delusione della reunion dei Soundgarden concretizzatasi con l'insipido e "mestierato" King Animal, ed i Pearl Jam ancora fermi al poco ispirato Backspacer(2009), puro esercizio di routine che dura da troppo tempo, anche se un nuovo singolo "punkettone" è stato lanciato in questi giorni per dare il benvenuto al nuovo album in uscita a fine anno.
William DuVall, poi, mi sta simpatico a pelle, si sta dimostrando un cantante-e chitarrista-con una personalità propria e vincente, capace di tenersi alla larga dai possibili paragoni con l'illustre, inarrivabile, e maledetto predecessore, anche se gli spazi sembra che debba guadagnarseli con il tempo e le unghie ben affilate. E sappiamo tutti quanto il cambio del cantante in una band sia sempre faccenda delicata, costruita su complessi equilibri interpersonali. La verità è che la band di Seattle sembra molto più compatta oggi di allora (sempre con Mike Inez al basso e Sean Kinney alla batteria), complice la maturità e l'esperienza.
The Devil Put Dinosaurs Here è un disco che avanza con lentezza ipnotica fin dall'apertura Hollow, un pesante monolite, sludge fino al midollo, acido negli assoli, con le classiche armonie vocali che li hanno resi riconoscibili ed unici a caratterizzarne l'impronta, ma anche con i fantasmi del passato che fanno spesso visita come nella allucinogena circolarità di Pretty Done, nella pesantezza di Phantom Limb, nella lenta marcia Hunk On A Hook, nella sabbathiana Stone, nella teoria anti-darwiana di The Devil Put The Dinosaurs Here che dà il titolo al disco ed è sviscerata su un arpeggio sinistro e cangiante lungo i sette minuti, diventando la canzone più lunga e strutturata del disco, nella claustrofobica Breath On A Widow che ci regala un bel assolo di Cantrell.
Nei quasi settanta minuti di durata totale, invece, c'è anche il tempo per la più leggera Voices, brano a presa immediata, per l'acustica Scalpel, quasi un dark country figlio del loro vecchio lavoro acustico Jar Of Flies (1994), fino alla malinconica chiusura acustica e corale Choke con l'assolo finale che chiude un disco che gira intorno all'eccellenza e alla buona vena ispiratrice di Cantrell, illuminato da nuova luce positiva.
Sicuramente mancano: sia l'ipnotica magia (nera), che la malattia vissuta sulla propria pelle come in passato, anche solo i pezzi da ricordare come una California (presente nel precedente album), ma il disco marcia in avanti, compatto, senza mai girarsi indietro con la testa, facendosi bastare un occhiolino furtivo al già accaduto, quasi il povero cane raffigurato sulla copertina di Aliche In Chains (1995)-Tripod-, ultimo album con Staley, avesse ritrovato l'equilibrio con la ricomparsa della quarta zampa, mancante da quel lontano 1995.





vedi anche RECENSIONE: BLACK SABBATH-13 (2013)




vedi anche RECENSIONE: QUEENS OF THE STONE AGE-...Like Clockwork (2013) 





vedi anche RECENSIONE: THE WINERY DOGS-The Winery Dogs (2013)



mercoledì 31 luglio 2013

RECENSIONE:QUEENS OF THE STONE AGE(...Like Clockwork)

QUEENS OF THE STONE AGE ...Like Clockwork (Matador Records, 2013)

Nati come costola imbizzarrita ed imprevedibile dei Kyuss, la chitarra di Josh Homme era riuscita a prolungare anche negli anni duemila lo spirito desertico che ha animato la breve stagione stoner della band madre. Arrivati però all'esplosione mondiale con le onde radio ancora ben elettriche che imperversavano su Songs For The Deaf (2002)  (imprescindibile per valutare il rock degli anni 2.0) a cui però ho sempre preferito i primi due dischi-soprattutto R (2000) che il sottoscritto ritiene il loro punto massimo in carriera-il gruppo, concrega sempre aperta ad interventi esterni di amici e conoscenti, una sorta di continuazione per le masse delle famigerate Desert Sessions, ha iniziato una preoccupante parabola discendente segnata da un netto calo d'ispirazione, continuazione infinita e ripetizione di una formula che da Lullabies To Paralyze (2005) fino all'altro ieri sembrava mostrare la corda, quasi gli effetti del peyote iniziassero a venire meno. Paradossalmente, i palazzetti hanno iniziato ad essere sold-out (sic, ed io che li vidi insieme ad un centinaio di persone nel non lontano 1998), mentre l'ispirazione musicale mostrava il suo knock-out. Quelle particelle nervose, libere di vagabondare dentro alla loro musica, che erano così imprevedibili sono diventate immaginabili, il loro fattore X era diventato stanca routine, i robotici riff di Homme mulinavano su se stessi con poca convinzione. Persi per strada quasi tutti i componenti originali, dal primissimo batterista Alfredo Hernandez, al compagno di merende allucinogene Nick Oliveri, ora riaccolto per un breve cameo vocale insieme a Mark Lanegan nella darkeggiante in odor di New Wave  If I Had A Tail -Oliveri fu personaggio basilare nel condurre il gruppo verso l'imprevedibilità musicale- fino all'ultimo batterista Joey Castillo presente su metà disco e poi cacciato per far nuovamente posto al "prezzemolino" Dave Grohl e a Jon Theodore che li seguirà in tour. I QOTSA ( Dean Fertita e Troy Van Leeuwen a chitarre e tastiere, Michael Shuman al basso) sono diventati, a tutti gli effetti, la creatura personale del rosso Josh Homme.
Ma ...Like Clockwork mostra un insperato segno di ripresa, battendo altre strade musicali-qui si ritorna almeno all'imprevedibilità, all'ispirazione-certamente più mature, melodiche, arrivando a completare la visione totalitaria sul pianeta musica, e fortemente influenzate, nelle liriche, dai problemi di depressione passati e superati del chitarrista: "se la vita non è altro che un sogno, allora svegliatemi" canta in Keep Your Eyes Peeled, sinistro brano blues che apre il disco con l'aiuto di Jake Shears (Scissor Sisters) alla voce.
Là dove una volta prevalevano l'urgenza e l'immediatezza ora c'è un certosino lavoro di costruzione, di dosaggio. Perché, accanto al trade mark di fabbrica ancora presente come dimostra il singolo "pagano" My God Is The Sun vi sono molteplici e vari episodi di campionario musicale: dalla melodia pop di I Sat By The Ocean, dove la chitarra rimane ancora riconoscibilissima seppur si svesta degli abiti sporchi e pesanti dello stoner per pochi, per indossare quelli più leggeri e candidi della festa per tanti invitati, alla finale ...Like Clockwork, ballata pianistica con aggiunta degli archi che pare un numero da cantautorato seventies westcostiano che fa il paio con The Vampyre Of Time And Memory, persa tra le malinconiche note di pianoforte e moog e la riuscitissima I Appear Missing , autobiografica e punto più alto dell'intero disco nella sua "beatlesianità", con quell'assolo quasi rubato al campionario di Tom Morello.
Kalopsia scritta da Alex Turner (Artic Monkeys) con la voce Trent Reznor (Nine Inch Nails) ondeggia tra soffice psichedelia, Ziggy Stardust sbarcato su Marte e violente esplosioni elettriche mentre Fairweather Friends vede l'ospite Elton John a piano e voce-in verità presenza superflua e poco incisiva (che peccato)- canzone che descrive bene la nuova versatilità della scrittura del "rosso", un calderone con dentro teatralità, epicità hard e pomposità glam '70, lo stesso eclettismo che ritroviamo nella bizzarra Smooth Sailing, sbilenco blues che strizza l'occhio al dance floor funkeggiante prima di infilarsi nel vortice cacofonico finale.
Diffidate da chi vi dice che è il miglior disco dei QOTSA, ma fatelo anche di chi vi racconta che Josh Homme è morto. No, ha semplicemente imboccato tante nuove, spiazzanti e impervie strade, in cerca di armonia e bilanciamento delle parti fino ad ora sconosciute ma che ...Like Clockwork sembra sublimare man mano che scorrono gli ascolti, conquistando quasi come ai vecchi tempi ma con tante esperienze di vita in più da considerare al momento del giudizio definitivo. Homme credo abbia voglia di mettere sul tavolo tutta la sua creatività e ispirazione, fino ad ora tenuta a freno da un marchio di fabbrica ormai consolidato ma diventato ingombrante. La strada imboccata dal precedente Era Vulgaris era buia e senza uscita: quasi morta.
Non ci speravo più...lasciate che l'orologio batta il suo tempo.




vedi anche RECENSIONE/REPORT live THE BLACK CROWES live @ Alcatraz, Milano, 3 Luglio 2013 




vedi anche RECENSIONE: THE WINERY DOGS-The Winery Dogs (2013)



venerdì 26 luglio 2013

RECENSIONE:THE WINERY DOGS (The Winery Dogs)

THE WINERY DOGS  The Winery Dogs (Loud & Proud Records, 2013)

Supergruppo che va (Black Country Communion), supergruppo che trovi. Quando artisti dal nome importante incrociano gli strumenti tra di loro non sai mai cosa aspettarti. Carriere e background differenti non sempre riescono a confluire in qualcosa di nuovo, esplosivo e coinvolgente, cadendo spesso nel compitino poco supportato dall'ispirazione, senza contare quando ci si mette l'ego di mezzo. Allora sì sono guai, i Black Country Communion ne sanno qualcosa, vero Joe Bonamassa?
La storia del rock è piena di dischi nati quasi morti alla nascita, carichi di enormi aspettative che poche volte hanno mantenuto quel che promettevano e ancor di meno sono riusciti a superare la prova del tempo. Non sembra il caso dei The Winery Dogs che, dopo una prima incarnazione che vedeva la partecipazione di John Sykes (Thin Lizzy, Whitesnake, Blue Murder) ma subito abortita, nascono dall'idea di tre grandi nomi dell'hard/heavy rock degli ultimi venti/trenta anni, nonché tre musicisti di prima grandezza: Mike Portnoy ex batterista dei Dream Theater e di mille altri progetti di cui si è perso anche il conto, uno che senza bacchette in mano non riesce a stare e che qui sembra finalmente umano e passionale, Billy Sheehan bassista monstre di Talas, Niacin e Mr.Big, ma anche di David Lee Roth, Greg Howe e tanti altri, ehm lui veramente è in giro da più di trent'anni, e Richie Kotzen, guitar hero ma musicista in primis che dopo una veloce apparizione nei Poison e Mr.Big dove lasciò il suo segno indelebile come zorro, si è costruito una carriera di tutto rispetto tra le ragnatele del blues, del funk, del southern rock e del soul, coltivando nel migliore dei modi anche la sua vocalità che, oggi come oggi, non ha nulla da invidiare a qualsiasi cantante di mestiere, e arricchendo il tutto con un songwriting-tutte sue le liriche del disco-introspettivo ed efficace. Un talento che trova conferma in due delle migliori tracce del disco, piazzate proprio là, nel finale: The Dying, lento e notturno blues con la voce di Kotzen che si eleva nello splendido falsetto e Regret, caldo soul/gospel puntellato dalle tastiere. Un finale che si raggiunge con piacere visto che l'alchimia fra i tre funziona alla grande durante le 13 canzoni e i sessanta minuti del disco.
Di fronte a tre maestri dello strumento, il pericolo che uscisse qualcosa di estremamente pesante da digerire era dietro l'angolo, ma fortunatamente è stato scansato a favore di un classic rock agile, dinamitardo e ruspante che non si perde mai in mero esibizionismo, preferendo la forma canzone legata alla tradizione come gli umori southern alla Black Crowes di One More Time quanto moderna e melodica come i vorticosi sali e scendi dell' apertura affidata a Elevate, o i tanti caratteri cangianti di The Other Side che parte veloce, sale nello spazio con l'assolo di Kotzen e finisce come un mattone scagliato in piena faccia dall'alto cielo. Ma anche canzoni cariche di groove come We Are One dalla base ritmica forte come un cingolato da guerra e le repentine scale di Kotzen a stupire, e l'hard/funk Desire tanto vicino agli ultimi dischi solisti di Kotzen nel suono-ricordandomi anche i primi dischi degli Extreme-quanto a Glenn Hughes nella voce, con Portnoy che dimostra finalmente di aver anche un cuore caldo e pulsante che le partiture del suo vecchio gruppo in parte sacrificavano a favore della perfezione.
E poi, piace l'estrema varietà delle tracce: si passa dalla melodia pop/soul alla Hall & Oates di Damaged, la raffinatezza di You Saved Me, e I'm No Angel all'oscuro malessere in stile Alice In Chains anni '90 che introduce Time Machine forte del suo vorticoso finale (la canzone è presente nell'edizione USA al posto di Criminal,altro buon brano con Sheehan in cattedra, presente nella versione giapponese), al cadenzato macigno di Six Feet Deeper dove i tre si concedono la meritata passerella con il basso di Sheehan che pare uscire dalle casse per bussare alle mura di casa, la batteria di Portnoy pronta ad abbatterle a colpi di rullante e la chitarra di Kotzen a ricamare per la ricostruzione. Proprio il chitarrista è quello che lascia maggiori tracce di sé lungo tutto il disco che recupera, in molti punti, lo stile dei suoi lavori solisti.
Affiatamento pazzesco che supera ogni più rosea aspettativa. Un power trio con gli attributi e le canzoni; sperando che, visti i buoni risultati, non si debba presto affiancare il loro nome a quei supergruppi che se ne vanno troppo in fretta. Se il supergruppo diventasse band?
Intanto, saranno in Italia il 18 Settembre al Live Club di Trezzo d'Adda (MI). voto: 7,5




vedi anche RECENSIONE/REPORT live RICHIE KOTZEN live @ Rock'n'Roll Arena, Romagnano Sesia (NO), 20 Marzo 2012




vedi anche RECENSIONE/REPORT live THE BLACK CROWES live @ Alcatraz, Milano, 3   Luglio 2013



vedi anche RECENSIONE: TOM KEIFER-The Way Life Goes (2013)




vedi anche RECENSIONE: QUEENS OF THE STONE AGE-...Like Clockwork (2013)





martedì 23 luglio 2013

RECENSIONE:GUY CLARK (My Favorite Picture Of You)

GUY CLARK   My Favorite Picture Of You ( Dualtone, 2013)

Devo ammetterlo, ultimamente pochi dischi mi sono penetrati così a fondo, dopo pochi ascolti, come questo. Dentro c'è una quantità smisurata di umanità (o semplicemente vita, o amore) che riuscirebbe a cambiare la sorte di un buon pezzetto di mondo se solo chi vive beato nel lato opposto a questo sentimento avesse la fortuna di ascoltarlo. Ma so che non sarà così, per cui, noi-e mi riferisco a tutti gli amanti della buona musica-non lasciamocelo sfuggire.
Susanna Clark, la giovane donna raffigurata nella polaroid che il vecchio Guy mostra in primo piano nella copertina del suo nuovo disco, il primo dopo quattro anni di silenzio e dopo il tributo che gli hanno regalato i tanti amici (da Willie Nelson, Joe Ely, Kris Kristofferson, a Steve Earle e Hemmylou Harris) ci ha lasciati a settantatre anni  il 27 Giugno del 2012, sconfitta  da un male incurabile. Susanna e Guy si erano conosciuti nel 1972 e da allora non si erano più separati, lei-a sua volta cantautrice e artista/pittrice-riuscì ad ammorbidire la scorza di uomo duro che avvolgeva Clark, diventando presto la musa ispiratrice, il centro della sua vita (vissuta a Nashville), della musica, del suo mondo, delle sue storie. Ora, ad un anno dalla scomparsa, il settantunenne cantautore texano vuole dividere con tutti noi (sempre noi, quelli di prima) la foto preferita della donna che ha sempre amato, e lo fa con un disco intenso, emozionale, che guarda al passato ma che sa riflettere anche sul presente, sulla clessidra degli anni che inesorabile continua la lenta corsa.
Undici piccole perle acustiche, semplici, austere (compresa Waltzing Fool di Lyle Lovett che accarezza trainata dal mandolino) infilate in fila indiana che sanno cullare come un lento valzer ballato a notte fonda in una dance hall texana, con la voce di Clark doppiata-come in gran parte del disco- da quella femminile di Morgane Stapletone (Cornmeal Waltz), graffiare con parole che descrivono l'amore, quel sentimento sconosciuto, maltrattato, a volte odiato così ben esposto tra le grevi note di un violoncello in Hell Bent On A Heartache, avvolgere con le parole scritte per la moglie Susanna in My Favorite Picture Of You, il toccante e personale saluto che diventa pubblico, canzone che prende forma proprio da quella foto degli anni settanta che nasconde un retroscena inaspettato e curioso: quel freddo giorno, Susanna, con le braccia conserte, era incazzata nera, aveva appena trovato-per l'ennesima volta-suo marito insieme a Townes Van Zandt- il compagno di mille avventure sia di vita che musicali-erano ubriachi e addormentati, e forse il suo limite di sopportazione arrivò al livello massimo. Eppure..." C'è il fuoco nei tuoi occhi/hai il cuore che esce dalla manica/la maledizione sulle labbra/ma tutto quello che vedo è splendido". Se non è amore questo? Quello scatto rubato dice tutto, e chissà cosa avrebbero combinato i due in questi ultimi vent'anni se Van Zandt non fosse scomparso così prematuramente nel 1997.
Clark che invece è ancora qui, solo, è sempre il cantante country "fuorilegge" capace di dipingere quegli intensi quadretti  di vita americana del profondo sud abitati da perdenti in viaggio tra fughe e ritorni, gli stessi che popolavano le canzoni regalate ai tanti amici artisti incontrati lungo la strada o raccolte nei suoi migliori dischi degli anni settanta: il debutto inarrivabile Old No 1(1975), Texas Cookin'(1976) ma anche The South Coast Of Texas (1981), e ce lo dimostra raccontando l'America di frontiera che conosce come le tasche, ormai disegnata indelebilmente sopra alle sue pupille di uomo del sud, l'immigrazione clandestina ai confini con il Messico con i suoi contrabbandieri di manodopera (nella ispanica El Coyote), i reduci di guerra che diventano eroi (Heroes), i paesaggi evocativi durante il vagabondaggio nella splendida Rain In Durango.
La narrazione riflessiva, ironica (Good Advice), i ricordi, il tempo che passa inesorabile portandosi via sempre qualcosa ma lasciando in dono la saggezza (The High Price Of Inspiration), la stupenda autoriflessione della finale I'll Show Me raccontata in punta di strumenti grazie alla band che lo accompagna senza calcare mai la mano: Verlon Thompson e Shawn Camp alle chitarre, e Bryn Davies al basso.
"I kinda see myself as a Young Richard Burton/Readin' Dylan Thomas to some Welsh coquette/Drinkin' whiskey in a Swansea tavern/Me and trouble are a sure fire bet".
Oppure riprendendo la sua vecchia Sis Draper (dall'album Cold Dog Soup-1999), e scrivendone un seguito in The Death Of Sis Draper, scritta ancora insieme a Shawn Camp (anche co-produttore insieme allo stesso Clark e Chris Latham) e ancora fortemente influenzata dalla musica folk celtica.
My Favorite Picture Of You è l'intima pennellata di un songwriter dal passo lento, riflessivo, meticoloso che non ha mai sperperato le sue canzoni o registrato dischi inutili, nato per restare indelebile e far scuola, anche alle nuovissime generazioni di cantautori country/folk americani. Con gli acciacchi dell'età, qualche importante battaglia vinta sulla vita e la voce che si è fatta forse più stanca e segnata (gli spettri delle American Recordings cashiane ogni tanto fanno capolino) ma ancor meglio comunicatrice se incastrata dentro a undici canzoni che ho trovato perfette e già dei piccoli capolavori nella loro semplice, profonda, sofferta comunicatività e forza confessionale.




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domenica 21 luglio 2013

RECENSIONE: I LUF (Mat e Famat)

I LUF   Mat e Famat (PSP, 2013)

Lo spirito totalmente indipendente dei lupi della Valcamonica è sempre più forte e contagioso, degno di rispetto e spero imitabile da tanti altri; in grado di raccogliere, nel tempo, sempre più input anche internazionali e farli loro, perché no, come fanno con il motto di Steve Jobs "Stay hungry stay foolish", piazzandolo come titolo del loro sesto disco in carriera (escludendo raccolte, tributi e live) o come permettersi di chiudere l'album riprendendo pure uno degli ultimi inni-ben riusciti-creati da Springsteen, la contagiosa danza irish American Land, trasportarla nella loro valle di legno, incollarci sopra un nuovo testo in dialetto camuno facendola diventare La al de legn, e nonostante tutto restare fedelissimi alla loro visione musicale che rispecchia il carattere del loro capobanda Dario Canossi, autore di tutti i testi, equamente divisi tra italiano e dialetto camuno. Nei loro dischi c'è sempre il tempo per l'aggregazione goliardica ma c'è anche quello della riflessione, come del resto succede nel corso della vita quotidiana di ognuno di noi, mettendo sempre in primo piano il rispetto per le tradizioni-mai da dimenticare- e le persone, non ultimi i loro fan che possono contare su un trattamento privilegiato grazie al lavoro grafico e di digipack eccezionale, come sempre, che emana sincero amore artigianale, riuscendo a sostituire il fascino-ormai perso-dei vecchi dischi in vinile che spesso erano capolavori di packaging.
Tra questi due estremi americani (Steve Jobs e Bruce Springsteen), tutto il loro colorato universo musicale fatto sia di tanto combat folk da danza sfrenata come l'iniziale Oroloi, l'invito al ballo servito sul piatto d'argento da fisarmonica e cornamusa in Quando La Notte piange con l'ospitata di Cerno dei Vad Duc, la danza country/irish di Trebisonda con il contagioso violino di Alberto Freddi a condurre le danze e la voce ospite del cantautore Daniele Ronda e poi tanto divertimento come avviene nel veloce, ironico e battente viaggio "on the road verso un futuro migliore" di Camionisti; o di quelle canzoni che recuperano sia  vecchie tradizioni legate indissolubilmente al territorio, alla natura, ai costumi popolari (Vecchio Lupo, la "gucciniana" Anche Tu) che alle guerre che hanno segnato i primi cinquant'anni dello scorso secolo ma ancora troppo vivide e patrimonio comune per essere dimenticate troppo in fretta: Barbos Barbel Barbù, veloce folk da campagna che narra di chi, sfuggito alla guerra in modo scaltro, poteva dire "ho finito la guerra prima di cominciarla", e la triste vicenda di chi invece la battaglia l'ha combattuta veramente come i nove partigiani uccisi dai nazifascisti e traditi da una spia a Pontechianale nel 1944 che ha ispirato Giuda della Neve.
Storie anche attuali: il percorso d'acqua del fiume russo Don fa da ponte tra i vecchi alpini italiani che vi trovarono la morte nelle nefaste "campagne di Russia" e i giovani sovietici di oggi che lo affrontano controcorrente in fuga per un brandello di libertà (Lungo la linea del Don), c'è il loro ricordo di Vittorio Arrigoni in Ballata per Vik- la mamma Egidia Beretta ha collaborato alla stesura del testo- dove il suo motto "rimaniamo umani" diventa chorus per l'eternità, in stile MCR.
Con un occhio di riguardo sempre vigile verso il folk, quello up tempo (Mat e Famat) e quello cantato a voce bassa come in Ninna Nanna, per tutti quei bambini che si addormentano con i papà lontani e aspettandone il ritorno.
Mat e Famat  sembra essere il disco della maturità, costruito bilanciando in modo perfetto il lato più "godereccio" e istintivo della loro musica con quello cantautorale, più pensato e riflessivo, memore del buon lavoro fatto in I Luf Cantano Guccini, ma restando assolutamente fedeli ad un approccio primordiale alla musica, costruita ancora con tre ingredienti basilari: gli strumenti tradizionali-banjo, mandolino, ukulele, washboard ( Sergio Pontoriero), batteria (Sammy Radaelli), chitarra acustica (Cesare Comito), basso e contrabbasso (Matteo Luraghi), fisarmonica (Lorenzo Marra), flauto, cornamusa (Pier Zuin)-vere storie e tanta passione. Folk. Una girandola di colori/emozioni che sembra girare seguendo la diversità del corso delle stagioni e se qualcuno può giustamente obiettare che le stagioni non esistono più, invitatelo ad essere matto e affamato con il disco in sottofondo ed il bel libretto in mano, cambierà presto idea.




vedi anche INTERVISTA a LUIGI MAIERON





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vedi anche RECENSIONE: MODENA CITY RAMBLERS- Niente di nuovo sul fronte occidentale (2013)


martedì 16 luglio 2013

RECENSIONE:HOGJAW (If It Ain't Broke...)

HOGJAW  If It Ain't Broke... ( Swampjawbeamusic, 2013)

Non era necessario intitolarci il disco. Il motto "se non è rotto...non cambiarlo" sembra calzare a pennello alla band sudista proveniente dall'Arizona che arriva al quarto disco ad un solo anno di distanza dal precedente Sons Of Western Skies, e nulla sembra essere cambiato nella filosofia della band, portatrice sana di buon southern rock senza steccati di genere, muscoloso e pulsante, capace di scuotere sederi con trascinanti southern boogie (One More Little One, Devil's Eyes) quanto colpire con pesanti fendenti come la veloce e "metallosa" Cold Dead Fingers che pare uscita dalle chitarre dei Metallica periodo Load (recentemente rivalutato, il tempo aiuta). Proprio il ritrovato nerbo, in parte assente nel precedente disco-a modo loro più vario e sperimentale-avvicina queste nuove dieci canzoni più al secondo Ironwood un disco che lasciava poco di intentato forte della sua bruciante commistione tra il vecchio e terroso southern rock (dai classici Lynyrd Skynyrd ai più pesanti Doc Holliday) e le frange più sudiste dello stoner anni novanta (Alabama Thunderpussy, Clutch) e che tutt'ora sembra il loro masterpiece insuperabile.
Gli Hogjaw continuano la carriera in modo totalmente indipendente, suonando fieramente con un unico scopo come mi disse l'anno scorso il bassista di lontane origini italiane  Elvis DD: "queste canzoni non le ascolterai molto spesso in radio, ma ai nostri fans piacciono perchè fanno compiere loro molti viaggi mentali ed è quello che vogliamo fare con la nostra musica; portarli fuori dai loro uffici, dalle loro case, farli viaggiare nelle highways, portarli a pescare, ai party mentre si ubriacono, insomma divertirli." Frasi pronunciate per presentare le canzoni del precedente disco ma che vestono bene sopra a queste nuove, e sicuramente anche a quelle che arriveranno in futuro. "Se non è rotto... non cambiarlo". Tutto chiaro, no? La carovana "on the road" prima di tutto, ed è proprio da lì che nascono le migliori storie di vita da riversare in musica: un grosso pick up sempre pronto e carico, casse di Marshall e alcol, reti e canne da pesca, strade impervie e tanti km da macinare. Il classico gruppo che non vorresti mai incontrare al buio nell'area di sosta di una highway, ma dopo i canonici cinque minuti spesi per la conoscenza, ti ritrovi seduto con loro a dividere cheeseburger e birra.
L' ormai super collaudata formazione, che resiste fin dai tempi delle scuole superiori frequentate a fine anni ottanta, non ha cambiato molto se non essere riuscita a coronare il sogno di girare il mondo con la propria musica, seguitare a sporcarsi le mani con il duro lavoro sopra agli strumenti, e continuare a rilassarsi con la pesca, il loro hobby prediletto. Accanto ai riff squadrati di Built My Prize, alla solidità di '83 condotta dalla possente voce del cantante e chitarrista Jonboat Jones (completano il secondo chitarrista Greg Self e il batterista Kwall, anche  voce in un paio di episodi ),e di The Wolf part I, spiccano la strumentale fluida seconda parte di questa (The Wolf part II) che raggiunge meravigliose vette psichedeliche, la chitarra alla Carlos Santana che illumina di radiosi raggi Shiny Brass, la melodia che si impossessa di Am I Wrong? e la finale ubriacatura di Beer Guzzlin' Merican un nuovo inno da bancone dal coro contagioso e imbevuto di luppolo.
Tra le più vivide realtà del southern rock contemporaneo sempre con un piede nel passato e uno poco più avanti, ma non di molto. Non cambiate mai che nulla si è  ancora rotto.




INTERVISTA:  HOGJAW Marzo 2012





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martedì 9 luglio 2013

RECENSIONE:TOM KEIFER (The Way Life Goes)

TOM KEIFER The Way Life Goes (Merovee Records)


Tom Keifer ha ritrovato la voce. Potrebbe titolare così il quotidiano che da troppi anni è in fase di stampa in attesa del giusto giorno d'uscita. Quel giorno è finalmente arrivato, a dieci anni dall'annuncio che qualcosa bolliva in pentola, a ben diciannove dall'ultimo disco in studio registrato dal cantante con i suoi Cinderella, quel Still Climbing (1994) dimenticato in mezzo al ciclone grunge-ma da riscoprire-che sancì in qualche modo la fine della prima vera parte di carriera del gruppo (un vero scioglimento non c'è mai stato) che continuerà con sporadiche date live/tour, ma che simboleggiò anche la continuazione del triste calvario di Keifer con la sua preziosa ugola, iniziato già qualche anno prima. Non può dirsi totalmente fortunata la carriera dei Cinderella tra i problemi di Keifer e quelli contrattuali con le case discografiche, eppure dopo un debutto (Night Songs-1986) che pagò scotto allo street/hard rock  colorato di glam del periodo (il termine hair metal non si confaceva per nulla nonostante la copertina dicesse il contrario), e da un cordone ombelicale che li voleva ancora legati al loro mentore Jon Bon Jovi, dimostrarono di avere una viscerale carica live sporcata di blues che poche band del movimento dimostrarono di possedere; fin dal successivo Long Cold Winter (1988) riuscirono a trovare la loro strada personale nel rock, lontana dai lustrini che furono fatali a più di una band, grazie all'inserimento massiccio di dosi blues e southern rock che vennero estremizzate nel successivo Heartbreak Station (1990) dove la lezione degli Aerosmith si sposò con la visione musicale totalitaria di Keifer che trova completamente sfogo con l'innesto di radici gospel e country dell'antica America. Ad oggi il mio preferito e dimostrazione che al gruppo sono sempre piaciute più le polverose strade di campagna della loro Pennsylvania rispetto al Sunset blvd Losangelino. Ora Keifer vive a Nashville e non sarà un caso.
The Way Life Goes riprende la storia esattamente dove si era interrotta in quel 1994. Nel frattempo Keifer ha continuato a lottare con una patologia alle corde vocali che non lo ha mai abbandonato definitivamente (ha dovuto reiniziare da zero e ancora oggi è seguito da insegnanti di canto) e portato avanti la stesura di questo disco solista che conferma la sua personalità, tutte le sue innate doti di musicista  con qualche graffio in meno rispetto al passato, qualche leggero colpo di straccio alla produzione-che avrei preferito meno patinata-per stare al passo con i tempi, qualche lento "aerosmith/bonjoviano" di troppo (You Showed Me, A Different Light), ma quando attacca Solid Ground sembra di tornare a quegli anni gloriosi e la sua voce aspra, pur avendo visto più sale operatorie che microfoni negli ultimi vent'anni, rimane quella inconfondibile di sempre, una delle più particolari e riconoscibili uscite dagli anni '80. Accompagnato dal veterano Greg Morrow alla batteria, Michael Rhodes al basso e Tony Harrell alle tastiere, mette in fila tutte le influenze musicali raccolte in quasi due decenni di inattività (ricordo la sua firma in Best Things In Life nel sempre sottovalutato The Last Rebel- 1993 dei Lynyrd Skynyrd), per cui le 14 tracce, estremamente personali e scritte insieme alla moglie Savannah, si presentano etereogenee: naturalmente, è rimasta l'indelebile impronta dei Cinderella nella più possente e rock oriented Mood Elevator, ma anche degli Stones in Cold Day Hell, un rock blues che pare uscito dalla chitarra dell'ultimo Keith Richards di A Bigger Bang e sporcato da armonica e fiati, l'influenza vocale del primo Rod Stewart acustico in The Flower Song, le sue doti pianistiche rimaste intatte nella melodica ballata Thick And Thin , e poi il mansueto country acustico westcoastiano di Ask Me Yesterday, il funk/soul della viziosa e trascinante Ain't That A Bitch, il blues di The Way Life Goes che si trasforma in veemente shuffle/gospel, che riportano gli stivali sopra alle assi di quella vecchia "stazione dei cuori spezzati", ma anche gli episodi più modernamente oscuri come Welcome To My Mind e la finale Babylon lasciano un buon ricordo marchiato di onestà e fedeltà a certi stilemi musicali.
Manca la zampata vincente e definitiva, ma parlare di un disco di Tom Keifer è già notizia rilevante. Oggi, il titolo del giornale non glielo toglie nessuno.



vedi anche RECENSIONE: ROD STEWART-Time (2013) 





vedi anche RECENSIONE: SCORPION CHILD- Scorpion Child (2013)




vedi anche RECENSIONE/REPORT Live THE BLACK CROWES live @ Alcatraz, Milano, 3 Luglio 2013


venerdì 5 luglio 2013

RECENSIONE/REPORT Live THE BLACK CROWES @ Live Alcatraz, Milano, 3 Luglio 2013

Che forza i fratelli Robinson. Figli di papà Stan che li indirizzò subito verso l'olimpo del rock, nipoti della San Francisco psichedelica, compagni del ruspante southern rock '70, amici del vizioso rock'n'roll/blues britannico, conoscenti affidabili dell'avvolgente soul/Motown sound. Quando la musica dei Black Crowes ti porta così bene a spasso nel tempo, come un
treno d'epoca con  tanti vagoni e poche ma radianti fermate, ha raggiunto buona parte dello scopo; per quelli-e mi ci metto-che per dichiarate ragioni anagrafiche non hanno vissuto la fenomenale stagione dei seventies, la band di Atlanta rimane ancora l'unica via principale verso quella memoria: dopo una secca curva a gomito ti riportano indietro verso quelle antiche rotaie ancora lontane dall'arrugginirsi e mai fuori moda. Un mondo quasi parallelo il loro. Nessuno in questi ultimi anni è riuscito a scalzarli dal trono che li innalza a più convincente e credibile band rock in grado di competere con il passato, da loro stessi venerato, amato, sviscerato e poi rielaborato, risultando sempre così suadenti. Non ricordo un loro disco brutto, a me piacciono tutti. Nessun dubbio, il loro rock racchiude, più di qualunque altra band, lo spirito di quelle stagioni segnate tanto da ciò che arrivava dalla Gran Bretagna (Rolling Stones, Free, Faces), quanto dal rock californiano, il southern rock, le jam band (Allman Brothers, Grateful Dead, Little Feat, The Marshall Tucker Band), ma anche le forti sfumature di soul, funky, gospel fino ad arricchirsi con gli anni anche di massicce dosi di country come ben dimostrato dall' ultimo disco di studio Before The Frost...Until The Freeze, ormai lontano quattro anni e registrato nello studio/fienile del compianto Levon Helm. Il loro debutto battezzò gli anni '90 e diede una spinta decisiva alla rinascita del southern rock che sembrava fermo, come un orologio inceppato, sui fantasni dei disastri aerei, il resto ha costruito la reputazione. Per i fratelli Robinson essere paragonati continuamente alle grandi stelle del passato- loro sono i primi a comportarsi da fan- non è mai suonato come una degradante accusa ma sempre come il migliore dei complimenti possibili, e le loro infinite cover ne sono una dimostrazione, tanto che stasera c'è stata l'ulteriore conferma: suonando Medicated Goo dei Traffic, l'acustica bellezza di No Expectations degli Stones durante i bis, quasi a ricordare la scomparsa di Brian Jones (morto proprio il 3 Luglio del 1969) che nell'originale imperversava con la sua slide e quella Hush di Billy Joe Royal ma sdoganata a tutto il mondo dalla versione dei Deep Purple che si è andata ad incastrare alla perfezione con Hard To Handle, primo grande successo della carriera, preso in prestito da Otis Redding ma diventato anche un po' loro.
Il tutto,  raggiungendo quella totale indipendenza all'interno del music business che molti si sognano: libertà, quella che manca a tanti, la loro vera forza. Per i corvacci neri, la musica potrebbe ridursi ad un impianto con strumenti e amplificatori sempre accesi, giorno e notte,  una lunga jam in garage, in sala d'incisione così come sopra al palco, che per questo "Lay Down With Number 13" tour, è addobbato di soli grossi tappeti persiani e incensi accesi, perché bisogna stare comodi come in garage, come in studio, come a casa, e far stare a proprio agio chi, come me, non sopporta più i palchi da mille e una notte. La musica ringrazia. I piedi di Chris Robinson si muovono sopra a quei tappeti con incantevole leggerezza, le braccia sono larghe come un Cristo in croce, le mani impugnano l'armonica durante la sempre splendida Hotel Illness, sono tese al cielo nero (peccato non fosse stellato ma pieno di tubi) per acciuffare e richiamare i migliori spiriti rock'n'roll sulla piazza del passato durante la torrenziale Black Moon Creeping e noi con lui, agitiamo i nostri arti all'unisono.
Li vidi per la prima volta a Monza nel 1999, periodo By Your Side, arrivarono sul palco con vestiti sgargianti con tanto di cappelli e piume-come la copertina di quel disco-, suonarono appena dopo l'esibizione degli Aerosmith all'interno di un festival e loro, che fratelli lo sono sulla carta d'identità, vinsero-ai miei occhi- il duello a distanza con i "gemelli tossici" di Boston; ma li ricordo ancor meglio appena uscì il loro debutto nel 1990, vennero inseriti nel festival metal Monster Of Rock che toccò anche l'Italia, insieme a AC/DC, Metallica e Queensryche. Quasi Otis Redding volesse sfidare i fulmini del Dio Odino. Sono passati tanti anni, look e formazioni-sempre una girandola di tastieristi e chitarristi, l'ultimo entrato è il bravissimo Jackie Greene (ancora in fase di inserimento ma sulla strada più che buona)-sono cambiati i capelli, le barbe si sono allungate, sono comparse le prime rughe ma la sostanza e lo spirito no, quelli sono sempre gli stessi. Molte band e tanti protagonisti di quel Monster Of Rock vivacchiano tenuti in piedi dal nome. Otis Redding sembra più forte di Odino.
Il concerto, inserito all'interno del festival  Dieci Giorni Suonati,  avrebbe dovuto svolgersi al Castello di Vigevano ma è stato dirottato all'interno dell'Alcatraz. Il contorno scenico ( la frizzante aria estiva da festival all'aperto) ne ha sofferto molto, inutile nasconderlo, ma la musica ha lenito tutto, e su questo non avevo dubbi.
Nessun gruppo di supporto e due ore di "trip" giuste giuste come prometteva il manifesto/pubblicità ("oltre DUE ore con la musica dei Black Crowes") che sembrava voler scacciare la delusione e riconquistare la fiducia di chi rimase amareggiato dalla durata del concerto di due anni fa a Vigevano. Quante polemiche per nulla. Due ore tirate ed intense, dalla prima rullata del sempre impeccabile e solidissimo Steve Gorman seguito dal basso instancabile di Sven Pipien durante l'apertura Jealous Again  fino al finale cosmico di Movin On Down The Line.
In mezzo tutto il loro mondo parallelo che ha raggiunto il solstizio estivo a metà concerto quando c'è stata la prima vera esplosione del pubblico (non da sold out però, e se non lo fanno loro chi mai dovrebbe farlo?) durante Soul Singing, poi subito ammutolito e rapito di fronte alla lunga ed ipnotizzante jam durante Wiser Time (da Amorica-1994) durante la quale sono saliti in cattedra il tastierista Adam MacDougall  e i due chitarristi per tre lunghi assoli concatenati: pulito e funambolico quello di Jackie Greene, promosso pur con il difficilissimo compito di arrivare dopo un asso come Luther Dickinson, più sporco Rich Robinson sempre elegante e chioma bionda al vento (artificiale) dei ventilatori. Dopo l'acustica She Talks To Angels con Greene al mandolino, la serata è tutta in discesa per l'infiammato girone finale che promette anche l'orientaleggiante Whoa Mule acustica con Gorman che si guadagna la meritata prima fila al bongo, e l'immancabile Remedy che anticipa gli sfrenati balli finali di Hard To Handle/Hush.
Scaletta sbilanciata, che ha pescato quasi esclusivamente dal passato remoto della loro discografia, dal debutto Shake Your Money Maker (1990) e dal successore Southern Harmony And Musical Companion(1992)- e sono mancati pezzi da novanta come Twice As Hard e Sting Me-lasciando le briciole al resto della discografia. Non è dispiaciuto a nessuno, credo.
Mestiere, magia, calore, intensità, emozioni riversate sopra a quel tappeto calpestato da Chris Robinson, che ad un certo punto sembra prendere il volo...ma atterrare dolcemente proprio sul più bello. Purtroppo tutto è finito e già vedo i manifesti dei prossimi concerti con la scritta: "oltre TRE ore con la musica dei Black Crowes".

SETLIST: Jealous Again/Thick N' Thin/Hotel Illness/Black Moon Creeping/Bad Luck Blue Eyes Goodbye/Medicated Goo/Soul Singing/Wiser Time/She Talks To Angels/Whoa Mule/Thorn In My Pride/Remedy/Hard To Handle-Hush encore No Expectations/Movin On Down The Line