Che forza i fratelli Robinson. Figli di papà Stan che li indirizzò subito verso l'olimpo del rock, nipoti della San Francisco psichedelica, compagni del ruspante southern rock '70, amici del vizioso rock'n'roll/blues britannico, conoscenti affidabili dell'avvolgente soul/Motown sound. Quando la musica dei
Black Crowes ti porta così bene a spasso nel tempo, come un
treno d'epoca con tanti vagoni e poche ma radianti fermate, ha raggiunto buona parte dello scopo; per quelli-e mi ci metto-che per dichiarate ragioni anagrafiche non hanno vissuto la fenomenale stagione dei seventies, la band di Atlanta rimane ancora l'unica via principale verso quella memoria: dopo una secca curva a gomito ti riportano indietro verso quelle antiche rotaie ancora lontane dall'arrugginirsi e mai fuori moda. Un mondo quasi parallelo il loro. Nessuno in questi ultimi anni è riuscito a scalzarli dal trono che li innalza a più convincente e credibile band rock in grado di competere con il passato, da loro stessi venerato, amato, sviscerato e poi rielaborato, risultando sempre così suadenti. Non ricordo un loro disco brutto, a me piacciono tutti. Nessun dubbio, il loro rock racchiude, più di qualunque altra band, lo spirito di quelle stagioni segnate tanto da ciò che arrivava dalla Gran Bretagna (Rolling Stones, Free, Faces), quanto dal rock californiano, il southern rock, le jam band (Allman Brothers, Grateful Dead, Little Feat, The Marshall Tucker Band), ma anche le forti sfumature di soul, funky, gospel fino ad arricchirsi con gli anni anche di massicce dosi di country come ben dimostrato dall' ultimo disco di studio
Before The Frost...Until The Freeze, ormai lontano quattro anni e registrato nello studio/fienile del compianto Levon Helm. Il loro debutto battezzò gli anni '90 e diede una spinta decisiva alla rinascita del southern rock che sembrava fermo, come un orologio inceppato, sui fantasni dei disastri aerei, il resto ha costruito la reputazione. Per i fratelli Robinson essere paragonati continuamente alle grandi stelle del passato- loro sono i primi a comportarsi da fan- non è mai suonato come una degradante accusa ma sempre come il migliore dei complimenti possibili, e le loro infinite cover ne sono una dimostrazione, tanto che stasera c'è stata l'ulteriore conferma: suonando
Medicated Goo dei Traffic, l'acustica bellezza di
No Expectations degli Stones durante i bis, quasi a ricordare la scomparsa di Brian Jones (morto proprio il 3 Luglio del 1969) che nell'originale imperversava con la sua slide e quella
Hush di Billy Joe Royal ma sdoganata a tutto il mondo dalla versione dei Deep Purple che si è andata ad incastrare alla perfezione con
Hard To Handle, primo grande successo della carriera, preso in prestito da Otis Redding ma diventato anche un po' loro.
Il tutto, raggiungendo quella totale indipendenza all'interno del music business che molti si sognano: libertà, quella che manca a tanti, la loro vera forza. Per i
corvacci neri, la musica potrebbe ridursi ad un impianto con strumenti e amplificatori sempre accesi, giorno e notte, una lunga jam in garage, in sala d'incisione così come sopra al palco, che per questo "
Lay Down With Number 13" tour, è addobbato di soli grossi tappeti persiani e incensi accesi, perché bisogna stare comodi come in garage, come in studio, come a casa, e far stare a proprio agio chi, come me, non sopporta più i palchi da mille e una notte. La musica ringrazia. I piedi di
Chris Robinson si muovono sopra a quei tappeti con incantevole leggerezza, le braccia sono larghe come un Cristo in croce, le mani impugnano l'armonica durante la sempre splendida
Hotel Illness, sono tese al cielo nero (peccato non fosse stellato ma pieno di tubi) per acciuffare e richiamare i migliori spiriti rock'n'roll sulla piazza del passato durante la torrenziale
Black Moon Creeping e noi con lui, agitiamo i nostri arti all'unisono.
Li vidi per la prima volta a Monza nel 1999, periodo
By Your Side, arrivarono sul palco con vestiti sgargianti con tanto di cappelli e piume-come la copertina di quel disco-, suonarono appena dopo l'esibizione degli Aerosmith all'interno di un festival e loro, che fratelli lo sono sulla carta d'identità, vinsero-ai miei occhi- il duello a distanza con i "gemelli tossici" di Boston; ma li ricordo ancor meglio appena uscì il loro debutto nel 1990, vennero inseriti nel festival metal Monster Of Rock che toccò anche l'Italia, insieme a AC/DC, Metallica e Queensryche. Quasi Otis Redding volesse sfidare i fulmini del Dio Odino. Sono passati tanti anni, look e formazioni-sempre una girandola di tastieristi e chitarristi, l'ultimo entrato è il bravissimo
Jackie Greene (ancora in fase di inserimento ma sulla strada più che buona)-sono cambiati i capelli, le barbe si sono allungate, sono comparse le prime rughe ma la sostanza e lo spirito no, quelli sono sempre gli stessi. Molte band e tanti protagonisti di quel Monster Of Rock vivacchiano tenuti in piedi dal nome. Otis Redding sembra più forte di Odino.
Il concerto, inserito all'interno del festival Dieci Giorni Suonati, avrebbe dovuto svolgersi al Castello di Vigevano ma è stato dirottato all'interno dell'Alcatraz. Il contorno scenico ( la frizzante aria estiva da festival all'aperto) ne ha sofferto molto, inutile nasconderlo, ma la musica ha lenito tutto, e su questo non avevo dubbi.
Nessun gruppo di supporto e due ore di "trip" giuste giuste come prometteva il manifesto/pubblicità ("
oltre DUE ore con la musica dei Black Crowes") che sembrava voler scacciare la delusione e riconquistare la fiducia di chi rimase amareggiato dalla durata del concerto di due anni fa a Vigevano. Quante polemiche per nulla. Due ore tirate ed intense, dalla prima rullata del sempre impeccabile e solidissimo
Steve Gorman seguito dal basso instancabile di
Sven Pipien durante l'apertura
Jealous Again fino al finale cosmico di
Movin On Down The Line.
In mezzo tutto il loro mondo parallelo che ha raggiunto il solstizio estivo a metà concerto quando c'è stata la prima vera esplosione del pubblico (non da
sold out però, e se non lo fanno loro chi mai dovrebbe farlo?) durante
Soul Singing, poi subito ammutolito e rapito di fronte alla lunga ed ipnotizzante jam durante
Wiser Time (da
Amorica-1994) durante la quale sono saliti in cattedra il tastierista
Adam MacDougall e i due chitarristi per tre lunghi assoli concatenati: pulito e funambolico quello di
Jackie Greene, promosso pur con il difficilissimo compito di arrivare dopo un asso come Luther Dickinson, più sporco
Rich Robinson sempre elegante e chioma bionda al vento (artificiale) dei ventilatori
. Dopo l'acustica
She Talks To Angels con Greene al mandolino, la serata è tutta in discesa per l'infiammato girone finale che promette anche l'orientaleggiante
Whoa Mule acustica con Gorman che si guadagna la meritata prima fila al bongo, e l'immancabile
Remedy che anticipa gli sfrenati balli finali di
Hard To Handle/Hush.
Scaletta sbilanciata, che ha pescato quasi esclusivamente dal passato remoto della loro discografia, dal debutto
Shake Your Money Maker (1990) e dal successore
Southern Harmony And Musical Companion(1992)- e sono mancati pezzi da novanta come
Twice As Hard e
Sting Me-lasciando le briciole al resto della discografia. Non è dispiaciuto a nessuno, credo.
Mestiere, magia, calore, intensità, emozioni riversate sopra a quel tappeto calpestato da Chris Robinson, che ad un certo punto sembra prendere il volo...ma atterrare dolcemente proprio sul più bello. Purtroppo tutto è finito e già vedo i manifesti dei prossimi concerti con la scritta: "
oltre TRE ore con la musica dei Black Crowes".
SETLIST: Jealous Again/Thick N' Thin/Hotel Illness/Black Moon Creeping/Bad Luck Blue Eyes Goodbye/Medicated Goo/Soul Singing/Wiser Time/She Talks To Angels/Whoa Mule/Thorn In My Pride/Remedy/Hard To Handle-Hush encore No Expectations/Movin On Down The Line