I LUF Mat e Famat (PSP, 2013)
Lo spirito totalmente indipendente dei lupi della Valcamonica è sempre più forte e contagioso, degno di rispetto e spero imitabile da tanti altri; in grado di raccogliere, nel tempo, sempre più input anche internazionali e farli loro, perché no, come fanno con il motto di Steve Jobs "Stay hungry stay foolish", piazzandolo come titolo del loro sesto disco in carriera (escludendo raccolte, tributi e live) o come permettersi di chiudere l'album riprendendo pure uno degli ultimi inni-ben riusciti-creati da Springsteen, la contagiosa danza irish American Land, trasportarla nella loro valle di legno, incollarci sopra un nuovo testo in dialetto camuno facendola diventare La al de legn, e nonostante tutto restare fedelissimi alla loro visione musicale che rispecchia il carattere del loro capobanda Dario Canossi, autore di tutti i testi, equamente divisi tra italiano e dialetto camuno. Nei loro dischi c'è sempre il tempo per l'aggregazione goliardica ma c'è anche quello della riflessione, come del resto succede nel corso della vita quotidiana di ognuno di noi, mettendo sempre in primo piano il rispetto per le tradizioni-mai da dimenticare- e le persone, non ultimi i loro fan che possono contare su un trattamento privilegiato grazie al lavoro grafico e di digipack eccezionale, come sempre, che emana sincero amore artigianale, riuscendo a sostituire il fascino-ormai perso-dei vecchi dischi in vinile che spesso erano capolavori di packaging.
Tra questi due estremi americani (Steve Jobs e Bruce Springsteen), tutto il loro colorato universo musicale fatto sia di tanto combat folk da danza sfrenata come l'iniziale Oroloi, l'invito al ballo servito sul piatto d'argento da fisarmonica e cornamusa in Quando La Notte piange con l'ospitata di Cerno dei Vad Duc, la danza country/irish di Trebisonda con il contagioso violino di Alberto Freddi a condurre le danze e la voce ospite del cantautore Daniele Ronda e poi tanto divertimento come avviene nel veloce, ironico e battente viaggio "on the road verso un futuro migliore" di Camionisti; o di quelle canzoni che recuperano sia vecchie tradizioni legate indissolubilmente al territorio, alla natura, ai costumi popolari (Vecchio Lupo, la "gucciniana" Anche Tu) che alle guerre che hanno segnato i primi cinquant'anni dello scorso secolo ma ancora troppo vivide e patrimonio comune per essere dimenticate troppo in fretta: Barbos Barbel Barbù, veloce folk da campagna che narra di chi, sfuggito alla guerra in modo scaltro, poteva dire "ho finito la guerra prima di cominciarla", e la triste vicenda di chi invece la battaglia l'ha combattuta veramente come i nove partigiani uccisi dai nazifascisti e traditi da una spia a Pontechianale nel 1944 che ha ispirato Giuda della Neve.
Storie anche attuali: il percorso d'acqua del fiume russo Don fa da ponte tra i vecchi alpini italiani che vi trovarono la morte nelle nefaste "campagne di Russia" e i giovani sovietici di oggi che lo affrontano controcorrente in fuga per un brandello di libertà (Lungo la linea del Don), c'è il loro ricordo di Vittorio Arrigoni in Ballata per Vik- la mamma Egidia Beretta ha collaborato alla stesura del testo- dove il suo motto "rimaniamo umani" diventa chorus per l'eternità, in stile MCR.
Con un occhio di riguardo sempre vigile verso il folk, quello up tempo (Mat e Famat) e quello cantato a voce bassa come in Ninna Nanna, per tutti quei bambini che si addormentano con i papà lontani e aspettandone il ritorno.
Mat e Famat sembra essere il disco della maturità, costruito bilanciando in modo perfetto il lato più "godereccio" e istintivo della loro musica con quello cantautorale, più pensato e riflessivo, memore del buon lavoro fatto in I Luf Cantano Guccini, ma restando assolutamente fedeli ad un approccio primordiale alla musica, costruita ancora con tre ingredienti basilari: gli strumenti tradizionali-banjo, mandolino, ukulele, washboard ( Sergio Pontoriero), batteria (Sammy Radaelli), chitarra acustica (Cesare Comito), basso e contrabbasso (Matteo Luraghi), fisarmonica (Lorenzo Marra), flauto, cornamusa (Pier Zuin)-vere storie e tanta passione. Folk. Una girandola di colori/emozioni che sembra girare seguendo la diversità del corso delle stagioni e se qualcuno può giustamente obiettare che le stagioni non esistono più, invitatelo ad essere matto e affamato con il disco in sottofondo ed il bel libretto in mano, cambierà presto idea.
vedi anche INTERVISTA a LUIGI MAIERON
vedi anche RECENSIONE: DAVIDE VAN DE SFROOS- Yanez (2011)
vedi anche RECENSIONE: MODENA CITY RAMBLERS- Niente di nuovo sul fronte occidentale (2013)
domenica 21 luglio 2013
martedì 16 luglio 2013
RECENSIONE:HOGJAW (If It Ain't Broke...)
HOGJAW If It Ain't Broke... ( Swampjawbeamusic, 2013)
Non era necessario intitolarci il disco. Il motto "se non è rotto...non cambiarlo" sembra calzare a pennello alla band sudista proveniente dall'Arizona che arriva al quarto disco ad un solo anno di distanza dal precedente Sons Of Western Skies, e nulla sembra essere cambiato nella filosofia della band, portatrice sana di buon southern rock senza steccati di genere, muscoloso e pulsante, capace di scuotere sederi con trascinanti southern boogie (One More Little One, Devil's Eyes) quanto colpire con pesanti fendenti come la veloce e "metallosa" Cold Dead Fingers che pare uscita dalle chitarre dei Metallica periodo Load (recentemente rivalutato, il tempo aiuta). Proprio il ritrovato nerbo, in parte assente nel precedente disco-a modo loro più vario e sperimentale-avvicina queste nuove dieci canzoni più al secondo Ironwood un disco che lasciava poco di intentato forte della sua bruciante commistione tra il vecchio e terroso southern rock (dai classici Lynyrd Skynyrd ai più pesanti Doc Holliday) e le frange più sudiste dello stoner anni novanta (Alabama Thunderpussy, Clutch) e che tutt'ora sembra il loro masterpiece insuperabile.
Gli Hogjaw continuano la carriera in modo totalmente indipendente, suonando fieramente con un unico scopo come mi disse l'anno scorso il bassista di lontane origini italiane Elvis DD: "queste canzoni non le ascolterai molto spesso in radio, ma ai nostri fans piacciono perchè fanno compiere loro molti viaggi mentali ed è quello che vogliamo fare con la nostra musica; portarli fuori dai loro uffici, dalle loro case, farli viaggiare nelle highways, portarli a pescare, ai party mentre si ubriacono, insomma divertirli." Frasi pronunciate per presentare le canzoni del precedente disco ma che vestono bene sopra a queste nuove, e sicuramente anche a quelle che arriveranno in futuro. "Se non è rotto... non cambiarlo". Tutto chiaro, no? La carovana "on the road" prima di tutto, ed è proprio da lì che nascono le migliori storie di vita da riversare in musica: un grosso pick up sempre pronto e carico, casse di Marshall e alcol, reti e canne da pesca, strade impervie e tanti km da macinare. Il classico gruppo che non vorresti mai incontrare al buio nell'area di sosta di una highway, ma dopo i canonici cinque minuti spesi per la conoscenza, ti ritrovi seduto con loro a dividere cheeseburger e birra.
L' ormai super collaudata formazione, che resiste fin dai tempi delle scuole superiori frequentate a fine anni ottanta, non ha cambiato molto se non essere riuscita a coronare il sogno di girare il mondo con la propria musica, seguitare a sporcarsi le mani con il duro lavoro sopra agli strumenti, e continuare a rilassarsi con la pesca, il loro hobby prediletto. Accanto ai riff squadrati di Built My Prize, alla solidità di '83 condotta dalla possente voce del cantante e chitarrista Jonboat Jones (completano il secondo chitarrista Greg Self e il batterista Kwall, anche voce in un paio di episodi ),e di The Wolf part I, spiccano la strumentale fluida seconda parte di questa (The Wolf part II) che raggiunge meravigliose vette psichedeliche, la chitarra alla Carlos Santana che illumina di radiosi raggi Shiny Brass, la melodia che si impossessa di Am I Wrong? e la finale ubriacatura di Beer Guzzlin' Merican un nuovo inno da bancone dal coro contagioso e imbevuto di luppolo.
Tra le più vivide realtà del southern rock contemporaneo sempre con un piede nel passato e uno poco più avanti, ma non di molto. Non cambiate mai che nulla si è ancora rotto.
INTERVISTA: HOGJAW Marzo 2012
vedi anche RECENSIONE: HOGJAW-Sons Of Western Skies (2012)
vedi anche RECENSIONE: SCORPION CHILD-Scorpion Child (2013)
vedi anche RECENSIONE/REPORT live THE BLACK CROWES live@ Alcatraz, Milano 3 Luglio 2013
vedi anche RECENSIONE: QUEENS OF THE STONE AGE-...Like Clockwork (2013)
Non era necessario intitolarci il disco. Il motto "se non è rotto...non cambiarlo" sembra calzare a pennello alla band sudista proveniente dall'Arizona che arriva al quarto disco ad un solo anno di distanza dal precedente Sons Of Western Skies, e nulla sembra essere cambiato nella filosofia della band, portatrice sana di buon southern rock senza steccati di genere, muscoloso e pulsante, capace di scuotere sederi con trascinanti southern boogie (One More Little One, Devil's Eyes) quanto colpire con pesanti fendenti come la veloce e "metallosa" Cold Dead Fingers che pare uscita dalle chitarre dei Metallica periodo Load (recentemente rivalutato, il tempo aiuta). Proprio il ritrovato nerbo, in parte assente nel precedente disco-a modo loro più vario e sperimentale-avvicina queste nuove dieci canzoni più al secondo Ironwood un disco che lasciava poco di intentato forte della sua bruciante commistione tra il vecchio e terroso southern rock (dai classici Lynyrd Skynyrd ai più pesanti Doc Holliday) e le frange più sudiste dello stoner anni novanta (Alabama Thunderpussy, Clutch) e che tutt'ora sembra il loro masterpiece insuperabile.
Gli Hogjaw continuano la carriera in modo totalmente indipendente, suonando fieramente con un unico scopo come mi disse l'anno scorso il bassista di lontane origini italiane Elvis DD: "queste canzoni non le ascolterai molto spesso in radio, ma ai nostri fans piacciono perchè fanno compiere loro molti viaggi mentali ed è quello che vogliamo fare con la nostra musica; portarli fuori dai loro uffici, dalle loro case, farli viaggiare nelle highways, portarli a pescare, ai party mentre si ubriacono, insomma divertirli." Frasi pronunciate per presentare le canzoni del precedente disco ma che vestono bene sopra a queste nuove, e sicuramente anche a quelle che arriveranno in futuro. "Se non è rotto... non cambiarlo". Tutto chiaro, no? La carovana "on the road" prima di tutto, ed è proprio da lì che nascono le migliori storie di vita da riversare in musica: un grosso pick up sempre pronto e carico, casse di Marshall e alcol, reti e canne da pesca, strade impervie e tanti km da macinare. Il classico gruppo che non vorresti mai incontrare al buio nell'area di sosta di una highway, ma dopo i canonici cinque minuti spesi per la conoscenza, ti ritrovi seduto con loro a dividere cheeseburger e birra.
L' ormai super collaudata formazione, che resiste fin dai tempi delle scuole superiori frequentate a fine anni ottanta, non ha cambiato molto se non essere riuscita a coronare il sogno di girare il mondo con la propria musica, seguitare a sporcarsi le mani con il duro lavoro sopra agli strumenti, e continuare a rilassarsi con la pesca, il loro hobby prediletto. Accanto ai riff squadrati di Built My Prize, alla solidità di '83 condotta dalla possente voce del cantante e chitarrista Jonboat Jones (completano il secondo chitarrista Greg Self e il batterista Kwall, anche voce in un paio di episodi ),e di The Wolf part I, spiccano la strumentale fluida seconda parte di questa (The Wolf part II) che raggiunge meravigliose vette psichedeliche, la chitarra alla Carlos Santana che illumina di radiosi raggi Shiny Brass, la melodia che si impossessa di Am I Wrong? e la finale ubriacatura di Beer Guzzlin' Merican un nuovo inno da bancone dal coro contagioso e imbevuto di luppolo.
Tra le più vivide realtà del southern rock contemporaneo sempre con un piede nel passato e uno poco più avanti, ma non di molto. Non cambiate mai che nulla si è ancora rotto.
INTERVISTA: HOGJAW Marzo 2012
vedi anche RECENSIONE: HOGJAW-Sons Of Western Skies (2012)
vedi anche RECENSIONE: SCORPION CHILD-Scorpion Child (2013)
vedi anche RECENSIONE/REPORT live THE BLACK CROWES live@ Alcatraz, Milano 3 Luglio 2013
vedi anche RECENSIONE: QUEENS OF THE STONE AGE-...Like Clockwork (2013)
martedì 9 luglio 2013
RECENSIONE:TOM KEIFER (The Way Life Goes)
TOM KEIFER The Way Life Goes (Merovee Records)
Tom Keifer ha ritrovato la voce. Potrebbe titolare così il quotidiano che da troppi anni è in fase di stampa in attesa del giusto giorno d'uscita. Quel giorno è finalmente arrivato, a dieci anni dall'annuncio che qualcosa bolliva in pentola, a ben diciannove dall'ultimo disco in studio registrato dal cantante con i suoi Cinderella, quel Still Climbing (1994) dimenticato in mezzo al ciclone grunge-ma da riscoprire-che sancì in qualche modo la fine della prima vera parte di carriera del gruppo (un vero scioglimento non c'è mai stato) che continuerà con sporadiche date live/tour, ma che simboleggiò anche la continuazione del triste calvario di Keifer con la sua preziosa ugola, iniziato già qualche anno prima. Non può dirsi totalmente fortunata la carriera dei Cinderella tra i problemi di Keifer e quelli contrattuali con le case discografiche, eppure dopo un debutto (Night Songs-1986) che pagò scotto allo street/hard rock colorato di glam del periodo (il termine hair metal non si confaceva per nulla nonostante la copertina dicesse il contrario), e da un cordone ombelicale che li voleva ancora legati al loro mentore Jon Bon Jovi, dimostrarono di avere una viscerale carica live sporcata di blues che poche band del movimento dimostrarono di possedere; fin dal successivo Long Cold Winter (1988) riuscirono a trovare la loro strada personale nel rock, lontana dai lustrini che furono fatali a più di una band, grazie all'inserimento massiccio di dosi blues e southern rock che vennero estremizzate nel successivo Heartbreak Station (1990) dove la lezione degli Aerosmith si sposò con la visione musicale totalitaria di Keifer che trova completamente sfogo con l'innesto di radici gospel e country dell'antica America. Ad oggi il mio preferito e dimostrazione che al gruppo sono sempre piaciute più le polverose strade di campagna della loro Pennsylvania rispetto al Sunset blvd Losangelino. Ora Keifer vive a Nashville e non sarà un caso.
The Way Life Goes riprende la storia esattamente dove si era interrotta in quel 1994. Nel frattempo Keifer ha continuato a lottare con una patologia alle corde vocali che non lo ha mai abbandonato definitivamente (ha dovuto reiniziare da zero e ancora oggi è seguito da insegnanti di canto) e portato avanti la stesura di questo disco solista che conferma la sua personalità, tutte le sue innate doti di musicista con qualche graffio in meno rispetto al passato, qualche leggero colpo di straccio alla produzione-che avrei preferito meno patinata-per stare al passo con i tempi, qualche lento "aerosmith/bonjoviano" di troppo (You Showed Me, A Different Light), ma quando attacca Solid Ground sembra di tornare a quegli anni gloriosi e la sua voce aspra, pur avendo visto più sale operatorie che microfoni negli ultimi vent'anni, rimane quella inconfondibile di sempre, una delle più particolari e riconoscibili uscite dagli anni '80. Accompagnato dal veterano Greg Morrow alla batteria, Michael Rhodes al basso e Tony Harrell alle tastiere, mette in fila tutte le influenze musicali raccolte in quasi due decenni di inattività (ricordo la sua firma in Best Things In Life nel sempre sottovalutato The Last Rebel- 1993 dei Lynyrd Skynyrd), per cui le 14 tracce, estremamente personali e scritte insieme alla moglie Savannah, si presentano etereogenee: naturalmente, è rimasta l'indelebile impronta dei Cinderella nella più possente e rock oriented Mood Elevator, ma anche degli Stones in Cold Day Hell, un rock blues che pare uscito dalla chitarra dell'ultimo Keith Richards di A Bigger Bang e sporcato da armonica e fiati, l'influenza vocale del primo Rod Stewart acustico in The Flower Song, le sue doti pianistiche rimaste intatte nella melodica ballata Thick And Thin , e poi il mansueto country acustico westcoastiano di Ask Me Yesterday, il funk/soul della viziosa e trascinante Ain't That A Bitch, il blues di The Way Life Goes che si trasforma in veemente shuffle/gospel, che riportano gli stivali sopra alle assi di quella vecchia "stazione dei cuori spezzati", ma anche gli episodi più modernamente oscuri come Welcome To My Mind e la finale Babylon lasciano un buon ricordo marchiato di onestà e fedeltà a certi stilemi musicali.
Manca la zampata vincente e definitiva, ma parlare di un disco di Tom Keifer è già notizia rilevante. Oggi, il titolo del giornale non glielo toglie nessuno.
vedi anche RECENSIONE: ROD STEWART-Time (2013)
vedi anche RECENSIONE: SCORPION CHILD- Scorpion Child (2013)
vedi anche RECENSIONE/REPORT Live THE BLACK CROWES live @ Alcatraz, Milano, 3 Luglio 2013
Tom Keifer ha ritrovato la voce. Potrebbe titolare così il quotidiano che da troppi anni è in fase di stampa in attesa del giusto giorno d'uscita. Quel giorno è finalmente arrivato, a dieci anni dall'annuncio che qualcosa bolliva in pentola, a ben diciannove dall'ultimo disco in studio registrato dal cantante con i suoi Cinderella, quel Still Climbing (1994) dimenticato in mezzo al ciclone grunge-ma da riscoprire-che sancì in qualche modo la fine della prima vera parte di carriera del gruppo (un vero scioglimento non c'è mai stato) che continuerà con sporadiche date live/tour, ma che simboleggiò anche la continuazione del triste calvario di Keifer con la sua preziosa ugola, iniziato già qualche anno prima. Non può dirsi totalmente fortunata la carriera dei Cinderella tra i problemi di Keifer e quelli contrattuali con le case discografiche, eppure dopo un debutto (Night Songs-1986) che pagò scotto allo street/hard rock colorato di glam del periodo (il termine hair metal non si confaceva per nulla nonostante la copertina dicesse il contrario), e da un cordone ombelicale che li voleva ancora legati al loro mentore Jon Bon Jovi, dimostrarono di avere una viscerale carica live sporcata di blues che poche band del movimento dimostrarono di possedere; fin dal successivo Long Cold Winter (1988) riuscirono a trovare la loro strada personale nel rock, lontana dai lustrini che furono fatali a più di una band, grazie all'inserimento massiccio di dosi blues e southern rock che vennero estremizzate nel successivo Heartbreak Station (1990) dove la lezione degli Aerosmith si sposò con la visione musicale totalitaria di Keifer che trova completamente sfogo con l'innesto di radici gospel e country dell'antica America. Ad oggi il mio preferito e dimostrazione che al gruppo sono sempre piaciute più le polverose strade di campagna della loro Pennsylvania rispetto al Sunset blvd Losangelino. Ora Keifer vive a Nashville e non sarà un caso.
The Way Life Goes riprende la storia esattamente dove si era interrotta in quel 1994. Nel frattempo Keifer ha continuato a lottare con una patologia alle corde vocali che non lo ha mai abbandonato definitivamente (ha dovuto reiniziare da zero e ancora oggi è seguito da insegnanti di canto) e portato avanti la stesura di questo disco solista che conferma la sua personalità, tutte le sue innate doti di musicista con qualche graffio in meno rispetto al passato, qualche leggero colpo di straccio alla produzione-che avrei preferito meno patinata-per stare al passo con i tempi, qualche lento "aerosmith/bonjoviano" di troppo (You Showed Me, A Different Light), ma quando attacca Solid Ground sembra di tornare a quegli anni gloriosi e la sua voce aspra, pur avendo visto più sale operatorie che microfoni negli ultimi vent'anni, rimane quella inconfondibile di sempre, una delle più particolari e riconoscibili uscite dagli anni '80. Accompagnato dal veterano Greg Morrow alla batteria, Michael Rhodes al basso e Tony Harrell alle tastiere, mette in fila tutte le influenze musicali raccolte in quasi due decenni di inattività (ricordo la sua firma in Best Things In Life nel sempre sottovalutato The Last Rebel- 1993 dei Lynyrd Skynyrd), per cui le 14 tracce, estremamente personali e scritte insieme alla moglie Savannah, si presentano etereogenee: naturalmente, è rimasta l'indelebile impronta dei Cinderella nella più possente e rock oriented Mood Elevator, ma anche degli Stones in Cold Day Hell, un rock blues che pare uscito dalla chitarra dell'ultimo Keith Richards di A Bigger Bang e sporcato da armonica e fiati, l'influenza vocale del primo Rod Stewart acustico in The Flower Song, le sue doti pianistiche rimaste intatte nella melodica ballata Thick And Thin , e poi il mansueto country acustico westcoastiano di Ask Me Yesterday, il funk/soul della viziosa e trascinante Ain't That A Bitch, il blues di The Way Life Goes che si trasforma in veemente shuffle/gospel, che riportano gli stivali sopra alle assi di quella vecchia "stazione dei cuori spezzati", ma anche gli episodi più modernamente oscuri come Welcome To My Mind e la finale Babylon lasciano un buon ricordo marchiato di onestà e fedeltà a certi stilemi musicali.
Manca la zampata vincente e definitiva, ma parlare di un disco di Tom Keifer è già notizia rilevante. Oggi, il titolo del giornale non glielo toglie nessuno.
vedi anche RECENSIONE: ROD STEWART-Time (2013)
vedi anche RECENSIONE: SCORPION CHILD- Scorpion Child (2013)
vedi anche RECENSIONE/REPORT Live THE BLACK CROWES live @ Alcatraz, Milano, 3 Luglio 2013
venerdì 5 luglio 2013
RECENSIONE/REPORT Live THE BLACK CROWES @ Live Alcatraz, Milano, 3 Luglio 2013
Che forza i fratelli Robinson. Figli di papà Stan che li indirizzò subito verso l'olimpo del rock, nipoti della San Francisco psichedelica, compagni del ruspante southern rock '70, amici del vizioso rock'n'roll/blues britannico, conoscenti affidabili dell'avvolgente soul/Motown sound. Quando la musica dei Black Crowes ti porta così bene a spasso nel tempo, come un
treno d'epoca con tanti vagoni e poche ma radianti fermate, ha raggiunto buona parte dello scopo; per quelli-e mi ci metto-che per dichiarate ragioni anagrafiche non hanno vissuto la fenomenale stagione dei seventies, la band di Atlanta rimane ancora l'unica via principale verso quella memoria: dopo una secca curva a gomito ti riportano indietro verso quelle antiche rotaie ancora lontane dall'arrugginirsi e mai fuori moda. Un mondo quasi parallelo il loro. Nessuno in questi ultimi anni è riuscito a scalzarli dal trono che li innalza a più convincente e credibile band rock in grado di competere con il passato, da loro stessi venerato, amato, sviscerato e poi rielaborato, risultando sempre così suadenti. Non ricordo un loro disco brutto, a me piacciono tutti. Nessun dubbio, il loro rock racchiude, più di qualunque altra band, lo spirito di quelle stagioni segnate tanto da ciò che arrivava dalla Gran Bretagna (Rolling Stones, Free, Faces), quanto dal rock californiano, il southern rock, le jam band (Allman Brothers, Grateful Dead, Little Feat, The Marshall Tucker Band), ma anche le forti sfumature di soul, funky, gospel fino ad arricchirsi con gli anni anche di massicce dosi di country come ben dimostrato dall' ultimo disco di studio Before The Frost...Until The Freeze, ormai lontano quattro anni e registrato nello studio/fienile del compianto Levon Helm. Il loro debutto battezzò gli anni '90 e diede una spinta decisiva alla rinascita del southern rock che sembrava fermo, come un orologio inceppato, sui fantasni dei disastri aerei, il resto ha costruito la reputazione. Per i fratelli Robinson essere paragonati continuamente alle grandi stelle del passato- loro sono i primi a comportarsi da fan- non è mai suonato come una degradante accusa ma sempre come il migliore dei complimenti possibili, e le loro infinite cover ne sono una dimostrazione, tanto che stasera c'è stata l'ulteriore conferma: suonando Medicated Goo dei Traffic, l'acustica bellezza di No Expectations degli Stones durante i bis, quasi a ricordare la scomparsa di Brian Jones (morto proprio il 3 Luglio del 1969) che nell'originale imperversava con la sua slide e quella Hush di Billy Joe Royal ma sdoganata a tutto il mondo dalla versione dei Deep Purple che si è andata ad incastrare alla perfezione con Hard To Handle, primo grande successo della carriera, preso in prestito da Otis Redding ma diventato anche un po' loro.
Il tutto, raggiungendo quella totale indipendenza all'interno del music business che molti si sognano: libertà, quella che manca a tanti, la loro vera forza. Per i corvacci neri, la musica potrebbe ridursi ad un impianto con strumenti e amplificatori sempre accesi, giorno e notte, una lunga jam in garage, in sala d'incisione così come sopra al palco, che per questo "Lay Down With Number 13" tour, è addobbato di soli grossi tappeti persiani e incensi accesi, perché bisogna stare comodi come in garage, come in studio, come a casa, e far stare a proprio agio chi, come me, non sopporta più i palchi da mille e una notte. La musica ringrazia. I piedi di Chris Robinson si muovono sopra a quei tappeti con incantevole leggerezza, le braccia sono larghe come un Cristo in croce, le mani impugnano l'armonica durante la sempre splendida Hotel Illness, sono tese al cielo nero (peccato non fosse stellato ma pieno di tubi) per acciuffare e richiamare i migliori spiriti rock'n'roll sulla piazza del passato durante la torrenziale Black Moon Creeping e noi con lui, agitiamo i nostri arti all'unisono.
Li vidi per la prima volta a Monza nel 1999, periodo By Your Side, arrivarono sul palco con vestiti sgargianti con tanto di cappelli e piume-come la copertina di quel disco-, suonarono appena dopo l'esibizione degli Aerosmith all'interno di un festival e loro, che fratelli lo sono sulla carta d'identità, vinsero-ai miei occhi- il duello a distanza con i "gemelli tossici" di Boston; ma li ricordo ancor meglio appena uscì il loro debutto nel 1990, vennero inseriti nel festival metal Monster Of Rock che toccò anche l'Italia, insieme a AC/DC, Metallica e Queensryche. Quasi Otis Redding volesse sfidare i fulmini del Dio Odino. Sono passati tanti anni, look e formazioni-sempre una girandola di tastieristi e chitarristi, l'ultimo entrato è il bravissimo Jackie Greene (ancora in fase di inserimento ma sulla strada più che buona)-sono cambiati i capelli, le barbe si sono allungate, sono comparse le prime rughe ma la sostanza e lo spirito no, quelli sono sempre gli stessi. Molte band e tanti protagonisti di quel Monster Of Rock vivacchiano tenuti in piedi dal nome. Otis Redding sembra più forte di Odino.
Il concerto, inserito all'interno del festival Dieci Giorni Suonati, avrebbe dovuto svolgersi al Castello di Vigevano ma è stato dirottato all'interno dell'Alcatraz. Il contorno scenico ( la frizzante aria estiva da festival all'aperto) ne ha sofferto molto, inutile nasconderlo, ma la musica ha lenito tutto, e su questo non avevo dubbi.
Nessun gruppo di supporto e due ore di "trip" giuste giuste come prometteva il manifesto/pubblicità ("oltre DUE ore con la musica dei Black Crowes") che sembrava voler scacciare la delusione e riconquistare la fiducia di chi rimase amareggiato dalla durata del concerto di due anni fa a Vigevano. Quante polemiche per nulla. Due ore tirate ed intense, dalla prima rullata del sempre impeccabile e solidissimo Steve Gorman seguito dal basso instancabile di Sven Pipien durante l'apertura Jealous Again fino al finale cosmico di Movin On Down The Line.
In mezzo tutto il loro mondo parallelo che ha raggiunto il solstizio estivo a metà concerto quando c'è stata la prima vera esplosione del pubblico (non da sold out però, e se non lo fanno loro chi mai dovrebbe farlo?) durante Soul Singing, poi subito ammutolito e rapito di fronte alla lunga ed ipnotizzante jam durante Wiser Time (da Amorica-1994) durante la quale sono saliti in cattedra il tastierista Adam MacDougall e i due chitarristi per tre lunghi assoli concatenati: pulito e funambolico quello di Jackie Greene, promosso pur con il difficilissimo compito di arrivare dopo un asso come Luther Dickinson, più sporco Rich Robinson sempre elegante e chioma bionda al vento (artificiale) dei ventilatori. Dopo l'acustica She Talks To Angels con Greene al mandolino, la serata è tutta in discesa per l'infiammato girone finale che promette anche l'orientaleggiante Whoa Mule acustica con Gorman che si guadagna la meritata prima fila al bongo, e l'immancabile Remedy che anticipa gli sfrenati balli finali di Hard To Handle/Hush.
Scaletta sbilanciata, che ha pescato quasi esclusivamente dal passato remoto della loro discografia, dal debutto Shake Your Money Maker (1990) e dal successore Southern Harmony And Musical Companion(1992)- e sono mancati pezzi da novanta come Twice As Hard e Sting Me-lasciando le briciole al resto della discografia. Non è dispiaciuto a nessuno, credo.
Mestiere, magia, calore, intensità, emozioni riversate sopra a quel tappeto calpestato da Chris Robinson, che ad un certo punto sembra prendere il volo...ma atterrare dolcemente proprio sul più bello. Purtroppo tutto è finito e già vedo i manifesti dei prossimi concerti con la scritta: "oltre TRE ore con la musica dei Black Crowes".
SETLIST: Jealous Again/Thick N' Thin/Hotel Illness/Black Moon Creeping/Bad Luck Blue Eyes Goodbye/Medicated Goo/Soul Singing/Wiser Time/She Talks To Angels/Whoa Mule/Thorn In My Pride/Remedy/Hard To Handle-Hush encore No Expectations/Movin On Down The Line
treno d'epoca con tanti vagoni e poche ma radianti fermate, ha raggiunto buona parte dello scopo; per quelli-e mi ci metto-che per dichiarate ragioni anagrafiche non hanno vissuto la fenomenale stagione dei seventies, la band di Atlanta rimane ancora l'unica via principale verso quella memoria: dopo una secca curva a gomito ti riportano indietro verso quelle antiche rotaie ancora lontane dall'arrugginirsi e mai fuori moda. Un mondo quasi parallelo il loro. Nessuno in questi ultimi anni è riuscito a scalzarli dal trono che li innalza a più convincente e credibile band rock in grado di competere con il passato, da loro stessi venerato, amato, sviscerato e poi rielaborato, risultando sempre così suadenti. Non ricordo un loro disco brutto, a me piacciono tutti. Nessun dubbio, il loro rock racchiude, più di qualunque altra band, lo spirito di quelle stagioni segnate tanto da ciò che arrivava dalla Gran Bretagna (Rolling Stones, Free, Faces), quanto dal rock californiano, il southern rock, le jam band (Allman Brothers, Grateful Dead, Little Feat, The Marshall Tucker Band), ma anche le forti sfumature di soul, funky, gospel fino ad arricchirsi con gli anni anche di massicce dosi di country come ben dimostrato dall' ultimo disco di studio Before The Frost...Until The Freeze, ormai lontano quattro anni e registrato nello studio/fienile del compianto Levon Helm. Il loro debutto battezzò gli anni '90 e diede una spinta decisiva alla rinascita del southern rock che sembrava fermo, come un orologio inceppato, sui fantasni dei disastri aerei, il resto ha costruito la reputazione. Per i fratelli Robinson essere paragonati continuamente alle grandi stelle del passato- loro sono i primi a comportarsi da fan- non è mai suonato come una degradante accusa ma sempre come il migliore dei complimenti possibili, e le loro infinite cover ne sono una dimostrazione, tanto che stasera c'è stata l'ulteriore conferma: suonando Medicated Goo dei Traffic, l'acustica bellezza di No Expectations degli Stones durante i bis, quasi a ricordare la scomparsa di Brian Jones (morto proprio il 3 Luglio del 1969) che nell'originale imperversava con la sua slide e quella Hush di Billy Joe Royal ma sdoganata a tutto il mondo dalla versione dei Deep Purple che si è andata ad incastrare alla perfezione con Hard To Handle, primo grande successo della carriera, preso in prestito da Otis Redding ma diventato anche un po' loro.
Il tutto, raggiungendo quella totale indipendenza all'interno del music business che molti si sognano: libertà, quella che manca a tanti, la loro vera forza. Per i corvacci neri, la musica potrebbe ridursi ad un impianto con strumenti e amplificatori sempre accesi, giorno e notte, una lunga jam in garage, in sala d'incisione così come sopra al palco, che per questo "Lay Down With Number 13" tour, è addobbato di soli grossi tappeti persiani e incensi accesi, perché bisogna stare comodi come in garage, come in studio, come a casa, e far stare a proprio agio chi, come me, non sopporta più i palchi da mille e una notte. La musica ringrazia. I piedi di Chris Robinson si muovono sopra a quei tappeti con incantevole leggerezza, le braccia sono larghe come un Cristo in croce, le mani impugnano l'armonica durante la sempre splendida Hotel Illness, sono tese al cielo nero (peccato non fosse stellato ma pieno di tubi) per acciuffare e richiamare i migliori spiriti rock'n'roll sulla piazza del passato durante la torrenziale Black Moon Creeping e noi con lui, agitiamo i nostri arti all'unisono.
Li vidi per la prima volta a Monza nel 1999, periodo By Your Side, arrivarono sul palco con vestiti sgargianti con tanto di cappelli e piume-come la copertina di quel disco-, suonarono appena dopo l'esibizione degli Aerosmith all'interno di un festival e loro, che fratelli lo sono sulla carta d'identità, vinsero-ai miei occhi- il duello a distanza con i "gemelli tossici" di Boston; ma li ricordo ancor meglio appena uscì il loro debutto nel 1990, vennero inseriti nel festival metal Monster Of Rock che toccò anche l'Italia, insieme a AC/DC, Metallica e Queensryche. Quasi Otis Redding volesse sfidare i fulmini del Dio Odino. Sono passati tanti anni, look e formazioni-sempre una girandola di tastieristi e chitarristi, l'ultimo entrato è il bravissimo Jackie Greene (ancora in fase di inserimento ma sulla strada più che buona)-sono cambiati i capelli, le barbe si sono allungate, sono comparse le prime rughe ma la sostanza e lo spirito no, quelli sono sempre gli stessi. Molte band e tanti protagonisti di quel Monster Of Rock vivacchiano tenuti in piedi dal nome. Otis Redding sembra più forte di Odino.
Il concerto, inserito all'interno del festival Dieci Giorni Suonati, avrebbe dovuto svolgersi al Castello di Vigevano ma è stato dirottato all'interno dell'Alcatraz. Il contorno scenico ( la frizzante aria estiva da festival all'aperto) ne ha sofferto molto, inutile nasconderlo, ma la musica ha lenito tutto, e su questo non avevo dubbi.
Nessun gruppo di supporto e due ore di "trip" giuste giuste come prometteva il manifesto/pubblicità ("oltre DUE ore con la musica dei Black Crowes") che sembrava voler scacciare la delusione e riconquistare la fiducia di chi rimase amareggiato dalla durata del concerto di due anni fa a Vigevano. Quante polemiche per nulla. Due ore tirate ed intense, dalla prima rullata del sempre impeccabile e solidissimo Steve Gorman seguito dal basso instancabile di Sven Pipien durante l'apertura Jealous Again fino al finale cosmico di Movin On Down The Line.
In mezzo tutto il loro mondo parallelo che ha raggiunto il solstizio estivo a metà concerto quando c'è stata la prima vera esplosione del pubblico (non da sold out però, e se non lo fanno loro chi mai dovrebbe farlo?) durante Soul Singing, poi subito ammutolito e rapito di fronte alla lunga ed ipnotizzante jam durante Wiser Time (da Amorica-1994) durante la quale sono saliti in cattedra il tastierista Adam MacDougall e i due chitarristi per tre lunghi assoli concatenati: pulito e funambolico quello di Jackie Greene, promosso pur con il difficilissimo compito di arrivare dopo un asso come Luther Dickinson, più sporco Rich Robinson sempre elegante e chioma bionda al vento (artificiale) dei ventilatori. Dopo l'acustica She Talks To Angels con Greene al mandolino, la serata è tutta in discesa per l'infiammato girone finale che promette anche l'orientaleggiante Whoa Mule acustica con Gorman che si guadagna la meritata prima fila al bongo, e l'immancabile Remedy che anticipa gli sfrenati balli finali di Hard To Handle/Hush.
Scaletta sbilanciata, che ha pescato quasi esclusivamente dal passato remoto della loro discografia, dal debutto Shake Your Money Maker (1990) e dal successore Southern Harmony And Musical Companion(1992)- e sono mancati pezzi da novanta come Twice As Hard e Sting Me-lasciando le briciole al resto della discografia. Non è dispiaciuto a nessuno, credo.
Mestiere, magia, calore, intensità, emozioni riversate sopra a quel tappeto calpestato da Chris Robinson, che ad un certo punto sembra prendere il volo...ma atterrare dolcemente proprio sul più bello. Purtroppo tutto è finito e già vedo i manifesti dei prossimi concerti con la scritta: "oltre TRE ore con la musica dei Black Crowes".
SETLIST: Jealous Again/Thick N' Thin/Hotel Illness/Black Moon Creeping/Bad Luck Blue Eyes Goodbye/Medicated Goo/Soul Singing/Wiser Time/She Talks To Angels/Whoa Mule/Thorn In My Pride/Remedy/Hard To Handle-Hush encore No Expectations/Movin On Down The Line
martedì 2 luglio 2013
RECENSIONE:SCORPION CHILD (Scorpion Child)
SCORPION CHILD Scorpion Child (Nuclear Blast, 2013)
Avete due possibilità: o scartate con snobismo tutta la nuova ondata di revival hard/rock che le etichette discografiche (in questo caso la Nuclear Blast) cercano di accaparrarsi a gomitate con il piacevole rischio di pescare anche brillanti diamanti in mezzo a tanto concime (vedi Rival Sons) e quindi continuate indefessi e sicuri a tirar fuori dalle buste ingiallite dal tempo i vostri vecchi vinili di Led Zeppelin, Uriah Heep e Humble Pie; oppure decidete di sporcarvi le mani, setacciare il sudiciume e cercare sul fondo ciò che brilla di più. Io consiglio sempre la seconda ipotesi, spinto da patologica curiosità, con i tempi e i mezzi alleati che consentono di farlo senza dispendio di troppe energie economiche e temporali. A brillare, questa volta, sono i texani-di Austin-Scorpion Child che con il loro debutto piazzano un disco costruito sulla solida e pur derivativa impalcatura "vintage" fatta di alberi di puro legno massello invecchiato di almeno quarant'anni, su cui riesce il miracolo di far crescere erba fresca, verde e appetibile, diversamente da tante altre band contemporanee votate allo scimmiottamento senza arte né parte, i texani hanno la pregevole capacità di far confluire tutte le loro influenze in un suono che cercano di rendere il più possibile personale e fantasioso come si può rintracciare ascoltando Polygon Of Eyes, un caterpillar che unisce velocità figlia di certi episodi alla Rainbow "assassini dei re", della prima ondata NWOBHM (Iron Maiden, Judas Priest), la pesantezza hard/blues di Blue Cheer, Black Sabbath con le chitarre intrecciate di Christopher Jay Cowart e Tom Frank a mulinare minacciose, la voce di Aryn Jonathan Black che svetta su tutto, ed una registrazione ad hoc come deve essere nell'anno 2013, costruita su misura dal produttore Chris Frenchie Smith. L'importanza di una sezione ritmica presente e galoppante (Shaun Diettrick Avants al basso, Shawn Paul Alvear alla batteria), quella che esce dalla diretta, pesante e dai fumi quasi stoner Paradigm forte di un chorus da arena che ti si appiccica sulla pelle come indelebile tattoo, nel rock'n'roll senza fronzoli di In The Arms Ecstasy, nella epica andatura sorretta da un potente riff e un altro micidiale chorus in The Secret Spot, nell'attacco zeppeliniano dell'opener Kings Highway che marcia compatta fin da subito e ci introduce al disco.
Ma anche una visione più psichedelica e illuminante della musica, quella che smorza a metà canzone l'oscurità di Salvation Slave, facendo crescere lisergiche visioni, le stesse che accecano la luminosa ballata Antioch e la melodica, viziosa seppur intrisa di drammaticità Liquor.
Con quei passaggi acustici ad interrompere il flusso elettrico, ereditati dai maestri Led Zeppelin che il cantante spiega così "gli Zeppelin erano molto innovativi e non avevano paura di andare fuori dagli usuali confini del blues elettrico..." e che l'ultima Red Blood (The River Flows) sintetizza e innalza molto bene prima di lasciare il posto ad una lost track "lo-fi" con sola voce, echo, e chitarra che pare registrata in camera d'albergo e salvata in un registratore d'emergenza.
Disco immediato e possente: 9 canzoni che si lasciano bere tutte d'un fiato, lasciando piacevoli postumi post sbornia e sudore sul pavimento, con la consapevolezza che il seguito potrebbe riservare buone e migliori sorprese, proprio come fatto dai Rival Sons con il loro secondo Head Down. Da seguire con molta curiosità.
vedi anche RECENSIONE:THE ANSWER-Revival (2011)
vedi anche RECENSIONE: RIVAL SONS-Head Down (2012)
vedi anche RECENSIONE: WOLF PEOPLE-Fain (2013)
vedi anche RECENSIONE: BLACK SABBATH-13 (2013)
vedi anche RECENSIONE: STATUS QUO-Bula Quo! (2013)
vedi anche RECENSIONE: TOM KEIFER-The Way Life Goes (2013)
Avete due possibilità: o scartate con snobismo tutta la nuova ondata di revival hard/rock che le etichette discografiche (in questo caso la Nuclear Blast) cercano di accaparrarsi a gomitate con il piacevole rischio di pescare anche brillanti diamanti in mezzo a tanto concime (vedi Rival Sons) e quindi continuate indefessi e sicuri a tirar fuori dalle buste ingiallite dal tempo i vostri vecchi vinili di Led Zeppelin, Uriah Heep e Humble Pie; oppure decidete di sporcarvi le mani, setacciare il sudiciume e cercare sul fondo ciò che brilla di più. Io consiglio sempre la seconda ipotesi, spinto da patologica curiosità, con i tempi e i mezzi alleati che consentono di farlo senza dispendio di troppe energie economiche e temporali. A brillare, questa volta, sono i texani-di Austin-Scorpion Child che con il loro debutto piazzano un disco costruito sulla solida e pur derivativa impalcatura "vintage" fatta di alberi di puro legno massello invecchiato di almeno quarant'anni, su cui riesce il miracolo di far crescere erba fresca, verde e appetibile, diversamente da tante altre band contemporanee votate allo scimmiottamento senza arte né parte, i texani hanno la pregevole capacità di far confluire tutte le loro influenze in un suono che cercano di rendere il più possibile personale e fantasioso come si può rintracciare ascoltando Polygon Of Eyes, un caterpillar che unisce velocità figlia di certi episodi alla Rainbow "assassini dei re", della prima ondata NWOBHM (Iron Maiden, Judas Priest), la pesantezza hard/blues di Blue Cheer, Black Sabbath con le chitarre intrecciate di Christopher Jay Cowart e Tom Frank a mulinare minacciose, la voce di Aryn Jonathan Black che svetta su tutto, ed una registrazione ad hoc come deve essere nell'anno 2013, costruita su misura dal produttore Chris Frenchie Smith. L'importanza di una sezione ritmica presente e galoppante (Shaun Diettrick Avants al basso, Shawn Paul Alvear alla batteria), quella che esce dalla diretta, pesante e dai fumi quasi stoner Paradigm forte di un chorus da arena che ti si appiccica sulla pelle come indelebile tattoo, nel rock'n'roll senza fronzoli di In The Arms Ecstasy, nella epica andatura sorretta da un potente riff e un altro micidiale chorus in The Secret Spot, nell'attacco zeppeliniano dell'opener Kings Highway che marcia compatta fin da subito e ci introduce al disco.
Ma anche una visione più psichedelica e illuminante della musica, quella che smorza a metà canzone l'oscurità di Salvation Slave, facendo crescere lisergiche visioni, le stesse che accecano la luminosa ballata Antioch e la melodica, viziosa seppur intrisa di drammaticità Liquor.
Con quei passaggi acustici ad interrompere il flusso elettrico, ereditati dai maestri Led Zeppelin che il cantante spiega così "gli Zeppelin erano molto innovativi e non avevano paura di andare fuori dagli usuali confini del blues elettrico..." e che l'ultima Red Blood (The River Flows) sintetizza e innalza molto bene prima di lasciare il posto ad una lost track "lo-fi" con sola voce, echo, e chitarra che pare registrata in camera d'albergo e salvata in un registratore d'emergenza.
Disco immediato e possente: 9 canzoni che si lasciano bere tutte d'un fiato, lasciando piacevoli postumi post sbornia e sudore sul pavimento, con la consapevolezza che il seguito potrebbe riservare buone e migliori sorprese, proprio come fatto dai Rival Sons con il loro secondo Head Down. Da seguire con molta curiosità.
vedi anche RECENSIONE:THE ANSWER-Revival (2011)
vedi anche RECENSIONE: RIVAL SONS-Head Down (2012)
vedi anche RECENSIONE: WOLF PEOPLE-Fain (2013)
vedi anche RECENSIONE: BLACK SABBATH-13 (2013)
vedi anche RECENSIONE: STATUS QUO-Bula Quo! (2013)
vedi anche RECENSIONE: TOM KEIFER-The Way Life Goes (2013)
venerdì 28 giugno 2013
RECENSIONE:STATUS QUO (Bula Quo!)
STATUS QUO Bula Quo! ( 2 CD Fourth Chord Records/ear Music/Edel, 2013)
Solo qualcuno della stessa generazione di Beatles e Rolling Stones sarebbe riuscito nel 2013 ad auto celebrarsi in un lungometraggio, parteciparvi come attore con lo spirito di chi va in vacanza per la prima volta, (comunque non nuovi alla camera da presa, vedasi la partecipazione alla serie TV Coronation Street, vero Francis Rossi e Rick Parfitt?) tenendo testa ad attori professionisti (tra cui Laura Aikman, Craig Fairbrass e Jon Lovitz) e tanto che si è in ballo, scriverne la colonna sonora tra un ciak, una nuotata ed un aperitivo sulla spiaggia al calar del sole sfoggiando camicie a fiori e humor britannico. Sul film in questione, una commedia d'azione alla James Bond diretta da Stuart St. Paul, non mi esprimo, mantenendo tutte le riserve del caso, ma le aspettative non mi sembrano proprio da premio Oscar e nemmeno in grado di accappararsi qualche premio minore in riva a qualche mare azzurro, dubito pure che la pellicola in questione, in uscita il 5 Luglio, riuscirà a sfiorare le nostre sale cinematografiche. Ma attendo, ben felice d'essere smentito.
Gli Status Quo, 51 invidiabili anni di carriera sul groppone (si formarono nel 1962 a nome Spectres, diventando ufficialmente Status Quo nel 1967) arrivano forse in ritardo rispetto a pellicole come Help! o Magical Mystery Tour, ma hanno deciso di non farsi mancare proprio nulla e riempire uno dei pochi buchi ancora scoperti in carriera. Eppure la soundtrack nata in modo spontaneo-e non calcolato, dicono- durante le riprese avvenute nel paradiso terrestre dell'arcipelago delle isole Fiji riesce perfino a portare qualcosa di nuovo-mica facile-al loro immortale boogie/blues/rock'n'roll, grazie all'introduzione di suoni tradizionali e canti del posto che si possono ascoltare in almeno tre canzoni sulle nove scritte per la pellicola: la rilassatezza da bagnasciuga di Mistery Island, la corale, reggeaggiante e abbastanza stucchevole Fiji Time, la tribalità rock'n'roll di Bula Bula Quo (Kua Ni Lega) riescono a portare mare, sole, allegria e... nulla di più.
Archiviate le novità strettamente legate alla location del film, quello che rimane è il titolo Bula Quo! (letteralmente "ciao Quo!" in lingua insulare) che riprende il titolo del loro disco maggiormente amato dai fan, Hello!, uscito nel 1973, ed una manciata di tracce del loro inconfondibile boogie/rock, ora più hard nelle chitarre energiche di Run And Hide-The Gun Song e in quelle blues di Running Inside My Head e Never Leave A Friend Behind, nel cinematografico mood di Gogogo, nel singolo Looking Out For Caroline sorta di continuazione della vecchia Caroline; ora più poppeggiante come nella martellante e "synthetizzata" All The Money che stende e vizia fin dal primo ascolto pur non raggiungendo i vertici dei tanti singoli scritti in carriera.
In questo 2013 sono molte le cose da festeggiare: il mezzo secolo della prima incarnazione delle band, la reunion della storica formazione con Alan Lancaster al basso e John Coghan alla batteria, avvenuta in primavera dopo anni di liti per un breve tour celebrativo in UK-toccheranno anche l'Italia ( il 15 Settembre all' Alcatraz di Milano) ma non con quella formazione "vintage"- ed il traguardo del centesimo singolo in carriera, Looking Out For Caroline appunto. Stiamo parlando pur sempre di una band istituzione in patria che vanta innumerevoli records da "guinness dei primati" difficilmente attaccabili e quindi non poteva esaurirsi tutto in sole nove canzoni: ci regalano un secondo dischetto con altri dieci brani ripescati dalla loro sterminata produzione tra cui un rifacimento di Living On An Island, successo del 1979 scritto dopo l'esilio "forzato" per scappare dalle grinfie del fisco e adattissima per essere rivestita di suoni provenienti dalla lontana Oceania, altre tre canzoni in studio, due (la tiratissima Frozen Hero e la Southern Reality Cheque) riprese dal precedente e riuscito Quid Pro Quo (2011) e poi l'immancabile "foghertiana" Rockin' All Over The World , quasi di loro proprietà ormai, che subisce lo stesso trattamento tra boogie e folklore delle Fiji; e ancora sei estratti live, con l'immortale tormentone che vale una carriera Whatever You Want ed una sempre portentosa Down Down a spiccare.
Dire qualcosa di nuovo della longeva coppia Parfitt/ Rossi (e soci) è sempre difficile, proprio per la loro fedeltà a certi stilemi di rock'n'roll, più forti di tutti gli sberleffi e critiche subite nel tempo, che si sa, alla fine è gentiluomo. Tacciati da sempre di poca fantasia e approssimazione strumentale, ma chi li conosce e li segue lo fa proprio per questa semplicità, e quello spirito primordiale del rock'n'roll mai venuti a meno, capaci di superare generazioni, mode musicali, critiche, prolungando un divertimento che sembra non conoscere fine. Li ami (li adoro), ti sono indifferenti o li odi. Con l'unica attenuante che non hanno mai fatto nulla per attirarsi antipatie, vivendo ben lontano dagli stravizi delle rockstar miliardarie-comunque assaporati in carriera-, dai gossip, lasciando le risposte alle chitarre fumanti e incrociate dei due leader, alle montagne di Marshall, al sudore, al non look che da sempre li accompagna, a concerti su concerti snocciolati senza continuità di sorta. Instancabili.
Un diversivo che aggiunge poco alla carriera (o molto, dipende dai punti di vista), tanto all'estate alle porte, al divertimento, al rock'n'roll senza pretese. Immortali.
vedi RECENSIONE: STATUS QUO-Quid Pro Quo (2011)
vedi anche RECENSIONE: TOM KEIFER-The Way Life Goes (2013)
vedi anche RECENSIONE: QUEENS OF THE STONE AGE-...Like Clockwork (2013)
Solo qualcuno della stessa generazione di Beatles e Rolling Stones sarebbe riuscito nel 2013 ad auto celebrarsi in un lungometraggio, parteciparvi come attore con lo spirito di chi va in vacanza per la prima volta, (comunque non nuovi alla camera da presa, vedasi la partecipazione alla serie TV Coronation Street, vero Francis Rossi e Rick Parfitt?) tenendo testa ad attori professionisti (tra cui Laura Aikman, Craig Fairbrass e Jon Lovitz) e tanto che si è in ballo, scriverne la colonna sonora tra un ciak, una nuotata ed un aperitivo sulla spiaggia al calar del sole sfoggiando camicie a fiori e humor britannico. Sul film in questione, una commedia d'azione alla James Bond diretta da Stuart St. Paul, non mi esprimo, mantenendo tutte le riserve del caso, ma le aspettative non mi sembrano proprio da premio Oscar e nemmeno in grado di accappararsi qualche premio minore in riva a qualche mare azzurro, dubito pure che la pellicola in questione, in uscita il 5 Luglio, riuscirà a sfiorare le nostre sale cinematografiche. Ma attendo, ben felice d'essere smentito.
Gli Status Quo, 51 invidiabili anni di carriera sul groppone (si formarono nel 1962 a nome Spectres, diventando ufficialmente Status Quo nel 1967) arrivano forse in ritardo rispetto a pellicole come Help! o Magical Mystery Tour, ma hanno deciso di non farsi mancare proprio nulla e riempire uno dei pochi buchi ancora scoperti in carriera. Eppure la soundtrack nata in modo spontaneo-e non calcolato, dicono- durante le riprese avvenute nel paradiso terrestre dell'arcipelago delle isole Fiji riesce perfino a portare qualcosa di nuovo-mica facile-al loro immortale boogie/blues/rock'n'roll, grazie all'introduzione di suoni tradizionali e canti del posto che si possono ascoltare in almeno tre canzoni sulle nove scritte per la pellicola: la rilassatezza da bagnasciuga di Mistery Island, la corale, reggeaggiante e abbastanza stucchevole Fiji Time, la tribalità rock'n'roll di Bula Bula Quo (Kua Ni Lega) riescono a portare mare, sole, allegria e... nulla di più.
Archiviate le novità strettamente legate alla location del film, quello che rimane è il titolo Bula Quo! (letteralmente "ciao Quo!" in lingua insulare) che riprende il titolo del loro disco maggiormente amato dai fan, Hello!, uscito nel 1973, ed una manciata di tracce del loro inconfondibile boogie/rock, ora più hard nelle chitarre energiche di Run And Hide-The Gun Song e in quelle blues di Running Inside My Head e Never Leave A Friend Behind, nel cinematografico mood di Gogogo, nel singolo Looking Out For Caroline sorta di continuazione della vecchia Caroline; ora più poppeggiante come nella martellante e "synthetizzata" All The Money che stende e vizia fin dal primo ascolto pur non raggiungendo i vertici dei tanti singoli scritti in carriera.
In questo 2013 sono molte le cose da festeggiare: il mezzo secolo della prima incarnazione delle band, la reunion della storica formazione con Alan Lancaster al basso e John Coghan alla batteria, avvenuta in primavera dopo anni di liti per un breve tour celebrativo in UK-toccheranno anche l'Italia ( il 15 Settembre all' Alcatraz di Milano) ma non con quella formazione "vintage"- ed il traguardo del centesimo singolo in carriera, Looking Out For Caroline appunto. Stiamo parlando pur sempre di una band istituzione in patria che vanta innumerevoli records da "guinness dei primati" difficilmente attaccabili e quindi non poteva esaurirsi tutto in sole nove canzoni: ci regalano un secondo dischetto con altri dieci brani ripescati dalla loro sterminata produzione tra cui un rifacimento di Living On An Island, successo del 1979 scritto dopo l'esilio "forzato" per scappare dalle grinfie del fisco e adattissima per essere rivestita di suoni provenienti dalla lontana Oceania, altre tre canzoni in studio, due (la tiratissima Frozen Hero e la Southern Reality Cheque) riprese dal precedente e riuscito Quid Pro Quo (2011) e poi l'immancabile "foghertiana" Rockin' All Over The World , quasi di loro proprietà ormai, che subisce lo stesso trattamento tra boogie e folklore delle Fiji; e ancora sei estratti live, con l'immortale tormentone che vale una carriera Whatever You Want ed una sempre portentosa Down Down a spiccare.
Dire qualcosa di nuovo della longeva coppia Parfitt/ Rossi (e soci) è sempre difficile, proprio per la loro fedeltà a certi stilemi di rock'n'roll, più forti di tutti gli sberleffi e critiche subite nel tempo, che si sa, alla fine è gentiluomo. Tacciati da sempre di poca fantasia e approssimazione strumentale, ma chi li conosce e li segue lo fa proprio per questa semplicità, e quello spirito primordiale del rock'n'roll mai venuti a meno, capaci di superare generazioni, mode musicali, critiche, prolungando un divertimento che sembra non conoscere fine. Li ami (li adoro), ti sono indifferenti o li odi. Con l'unica attenuante che non hanno mai fatto nulla per attirarsi antipatie, vivendo ben lontano dagli stravizi delle rockstar miliardarie-comunque assaporati in carriera-, dai gossip, lasciando le risposte alle chitarre fumanti e incrociate dei due leader, alle montagne di Marshall, al sudore, al non look che da sempre li accompagna, a concerti su concerti snocciolati senza continuità di sorta. Instancabili.
Un diversivo che aggiunge poco alla carriera (o molto, dipende dai punti di vista), tanto all'estate alle porte, al divertimento, al rock'n'roll senza pretese. Immortali.
vedi RECENSIONE: STATUS QUO-Quid Pro Quo (2011)
vedi anche RECENSIONE: TOM KEIFER-The Way Life Goes (2013)
vedi anche RECENSIONE: QUEENS OF THE STONE AGE-...Like Clockwork (2013)
martedì 25 giugno 2013
RECENSIONE: JASON ISBELL (Southeastern)
JASON ISBELL Southeastern ( Southeastern Records, 2013)
Il viaggio solitario apre sempre inaspettate porte cognitive verso il proprio interno, quelle che anche mille anni trascorsi in compagnia, pur buona, dolce o fracassona che sia, non riuscirebbero ad aprire nemmeno con le più avanzate tecniche di scasso. Deve averlo saputo molto bene Jason Isbell quando ha deciso di rimettere da parte-momentaneamente- il gruppo 400 Unit con il quale ha già inciso tre dischi (seppur molti compagni d'avventura sono presenti anche qui: Derry Borja alle tastiere, Chad Gamble alla batteria), un po' come successe nel 2007 quando abbandonò dopo una breve ma prolifica collaborazione-allora sì definitivamente- i Drive-By Truckers reduci dai loro anni e dischi migliori, mai più eguagliati, impegnati così com'erano nello riscrivere l'opera presente del Southern rock, per una carriera solista sottolineata nel monicker in copertina, che si limitò al solo Sirens Of The Ditch. Deve averlo saputo che per raccontare storie strettamente personali come il traguardo della raggiunta sobrietà e dare il giusto risalto al ritrovato amore (quasi salvifico) serviva un nuovo allontanamento, il nome nuovamente isolato in copertina, la riflessione, il distacco di tutta la carne dall'osso, l'essenzialità, il confronto con se stesso, con la redenzione, la malattia, la morte e tutte le realtà che lo hanno toccato anche indirettamente come il triste male terminale di un' amica raccontato nell'accapponante Elephant o come descrive nella finale Relativity Easy.
Southeastern è il disco dell'autoanalisi solitaria, affrontata senza vergognarsi della nudità dell'anima ben esposta nello stendino, con tutte le cicatrici degli sbagli, delle debolezze, appese e lasciate, ben visibili a tutti, sul balcone del mondo a guarire sotto il sole caldo del sud. Anche se il sole in questo disco sembra nascondersi bene, c'è, aspetta solo di trovare gli spiragli d'entrata, perché alla fine la voglia di vivere prevale su tutto e quella di tornare a dividere la vita con una buona compagnia esce prepotente nell'arioso e leggero country da viaggio di Traveling Alone ("sono stanco di viaggiare da solo...ho smesso di parlare con me stesso"), che si porta via, con un soffio di leggera brezza che entra dal finestrino, tutta la malinconia che aleggia nella più tesa scenetta casalinga di Songs That She sang In The Shower.
Estremamente personale nelle liriche, elegante, sobrio, morbido (Yvette), rootsy (Stockholm) e acustico nella musica che si veste della sola essenzialità e della penetrante vocalità soul e profonda, escludendo le scosse elettriche di Flying Over Water, e la deflagrante Super 8, lascito Southern/boogie chitarristico del suo passato nei Drive-By Truckers e ironica esorcizzazione verso tante notti post tour passate a nuotare tra solitudine e fiumi di alcol, respirandone pericolosamente i fumi ("Non voglio morire in un Super 8 motel/ solo perché a qualcuno la serata non è andata troppo bene/se mai dovessi tornare a Bristol/mi sentirei meglio dormendo in cella"). Riferimenti al suo vizio (ormai guarito) sono presenti fin dall'apertura Cover Me Up e sparsi un po' ovunque, e la tetra "scarnalità" di Live Oak, qualche brivido lo regala-ascoltate la prima strofa a cappella-parabola su vecchi gangster in bianco e nero divisi tra pistole e amori che potrebbe benissimo sovrapporsi alla sua storia; ma è l'incontro salvifico con la fresca sposa Amanda Shires ( ben presente con il violino) che viene raccontato anche in Different Days, a rappresentare il punto focale, la salvezza, il volo sopra tutto e tutti (Flying Over Water). Il presente.
E come tutti i dischi più personali, di redenzione e intimi, brilla di luce propria, commuove ed esalta, candidandosi a diventare uno dei dischi più riusciti dell'anno. Il passo definitivo verso il futuro cantautorale di Isbell?
vedi anche RECENSIONE: WILLIE NILE-American Ride (2013)
vedi anche RECENSIONE: GUY CLARK-My Favorite Picture Of You (2013)
Il viaggio solitario apre sempre inaspettate porte cognitive verso il proprio interno, quelle che anche mille anni trascorsi in compagnia, pur buona, dolce o fracassona che sia, non riuscirebbero ad aprire nemmeno con le più avanzate tecniche di scasso. Deve averlo saputo molto bene Jason Isbell quando ha deciso di rimettere da parte-momentaneamente- il gruppo 400 Unit con il quale ha già inciso tre dischi (seppur molti compagni d'avventura sono presenti anche qui: Derry Borja alle tastiere, Chad Gamble alla batteria), un po' come successe nel 2007 quando abbandonò dopo una breve ma prolifica collaborazione-allora sì definitivamente- i Drive-By Truckers reduci dai loro anni e dischi migliori, mai più eguagliati, impegnati così com'erano nello riscrivere l'opera presente del Southern rock, per una carriera solista sottolineata nel monicker in copertina, che si limitò al solo Sirens Of The Ditch. Deve averlo saputo che per raccontare storie strettamente personali come il traguardo della raggiunta sobrietà e dare il giusto risalto al ritrovato amore (quasi salvifico) serviva un nuovo allontanamento, il nome nuovamente isolato in copertina, la riflessione, il distacco di tutta la carne dall'osso, l'essenzialità, il confronto con se stesso, con la redenzione, la malattia, la morte e tutte le realtà che lo hanno toccato anche indirettamente come il triste male terminale di un' amica raccontato nell'accapponante Elephant o come descrive nella finale Relativity Easy.
Southeastern è il disco dell'autoanalisi solitaria, affrontata senza vergognarsi della nudità dell'anima ben esposta nello stendino, con tutte le cicatrici degli sbagli, delle debolezze, appese e lasciate, ben visibili a tutti, sul balcone del mondo a guarire sotto il sole caldo del sud. Anche se il sole in questo disco sembra nascondersi bene, c'è, aspetta solo di trovare gli spiragli d'entrata, perché alla fine la voglia di vivere prevale su tutto e quella di tornare a dividere la vita con una buona compagnia esce prepotente nell'arioso e leggero country da viaggio di Traveling Alone ("sono stanco di viaggiare da solo...ho smesso di parlare con me stesso"), che si porta via, con un soffio di leggera brezza che entra dal finestrino, tutta la malinconia che aleggia nella più tesa scenetta casalinga di Songs That She sang In The Shower.
Estremamente personale nelle liriche, elegante, sobrio, morbido (Yvette), rootsy (Stockholm) e acustico nella musica che si veste della sola essenzialità e della penetrante vocalità soul e profonda, escludendo le scosse elettriche di Flying Over Water, e la deflagrante Super 8, lascito Southern/boogie chitarristico del suo passato nei Drive-By Truckers e ironica esorcizzazione verso tante notti post tour passate a nuotare tra solitudine e fiumi di alcol, respirandone pericolosamente i fumi ("Non voglio morire in un Super 8 motel/ solo perché a qualcuno la serata non è andata troppo bene/se mai dovessi tornare a Bristol/mi sentirei meglio dormendo in cella"). Riferimenti al suo vizio (ormai guarito) sono presenti fin dall'apertura Cover Me Up e sparsi un po' ovunque, e la tetra "scarnalità" di Live Oak, qualche brivido lo regala-ascoltate la prima strofa a cappella-parabola su vecchi gangster in bianco e nero divisi tra pistole e amori che potrebbe benissimo sovrapporsi alla sua storia; ma è l'incontro salvifico con la fresca sposa Amanda Shires ( ben presente con il violino) che viene raccontato anche in Different Days, a rappresentare il punto focale, la salvezza, il volo sopra tutto e tutti (Flying Over Water). Il presente.
E come tutti i dischi più personali, di redenzione e intimi, brilla di luce propria, commuove ed esalta, candidandosi a diventare uno dei dischi più riusciti dell'anno. Il passo definitivo verso il futuro cantautorale di Isbell?
vedi anche RECENSIONE: WILLIE NILE-American Ride (2013)
vedi anche RECENSIONE: GUY CLARK-My Favorite Picture Of You (2013)
venerdì 21 giugno 2013
RECENSIONE: REGO SILENTA (La notte è a suo agio)
REGO SILENTA La notte è a suo agio (autoproduzione, 2013)
Prima prova sulla lunga distanza dei piemontesi- di Novara-Rego Silenta, gruppo attivo da una quindicina di anni, prima come cover band con alcuni demo in discografia-incrociati molte volte nei pub del biellese-poi a partire dal 2009 con l'uscita del già buon EP Meccanismi che vantava la produzione artistica dell'ex Timoria/Miura, Diego Galeri, il quartetto ha iniziato a fare sul serio e percorrere un'autoctona strada del rock diventata autostrada a tre corsie con questo La Notte è a suo agio, un disco ambizioso per essere un debutto, in alcuni punti forse fin troppo pretenzioso, ma estremamente personale nell'esporre e rielaborare le tante influenze raccolte lungo il cammino e le esperienze dei vari componenti: il cantante Luca Borin, il chitarrista Maurizio Cordì, il batterista Andrea Paesanti e non meno importante quella dell'ultimo entrato in formazione, il bassista Roberto Tambone già negli stoner The Brown Spacebob, anche produttore insieme alla band.
Potrei giocarmi il jolly della definizione alternative rock per definire la loro musica, ma so quanto il termine nell'anno 2013 sia ormai strausato, forse perfino sorpassato (abusato?), ma poi sinceramente: non ho mai capito veramente a cosa si è alternativi? "Noi siamo l'alternativa all'alternativo" cantavano gli americani Stuck Mojo negli anni novanta. Molto meglio, prendo in prestito la definizione. Preferisco, allora, raccontarvi di 14 canzoni-tante-per una durata complessiva che arriva quasi a 60 minuti (forse sta qui l'unico difetto?), divise in quattro atti che ripercorrono, come un concept, le quattro fasi del sonno, attraversano il buio della notte con annessi tutti gli incubi che infestano la testa umana, quelli che sembrano brillare ancor di più al calar delle tenebre, quasi a farsi riconoscere e raccontar meglio.
I Rego Silenta espongono tutto quello che sanno suonare, ed è tanta roba, un voler mettere tutto in vetrina, aspettando il giudizio dell'ascoltatore che ne indicherà la quarta corsia futura: partendo dal miglior rock italiano anni novanta che passa da Può essere paura, presa di posizione contro tutte quelle gabbie che ci auto-costruiamo, isolandoci dentro a gruppi di appartenenza che non avvalorano ma sopprimono il nostro vero io, cantata e suonata come gli Afterhours "maturi" hanno fatto in Ballate per piccole iene; alla circolare ipnoticità e psichedelia di Un Pretesto, tra le mie preferite, con il cantante Borin (anche autore di tutti i testi) a declamare fiumi di parole da far esplodere nel concitato finale come faceva (e continua a fare) Emidio Clementi nei Massimo Volume, fino ad arrivare al carrarmato stoner della strumentale Guardando in terra mentre defecavo, o le aperture più sperimentali di Danzando con i suoi liquidi giochi di chitarra.
Un disco che sa arrivare diretto e conciso nelle canzoni più immediate come L(')a(m)missione impreziosita da un hammond che fa tanto "vintage", il rapido e stratificato crossover di Beni Primari che mette alla berlina i cattivi malcostumi, nello stoner/ rock tirato di C'è una menzogna, nel tambureggiante rock'n'roll e nelle accelerazioni di Il mio divertimento estremo, nella cavalcata di Elogio alla banalità (con la caratteristica tromba di Giulio Piola che passa con disinvoltura dal mariachi al jazz); per poi rapirti ed avvolgerti dentro alle trame acustiche e ai sinth di Un Purgatorio in più, allo space rock acustico con hammond e theremin de Il Temporale insieme alla voce femminile di La Romy che si carica fino a deflagrare nel finale e nell'arpeggiata Dentro l'ombra che si trasforma presto nel buon rock da primo singolo, accompagnato da un video low cost ma efficace. "...Dentro l'ombra, la notte è a suo agio e mi chiama a scaldarmi, davanti alle braci/Dentro l'ombra ogni essere la notte brama, e sa di cosa sono capaci..."
Ultima nota per Rumore, uno stacco sostanziale dal resto, grazie al riuscito inserimento dei fiati che portano l'umore dalle parti della tradizione folk balcanica, con buona pace di Elio e le Storie Tese (cit."Complesso del primo maggio").
E se anche l'occhio e il tatto vogliono la loro parte-il che non guasta mai-il disco si presenta in una bella confezione cartonata completa di libretto, disegni e testi. Un lavoro curato nei minimi particolari, con i pochi "classici difetti" da debutto nascosti sotto ai tanti pregi di una band sicura di sé e dei propri mezzi, acquisiti negli anni di dura gavetta, quella che, a conti fatti, paga sempre e gratifica maggiormente.
vedi anche RECENSIONE: TAG MY TOE-This Fear That Clouds Our Minds (2012)
Prima prova sulla lunga distanza dei piemontesi- di Novara-Rego Silenta, gruppo attivo da una quindicina di anni, prima come cover band con alcuni demo in discografia-incrociati molte volte nei pub del biellese-poi a partire dal 2009 con l'uscita del già buon EP Meccanismi che vantava la produzione artistica dell'ex Timoria/Miura, Diego Galeri, il quartetto ha iniziato a fare sul serio e percorrere un'autoctona strada del rock diventata autostrada a tre corsie con questo La Notte è a suo agio, un disco ambizioso per essere un debutto, in alcuni punti forse fin troppo pretenzioso, ma estremamente personale nell'esporre e rielaborare le tante influenze raccolte lungo il cammino e le esperienze dei vari componenti: il cantante Luca Borin, il chitarrista Maurizio Cordì, il batterista Andrea Paesanti e non meno importante quella dell'ultimo entrato in formazione, il bassista Roberto Tambone già negli stoner The Brown Spacebob, anche produttore insieme alla band.
Potrei giocarmi il jolly della definizione alternative rock per definire la loro musica, ma so quanto il termine nell'anno 2013 sia ormai strausato, forse perfino sorpassato (abusato?), ma poi sinceramente: non ho mai capito veramente a cosa si è alternativi? "Noi siamo l'alternativa all'alternativo" cantavano gli americani Stuck Mojo negli anni novanta. Molto meglio, prendo in prestito la definizione. Preferisco, allora, raccontarvi di 14 canzoni-tante-per una durata complessiva che arriva quasi a 60 minuti (forse sta qui l'unico difetto?), divise in quattro atti che ripercorrono, come un concept, le quattro fasi del sonno, attraversano il buio della notte con annessi tutti gli incubi che infestano la testa umana, quelli che sembrano brillare ancor di più al calar delle tenebre, quasi a farsi riconoscere e raccontar meglio.
I Rego Silenta espongono tutto quello che sanno suonare, ed è tanta roba, un voler mettere tutto in vetrina, aspettando il giudizio dell'ascoltatore che ne indicherà la quarta corsia futura: partendo dal miglior rock italiano anni novanta che passa da Può essere paura, presa di posizione contro tutte quelle gabbie che ci auto-costruiamo, isolandoci dentro a gruppi di appartenenza che non avvalorano ma sopprimono il nostro vero io, cantata e suonata come gli Afterhours "maturi" hanno fatto in Ballate per piccole iene; alla circolare ipnoticità e psichedelia di Un Pretesto, tra le mie preferite, con il cantante Borin (anche autore di tutti i testi) a declamare fiumi di parole da far esplodere nel concitato finale come faceva (e continua a fare) Emidio Clementi nei Massimo Volume, fino ad arrivare al carrarmato stoner della strumentale Guardando in terra mentre defecavo, o le aperture più sperimentali di Danzando con i suoi liquidi giochi di chitarra.
Un disco che sa arrivare diretto e conciso nelle canzoni più immediate come L(')a(m)missione impreziosita da un hammond che fa tanto "vintage", il rapido e stratificato crossover di Beni Primari che mette alla berlina i cattivi malcostumi, nello stoner/ rock tirato di C'è una menzogna, nel tambureggiante rock'n'roll e nelle accelerazioni di Il mio divertimento estremo, nella cavalcata di Elogio alla banalità (con la caratteristica tromba di Giulio Piola che passa con disinvoltura dal mariachi al jazz); per poi rapirti ed avvolgerti dentro alle trame acustiche e ai sinth di Un Purgatorio in più, allo space rock acustico con hammond e theremin de Il Temporale insieme alla voce femminile di La Romy che si carica fino a deflagrare nel finale e nell'arpeggiata Dentro l'ombra che si trasforma presto nel buon rock da primo singolo, accompagnato da un video low cost ma efficace. "...Dentro l'ombra, la notte è a suo agio e mi chiama a scaldarmi, davanti alle braci/Dentro l'ombra ogni essere la notte brama, e sa di cosa sono capaci..."
Ultima nota per Rumore, uno stacco sostanziale dal resto, grazie al riuscito inserimento dei fiati che portano l'umore dalle parti della tradizione folk balcanica, con buona pace di Elio e le Storie Tese (cit."Complesso del primo maggio").
E se anche l'occhio e il tatto vogliono la loro parte-il che non guasta mai-il disco si presenta in una bella confezione cartonata completa di libretto, disegni e testi. Un lavoro curato nei minimi particolari, con i pochi "classici difetti" da debutto nascosti sotto ai tanti pregi di una band sicura di sé e dei propri mezzi, acquisiti negli anni di dura gavetta, quella che, a conti fatti, paga sempre e gratifica maggiormente.
vedi anche RECENSIONE: TAG MY TOE-This Fear That Clouds Our Minds (2012)
martedì 18 giugno 2013
RECENSIONE:JOHN MELLENCAMP, STEPHEN KING, T BONE BURNETT, AA.VV. (Ghost Brothers Of Darkland County)
JOHN MELLENCAMP, STEPHEN KING, T BONE BURNETT, AA.VV. Ghost Brothers Of Darkland County ( Hear Music/Universal, 2013)
Un progetto ambizioso, dalla lunga e tribolata gestazione che ha coinvolto due musicisti come John Mellencamp e T Bone Burnett, ed il più famoso scrittore di letteratura fantastica/horror di fine XX secolo, tale Stephen King, un re, per qualcuno anche un dio inarrivabile della penna ma anche un musicologo a tutto tondo; a raccontarcelo sono le citazioni musicali sparse nei suoi romanzi, il suo gruppo rock nato per scopi benefici, la passione dichiarata per AC/DC e Ramones, il rispetto, l'influenza e lo scambio reciproco con la comunità rock. Tutto nacque sul finire degli anni novanta da una telefonata di Mellencamp a King nella quale il cantautore dell'Indiana sottoponeva allo scrittore un'interessante leggenda americana popolata da fantasmi con protagonisti due fratelli, una sorta di Caino e Abele in salsa americana, una storia macabra, inquietante e misteriosa quasi senza tempo e adattabile, che la mente "malata" di King avrebbe potuto sviluppare e amplificare in qualcosa di grande. L'idea si è piano piano trasformata in musical, ha attraversato tante fasi e ripensamenti prima di approdare alla definitiva forma che sfocia sostanzialmente in un'opera oscura di gothic country dove tutti si sono divisi democraticamente i compiti: al "giaguaro" Mellencamp l'incarico di trasformare la storia scritta da King in musica e testi, a Burnett, produttore dal tocco distintivo e scrigno vivente delle sonorità più "americane" in circolazione, la cabina di regia in fase di produzione musicale, infine, ai tanti cantanti e attori coinvolti, il piacere di interpretarla sia su disco che a teatro. L'opera è stata rappresentata per la prima volta nell'Aprile del 2012 ad Atlanta.
Trama.
Mellencamp prende in affitto la storia da una leggenda di cui è venuto a conoscenza dopo aver acquistato un vecchio rustico adibito a casa per le vacanze. Pare che il vecchio proprietario gli raccontò storie non piacevoli sul capanno poco distante dalla dimora, infestato di fantasmi da ormai molti anni. Da lì alla telefonata a Stephen King sembra sia passato veramente poco tempo.
La leggenda prende forma nel 1957 da una storia ambientata nella cittadina di Lake Belle Reve, Mississippi, dove due fratelli (Andy e Jack) poco più che ventenni sono in combutta tra loro per amore di una splendida ragazza (Jenna). Tutto precipita quando, in modo accidentale dentro al capanno, uno fredda l'altro, inconsapevole che presto il destino si accanirà anche su di lui e la ragazza, vittime immediate di un incidente stradale- fatalità, suicidio o omicidio?- durante il loro ritorno verso la città in macchina. Tre vite spezzate, tre fantasmi che animeranno i prossimi quarant'anni di quel bel posto di villeggiatura, facendo nascere menzogne su menzogne intorno alla leggenda. A raccontare la storia, in prima persona, è il terzo fratello minore Joe (interpretato da Kris Kristofferson in età adulta e cantato anche dal tredicenne Clyde Mulroney in età giovanile nella cantilenante My Name Is Joe), unico testimone dei fatti e vero depositario della verità, anch'egli con due figli (Frank e Drake), ma con la consapevolezza e la missione di far trionfare la verità per evitare che anche la sua famiglia cada vittima dentro al vortice della leggenda, nutrita negli anni da vendette e gelosie tra parenti serpenti. Il tutto viene raccontato nel DVD contenuto nella deluxe edition attraverso un'intervista a Mellencamp, Burnett e King.
Canzoni.
Per non spezzare la continuità della storia e per rendere comprensibile la trama, le 17 canzoni sono intervallate dai dialoghi dei vari personaggi protagonisti, interpretati da veri attori (tra cui spiccano la "signora Mellencamp" Meg Ryan, Matthew McConaughey, Samantha Mathis), e dagli stessi cantanti nelle canzoni. Per gli ascoltatori più distratti, il tutto potrebbe diventare molto pesante e poco digeribile nei suoi 70 minuti, così, all'interno del CD viene fornito un apposito codice per poter scaricare dalla rete la musica senza l'interruzione delle conversazioni.
Musicalmente siamo dalle parti delle ultime brillanti produzioni di Mellencamp insieme a Burnett, in particolare le stesse atmosfere dell'ultimo splendido disco solista No Better Than This (2010 ), che fu un viaggio polveroso e affascinante tra il 900 musicale americano che ripercorreva luoghi simbolo e sonorità tradizionali, quelle che Burnett, fuoriclasse indiscutibile e unico, riesce a ricostruire lavorando di sottrazione e creando arcane atmosfere, le stesse che ritroviamo anche nelle ultime produzioni del sessantottenne produttore: nei dischi di Elvis Costello, Robert Plant/Alison Krauss, del Ryan Bingham "premio oscar" in Junky Star (2010). Un concentrato di american roots music decadente e spartana fatta di oscure country songs piene di polvere e ragnatele, antico e misterioso folk (il lento, ciondolante e cupo valzerone You Are Blind cantata dalla roca voce di Ryan Bingham presente anche in Brotherly Love con Will Dailey) , paco rockabilly acustico, e ferriginoso blues con alcune chicche niente male come la darkeggiante So Goddam Smart con Sheryl Crow ma che vede-soprattutto- riuniti i fratelli Dave e Phil Alvin (The Blasters) accompagnati dalle chitarre incisive di Marc Ribot e Andy York (presenti in tutto il disco insieme al batterista Jay Bellerose) con qualche ottima variazione sul tema come il battente blues-che ci mette in guardia dalle malelingue e che puzza di acqua stantia, paludosa e riti propiziatori- cantato con voce luciferina dal sempreverde Taj Mahal, in forma strepitosa in Tear This Cabin Down. I fratelli Alvin, evidentemente a loro agio in una storia piena di tanti altri fratelli "maledetti", li ritroviamo nello spiraglio di luce che si intravede nell'ariosa country song Home Again (con Sheryl Crow e Taj Mahal), nel pigro incedere di And Your Days Are Gone (con Sheryl Crow), nella elegante leggerezza di So Goddam Good guidata da un clarinetto, ancora con Sheryl Crow, e nella triste coralità finale di What Kind Of Man Am I.
La parte della leonessa spetta proprio a Sheryl Crow presente in sei canzoni, in duetto e da sola (in Away from This World e nella più rockata Jukin') ma in buona compagnia femminile insieme a Neko Case (That's Who I Am), e Rosanne Cash, eterea nell'ipnotica You Don't Know Me.
Curiosa e simbolica anche le presenza di Elvis Costello che dà voce alle forze del male sottoforma del diavolo tentatore, battezzando il disco nell'iniziale e sardonica That's Me e in Wrong, Wrong, Wrong About Me, affidabile e saggia quella di Kris Kristofferson che si veste, senza difficoltà, con gli abiti della saggezza del terzo fratello nei dialoghi e incanta nella placida How Many Days.
John Mellencamp, forse deludendo i suoi fan, lascia il campo libero per tutto il disco, intervenendo fisicamente solo a fine storia, prestando la sua voce "rotta" nel duetto a tre voci Truth insieme alle giovanissime sorelle Lily e Madeleine Jurkiewicz, nuove stelline del folk americano.
Se il lato prettamente musicale soddisfa pienamente, non tutto fila liscio come dovrebbe nell'ascolto globale: mancando l'aspetto visivo della storia (forse a teatro funziona tutto meglio?), purtroppo i dialoghi, pur brevissimi e ricchi di phatos, tolgono importanza alle canzoni e viceversa, generando un conflitto d'interessi che, anche se indispensabile per la linearità della narrazione, funziona a metà: croce e delizia di (quasi) tutte le rock opere. Per cui, visto che c'è, consiglio di usare il codice per scaricare i brani senza interruzioni. Però, dico io, se mi avete fornito il codice, sapevate già che qualcosa zoppicava, o no?
vedi anche RECENSIONE/REPORT live: JOHN MELLENCAMP live@ Vigevano, 9 Luglio 2011
vedi anche RECENSIONE: RYAN BINGHAM-Tomorrowland (2012)
vedi anche RECENSIONE: BOB DYLAN-Tempest (2012)
vedi anche RECENSIONE: STEVE EARLE-The Low Highway (2013)
vedi anche RECENSIONE: WILLIE NILE-American Ride (2013)
vedi anche RECENSIONE: THE WHITE BUFFALO-Shadows, Greys & Evil Ways (2013)
Un progetto ambizioso, dalla lunga e tribolata gestazione che ha coinvolto due musicisti come John Mellencamp e T Bone Burnett, ed il più famoso scrittore di letteratura fantastica/horror di fine XX secolo, tale Stephen King, un re, per qualcuno anche un dio inarrivabile della penna ma anche un musicologo a tutto tondo; a raccontarcelo sono le citazioni musicali sparse nei suoi romanzi, il suo gruppo rock nato per scopi benefici, la passione dichiarata per AC/DC e Ramones, il rispetto, l'influenza e lo scambio reciproco con la comunità rock. Tutto nacque sul finire degli anni novanta da una telefonata di Mellencamp a King nella quale il cantautore dell'Indiana sottoponeva allo scrittore un'interessante leggenda americana popolata da fantasmi con protagonisti due fratelli, una sorta di Caino e Abele in salsa americana, una storia macabra, inquietante e misteriosa quasi senza tempo e adattabile, che la mente "malata" di King avrebbe potuto sviluppare e amplificare in qualcosa di grande. L'idea si è piano piano trasformata in musical, ha attraversato tante fasi e ripensamenti prima di approdare alla definitiva forma che sfocia sostanzialmente in un'opera oscura di gothic country dove tutti si sono divisi democraticamente i compiti: al "giaguaro" Mellencamp l'incarico di trasformare la storia scritta da King in musica e testi, a Burnett, produttore dal tocco distintivo e scrigno vivente delle sonorità più "americane" in circolazione, la cabina di regia in fase di produzione musicale, infine, ai tanti cantanti e attori coinvolti, il piacere di interpretarla sia su disco che a teatro. L'opera è stata rappresentata per la prima volta nell'Aprile del 2012 ad Atlanta.
Trama.
Mellencamp prende in affitto la storia da una leggenda di cui è venuto a conoscenza dopo aver acquistato un vecchio rustico adibito a casa per le vacanze. Pare che il vecchio proprietario gli raccontò storie non piacevoli sul capanno poco distante dalla dimora, infestato di fantasmi da ormai molti anni. Da lì alla telefonata a Stephen King sembra sia passato veramente poco tempo.
La leggenda prende forma nel 1957 da una storia ambientata nella cittadina di Lake Belle Reve, Mississippi, dove due fratelli (Andy e Jack) poco più che ventenni sono in combutta tra loro per amore di una splendida ragazza (Jenna). Tutto precipita quando, in modo accidentale dentro al capanno, uno fredda l'altro, inconsapevole che presto il destino si accanirà anche su di lui e la ragazza, vittime immediate di un incidente stradale- fatalità, suicidio o omicidio?- durante il loro ritorno verso la città in macchina. Tre vite spezzate, tre fantasmi che animeranno i prossimi quarant'anni di quel bel posto di villeggiatura, facendo nascere menzogne su menzogne intorno alla leggenda. A raccontare la storia, in prima persona, è il terzo fratello minore Joe (interpretato da Kris Kristofferson in età adulta e cantato anche dal tredicenne Clyde Mulroney in età giovanile nella cantilenante My Name Is Joe), unico testimone dei fatti e vero depositario della verità, anch'egli con due figli (Frank e Drake), ma con la consapevolezza e la missione di far trionfare la verità per evitare che anche la sua famiglia cada vittima dentro al vortice della leggenda, nutrita negli anni da vendette e gelosie tra parenti serpenti. Il tutto viene raccontato nel DVD contenuto nella deluxe edition attraverso un'intervista a Mellencamp, Burnett e King.
Canzoni.
Per non spezzare la continuità della storia e per rendere comprensibile la trama, le 17 canzoni sono intervallate dai dialoghi dei vari personaggi protagonisti, interpretati da veri attori (tra cui spiccano la "signora Mellencamp" Meg Ryan, Matthew McConaughey, Samantha Mathis), e dagli stessi cantanti nelle canzoni. Per gli ascoltatori più distratti, il tutto potrebbe diventare molto pesante e poco digeribile nei suoi 70 minuti, così, all'interno del CD viene fornito un apposito codice per poter scaricare dalla rete la musica senza l'interruzione delle conversazioni.
Musicalmente siamo dalle parti delle ultime brillanti produzioni di Mellencamp insieme a Burnett, in particolare le stesse atmosfere dell'ultimo splendido disco solista No Better Than This (2010 ), che fu un viaggio polveroso e affascinante tra il 900 musicale americano che ripercorreva luoghi simbolo e sonorità tradizionali, quelle che Burnett, fuoriclasse indiscutibile e unico, riesce a ricostruire lavorando di sottrazione e creando arcane atmosfere, le stesse che ritroviamo anche nelle ultime produzioni del sessantottenne produttore: nei dischi di Elvis Costello, Robert Plant/Alison Krauss, del Ryan Bingham "premio oscar" in Junky Star (2010). Un concentrato di american roots music decadente e spartana fatta di oscure country songs piene di polvere e ragnatele, antico e misterioso folk (il lento, ciondolante e cupo valzerone You Are Blind cantata dalla roca voce di Ryan Bingham presente anche in Brotherly Love con Will Dailey) , paco rockabilly acustico, e ferriginoso blues con alcune chicche niente male come la darkeggiante So Goddam Smart con Sheryl Crow ma che vede-soprattutto- riuniti i fratelli Dave e Phil Alvin (The Blasters) accompagnati dalle chitarre incisive di Marc Ribot e Andy York (presenti in tutto il disco insieme al batterista Jay Bellerose) con qualche ottima variazione sul tema come il battente blues-che ci mette in guardia dalle malelingue e che puzza di acqua stantia, paludosa e riti propiziatori- cantato con voce luciferina dal sempreverde Taj Mahal, in forma strepitosa in Tear This Cabin Down. I fratelli Alvin, evidentemente a loro agio in una storia piena di tanti altri fratelli "maledetti", li ritroviamo nello spiraglio di luce che si intravede nell'ariosa country song Home Again (con Sheryl Crow e Taj Mahal), nel pigro incedere di And Your Days Are Gone (con Sheryl Crow), nella elegante leggerezza di So Goddam Good guidata da un clarinetto, ancora con Sheryl Crow, e nella triste coralità finale di What Kind Of Man Am I.
La parte della leonessa spetta proprio a Sheryl Crow presente in sei canzoni, in duetto e da sola (in Away from This World e nella più rockata Jukin') ma in buona compagnia femminile insieme a Neko Case (That's Who I Am), e Rosanne Cash, eterea nell'ipnotica You Don't Know Me.
Curiosa e simbolica anche le presenza di Elvis Costello che dà voce alle forze del male sottoforma del diavolo tentatore, battezzando il disco nell'iniziale e sardonica That's Me e in Wrong, Wrong, Wrong About Me, affidabile e saggia quella di Kris Kristofferson che si veste, senza difficoltà, con gli abiti della saggezza del terzo fratello nei dialoghi e incanta nella placida How Many Days.
John Mellencamp, forse deludendo i suoi fan, lascia il campo libero per tutto il disco, intervenendo fisicamente solo a fine storia, prestando la sua voce "rotta" nel duetto a tre voci Truth insieme alle giovanissime sorelle Lily e Madeleine Jurkiewicz, nuove stelline del folk americano.
Se il lato prettamente musicale soddisfa pienamente, non tutto fila liscio come dovrebbe nell'ascolto globale: mancando l'aspetto visivo della storia (forse a teatro funziona tutto meglio?), purtroppo i dialoghi, pur brevissimi e ricchi di phatos, tolgono importanza alle canzoni e viceversa, generando un conflitto d'interessi che, anche se indispensabile per la linearità della narrazione, funziona a metà: croce e delizia di (quasi) tutte le rock opere. Per cui, visto che c'è, consiglio di usare il codice per scaricare i brani senza interruzioni. Però, dico io, se mi avete fornito il codice, sapevate già che qualcosa zoppicava, o no?
vedi anche RECENSIONE/REPORT live: JOHN MELLENCAMP live@ Vigevano, 9 Luglio 2011
vedi anche RECENSIONE: RYAN BINGHAM-Tomorrowland (2012)
vedi anche RECENSIONE: BOB DYLAN-Tempest (2012)
vedi anche RECENSIONE: STEVE EARLE-The Low Highway (2013)
vedi anche RECENSIONE: WILLIE NILE-American Ride (2013)
vedi anche RECENSIONE: THE WHITE BUFFALO-Shadows, Greys & Evil Ways (2013)
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