domenica 14 ottobre 2012

RECENSIONE/REPORT live: WILCO+The Hazey Janes live@Teatro della Concordia, Venaria Reale (TO) 12 Ottobre 2012

Cosa fai stasera? Vado a vedere i Wilco. E cosa suonano? Se qualche amico sprovveduto vi ha fatto una domanda del genere, sono contento per voi. Vuol dire che almeno una volta nella vita avete visto la band di Jeff Tweedy, se siete riusciti anche a rispondere, avete pure tutta la mia stima. Io non ci sono riuscito, mi sono barcamenato, mettendo sul piatto due possibilità: o li invitate al prossimo concerto in modo da renderli partecipi in prima persona e fare in modo che se ne innamorino (possibilità accertata e garantita), o cercate di spiegarlo, tirando fuori la parabola della puntura del buon Mario Brega alle prese con una siringa e la sora Lella nel film Bianco, Rosso e Verdone. La musica dei Wilco "pò esse' piuma e pò esse' fero", proprio come la mano del buon Brega. In alcuni momenti anche tutte e due le cose contemporaneamente, come avviene nella pazzesca e terremotante esecuzione di Via Chicago, primo dei tanti encores di stasera. Possono farti nuotare comodamente nel velluto con la leggerezza di una piuma e un momento dopo penetrarti la pelle e scorticarla a carne viva, come un ferro incandescente che marchia indelebilmente. Aprirti le porte del sogno americano con la visione di infiniti paesaggi assolati che saporano di libertà, elevarti a mille miglia da terra fino a farti vedere le stelle (nel senso meno doloroso del termine), per poi farti ripiombare sul suolo, infierendo ulteriormente e frustandoti nel retro bottega della periferia più sporca di una metropoli, mettendoti a nudo di fronte ai vuoti labirinti della mente.
Prima di tutto questo, ad aprire la serata, i giovani scozzesi The Hazey Janes (tre ragazzi ed una ragazza), in giro già da un decennio, un paio di dischi incisi, ma sconosciuti ai più. Il loro set strappa timidi applausi grazie ad una miscela di alt-folck/pop che va tanto di moda oggi. Nulla di nuovo ma una occasione che sfruttano a dovere per far circolare il nome.
Le radiazioni dei Wilco volano subito alte nell'aria satura del Teatro della Concordia a Venaria Reale(TO), illuminata dagli abat-jour al contrario, appesi in sala come già avvenuto nelle date dei concerti della scorsa primavera. Un modo per farti sentire comodo come sul divano di casa, in ciabatte ed un televisore 3D davanti, mentre invece: i piedi da terra sono già sollevati alle prime note di Misunderstood e i suoni, che sembrano provenire ed attaccarti da tutte le parti, arrivano dal palco che hai di fronte, dagli strumenti di 6 musicisti al massimo della ispirazione e di livello artistico eccelso.
Jeff Tweedy è un capobanda che comanda senza alzare troppo la voce, imbardato dentro al suo stretto giubbotto di jeans, al cappellaccio stampato in testa e alle sue grandi scarpe, indice di cervello fino, come si diceva una volta. Un cervello che ha attraversato momenti più bui e sofferenti ma di grande ispirazione, mentre ora sembra godersi il meritato successo con disincantata serenità, complice una formazione che ha ormai trovato la quadra ideale, dopo aver superato anche il lutto per la morte di Jay Bennett. Alla sua destra, la geniale schizofrenia chitarristica di Nels Cline, le sue performance sono una gioia per orecchie e occhi, e portano il suono del gruppo a livelli inimmaginabili; tecnica, virtuosismo e follia unita ad una esaltazione interpretativa che ha pochi eguali. Alla sua sinistra, il fido bassista John Stirratt unico membro originale insieme a Tweedy, sempre preciso ed utile a cori, poi il solido "tutto fare" british -style Patrick Sansone a chitarre e tastiere. Infine, la retroguardia formata dall'instancabile martellatore Glenn Kotche alla batteria e l'occhialuto Mikael Jorgensen alle tastiere e valvole varie, che sa giocare di fino ma anche strappare i tasti quando serve.
L'ultimo album The Whole Love è un buon biglietto da visita che la band di Chicago ci ha rilasciato nel 2011. Un disco di totale indipendenza. Dentro c'era tutto l'immenso immaginario della mente ondivaga di Tweedy, c'era il posto per i vecchi ricordi alt-country alla Uncle Tupelo di Born Alone e Whole love, l'amore per il pop/sixties di I Might, il tormentone power-pop trascinante di Dawned On Me, la psichedelia. Le stesse mille sfumature (altro che quelle di grigio colorate che vanno di moda in libreria, qui si gode e si sogna di più) che permeano i loro live. Art Of Almost è pura bizzaria musicale contaminata da effetti ad incastro che permette alla band di scatenare le tre chitarre. I momenti migliori del concerto si vivono, infatti, durante questi assalti che vedono i Wilco esaltarsi, dimostrando coesione e precisione che attualmente poche band possono vantare, il tutto con estrema classe, senza mai cadere nella banalità che il rock spesso predilige.
Tweedy è meticoloso nel proporre ogni sera qualcosa di nuovo al suo pubblico, ne sono testimonianza le altre due scalette di Padova e Firenze. Ogni sera prepara ombre e radiazioni per stupire i suoi adepti. 
Raggi e oscurità che rapiscono i sensi nelle immancabili Impossible Germany da Sky Blue Sky(2007), diventata punto saldo di ogni loro concerto con la sua eleganza e con il suo finale jammato, la vecchia Passenger Side dal loro primo disco A.M.(1995), la controversa Jesus Etc. con Tweedy che invita tutto il pubblico a cantare, la beatlesiana Hate It Here, le scosse blues di Walken, e I'm the Man who loves you per l' iniziale trionfo personale del batterista Glenn Kotche.
Nell'ultimo quarto d'ora di concerto c'è tutta l'esaltazione del rock: le chitarre ruggiscono nei riff stonesiani di  Monday, e Outtaside (Outta Mind), accoppiata vincente del loro secondo album Being There(1996), mentre si fa festa in Hoodoo Voodoo, presa dal primo capitolo Mermaid Avenue(1998)(come anche California Stars), disco che musicava i testi perduti di Woody Guthrie insieme a Billy Bragg. Qui, a salire sul palco anche lo scatenato roadie baffuto rimasto a torso nudo, che partecipa alla festa, suonando il suo campanaccio. Ed un pensiero a salire con loro a far festa e ringraziarli ti assale. Ma è troppo tardi. Si esce dopo più di due ore, tutti con il sorriso stampato in faccia e solo buoni e lusinghieri commenti positivi. Tutto perfetto per essere vero. 

SETLIST:Misunderstood/Art Of Almost/Standing O/I Am Trying to Break Your Heart/I Might/Sunken Treasure/Born Alone/Laminated Cat/Impossible Germany/Shouldn't be Ashamed/Jesus Etc./Whole Love/HandShake Drugs/War On War/I'm Always in Love/Heavy Metal Drummer/Dawned on Me/Hummingbird/A Shot in The Arm/Via Chicago/Passenger Side/California Stars/Hate It Here/Walken/I'm The Man Who Loves You/Monday/Outtaside(Outta Mind)/Hoodoo Voodoo

venerdì 12 ottobre 2012

RECENSIONE: JAKE BUGG (Jake Bugg)

JAKE BUGG    Jake Bugg (Mercury Records, 2012)

Non fate quelle facce. Già immagino i vostri commenti mentre osservate la copertina di questo disco. No, lui non è il fratello gemello di Justin Bieber. Ha la stessa età, classe 1994, e per portarvi sulla retta via potrebbe anche permettersi-vista la raggiunta maturità- un accenno di barba come va di moda oggi tra gli hipster-folker, ma evidentemente l'aspetto fisico non gli interessa molto, preferendo mantenere la sua faccia pulita da bravo e broncioso ragazzo british in stile mod. L'unica cosa in comune con Bieber, fortunatamente, sono queste, l'età e il taglio dei capelli. Ora che siete più tranquilli, potete proseguire (non è un obbligo, comunque).
Pure io ho mancato il primo appuntamento con Jake Bugg e non sapevo nemmeno che faccia avesse. Complice del mio non avvenuto incontro è stato l'assurdo orario d'inizio del concerto di un altro giovane artista al suo debutto italiano: Michael Kiwanuka. Per dare spazio alla immancabile serata da discoteca del venerdì sera, ai Magazzini Generali di Milano si pensò di anticipare i tempi dei concerti e Jake Bugg che doveva aprire il set suonò quasi in orario da aperitivo. Me lo persi, e non ci feci caso più di tanto.
Ora però lo ritrovo con il primo disco omonimo, volutamento registrato quasi fosse un demo, anticipato di qualche mese dall'Ep Taste It che conteneva anche Kentucky (il suo sogno di musicista è chiuso qua dentro) e Green Man, qui non presenti .
Jake Bugg è nato nella operosa ed operaia Nottingham, ma potrebbe benissimo essere uscito da qualche Coffee House di Minneapolis, gli stessi frequentati dal giovane Bob Dylan. Sì, per il fiorente Bugg, l'appellativo di "nuovo Dylan" è già stato usato, e non così inutilmente. I riferimenti sono tanti, dalla fragile voce nasale che ricorda il primo Dylan, al carattere acustico delle sue canzoni, ai riferimenti artistici votati ai '50 (da Guthrie a Buddy Holly, da Hank Williams a Seeger) che sono gli stessi che influenzarono il giovane Zimmerman.
Arrivato alla musica quasi per caso a dodici anni, dopo l'abbandono del più popolare gioco del football, Jake Bugg ci è arrivato senza le scorciatoie, spesso illusorie di oggi. Niente talent show, quindi, ma una passione smodata tramandata dai genitori sia per il vecchio blues primigenio di Robert Johnson e quello contaminato di Hendrix, sia per il folk americano del primissimo Dylan, e di Donovan, ma anche per il rock'n'roll di Buddy Holly, e per le sue band preferite: i Beatles e gli Oasis. Proprio in questi mesi sta coronando un sogno, aprendo i concerti del suo idolo Liam Gallagher (che a sua volta stravede per lui), senza dimenticare i tour con Stone Roses, Snow Patrol e il già citato Michael Kiwanuka.
Lightning Bolt, il primo singolo, è un up-tempo a metà strada tra l'originario Dylan e quello prossimo alla scoperta elettrica di "Bringing It All Back Home", con un testo che sembra mettere subito in chiaro le cose: dichiarazione di vita precisa e dimostrazione di totale indipendenza dentro alla sua città (Sirens of an ambulance comes howling/Right through the centre of town and/No one blinks an eye/And I look Up to the sky in the path of a lightning Bolt), così come Trouble Town che potrebbe essere uscita dalle famose session tra Dylan e Johnny Cash del 1969.
Country Song ha la semplicità acustica e penetrativa del folk, così come la delicatezza da cuori infranti di Someone Told Me
Ma anche la potenzialità da tormentone sulla scia dei fratelli Gallagher di Seen It All, o l'accenno alla brit/beat generation di Two Fingers, (I drink to remember/I smoke to Forget) tra Beatles, Kinks e eredi (Oasis, Blur, Artic monkeys), o ancora il vecchio e veloce rock'n'roll alla Buddy Holly di Taste It . Insomma il ragazzo si presenta più che bene. La BBC e la Mercury Records non hanno perso molto tempo e il suo lancio a livello mondiale è imminente, con il conseguente rischio di bruciarlo prima di accenderlo. Anche se mi piace ancora credere alla favola di un ragazzo che ce la fa da solo grazie alle sue capacità. 
Dopo Johnny Flynn (che fine ha fatto?) e Mumford & Sons, l'Inghilterra piazza un altro bel colpo. Un talento che pur avendo ancora tantissima strada davanti e tempo per scrollarsi di dosso paragoni ingombranti ma utili per inquadrarlo (insomma non è Dylan, tanto per intenderci e scongiurare l'arrivo di insulti gratuti) dimostra uno straordinario carattere vincente, un buon songwriting e maturità. Ne sentiremo parlare, e spero nei posti più adatti e consoni.




vedi anche RECENSIONE-JAKE BUGG-Shangri La (2013)



 

mercoledì 10 ottobre 2012

RECENSIONE: KISS (Monster)

KISS  Monster  ( Universal, 2012)

I teatranti del rock, i veri depositari di quello che il rock'n'roll dovrebbe essere, portato all'estremo eccesso, per convincere anche i più scettici, scaltri uomini d'affari travestiti da rocker a loro volta travestiti, un modello per tante band hard rock in erba? I Kiss possono accontentare tutti, ammiratori e denigratori, e penso che, in questo momento, al conto in banca di un vero asshole come Gene Simmons non importi più di tanto sapere quanti siano a tifare da una parte e quanti dall'altra. La verità è racchiusa in quasi 40 anni di carriera. I Kiss sono stati tutte queste cose e continuano ad esserlo, incuranti dell'età e forse prigionieri del mostro da loro stessi creato. Un mostro che quando ha tentato di cambiare volto, abbracciando anche la serietà compositiva in dischi più articolati come Music From The Elder(1981), o seguire le mode del periodo con Carnival Of Souls(1996) ha faticato ad imporsi. 
Fossi stato in loro avrei continuato ancora senza maschere, ma vi parla uno che continua a considerare Revenge(1992) il loro miglior disco di sempre, e l'MTV Unplugged (1996) un signor live (senza dimenticare il primo epocale Alive-1975), dimostrazione di bravura della vecchia guardia in piena epopea grunge. Un marchio depositato nella storia del rock, volenti o nolenti: lo trovi in edicola nei fumetti, al supermarket, nei cartoons, nei film (chi si ricorda di  The Phantom Of The Park?), dal tabaccaio, scritto a pennarello negli zainetti di giovani scolari, e da chi progetterà il nostro funerale con bare di legno autografate. Ma anche nelle sale prova di giovani bands che vogliono ancora divertisrsi con il rock'n'roll, e qui sta il trionfo. 
Monster, accompagnato da una delle loro più brutte copertine della fase mascherata, poteva anche non venire alla luce. E' il destino di tutte le band dal passato importante ed ingombrante: fai pure uscire il tuo disco nuovo, ma l'importante è sentire dal vivo Deuce, Black Diamond, I Was Made for Lovin' You, Lick It Up, Love It Loud, Love Gun e tutte le altre 20 "imperdibili" in scaletta. E così sarà, a meno di clamorose e sporadiche sorprese, e Modern Day Delilah dal precedente Sonic Boom(2009) è un buona eccezione.
Invece Monster è qui, ripetizione riuscita (a metà) di quello che i Kiss hanno sempre rappresentato-quest'anno si è rifatto vivo anche il loro best seller Destroyer(1976) rimasterizzato ed ampliato, con un (Resurrected) in più nel titolo- ma una delle uscite migliori da quando la band ha deciso di ritornare sulle scene con il trucco. Meglio di Psycho Circus(1998) e alla pari di Sonic Boom.
C'è tutto l'immaginario che vogliamo da loro: sesso, divertimento, ruffianeria a palate, ammiccamenti, oscuro horror di serie B, la carica sensuale della voce maschia di Paul Stanley, i chorus efficaci, in più, il tutto è suonato da una delle migliori formazioni di sempre del "bacio". A parte i due masters Gene Simmons e Paul Stanley (co-produttore insieme a Greg Collins) c'è il batterista Eric Singer, il migliore e più completo mai avuto in formazione, entrato ed uscito dal gruppo a partire dagli anni '90, seguendo più o meno gli umori di Peter Criss ed il destino avverso del povero Eric Carr, ed il chitarrista Tommy Thayer che dopo il suo debutto nel precedente Sonic Boom(2009), si prende più spazio in fase di composizione, consacrandosi e seminando assoli lungo tutto il disco, senza far rimpiangere Ace Frehley, il solo e vero chitarrista dei Kiss per la fedele legione dei Kiss Army.
Parte benissimo Monster! Il singolo Hell Or Hallelujah, piazzata all'inizio e la seguente Wall Of Sound, che sembra addirittura omaggiare Helter Skelter dei Beatles (solo un caso?) hanno tutto il necessario per diventare due nuovi classici a metà strada tra i '70 e lo street degli '80: chorus immediati, incalzanti, grassi riff di chitarra e veloce dinamicità, la stessa che animava un disco come Lick It Up(1983). 
Freak (con l'unica concessione esterna al gruppo, affidata al piano di Brian Whelan) cala di ritmo, aumenta la pesantezza, quella che troviamo anche in Back To The Stone Age e più avanti in Devil In Me, con le sempre oscure vocals di Gene Simmons, non troppo lontane dal già citato Revenge, l'episodio più dark ed heavy della loro carriera.
You Wanted the best, You Got The Best....A questa domanda/affermazione vorrei rispondere sinceramente "Yes", ma diventa difficile farlo quando mancano vere sorprese, botti e fuochi di artificio. Un disco che parte in quarta e che arriva alla fine con un po' di ripetitiva stanchezza (o forse monotonia?) in alcuni episodi. A poco serve un nuovo inno al rock'n'roll come la più rootsy All For The Love Of Rock & Roll, cantata dal batterista Eric Singer, che difficilmente potrà scalzare dal trono nelle scalette dei loro concerti e nell'immaginario dei fan, canzoni come Rock and roll All Nite e God Gave Rock'n'roll to You, così come la finale Last Chance, travolgente e contagiosa se non l'avessimo già sentita centinaia di volte, celata sotto altri titoli. 
Gene Simmons nel 2001, apriva la sua autobiografia con queste parole:"...Dopo ventinove anni di gloria e tumulti, anni pieni di alti supremi e infimi bassi, l'America vedrà per l'ultima volta i Kiss in concerto...". Dieci anni dopo è tutto da aggiornare e riscrivere. In fondo il (hard) rock senza i Kiss non sarebbe lo stesso e si sa, un bacio tira sempre l'altro. Voto 7

vedi anche RECENSIONE: RIVAL SONS-Head Down (2012)




lunedì 8 ottobre 2012

RECENSIONE: HIDALGO/NANJI/DICKINSON (3 Skulls And The Truth)

DAVID HIDALGO/MATO NANJI/LUTHER DICKINSON  3 Skulls And the Truth (Shraphel/Mascot Music, 2012)

Prendete tre carcasse di bufalo (copertina brutta, brutta) ancora paradossalmente sbuffanti e scalcianti, ricucite addosso la polposa carne grondante rosso sangue e date loro tre chitarre Gibson/Fender; rinchiudete il tutto dentro ad uno studio con il produttore guru dei chitarristi Mike Varney e chiamate per nome e cognome quello che avete ottenuto, così come si faceva una volta con i supergruppi, e avrete uno dei dischi di hard/blues più spumeggianti e freschi dell'anno.
Arriva a sorpresa questo 3 Skulls And The Truth, dopo la  partecipazione dei tre axe men al Experience Hendrix Tour, tributo annuale ed itinerante dedicato al leggendario chitarrista di Seattle, che vedeva, tra i tanti, anche la partecipazione di altri luminari viventi della chitarra come Steve Vai, Buddy Guy, Johhny Lang, Eric Johnson... Una collaborazione nata quasi in modo improvviso, fortunoso e fatta di reciproco rispetto che riesce in 12 canzoni (per 65 minuti) a camuffare tutta questa apparente casualità e diversità musicale grazie ad una intesa collaborativa che sembra frutto di anni trascorsi insieme sopra ad un palco a jammare. I tre si dividono in modo equo, soli e vocals, facendosi aiutare dallo stesso produttore Varney e Steve "Lightin" Malcolm in fase di scrittura (l'unica firma assente nei credits è quella di Hidalgo) e dalla sezione ritmica formata da Jeff Martin alla batteria e Steve Evans al basso.
Luther Dickinson dopo North Mississippi AllStars e Black Crowes, ed un anno solare impegnatissimo tra dischi solisti e collaborazioni con South Menphis String Band, papà Jim e The Wandering è diventato, a tutti gli effetti, il nuovo prezzemolino del rock/southern/blues americano, cercato e venerato un po' da tutti, David Hidalgo è in libera uscita dai suoi Los Lobos, in vena di divertimento ed in cerca di decibel dopo la collaborazione su Tempest di Dylan e Mato Nanji , è leader e chitarrista pellerossa degli Indigenous, carriera marchiata e devota al blues, che si porta dietro il batterista della sua band.
Per chi è rimasto parzialmente deluso dalla cura Rubin, e dal ventilato (anche qui, parziale) ritorno alle radici dei nuovi ZZ Top in La Futura, in 3 Skulls And The Truth potrà trovare la semplicità di quel hard/blues grezzo, poderoso ed incontaminato. Canzoni crude e corpose come The Truth ain't What It Seems o l'opener Have My Way With You perfetto incrocio tra ZZ Top e Hendrix. 
Duelli chitarristici che raramente sfociano in jam improvvisate, preferendo la forma canzone: il funk/blues di Make It Right, il trascinante vortice boogie di Coming Home, il southern di All I Know, l'incedere hard di The worldly And The Divine, la calma dilatata e darkeggiante di Cold as Hell, i devoti omaggi a Hendrix in Natural Comb Woke Up Alone che chiedono solo un palco dove essere suonate, se mai capiterà e se il progetto non si fermerà qui, sul più bello.
Un equilibrio quasi perfetto, per un gruppo improvvisato, dove tecnica, feeling e canzoni non prevalgono mai l'una sull'altro. A prevalere sono sempre le chitarre, assolute protagoniste. Poco originale, certo, ma assolutamente fresco, di impatto e piacevole.Non so se è sola casualità, ma tre dei dischi più interessanti, sorprendenti, anarchici e divertenti dell'anno (gli altri due sono i lavori firmati Chris Robinson Brotherhood)  arrivano da progetti messi in piedi da membri dei Black Crowes in libera uscita. Sempre aria buona dalle parti di Atlanta.





mercoledì 3 ottobre 2012

RECENSIONE: ROBERT FRANCIS (Strangers In The First Place)

ROBERT FRANCIS   Strangers in the First Place (Vanguard Records , 2012)

Che fosse un predestinato della musica, lo si poteva capire leggendo la sua breve ma pesante biografia. Cosa fareste se un certo Ry Cooder vi regalasse un chitarra quando il vostro maggiore pensiero nella vita è terminare le scuole elementari? Al piccolo Robert Francis capitò veramente, anche se da una posizione privilegiata: il papà musicista, pianista classico e produttore, una mamma di origini messicane ed uno stuolo di sorelle già canterine che all'età di sette anni lo coinvolsero a cantare delle ranchera songs. Il giovane Robert ebbe anche il privilegio di essere l'unico studente di chitarra nella personale scuola di John Frusciante e di frequentare concerti, backstages ed artisti di livello in tenerissima età. Tutto fa brodo, quando arriva il momento di decidere cosa vuoi fare da grande, e Robert Francis, di dubbi non ne ha mai avuti.
Il risultato minimo fu il suo debutto discografico One by One (2007) avvenuto a soli diciannove anni, permettendosi di apparire in copertina  rivisitando graficamente, a suo modo, la cover di The Time They Are A-Changin' di Bob Dylan, cercando di ripeterne anche la formula sonora ridotta ad un minimale folk acustico.
Oggi, Francis, di anni ne ha venticinque, è un polistrumentista a tutto tondo, e dopo il debutto ha inciso un secondo disco Before Nightfall (2009), più ricco musicalmente e che conteneva il successo Junebug, ma è questo nuovo Strangers In The First Place a disegnarne l'avvenuta maturità e (forse) cifra stilistica, pur lasciando, per il futuro, ancora tante porte da aprire. Canzoni nate in solitaria tra il buen retiro di Malibu e viaggi nelle west highways in compagnia delle quattro ruote di un van e del suo inseparabile cane-quello ritratto in copertina. Essenziali canzoni d'amore, ordinate ed eleganti nella loro formula che spesso sconfinano nel pop/rock (Perfectly Yours, Eighteen, il singolo dalle alte potenzialità Heroin Lovers) senza perdere l'estrema profondità delle sue liriche intimamente segnate dalle sofferenze d'amore e messe su foglio come piccole poesie, e potendo contare sull'aiuto, in studio, di personaggi di prim'ordine, dallo stesso Ry Cooder (presente anche nel precedente disco), a Joachim  figlio dello stesso Cooder, Jim Keltner, Blake Mills a Mike Capbell, fino alle sue adorate sorelle ai cori.
Da una Alibi, che segue la profondità solcata da Leonard Cohen, arrivando quasi a plagiarne il capolavoro Suzanne, ad episodi più rootsy-pochi in verità se confrontati con il passato- come la dylaniana The Closet ExitStar Crossed Memories che sovrappone spazi mentali e paesaggi naturali tra banjo, armonica e fini arrangiamenti, a ballate beatlesiane battente bandiera MacCartney come I Sail Ship.
Una vocalità calda, chiara e rassicurante che emerge negli episodi più ricercati con ricchi ma mai invadenti arrangiamenti orchestrali come in Some things never Change e l'iniziale Tunnels.
Pur alzando poco la voce e pagando dazio ad una omogeneità e rilassatezza a volte eccessiva lungo tutto il disco, Robert Francis riesce a mettere a fuoco la sua grande facilità di scrittura, fluida ed eterea, fini arrangiamenti ed un potenziale altissimo ma ancora tutto da scoprire in futuro.







martedì 2 ottobre 2012

RECENSIONE: RIVAL SONS ( Head Down )

RIVAL SONS  Head Down ( Earache Records, 2012 )

I californiani Rival Sons battono il ferro finche' è caldo. E' passato solamente un anno dal loro secondo disco Pressure & Time, lavoro che li proiettò in cima alle preferenze di chi non disdegna quei giovani gruppi con lo sguardo proiettato sempre al passato del rock. (Sì, va bene chiamiamolo retro-rock). Un anno che li ha visti protagonisti sopra ai palchi di tutto il mondo,confermare ed amplificare quanto la musica che usciva dal loro precedente album di studio, aveva dietro quattro artisti di tutto rispetto (il debutto Before The Fire-2009 fu autoprodotto e passò inosservato). Chi ha avuto la fortuna di vederli, potrà confermare. Nessun inganno. I ragazzi ci sanno fare veramente e questo Head Down riesce anche a superare tutto ciò che è stato prodotto fino ad ora, in virtù di una maturità acquisita con il sudore del palco, attitudine e dedizione assoluta al verbo rock a 360 gradi, sfruttando la voce del cantante Jay Buchanan, vero asso nella manica da calare con orgoglio.
I punti di riferimento erano e rimangono sempre gli stessi, ma questa volta si aggiunge un tocco di personalità che fa la differenza, mentre anche la durata totale delle canzoni si allunga (circa 55 minuti) andando quasi a doppiare quella del precedente album. Testimone: la lunga suite Manifest Destiny che nasce tra i fumi psichedelici, dilatata e divisa in due parti, che complessivamente supera i dodici minuti.
Se Pressure & Time rappresentava l'urgenza di arrivare e toccare tutto e subito, scivolando sulla superficie dell'hard rock più belluino, questo Head Down penetra nelle fessure, si allarga e scopre nuove possibilità tra la psichedelia, il R&B, il glam, il soul, il folk, il garage e il beat degli anni sessanta, rallentando i ritmi e giocando con la profondità, aiutati dalla produzione della coppia Dave Cobb e Vance Powell, e forse influenzati dalla quiete musicale che Nashville, città dove è stato registrato il disco, è riuscita a trasmettere.
Pur non mancando di immediatezza: You Want To è una kick-ass song veloce e diretta che colpisce in modo furioso, dove la chitarra di Scott Holiday gioca con la voce di Jay Buchanan, in un continuo alternarsi di accelerazioni, pause e ripartenze, come dei novelli Page-Plant o Townshend-Daltrey.
Jay Buchanan continua a rimanere una delle migliori voci rock sentite negli ultimi anni (anche la presenza scenica non è da meno) e lo si può verificare fin dall'apertura Keep On Swinging, un calcio ben assestato e mirato verso i '70 tra le reti di Led Zeppelin, Free e Thin Lizzy, ma soprattutto nella staordinaria e delicata drammaticità folkie di True, che chiude il disco; pressapoco una prova solista in cui il cantante, dimostrando maturità e tecnica vocale eccelsa, riesce quasi a toccare  le vette e l'estensione di Tim Buckley, mentre  Jordan è un esercizio soul non alla portata di tutti. Ascoltare per credere.
C'è ancora il divertimento negli ammiccamenti viziosi e sensuali di Until The sun Comes, i ritmi soul/pop in Wild Animal, song che non si stacca troppo dalle ultime produzioni di casa Black Keys, la strumentale, acustica e poco significativa Nava, i colpi all'anima nel hard/blues sporco di Run From Revelation e nella saltellante All The War. 
Varietà è la parola d'ordine di un gruppo, tra i più credibili e completi dell'ultima generazione. Derivativi e riciclatori, certo, ma con superiorità e classe.
Gordon Fletcher, giornalista e critico di Rolling Stone negli anni settanta, iniziò la recensione di Houses Of The Holy, album dei Led Zeppelin del 1973 con questa frase:"I Led Zeppelin hanno rappresentato l'epitome di tutto quello che il rock ha di buono: un buon lavoro di chitarra,voce e sezione ritmica potenti, devozione alle primordiali forme del blues e soprattutto una tonante eccitazione live e su disco...", la recensione continuerà con altre parole-meno belle- che bocciarono il disco. Con i dovuti e rispettosi distinguo, Head Down dei  Rival Sons si accontenterebbe di queste prime.  



sabato 29 settembre 2012

RECENSIONE: BLACKBERRY SMOKE ( The Whippoorwill )

BLACKBERRY SMOKE  The Whippoorwill ( Southern Ground Recording Group, 2012)

Nel sud degli States c'è una band che da alcuni anni sta riportando sui palchi  i vecchi fervori del southern rock più datato ed emozionale. Quello semplice e radicato. Quello che riesce ancora a trattenere ed incarnare gli ideali dei '70 e bilanciare musicalmente, in modo quasi perfetto, la parte country con quella più rock e blues, gli assalti chitarristici con la melodia. Lo fanno con estenuanti tour da headliner o aprendo per celebrità come ZZ Top, Lynyrd Skynyrd e The Marshall Trucker Band. I concerti ed il pubblico sono la loro linfa vitale e non mancano occasione per evidenziarlo.
Vengono da Atlanta, il loro nome è Blackberry Smoke e The Whippoorwill è il terzo album in carriera dopo Bad Luck ain't no Crime (2004) e Little Piece of Dixie (2009).
Anche se in questo nuovo lavoro non mancano deviazioni verso la parte più bucolicamente country e melodica della loro musica, niente è immutato nella loro scrittura e nella loro attitudine. Una canzone come la memonica One Horse Town farebbe invidia a più di un songwriter di country/americana e potrebbe portarli ad un grande successo commerciale. Gli spazi dilatati, aperti da lap steel e piano in un sogno chiamato The Whippoorwill con una chitarra  che ricama come un Neil Young a Zuma, non lasciano indifferenti, così come l'apparente semplicità dell'honk-tonk blues acustico di Ain't Got the Blues con dobro e piano.
Guidati dalla calda voce del singer e chitarrista Charlie Starr e dalla chitarra di Paul Jackson, con la sezione ritmica formata da Brit Turner alla batteria e Richard Turner al basso, con il prezioso intervento Brandon Still al piano e organo, i Blacberry Smoke innaffiano le radici del genere southern con devozione e rispetto ma anche con la schietta e fresca spavalderia giovanile.
L'apertura Six Ways to Sunday è quel southern/rock boogie con pianoforte che difficilmente si può trovare negli ultimi lavori dei Lynyrd Skynyrd. L'equazione è presto fatta: le nuove generazioni suonano vecchio e vintage, le vecchie band strizzano l'occhio al moderno, non sempre in modo credibile purtroppo. Qui di moderno troverete poco. Il camino acceso, il vino nel frigo e la voglia di perdonare le scappatelle di un vecchio amore nella melodia di Pretty little Lie, parlano chiaro.
Ancora amore e donne in Everybody knows she's Mine , fede in Ain't Much Left of Me che  battono dalle parti dei fratelli Robinson.
Leave A Scar è la canzone più veloce, con un taglio chitarristico molto hard ma con  banjo e hammond che cercano di farsi spazio, così come Crimson Moon e Sleeping Dogs bilanciate tra esplosioni hard di stampo '70 e riflessiva armonia acustica. Rock da grandi arene ma sempre funzionale e trascinante.
Dopo una Shakin Hands With the Holy Ghost dove il riff sembra provenire dal vasto repertorio degli AC/DC, il disco si conclude con Up the Road, ballata che sembra essere la loro dichiarazione di vita, con un finale in crescendo tra chitarre duellanti e cori gospel. 
Perfettamente prodotti da Clay Cook (presente alle percussioni in quasi tutte le canzoni), Matt Mangano e Zac Brown, il disco, che esce per l'etichetta discografica dello stesso Brown, si presenta in una veste grafica volutamente vintage e affascinatamente seppiata.
Per avere il quadro clinico del southern rock odierno, è obbligatorio passare per le strade della Georgia calpestate dai Blackberry Smoke. Sui cartelli stradali leggerete: in salute.


  

martedì 25 settembre 2012

RECENSIONE: MICHAEL McDERMOTT ( Hit Me Back )

MICHAEL McDERMOTT  Hit Me Back  ( Pauper Sky records, 2012)

Basterebbe la visione del bellissimo, originale ed autoironico/biografico video che accompagna Hit Me back, canzone e title track che apre il nuovo disco del cantautore americano Michael McDermott. Un pugile, lo stesso Michael, combattente e carico di tante buone intenzioni che affronta il mastodontico avversario (la vita in tutte le sue forme) che senza pietismi lo riempie di botte: labbro tumefatto, occhi neri e alla fine lo manda a tappeto, senza troppi complimenti. Metafora di vita. Batoste che segnano volto e percorsi, lasciando ferite e cicatrici che solo il tempo riesce a rimarginare. Nel frattempo, ci si consola nei modi più facili e spicci, e l'alcol è molto spesso un compagno sicuro ma traditore. Ma poi, se si ha la forza, si viene fuori da tutto: con la forza di un amore (Let It Go)-la moglie e artista Heather Lynne Horton sposata in Italia; dei figli -fresca paternità; la fede-le origini irlandesi; gli amici-tanti anche in Italia; i viaggi ( ascoltate l'elogio ai treni di Dreams about trains)-Michael ama talmente tanto il nostro paese che chiude il disco con una speciale dedica alla nostra terra, intitolata semplicemente "Italy". Gli appigli sono sempre presenti e visibili se non ci si lascia volutamente accecare. Scars From another Life, parla proprio di questo: per andare avanti bisogna lasciare le cicatrici da qualche parte, nel passato, in un altra vita.
La vita di Michael McDermott è passata veramente da quel ring ed i round, a volte, sembravano infiniti, tanto che qualcuno (il regista John Dahl) li mise anche in pellicola (Il giocatore-1998). Un cantautore dal talento brillante e scintillante -chiedere informazioni allo scrittore Stephen King che lo ha sempre sostenuto e spesso citato nei suoi libri- che ha dovuto sgomitare con tutto quello che la vita gli ha messo di fronte: da uno strepitoso debutto (620 W.Surf-1991) (forse) mai eguagliato-avvicinato solo dal secondo Gethsemane(1993), dalle case discografiche che a volte sembrano recitare un ruolo più da avversarie e ostacoli che vere amiche su cui poter contare, alle perdite umane che ne hanno segnato le liriche, a quei paragoni artistici che inizialmente fanno piacere ma che poi diventano un altro macigno ingombrante, tanto da fare da zavorra se si vuole spiccare veramente il volo con le proprie ali.
Anche Hit Me Back,  dodicesimo lavoro del songwriter di Chicago prende forma dopo una perdita importante: la morte della adorata madre, avvenuta nel 2011. Da questa perdita parte un lavoro come sempre introspettivo e ricco di sfumature musicali che sa guardare, sì alle cicatrici del passato ma anche calarsi con ottimismo nel più radioso presente. La mano del produttore CJ Eiriksson, non del tutto nuovo a McDermott, uno che ha lavorato con U2, Phish e Incubus si sente nei momenti più rock/pop come la titletrack, in She's gonna kill me, negli arrangiamenti orchestrali di Let It Go, nel'appeal radiofonico di The Prettiest Girl in the World ( con la chitarra di Grant Tye) che lo stesso McDermott non esita ad indicare come la canzone più divertente e spensierata che abbia mai composto che si contrappone in modo deciso al rock tirato e teso di Ever After, vera e propria dedica alla madre appena scomparsa. 
Senza dimenticare il prezioso lavoro di Klem Hayes al basso, Larry Beers alla batteria, Danny Mitchell alle tastiere e della stessa moglie Heather al violino e cori.
Ma il disco paradossalmente, almeno per me, inizia a prendere il volo quando la musica si libera di orpelli ed elettricità, diventando spoglia ed ombrosa. Le evocative visioni della folk ballad I Know a Place...,e soprattutto l'ultima parte del disco che ti inchioda i guantoni con chiodi di rara e piacevole bellezza, che sembrano fissare il tempo a poco più di vent'anni fa, quando le sue canzoni stregarono pubblico e musicisti. Canzoni nude ed acustiche che esaltano la sua voce e scrittura genuina, sensibile e profonda. Quando partono la intensissima ballata pianistica Is there a kiss left on your lips; e A Deal with the Devil, una dark western song, pronta a ricordarci che si arriva a Dio solo dopo aver fatto conoscenza del demonio.
I sei minuti di rara bellezza di The Silent Will Soon be Singing; e poi la sentita Where the river meets the sea che è, come spiega lo stesso McDermott, una di quelle canzoni che ti arrivano magicamente in dono da forze sconosciute. La dedicò al musicista Eric Lowen, malato di Sla, meglio conosciuto in coppia con Dan Navarro e morto nel marzo di quest'anno e la cantò al funerale della madre, che già in vita riuscì ad apprezzarla. 
La breve e acustica Italy, finale e speciale omaggio nato dopo una serata passata con amici italiani a Rocca San Casciano, è un piccolo affresco che emana sincera gratitudine ad un paese che lo ha adottato e che lo ospita sempre volentieri.
Se Michael McDermott ha ritrovato se stesso, noi abbiamo ritrovato, almeno nella seconda parte del disco che è quella che mi ha colpito di più, la sensibilità di un artista troppo spesso dimenticato (Stephen King dixit). Un outsider della musica che nemmeno con questo disco scalerà le classifiche di popolarità. Ma in fondo, chi ama la sua musica non vuole propriamente questo. Avanti Michael, la campanella dell'ennesimo round sta per suonare.

vedi anche RECENSIONE: MICHAEL McDERMOTT & THE WESTIES-West Side Stories (2014)







 

domenica 23 settembre 2012

RECENSIONE: FEDERICO BRUNO ( A Gentleman Loser )

FEDERICO BRUNO A Gentleman Loser ( Secondo Avvento produzioni, 2012)

Federico Bruno ha già scelto da che parte stare. In Italia, una scelta come la sua passerà sempre e comunque come una "scelta da pazzi", da perdenti appunto. Conosco avvocati che si attaccherebbero a qualunque cosa pur di avere una scrivania su cui appoggiare i piedi. Federico, ad un certo punto della sua vita, ha scalciato la sedia dell'ufficio e ha provato ad inseguire il suo sogno. Già questo meriterebbe rispetto; peccato che non faccia pop da classifica, perchè qui in Italia la sua musica difficilmente verrà premiata e la meritocrazia è l'utopia del secolo. Il tutto naturalmente depone a suo favore, qui,dalla nostra parte, quella dei perdenti ma onesti. Da oggi anche un po' più gentleman.
Registrato a Padova con l'aiuto di Manuel Bellone al basso e Domingo Cabron alla batteria, sotto la produzione di Mahatma Pacino e con la preziosa collaborazione di altri amici musicisti. Con una copertina che mi ha subito rimandato a Whiskey for the Holy Ghost di Mark Lanegan, dove però nessun fantasma fa ombra al tavolo: Federico è lì, presente, vivo con la sua sigaretta accesa e il bicchiere davanti. Il siciliano Federico Bruno vuole raccontarci la sua vita: lo si capisce subito quando parte la prima strofa di Burning star: "This is my life..."come un Mike Ness solista senza i suoi Social Distortion.
Ballate elettro-acustiche (I Fought the Devil (But he won))che di whiskey e fumo sembrano nutrirsi come faceva il primo Rod Stewart, quello ancora lontano da tutine colorate e paillettes, o meglio come faceva nei Faces in compagnia di quella faccia da schiaffi di Ron Wood. Come avrebbero potuto fare ancora per tanto tempo quel poco di buono di Johnny Thunders o quel poeta maledetto che fu Nikki Sudden se fossero ancora tra noi. Come facevano tutti quei personaggi di certo sleaze glam ottantiano (Roman Candle,Troubles), quelli più vissuti, genuini e meno appariscenti, quando salivano sopra ad un palco cercando di reinterpretare  la lezione impartita, qualche anno prima, dagli Stones in esilio parigino. O come nei novanta, quando il grunge staccava la spina e manteneva intatto tutto il suo carico emotivo di disagio e voglia di comunicare con il mondo.
Il crepuscolo di chi sa di dover remare contro tutto e che si sente, a volte, intrappolato o inadeguato nell'amaro folk di Trapped, poco amato e pieno di ferite aperte (Scars on my heart), ma sempre combattente e mai domo, nello scoppiettante rockabilly acustico di Like Once I did e pronto per continuare ad amare con rinnovato spirito (I Love You).
Ballate amare e intimistiche, confessioni in musica che improvvisamente cambiano di umore, quasi a voler rivendicare ad alta voce una appartenenza (Gentleman Loser), assoli di chitarra che escono dai cocci di vetro di Broken Glass che si chiude come un vecchio gospel blues innaffiato nell'alcol. La scelta, controcorrente, di danzare sotto la pioggia quando tutti si mettono in mostra sotto il cocente sole, in Dancing in The Rain.
Ecco, questo è un disco che vuole dare voce  a tutti quelli che, almeno una volta nella vita, si sono trovati soli davanti ad un bancone con un bicchiere pieno e la testa svuotata, pronta ad essere riempita da capo.
Il disco di Federico Bruno è un disco di cuore, pancia e sentimento. Di petali rossi che galleggiano nell'alcol ma che di affondare non ne vogliono sapere.

venerdì 21 settembre 2012

RECENSIONE: JOHN HIATT ( Mystic Pinball )

JOHN HIATT  Mystic Pinball (NewWest Records, 2012)

Dal fango e i jeans sporchi ai mistici passatempi da bar, il passo è stato più breve del previsto. John Hiatt, ad un solo anno di distanza dal precedente Dirty Jeans and Mudslide Hymns si ripresenta, riconfermando la straordinaria prolificità degli ultimi cinque anni e di tutta una carriera, a dire il vero. Ispirazione che gli ha permesso di registrare quattro album di discreto valore in cinque anni, questo è il terzo consecutivo negli ultimi tre. Dischi che hanno permesso a Hiatt di ritrovare una vena creativa brillante e fresca, cercando e riassaporando profumi dentro ai meandri della tradizione: il rock, il blues, il country, il soul.
Accompagnato ancora una volta dai suoi ormai fidi e solidi The Combo (Doug Lancio alla chitarra, Patrick O'Hearn al basso, Kenneth Blevins alla batteria) e dal produttore Kevin Shirley, e registrato a Nashville come il precedente, proprio da dove partì la sua carriera quand'era ancora diciottenne.
Un disco che poco aggiunge alla sua carriera e lontano dai suoi capolavori di fine anni ottanta (Bring The Family-1987, Slow Turning-1988) nati dopo periodi bui e di disperazione. Ora, alcune profonde ferite si sono chiuse e lo spirito osservatore può indagare con più tranquillità, mantenendo comunque l'urgenza comunicativa di sempre. Dice che, arrivato alla soglia dei sessantanni, sia tornato con lo spirito fanciullesco. Si sta divertendo. Si sente. Infatti c'è, ancora una volta, tutto quello che fa di Hiatt, uno dei più grandi songwriters americani, stimato, imitato e ricercato dai grandi interpreti. La sua incredibile voce soul, con il tempo sempre più aspra, i suoi testi: intrisi di romanticismo, cuori spezzati, l'amore che piace e quello che  fa soffrire, l'umanità raccontata (anche) con spietata ironia, le pieghe dell'America più nascosta. Un gradino inferiore, a livello di liriche, rispetto al suo rilassato predecessore (anche se Wood Chipper presenta un bel quadretto), ma musicalmente più vario e divertente.
Questa volta le chitarre elettriche prendono il sopravvento, almeno nelle prime tre canzoni, cocciando contro le sfocate e rilassanti figure di copertina-e retrocopertina- che lo vedono ritratto, in verità, un po' preoccupato e meditativo.
Il singolo We're alright now è un rock/blues pressante con tanto di claphands che ci incita a prendere coscienza e dare importanza alle piccole cose anche quando i giorni non vanno così bene come si vuole (...feels good like eatin' ice cream/so I try to have a little bit every day...), con quella impronta gospel/soul nei cori che abbiamo imparato a conoscere negli anni. Bite Marks batte territori stonesiani chiamando in causa Lee Van Cleef e immagini di un amore sanguinario, violento ma estremamente conturbante e seducente. It All Comes Back Someday è un blue-collar rock, buono per scorribande in autostrada, mentre You're All The reason I Need ha il taglio del brit-pop '60.
La già citata Wood Chipper è chitarristicamente oscura e avanza lentamente, quasi in levare, con il suo testo che narra in modo sapientemente cinemtografico di un triangolo amoroso finito nel peggiore dei modi, senza trascurare inaspettati e  ironici retroscena.
In My Business, John Hiatt ulula, scalcia e canta: "my babe don't like my business", mentre la canzone avanza diretta e giocosa nel segno del blues più contagioso, così come One of them damn days, un canonico e alcolico omaggio al blues del Delta con le chitarre ancora protagoniste.
Non mancano le ballate: I Know How to Lose You, l'arpeggiata, sofferta e dolorosa No Wicked Grin; I Just don't know what to say è una canzone con le chitarre di Lancio impegnate ad evocare spazi infiniti ed il pianoforte suonato da Hiatt come ai bei tempi di Have A little Faith in Me; oppure canzoni più rootsy come Give it Up, un allegro country up-tempo con la pedal steel di Russ Pahl e coro doo-wop contagioso, o la finale Blues can't even find me, folk con tanto di dobro e mandolino.
Nel mese delle pesanti uscite discografiche di settantenni (Dylan e Hunter), un sessantenne come Hiatt prenota, da protagonista, il prossimo decennio. Magari cercando di dare un po' di respiro ai suoi fans. Uscite così ravvicinate potrebbero togliere quell'attesa che ti fa assaporare meglio le cose e i dettagli. Il mio è un consiglio da ascoltatore. 
Infatti, a smentita, sembra che Hiatt abbia già pronte alcune canzoni per il prossimo anno. E' veramente tornato un ragazzino instancabile.


mercoledì 19 settembre 2012

RECENSIONE: MARK KNOPFLER (Privateering) ZZ TOP (La Futura) CAT POWER (Sun)

MARK KNOPFLER  Privateering  (Mercury Records, 2012)

E’ capitato poco tempo fa. Era il tour che Mark Knopfler ha condiviso con Bob Dylan, un connubio che ritrovava l’intesa (artistica) dopo anni di distanza e pacifico armistizio. Sentire voci scontente dopo il concerto di Mark Knopfler:” Ma come? Solo due canzoni dei Dire Straits? Che delusione!”. Eppure il concerto era stato splendido. Le sue canzoni della carriera solista, estrapolate da quasi quindici dischi (comprese le numerose colonne sonore) suonate e cantate con cristallina limpidezza insieme ad una grande band che comprende Guy Fletcher alle tastiere, anche co-produttore, l'unico superstite dei Dire Straits. Un vero piacere per le orecchie. Eppure.
Eppure, per molti, Mark Knopfler rimane ancora legato al "rock da arena" che non gli appartiene più. E pensare che ormai i suoi anni da solista (29 anni dalla prima colonna sonora Local Hero-1983) hanno superato, di molto, quelli spesi solamente con la band (18).
Rassegnatevi, voi nostalgici degli anni settanta/ottanta. Mark Knopfler sta andando oltre (da un bel pezzo), é lui stesso ad ammetterlo senza rinnegare il passato, rispettandolo ma con lo sguardo artistico proiettato da altre parti. Ma basterebbe l’ascolto dei suoi dischi solisti e di questo nuovo Privateering ,che mi sbilancio ad erigere a suo miglior lavoro solista, per fugare ogni dubbio. Un disco che forse manca della stoccata vincente, della canzone da ricordare, ma assolutamente libero da ogni vincolo di genere. Rilassato e rilassante che potrebbe anche diventare soporifero per chi non è abituato a certi suoni. Forse il disco sognato da tanti anni, dove il lavoro preteso (dai fans) dalla sua chitarra elettrica può anche prendersi una meritata pausa.
Un disco (anzi due ,della durata complessiva di quasi un'ora e mezza) ambizioso, lungo ma estremamente godibile (a parte un paio di riempitivi), dall’inizio alla fine.
Qui c’è veramente tutto il suo universo di "britannico che sogna l'America", più volte avvicinata, dal progetto The Notting Hillbillies fino al disco country con Emmylou Harris. Ma c'è anche un po’ del passato dei Dire Straits-forse per accontentare i nostalgici, di cui sopra- nella rockeggiante Corned Beef City che potrebbe essere uscita da Brothers in Arms.
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ZZ TOP  La Futura (American Recordings,Universal, 2012)

C’era attesa per il ritorno dei più grandi, sanguigni e longevi rappresentanti dell’hard/blues texano. Attesa, perchè il loro ultimo album Mescalero (2003), che risale a nove anni fa, era da riscattare. Attesa perchè, in produzione, il nome del re mida Rick Rubin prometteva assai bene. Purtroppo, come a volte succede, non sempre nascono colorati e accecanti fiori dai cactus dell’arido deserto e quello che ne è uscito soddisfa e diverte ma non convince pienamente.Ci si potrebbe accontentare, ma a volte la pignoleria prevale.

Già un anticipo dell’album era uscito pochi mesi fa, sottoforma di Ep dal titolo Texicali, che conteneva quattro canzoni qua presenti.
Se il compito più arduo era quello di riportare il suono del power trio verso la retta via del rock/blues, si può dire riuscito. Niente pasticci elettronici, concessioni troppo smaccate all’airplay radiofonico e synth ingombranti, ma un suono diretto dove la chitarra di Billy Gibbons riprende la corsa e a seminare assoli graffianti, la sua voce è diventata più roca e aspra che mai con il tempo, e Dusty Hill e Frank Beard alla sezione ritmica mantengono quello che hanno promesso dal lontano1970, anno di formazione della band: tiro e solidità. Il titolo La Futura fa il resto, richiamando le migliori opere degli anni settanta e onorando l’entrata nella Rock n Roll Hall Of Fame avvenuta nel 2004.
Quel (poco) che non va? La produzione in certe canzoni sembra calcare troppo la mano verso la fredda pomposità, facendo perdere quello che in un gruppo sostanzialmente blues come gli ZZ Top dovrebbe essere l’imprint indiscusso: l’anima e il calore. Rubin (insieme a Gibbons in sala di produzione) ha lavorato con gli ZZ Top come lavora con i gruppi di estrazione thrash metal, quando invece avrebbe dovuto usare la mano che usò sui dischi di Johnny Cash o Tom Petty. Il rischio di far diventare il tutto molto freddo è stato toccato e superato...
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CAT POWER  Sun (Matador, 2012)

In sei anni possono succedere tante cose. A Chan Marshall sono successe e il frutto lo abbiamo tra le mani: scotta, disturba, raggela, in certi punti è perfino fascinosamente invitante, alcuni morsi sono anche nauseabondi e scaduti da un pezzo ( 3,6,9 è fastidiosa, i dieci minuti di Nothin But Mine sono una lungaggine mal sopportabile, interrotta solamente dalla voce di Iggy Pop).
Nel 2006 usciva il suo ultimo album di studio The Greatest (il disco soul, quello della maturità si disse) cui fece seguito nel 2008 il suo secondo capitolo di cover Jukebox, dove metteva in fila tutte le sue influenze. Nel frattempo, Cat Power, oltre al classico taglio di capelli dopo essere stata abbandonata dall’uomo della sua vita (la foto di copertina è comunque di qualche anno fa), ha raggiunto quell’età -i miei primi 40 anni- che per una donna sono un crocevia non di poco conto, fatto soprattutto di nuovi inventari mentali e fisici ( Cat Power sembra ancora la ragazzina ventenne del debutto Dear Sir-1995 ). Ha poi girato tanti studi di registrazione: a Malibu, Parigi e Miami, in solitaria, sì perché tutto quello che esce da Sun è suo, con il solo aiuto in produzione di Philippe Zdar (Cassius). Un parto travagliato anche questo disco, ma una dimostrazione di completo controllo sulla sua arte che sembra servire ad infondere fiducia, più a se stessa che al mondo che la circonda.
Un ritorno a casa e in se stessa (Ruin). La classica nuova (altra) rinascita (Sun).
Quello che ne è uscito musicalmente è completamente diverso da quello che vi aspettereste da lei. Dell’ Indie-folk è rimasto veramente poco, ma è quel poco che tiene ancora su la baracca. Sono rimaste le liriche, quelle sì, sempre estremamente personali e introspettive. Tutte le cicatrici del passato: infanzia, depressione, alcol, perdite umane, aborti e crisi personali di varia natura sono ancora lì, magari ben nascoste sotto ad un enorme cerotto color pelle, ma è una lunga cicatrice che nessun laser e nessuna maledetta macchina elettronica riuscirà mai a cancellare.
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