La prima volta che vidi Ryan Bingham fu all'ormai defunto Rolling Stone di Milano nel Gennaio 2008. Era appena uscito il suo debutto Mescalito(2007). Grazie ad un tambureggiante passaparola ed una buona campagna pubblicitaria, il locale era pieno e stupì non poco Bingham che nonostante un iniziale timore reverenziale, ne uscì vincitore, confermando tutte le buone parole che lo davano come il "radioso futuro del country/americana". Anche se mi fece lo sgarbo di lasciare fuori dalla scaletta Southside of Heaven. Maledetto, ero lì per sentire (anche) quella canzone e la nebbia coraggiosamente affrontata fuori dal locale faceva veramente poco Texas. Si farà perdonare qualche anno dopo.
In mezzo, il secondo disco Roadhouse Sun, che spingeva maggiormente sull'acceleratore rock. Poi lo vidi l'anno scorso sul palco più informale di Sarnico (Bg) nella piazza (in festa) del paese in riva al Lago D'Iseo. Fresco vincitore del premio Oscar, grazie a The Weary Kind, canzone che trainava il film Crazy Heart con Jeff Bridges protagonista nelle vesti di Bad Blake. Nessun atteggiamento da next big star, ma un approccio rock e scanzonato-coaudiuvato dai suoi The Dead Horses- che strideva con il suo ultimo album Junky Star che ci mostrava la sua anima più cantautorale, profonda, buia e sommessa. Quella sera Southside of Heaven era in scaletta e brillò.
Ora, ad un solo anno da quel concerto, molte cose sono cambiate: rotto il contratto con la prestigiosa etichetta Lost Highway, a cui va il merito di averlo lanciato, Bingham abbandona -sembra solo momentaneamente- anche la sua band The Dead Horses in qualche verde pascolo texano e si presenta con la sua personale etichetta discografica-fondata insieme alla moglie Anna Axster- e con una nuova sezione ritmica composta da Shawn Davis al basso e Matt Sherrod alla batteria, più un manipolo di ospiti (tra cui Keith Ciancia alle tastiere, Richard Bowden al violino e Greg Leisz alla chitarra) e dalla importante presenza in studio e produzione di Justin Stanley. Quasi a voler evidenziare una nuova fase della sua carriera ed una avvenuta maturità che gli possa permettere anche l'indipendenza e il coraggio di solcare nuovi territori musicali, lontano da ogni possibile imposizione e ricatto discografico. Una scelta coraggiosa ma estremamente esemplificativa per spiegare chi è questa ex promessa dei rodei nata nel New Mexico.
Nulla di eccessivamente stravolgente, ma Tomorrowland, fin dalle iniziali Beg For Broken Legs e Western Shore, si candida ad essere il suo disco più vario e sperimentale. Chitarre elettriche ben presenti- tutte suonate dallo stesso Ryan-ed un crescendo orchestrale che conquista, con la sua caratterizzante voce roca, rotta e dannata sempre in primo piano. Lo si era capito già dal primo singolo Heart Of Rhythm, un canonico e divertente inno al rock'n'roll, con poche pretese, tra fughe d'amore, musica salvifica e terra promessa-qualcuno ci crede ancora-, che sarebbe stato un disco diverso dal suo predecessore. E lo è.
Guess Who's Knocking è pesante, con un muro di chitarre stridenti e la presenza di Greg Leisz che si fa sentire, portando la memoria a ricordare alcune cose pìù rock e dirette di Lucinda Williams. Tutte cose buone da suonare sopra ad un palco, tenendo il tempo come sul corto punk'n'roll veloce e diretto di The Road I'm On, fiera e battagliera rivendicazione di chi in strada ci è nato e continua a viverci (Neverending Show).
Never Far Behind e Keep It Togheter presentano un Bingham che invece esce dalle strade sicure della tradizione rootsy per esplorare territori più moderni, soprattutto con il suono delle chitarre più dilatato, mentre Rising of the Ghetto, nei suoi sette minuti, è una composizione meno immediata, con strutture più complesse e stratificate di quanto ci avesse abituato precedentemente.Non manca comunque il lato più intimistico e cantautorale, quello che lo ha premiato con l'Oscar. Quello dove esce l'animo texano di un ragazzo dall'infanzia non certo felicissima, che ha trovato nella musica il riscatto, tanto caparbio da scalare in pochi anni tutte le tappe del music-business, con il merito indiscusso di rimanere sempre con gli stivali ben piantati nella polvere. Flower Bomb è la sua personale visione della società odierna, cantata e suonata come uno Springsteen in equilibrio tra il filo che lega Nebraska con The Ghost of Tom Joad e Devils and Dust. Fredda e glaciale esecuzione con sola voce e chitarra, così come la minimale No Help from God e il finale country/folk di Too Deep To Fill.
A qualche fan della prima ora verrà a mancare quella innocenza e spavalderia solare che contraddistinguevano il suo esordio Mescalito, così in linea con la tradizione rootsy di frontiera di vecchi padri come Steve Earle e Joe Ely, ma l'oggi trentunenne Bingham carica il suo van di tanti altri bagagli, che la sua ancora giovane età permette di portarsi dietro. Anche chi credeva che Junky Star potesse essere il suo picco di maturità meditativa, dovrà fare i conti con Tomorrowland; qui troverà tutto il suo recente passato e qualcosa in più, il suo presente ed un pezzettino di futuro. Un cantautore smanioso di mostrarci tutte le sue capacità, a cui non piacciono, a questo punto è palese, alcune etichette a cui è stato troppo frettolosamente accostato; tanto da ridisegnare il suo profilo artistico che rimane, e qui è il suo punto di forza, ancora onestamente credibile. Un disco modernamente rock che pecca solo nella eccessiva lunghezza(62 minuti per 13 canzoni), che potrebbe fargli perdere per strada vecchi fans, ma che conferma Bingham come una delle più interessanti proposte musicali uscite nell'ultimo decennio.
vedi anche RECENSIONE: RYAN BINGHAM live Sarnico(BG) 19 Giugno 2011