lunedì 17 settembre 2012

RECENSIONE: RYAN BINGHAM ( Tomorrowland )



RYAN BINGHAM   Tomorrowland ( Axster Bingham Records, 2012)

La prima volta che vidi Ryan Bingham fu all'ormai defunto Rolling Stone di Milano nel Gennaio 2008. Era appena uscito il suo debutto Mescalito(2007). Grazie ad un tambureggiante passaparola ed una buona campagna pubblicitaria, il locale era pieno e stupì non poco Bingham che nonostante un iniziale timore reverenziale, ne uscì vincitore, confermando tutte le buone parole che lo davano come il "radioso futuro del country/americana". Anche se mi fece lo sgarbo di lasciare fuori dalla scaletta Southside of Heaven. Maledetto, ero lì per sentire (anche) quella canzone e la nebbia coraggiosamente affrontata fuori dal locale faceva veramente poco Texas. Si farà perdonare qualche anno dopo.
 In mezzo, il secondo disco Roadhouse Sun, che spingeva maggiormente sull'acceleratore rock. Poi lo vidi l'anno scorso sul palco più informale di Sarnico (Bg)  nella piazza (in festa) del paese in riva al Lago D'Iseo. Fresco vincitore del premio Oscar, grazie a The Weary Kind, canzone che trainava il film Crazy Heart con Jeff Bridges protagonista nelle vesti di Bad Blake. Nessun atteggiamento da next big star, ma un approccio rock e scanzonato-coaudiuvato dai suoi The Dead Horses- che strideva con il suo ultimo album Junky Star che ci mostrava la sua anima più cantautorale, profonda, buia e sommessa. Quella sera Southside of Heaven era in scaletta e brillò.
Ora, ad un solo anno da quel concerto, molte cose sono cambiate: rotto il contratto con la prestigiosa etichetta Lost Highway, a cui va il merito di averlo lanciato, Bingham abbandona -sembra solo momentaneamente- anche la sua band The Dead Horses in qualche verde pascolo texano e si presenta con la sua personale etichetta discografica-fondata insieme alla moglie Anna Axster- e con una nuova sezione ritmica composta da Shawn Davis al basso e Matt Sherrod alla batteria, più un manipolo di ospiti (tra cui Keith Ciancia alle tastiere, Richard Bowden al violino e Greg Leisz alla chitarra) e dalla importante presenza in studio e produzione di Justin Stanley. Quasi a voler evidenziare una nuova fase della sua carriera ed una avvenuta maturità che gli possa permettere anche l'indipendenza e il coraggio di solcare nuovi territori musicali, lontano da ogni possibile imposizione e ricatto discografico. Una scelta coraggiosa ma estremamente esemplificativa per spiegare chi è questa ex promessa dei rodei nata nel New Mexico.
Nulla di eccessivamente stravolgente, ma Tomorrowland, fin dalle iniziali Beg For Broken Legs e Western Shore, si candida ad essere il suo disco più vario e sperimentale. Chitarre elettriche ben presenti- tutte suonate dallo stesso Ryan-ed un crescendo orchestrale che conquista, con la sua caratterizzante voce roca, rotta e dannata sempre in primo piano. Lo si era capito già dal primo singolo Heart Of Rhythm, un canonico e divertente inno al rock'n'roll, con poche pretese, tra fughe d'amore, musica salvifica e terra promessa-qualcuno ci crede ancora-, che sarebbe stato un disco diverso dal suo predecessore. E lo è.
Guess Who's Knocking è pesante, con un muro di chitarre stridenti  e la presenza di Greg Leisz che si fa sentire, portando la memoria a ricordare alcune cose pìù rock e dirette di Lucinda Williams. Tutte cose buone da suonare sopra ad un palco, tenendo il tempo come sul corto punk'n'roll veloce e diretto di The Road I'm On, fiera e battagliera rivendicazione di chi in strada ci è nato e continua a viverci (Neverending Show). 
Never Far Behind e Keep It Togheter presentano un Bingham che invece esce dalle strade sicure della tradizione rootsy per esplorare territori più moderni, soprattutto con il suono delle chitarre più dilatato, mentre Rising of the Ghetto, nei suoi sette minuti, è una composizione meno immediata, con strutture più complesse e stratificate di quanto ci avesse abituato precedentemente.
Non manca comunque il lato più intimistico e cantautorale, quello che lo ha premiato con l'Oscar. Quello dove esce l'animo texano di un ragazzo dall'infanzia non certo felicissima, che ha trovato nella musica il riscatto, tanto caparbio da scalare in pochi anni tutte le tappe del music-business, con il merito indiscusso di rimanere sempre con gli stivali ben piantati nella polvere.  Flower Bomb è la sua personale visione della società odierna, cantata e suonata come uno Springsteen in equilibrio tra il filo che lega Nebraska con The Ghost of Tom Joad e Devils and Dust. Fredda e glaciale esecuzione con sola voce e chitarra, così come la minimale No Help from God e il finale country/folk di Too Deep To Fill.
A qualche fan della prima ora verrà a mancare quella innocenza e spavalderia solare che contraddistinguevano il suo esordio Mescalito, così in linea con la tradizione rootsy di frontiera di vecchi padri come Steve Earle e Joe Ely, ma l'oggi trentunenne Bingham carica il suo van di tanti altri bagagli, che la sua ancora giovane età  permette di portarsi dietro. Anche chi credeva che Junky Star potesse essere il suo picco di maturità meditativa, dovrà fare i conti con Tomorrowland; qui troverà  tutto il suo recente passato e qualcosa in più, il suo presente ed un pezzettino di futuro. Un cantautore smanioso di mostrarci tutte le sue capacità, a cui non piacciono, a questo punto è palese, alcune etichette a cui è stato troppo frettolosamente accostato; tanto da ridisegnare il suo profilo artistico che rimane, e qui è il suo punto di forza, ancora onestamente credibile. Un disco modernamente rock che pecca solo nella eccessiva lunghezza(62 minuti per 13 canzoni), che potrebbe fargli perdere per strada vecchi fans, ma che conferma Bingham come una delle più interessanti proposte musicali uscite nell'ultimo decennio.

vedi anche RECENSIONE: RYAN BINGHAM live Sarnico(BG) 19 Giugno 2011   





venerdì 14 settembre 2012

RECENSIONE: CHRIS KNIGHT ( Little Victories )

CHRIS KNIGHT  Little Victories ( Drifters Church, 2012)

Chris Knight potrebbe essere il vostro lontano cugino americano. Il classico ragazzone del Kentucky, che ispira fiducia solo a guardarlo (una laurea in agricoltura), ma che potrebbe tenervi intere serate incollati davanti a due bicchieri di whiskey dentro ad un diner americano "tutto vetrate", e raccontarvi le tante storie che ha visto e vissuto in prima persona in quel pezzo di terra dove si estrae il carbone; terra che sembra andare sempre un po' stretta ma che alla fine si ama, e non si abbandona mai.
Knight non è più la giovanissima stella dell'americana; quello additato come il nuovo Steve Earle. Sono passati quattordici anni da quell'esordio omonimo del 1998, tanti anni e tanti dischi. Questo è il suo ottavo album in studio. Ora che ha superato i cinquanta, Chris Knight rivendica la sua totale indipendenza musicale. Uno dei migliori cantautori americani della sua generazione.
Il suo songwriting ha sempre parlato il linguaggio della gente comune, dei perdenti, delle difficoltà che si incontrano quotidianamente per le strade più battutte che portano nelle "small town" della sua zona, riuscendo a raccontare la sua terra e i suoi abitanti, gente semplice legata ancora al mondo rurale e all'unico bene, il carbone, che mantiene il lavoro dalla parte della sicurezza. Ma , anche, gente che sotto la cintura nasconde una pistola come nel vecchio far-west, facendosi giustizia senza aspettare l'intervento di sceriffi. Un cantautore alla vecchia maniera a cui piace poco l'avventura. Un abitudinario della musica che non ti inganna mai.
Di storie ne ha raccontate veramente tante in questi anni. Queste nuove gli sono arrivate in dono dopo che la sua terra fu colpita da una vera e propria tempesta di ghiaggio che non ha risparmiato nulla, lasciando le case senza elettricità e al buio per molti giorni. Una beffa nella beffa in questi austeri anni. A colpirlo, furono l'umiltà delle persone, pronte a ricostruire quello che la natura aveva spazzato via: anni di sacrifici rovinati da bombe di ghiaccio sganciate dall'alto e poi, chissà da chi?
Suonato quasi in presa diretta insieme alla sua band (Mike McAdam alla chitarra elettrica, Drake Leonard al basso e Michael Grando alla batteria), con la supervisione del musicista e produttore Ray Kennedy (già con Lucinda Williams, Steve Earle), in Little Victories (la canzone), Knight arriva, soprattutto, a coronare un sogno che si porta dietro fin da ragazzino. Perchè oltre a Steve Earle, l'altro metro di paragone è sempre stato il cantautore dell'Illinois, oggi sessantaseienne, John prine. Da sempre considerato il suo maestro musicale. Di Prine, furono le prime canzoni suonate alla chitarra dal giovane Knight. I due duettano in una intensa ballata folk/rock. Potrebbe essere questa una delle sue "piccole vittorie" personali.
Little Victories è però un disco che non ammette troppe autoreferenzialità, ma si propone di scuotere e spronare, mettere in risalto il carattere della sua gente, bilanciando in modo equo, il lato elettrico- esaltato dalla sporca e rovente produzione-con quello acustico della sua musica.
Canzoni tese e chitarristiche come Missing You (con l'ospitata di Buddy Miller), quando contare sulle proprie forze diventa utile e necessario in attesa di tempi migliori, che prima o poi arriveranno come cantato nell'iniziale rock In The Mean Time o come Jack Love Jesse con la sei corde di  Dan Baird ex voce e chitarra dei defunti Georgia Satellites. O la tesa andatura della finale The lonesome Way accompagnata dal violino di Tammy Rogers.
Ma anche ballate intimistiche come Nothing on Me, folk song solitarie per voce e acustica come Out of this hole, delicate country song guidate dal banjo  Hard Edges.
L'America raccontata da chi vive, ancora, a contatto diretto con l'illusione del sogno americano. Quello che i banchieri avverano e toccano con mano tutti i giorni, mentre i poveri continuano a leggerne sui libri di storia.
Un disco che non aggiunge nulla alla carriera di Chris Knight se non confermarne l'onestà nell'approccio alla scrittura e l'umile attitutine di continuare a lavorare nelle retrovie dell'americana con grandi risultati.
Un altro mattone di dura roccia che forma il muro che protegge il mestiere di chi usa la musica in modo ancora onesto e affidabile. La vera America emarginata, illusa e resistente che si aggrappa-ancora- a ciò che  una volta chiamavano romanticismo. Una garanzia.




 

mercoledì 12 settembre 2012

RECENSIONE: BHI BHIMAN ( Bhiman )

BHI BHIMAN   Bhiman ( Boocoo Music, 2012)

Perchè vanno bene i grandi miti della musica rock, quelli passati a miglior vita che ogni giorno si sorprenderanno leggendo la loro rivista musicale preferita fuori dall'edicola del paradiso/inferno, trovando ancora il loro nome legato alle ennesime vicende della loro normalissima vita terrena elevate a racconti da odissea; perchè vanno bene i bollettini giornalieri delle rockstar ancora in vita, elevati a  santi prima ancora di morire; perchè va bene una settimana (e più) di sbornia totale-meritata- con il nuovo Bob Dylan e Ian Hunter, ma là fuori, quelli che continuano a tenere in vita la musica di questi eroi del rock-vivi e defunti- sono i musicisti, quelli giovani, quelli che "sì, però assomiglia a questo e a quello". Hai voglia a scrivere.
Questo perchè, sarebbe un delitto scrivere dell'ennesimo concerto scandinavo di Springsteen o analizzare ancora una volta, nei minimi dettagli, la copertina di Sgt. Pepper's Lonely Hearts Club Band e non dedicare qualche parola ad un talento come Bhi Bhiman. Negli Stati Uniti, questo suo secondo disco( il primo fu Cookbook-2007), intitolato semplicemente Bhiman, è già uscito a gennaio e ha fatto incetta di numerose critiche positive. A Ottobre dovrebbe uscire anche in Europa.
Leggendo la sua biografia, l'unica cosa che rimane impressa è il suo paese d' origine: lo Sri Lanka. Concepito da genitori asiatici, Bhiman nasce e cresce negli Stati Uniti a St. Louis, con il grunge degli anni novanta nelle orecchie, come tanti della sua età. Il suo talento musicale, invece, lo riverserà nel folk/blues, sfruttando la sua potente e particolare voce d'impronta soul, scoprendo Richie Havens. Ragazzone dalle idee chiare e concise che tiene a precisare che mai avrebbe preso parte ad un talent show, solamente per mettere in mostra il suo talento vocale e cantando cose in cui non crede. Così come dice in una intervista.
E' proprio la voce, la prima cosa che ti colpisce ascoltando le canzoni. Successivamente arrivano i testi in cui gioca ad immedesimarsi in tanti personaggi in modo ironico e giocando con le parole, infine le melodie immediate e vincenti. Roba da rimanere fulminati al primo ascolto.
Passa poca differenza tra le solitarie canzoni folk per sola voce e chitarra come nel lo-fi voluto in Atlatl, in Kimchee Line che narra la vita, vista dalla parte di un prigioniero nord coreano, nell'accecante gelosia tra due innamorati raccontata in Crime of Passion, ed una Take What I'm Given che sembra appena uscita, in libera uscita, da una session alla Big Pink House in compagnia di The Band e Bob Dylan. I suoni della sua personale cantina.
Perchè quando Guttersnipe, folk/blues che apre il disco, parte lentamente come il treno appena visibile in copertina e quello del testo che vuole portarci in cerca di noi stessi come l'hobo che ne è protagonista, ti accorgi che Bhiman qualcosina in più lo ha veramente. La corsa aumenta di ritmo, i suoi vocalizzi penetrano e Ben Tudor al basso, Gabe Turow al cajon e percussioni e Sam Kassirer al piano e organo sono ottimi compagni di viaggio. Gli accostamenti a Van Morrison non possono che far piacere.
Nella breve strumentale Mexican Wine riesce a mettere in mostra il suo particolare talento chitarristico fingerpicking, mentre la storia di Ballerina sembra mischiare l'antico west e i primi del novecento, tra matrimoni impossibili, sparatorie e fughe rocambolesche. 
Uno di quei rari dischi che mi hanno colpito al primo ascolto e che ho ascoltato ininterrottamente per una giornata intera, consumando la scritta del tasto play; venendo meno a quella legge (non scritta) che vuole i dischi troppo immediati, traditori nel tempo. Questo non lo farà, ne sono certo. Dopo il disco di Lee Bains III & the Glory Fires, questa è l'altra bella "giovane" sorpresa dell'anno.
Forse sto esagerando, ma per i miti del rock c'è sempre tempo. Tanto ci aspettano nell'aldilà, fuori dall'edicola.





 

lunedì 10 settembre 2012

RECENSIONE: CHRIS ROBINSON BROTHERHOOD(The Magic Door)

CHRIS ROBINSON BROTHERHOOD  The Magic Door ( Silver Arrow, 2012)

Nemmeno il tempo di assimilare la prima parte del progetto Chris Robinson Brotherhood che si apre a noi la seconda porta, ancora una volta, apparentemente magica. The Magic Door, appunto. E titolo non fu mai così centrato.
Se il precedente  Big Moon Ritual viaggiava alto da terra, lungo lo spazio siderale e psichedelico, muovendo la verde erba dei campi sottostanti con la forza dei venti, questo secondo capitolo si sporca anche di terra e polvere, diventando in alcuni punti più diretto e terreno, giustificando così la voluta e netta distinzione tra i due lavori, nonostante tutte le canzoni arrivino da un'unica session di registrazione avvenuta al Sunset Sound di Los Angeles, sotto la produzione di Thom Monahan, e riuscendo ad aggiungere-magicamente- una nuova sfumatura a tutte quelle che il precedente lavoro aveva già fatto risaltare. Qui, le 7 canzoni vivono di vita propria, differenziandosi dal mood continuo che sembrava legare quelle presenti nella prima parte dell'opera. Due dischi legati ma in qualche modo differenti.
Bastino le due iniziali Let's Go Let's Go Let's Go e Someday Past The Sunset a confermare lo sbarco momentaneo sulla terra di questa nuova creatura di Chris Robinson. La prima è un vecchio successo del 1960 di Hank Ballard & The Midnighters, tra i primi precursori del rock'n'roll americano e spesso fondamentale ma dimenticato protagonista dei primi passi del rock. Un southern boogie blues trascinante dove Robinson sembra ritirare fuori gli artigli dopo le carezze di Big Moon Ritual così come in Someday Past The Sunset,  un oscuro blues dall'incedere quasi doorsiano e l'ombra di Johnny Cash a fare buio, il tutto trascinato dalla sezione ritmica  guidata da Mark Dutton (basso) e George Sluppick (batteria) e con la chitarra splendida di Neal Casal che si riconferma in grande vena creativa e punto di forza di tutto il progetto.
Little Lizzie Mae ha il passo rockabilly. Un aperto e sentito omaggio alla stagione più fertile del rock'n'roll, sempre alla loro maniera e con le tastiere di MacDougall, un piccolo mago dei tasti, pronte ad inserirsi e tappare ogni silenzio. Impossibile non notare alcuni riferimenti ai grandi del rock tra cui l' omaggio alla famosa rullata iniziale di Bonzo Bohman in Rock and roll.
Ci sono poi il country cosmico della finale Wheel don't Roll , altro esempio di quanto la band miri sempre più ad occupare il vuoto lasciato dai Grateful Dead più ispirati degli anni settanta, e la ripresa di Appaloosa, country/folk song che brillava in modo acustico nell'ultimo album Before the Frost...Until the Freeze dei Black Crowes  e qui trasformata con l'inserimento delle tastiere, senza perdere la sua limpida bellezza descrittiva. Grandi spazi, sogni e pace. Niente da chiedere in più.
Non mancano comunque canzoni che si riallacciano al primo lavoro: e' il caso del vero masterpiece Vibration & Light Suite, quattordici minuti di puro viaggio fisico-mentale in galassie sconosciute. L'inizio quasi soul/funkeggiante che si trasforma in un trascinante space/progressive con le tastiere di Adam MacDougall e la chitarra di Neal Casal vere protagoniste, fino a giungere allla liquida pace dei sensi finale. Veramente cose d'altri tempi e ispirazione creativa a mille, con largo spazio alla improvvisazione, come se tutto uscisse da un palco montato dentro alla vostra più fervida fantasia musicale, occupata e popolata- ancora -dai grandi festival, dalle grandi jam band e da quella grande voglia di libertà che animava il più ispirato, prolifico periodo della musica rock. Stupenda la lenta Sorrow of a Blue Eyed Liar, otto minuti di sogno etereo con Robinson ispiratissimo alla voce.
Ancora una volta non si butta via nulla. Un disco, come il precedente, figlio della incessante attività live del gruppo, qui catturata splendidamente da Thom Monaham. Due dischi che, uniti, riescono a dare l'idea di quanto la musica riesca ancora ad essere viva e vitale, fantasiosa, suonata con passione, anche lontano da circoloi esclusivi e canali di lancio preferenziali, e avendo una destinazione ignota e a lunga scadenza.  "Guardo alla musica come una conversazione e Neal (Casal) è un diffusore molto eloquente alla chitarra. Io sto solo cercando di mantenere la conversazione interessante" dice Chris Robinson.
Uno spot per la musica che meriterebbe ben altre ribalte. Ma qui, Chris Robinson mi sgriderebbe perchè la confraternita è, giustamente, cosa per pochi eletti. Suonate il campanello prima di oltrepassare la porta magica, potreste essere ospiti sgraditi.









 

 

venerdì 7 settembre 2012

RECENSIONE: IAN HUNTER & THE RANT BAND (When I'm President)


IAN HUNTER & the RANT BAND When I'm President ( Slimstylerecords, 2012)

 La zazzera di capelli e i grossi occhiali sono sempre quelli che campeggiano in tante altre copertine della sua discografia. Solo l'età avanza e cambia inesorabile: quest'anno sono settantatrè. La qualità musicale, invece, rimane miracolosamente immutata, in linea con i due precedenti dischi: Shrunken Heads(2007) e Man Overboard(2009) che lo hanno riportato al centro dell'attenzione, tanto da convincerlo a rispolverare anche i vecchi Mott The Hoople per una reunion, concretizzatasi nel 2009. I tempi bui e poco ispirati degli anni '80 e '90 sembrano un lontano ricordo.
"Madre, sono uno straniero, in una terra straniera, mi sento un alieno". Questa volta Ian Hunter punta davvero in alto. Quando sarà presidente tutto cambierà, canta nella titletrack When I'm President, un rock/pop inconfondibilmente marchiato Hunter. "Le canzoni sembrano più ottimiste questa volta. Gli ultimi due album sono stati piuttosto politici. Ho sempre pensato che gli anni di Bush fossero orribili, per fortuna sono passati." Racconta sul suo sito.
Rinfrancato dal cambiamento della situazione politica, il buon vecchio Hunter si ributta nel rock'n'roll e lo fa con immutato spirito giovanile e battagliero che camuffano la sua vera età.  Prova ne è l'iniziale Comfortable(Flyin' Scotsman) che apre il disco. Un boogie rock'n'roll con tutta la sua compatta Rant Band a macinare riff ( Steve Holley alla batteria, Paul Page al basso, James Mastro e Mark Bosch alle chitarre e Andy Burton al piano ) che nel frattempo si è pure guadagnata il monicker in copertina, di fianco al nome del capo. Canzone con la presenza del sax di Mark Rivera che sembra uscita da All-american alien Boy(1976).
Un incitamento a non mollare mai arriva anche da Fatally Flawed, una semi-ballad dylaniana disturbata da squassanti scariche elettriche a cui il buon Andy York, produttore del disco insieme a Hunter (i due si celano sotto il nickname The Prongs) e ospite ben presente in tutto il disco, contribuisce con la sua chitarra. Ancora rock'n'roll chitarristico e stonesiano esce da What For, una stoccata incisiva e ben assestata a tutta la spazzatura mass-mediatica.
Black Tears si tuffa nei forti colori del blues/soul con un bel solo finale di chitarra di Mark Bosch.
La solarità di un disco che esplode nella sua parte centrale e che Hunter spiega così sul suo sito : "Io non vado alla ricerca delle canzoni. Devo aspettare che loro vengano da me. Ho avuto uno scatto nell'estate del 2011 e da lì è partito tutto. Il songwriting è sempre stato un mistero per me . Di tanto in tanto si è più vicini al sole, e si deve essere pronti a catturarlo."
"Non sono un santo/ e non sarebbe la stessa cosa senza musica" canta nella ballabile Saint, tra flauti, farfisa e atmosfere da festa campestre così come nell'amore per una donna semplice cantato in Just the Way You Look Tonight. Tra il Mellencamp di The Lonesome Jubilee e Springsteen.
Wild Bunch è un  pianistico shuffle da saloon che sembra chiamare in causa il primo Rod Steward e suoi Faces che si conclude con un coro "We shall gather by the river" che fa il verso all'inno patriottico americano Glory Glory Allelujah a cui partecipa anche il figlio Jesse Hunter Patterson, che si prende la scena, scrivendo e duettando con il padre in I Don't Know What You Want un doo-woop blues con la presenza di Rick Todisco alla chitarra solista.
Ta Shhunka Witco(Crazy Horse) è la canzone più darkeggiante e atipica del disco, un nuovo inno in difesa dei nativi pellerossa che presenta oltre ad un flauto irish anche l'unica concessione elettronica del disco con le tastiere di Andy Burton a creare un tappeto marziale da danza della pioggia.
Quale miglior conclusione con la ballata Life:
"Easy come-easy go-just another rock'n'roll show,hope you had a great night/when you get home and climb into bed-just remember what I said/laugh because it's only life".
Un augurio che Ian Hunter ci fa e che contraccambiamo. Buona vita e altri cento di questi dischi.
 



 




 





 

mercoledì 5 settembre 2012

RECENSIONE: BOB DYLAN ( Tempest )

BOB DYLAN   Tempest  ( Columbia Sony Music, 2012)

Scrivo queste righe durante una di quelle sere di fine estate quando la calura ha già lasciato il posto alla frizzante aria settembrina che entra senza troppo permesso dal balcone, scompigliando il buio, i pensieri e solleticando la fioca luce dell’abat jour. E’ una di quelle sere dedicate totalmente a Dylan. Succedono una, due, tre volte all’anno. L’unica a scadenza fissa, non so perché, ma è sempre quella di fine estate (come l'uscita dei suoi dischi: ancora una volta l'11 settembre). Una di quelle sere in cui i dischi sono lì, sotto lo stereo, sparpagliati e disordinati, come l’ascolto delle canzoni: quando passi da Love Sick a Jokerman, da Dear Landlord a Political World, senza un senso logico temporale. E questa sera ci sono anche le nuove canzoni di Tempest. Qualche dylaniano riuscirebbe anche a trovarlo, quel nesso tra le canzoni.
Poi inizio a farmi delle domande.
Quante vite ha Bob Dylan? Quante ne ha raccontate? Quante ne ha cambiate, e quante ne ha salvate? Quante ne ha sotterrate-in senso artistico-prima ancora che ebbero inizio? Quando il passatempo era associare la didascalia “il nuovo Dylan” a qualunque essere vivente con una chitarra in mano. Only the strong survive.
Quante volte lo si è dato per morto-sempre in senso artistico, anche se non mancano episodi più terreni o da leggenda-, e quante volte ha dimostrato di essere più vivo che mai? Difficile rispondere. Perché il suo libro è ancora fascinosamente e misteriosamente aperto e oggi, lui è "molto" vivo.
Di una cosa si ha la certezza. Da Time Out Of Mind, Dylan ha ristretto il suo raggio d’azione. Attenzione, non vuol dire che abbia perso la vena creativa, anzi. Credo che la sua ricerca musicale di tutta una carriera abbia finalmente trovato un punto focale. Il recupero di tutta quella enorme quantità di musica di cui avrebbe voluto essere protagonista. Quasi una irrefrenabile voglia di impossessarsi del tempo, quello che per motivi anagrafici non ha potuto vivere e poter giustificare così, in modo totalitario, il titolo di artista del ventesimo secolo che spesso gli viene-giustamente- attribuito. Intanto i secoli sono diventati ventuno.
Tutto ha un suo perché: Good As I Been to You(1992) e World Gone Wrong(1993), dischi di vecchi traditionals degli anni venti e trenta riletti in acustica e solitaria bellezza, non furono che il preludio del  ventennio successivo che ha nel 1997, la data ufficiale della nascita dell’ultima vita dylaniana-coincidente con il sistema cardiaco che fa le bizze e il ritorno nella parte del menestrello ai piedi di Papa Wojtyla-, quella che continua ancora oggi e che il nuovo Tempest ha portato a sublime esaltazione. Ebbene sì, Tempest è un gran disco. Di ballate essenzialmente e qualche rovente blues. Di amore e di morte. Di tante citazioni da decifrare, studiare. Di passato e di presente. Di mistero e qualche certezza.
Ancora una volta, a Dylan piace prendere le veci del rocker in disuso, lo stesso che recitava in film come Hearts Of Fire o Masked and Anonymous. Quello saggio che sa partire da molto lontano per raccontarci il presente, usando metafore, giocando con le parole e le rime come solo lui, ineguagliabilmente, sa fare. Quello talmente fuori moda da essere eterno. Quello che si nasconde in concerto, defilato in un lato dietro alle tastiere e che gira per le strade americane, alla ricerca di nuove case da comprare, conciato come un vecchio barbone. Forse per prenderci per il sedere, forse per far risaltare ancora di più la sua grandezza, Dylan si diverte in questo ruolo e in quello di produttore dove si cela, ormai da alcuni anni, sotto il nome Jack Frost. A tal proposito, il disco suona dannatamente bene e Dylan canta ed interpreta come non mai.
Un rocker che rievoca secoli passati e lontani in Early Roman Kings e lo fa prendendo in prestito uno dei giri blues più famosi e strausati della storia-Mannish Boy di Muddy Waters, I'm a man di Bo Diddley-,e dove, solamente alla fisarmonica di David Hidalgo (il Los Lobos è preziosa comparsa in tutto il disco)  è consentito il disturbo del ripetitivo incedere.
Oppure come nella epica title track Tempest, ballata di 14 minuti in cui racconta il suo Titanic, ispirato da The Great Titanic della Carter Family, come detto dallo stesso Dylan, senza tralasciare moderni riferimenti alla versione cinematografica di James Cameron. Se Francesco De Gregori ci aveva raccontato in musica e parole il "prima" della tragedia con la festa, le attese, lo sfarzo della prima classe ma anche la povertà della terza, Dylan ci regala anche la raggelante fine dentro un mare nero in tempesta. Dove le classi sociali non contano più nulla. Dove si è tutti uguali. Un lungo valzer con un Dylan dalla voce confidenziale e paterna, come un nonno che legge antiche storie marinare ai nipoti rapiti."Saw the water getting deeper/saw the changing of his world". Un brano senza sussulti musicali, ripetitivo nella forma, che ha la sua forza nel testo narrativo e nella presenza di un violino dai sapori irish. Sembra riprendere quelle vecchie e lunghe canzoni del passato fino a Blood on the tracks.
Duquesne Whistle, unica canzone scritta in coppia con Robert Hunter e con un testo aperto a molte interpretazioni, anche di carattere sessuale, è uno shuffle con un tiro da big band anni '30, che sbuffa (qualcosa ritorna a soffiare) come un treno in corsa e ti fa battere il piede e schioccar le dita. Il tutto si apre con le vecchie note jazz provenienti da una antica radio a valvole e con un Dylan che sembra travestirsi (vocalmente) da Louis Armstrong. Primo singolo, accompagnato da un video divertente ma anche gratuitamente violento, che in parte ruba l'idea e rivisita il videoclip di  Bitter Sweet Symphony dei Verve.
Piace l'incedere blues e sferragliante di Narrow Way, con tutta la band  sugli scudi, la stessa che lo accompagna dal vivo: Tony Garnier al basso, George G.Receli alla batteria, Donnie Herron alla steel guitar, banjo e violino, Charlie Sexton e Stu Kimball alle chitarre. Canzone chitarristica che live potrebbe esplodere.
Tempest è un disco sostanzialmente di ballate: ci sono le note accomodanti, lievi e country di Soon After Midnight;
Scarlet Town, la mia preferita, è una ballata oscura e misteriosa che rievoca antichi paesaggi western, sbiadite fotografie dimenticate al sole, con il banjo e il violino (sembra provenire da Desire) che conducono lievemente il gioco fino all'assolo di chitarra. Quasi fosse una outtake di Oh Mercy o Time Out Of Mind.
Espiazione dei peccati in Pay in Blood. "I pay in blood, but not my own". E' forse la canzone con la melodia rock più orecchiabile, memorizzabile e diretta (sembra arrivare da Infidels), in un disco dove Dylan  ritrova le melodie sacrificate in questi ultimi anni, così come nei nove minuti ipnotici di  Tin angel, scandida in modo chiaro e brillante da splendide rime, che racconta di una tresca amorosa che si conclude nel peggiore dei modi.
La breve Long and Wasted Years è riflessiva, quasi un bilancio di vita con qualche rimpianto. Saranno i suoi? Intanto un organo stanco sbuffa un ciondolante blues. 
Roll on John chiude il disco. Epitaffio e ricordo per John Lennon, amico quasi coetaneo morto troppo presto, con un pianoforte che risuona come le più belle e ispirate canzoni soliste dell'ex Beatles. Una canzone che a Dylan mancava da molto tempo."Shine a light, Move it on, You burned so bright / Roll on John".
Tempest è un sunto degli ultimi quindici anni della sua musica, a cui ha voluto aggiungere quelle melodie da ricordare che mancavano negli ultimi quattro precedenti dischi : il Mississippi di Love and Theft, il malinconico  Modern Times, la frontiera di Togheter through Life, il passatempo natalizio di Christmas in the Heart. Un nuovo guizzo, una nuova zampata. Dylan.
Quando la vecchia stazione radiofonica che apre Duquesne Whistle inizia la trasmissione, non hai idea di dove le liriche ti porteranno. Uno scrigno pieno di riferimenti letterari, religiosi, musicali, cinematografici e geografici che solamente una mente ancora genialmente lucida come quella di Dylan riesce a generare. Peccato, ancora una volta, che nello scarno libretto(?), manchino i testi, anche se ci regala tre scatti fotografici (nelle foto): sul retro copertina è alla guida con il volante saldamente in pugno; all'interno: un primo piano con lo sguardo puntato lontano e una misteriosa figura femminile(con volto tagliato) alla sua sinistra  e poi con sigaro in bocca insieme a tutta la band. Tutto qua.
Ancora tanto lavoro per gli studiosi di Dylan, nell'anno che festeggia i cinquant'anni dall'uscita dell'esordio. Anno che si era aperto con il monumentale tributo Chimes of Freedom per Amnesty International ed è proseguito con la consegna della medal of freedom, massimo riconoscimento civile degli States, che il presidente Obama ha donato a Dylan nel maggio scorso. 
Tutti gli altri si potranno accontentare del miglior lavoro da Time Out Of Mind, e non è poco. Quante vite ha Bob Dylan?









 

lunedì 3 settembre 2012

RECENSIONE: Tributo a IVAN GRAZIANI( AA.VV )

Tributo a IVAN GRAZIANI  AA.VV.  (Sony Music, 2012)

E' difficile descrivere a parole quel misto di eterea nostalgia e ribelle provocazione che l'ascolto dei testi di Ivan Graziani mi hanno sempre provocato. Più di qualunque altro cantautore italiano, nonostante l'ascolto delle sue canzoni sia più saltuario rispetto a tanti altri (De Gregori, De André, Rino Gaetano). La sua grazia ribelle, ma allo stesso tempo nostalgica e fortemente radicata nel quotidiano, il suo romanticismo delicato quanto, a volte, sanamente sboccato, la sua autoironia mi hanno sempre lasciato qualcosa dentro, qualcosa di assolutamente inspiegabile.
Ho provato a capirci qualcosa poco più di un mese fa a Barolo (CN), quando suo figlio Filippo Graziani, che ha fortemente voluto questo tributo, si è presentato sul palco prima di un colosso come Patti Smith e ha cantato le canzoni di papà. I risultati furono solo piccole (grandi) scosse di brividi ascoltando Firenze, Pigro e Lugano Addio. Mi feci bastare queste vibrazioni e lasciai da parte le domande.
O come quel Sanremo del 1985, a cui partecipò con poca convinzione. Quando i suoi grossi e caratteristici occhiali colorati, la sua chitarra e il testo di quella fuga d'amore assolutamente in linea con la tradizione rock'n'roll, tra ricordi, speranze, murales, treni, vagoni, polizia e un padre incazzato nel pop di Franca, ti amo mi avevano fatto capire che Graziani era fuori dal comune, e sperare... Sperare che la sua canzone potesse arrivare a vincere il Festival. Che delusione vederlo al diciassettesimo posto, poco più in alto di Finardi, Locasciulli, New Trolls, Zucchero e Garbo. Solo anni dopo capii che gli ultimi di quella classifica sarebbero diventati i primi nella mia. Questa è l'Italia delle canzonette. A Sanremo ci tornò nel 1994 con Maledette Malelingue. Andò meglio.
Quando nell'adolescenza i tuoi gusti musicali cambiano come le stagioni, la voce  e i vestiti, scopri che dentro l'audiocassetta di IvanGarage(1989), comperata per quel titolo così rock, dedica una canzone ai metallari (I Metallari), giocando, a suo modo, con i soliti luoghi comuni e tu sei appena tornato a casa con la tua nuova copia di No Prayer For The Dying degli Iron Maiden. Un nuovo mito da idolatrare: "I metallari, condannati a ricucirsi da soli"; quando scopri il sesso e capisci che la sua ostentata, e mai nascosta, ossessione per il corpo femminile con le sue colline bianche e solchi misteriosi, un poco, è anche la tua e quella di tutti i maschietti: "Le scarpe da tennis bianche e blu, seni pesanti e labbra rosse ..." da Lugano Addio; "E se tu le vuoi incontrare, uguali come gocce d'acqua Dada la grande e Ivette senza tette, le due cugine strette" da Dada; il titolo del suo album Seni e coseni (1981); e l'apoteosi finale in Poppe, poppe, poppe da Maledette Malelingue(1994), il suo ultimo testamento di studio.
Devo dirvi la verità, un po' mi spiace che esca questa raccolta. Che esca (anche) allegata e legata ad un quotidiano così famoso. Non fraintendetemi. Mi spiace, perché vorrei che le sue canzoni rimanessero ancora per pochi, per chi ha continuato ad ascoltarlo in questi quindici anni e non per chi ha continuato, come in vita, ad ignorare la sua opera. Non vorrei per Graziani quello che è successo per Rino Gaetano. Non vorrei sentire le sue canzoni, riscoperte all'improvviso, e strumentalizzate per fini poco nobili come successo per Gaetano. Vorrei che rimanessero lì, sospese in quella eterea nostalgia e ribelle provocazione, magari tramandate da padre in figlio come succedeva una volta. In fondo lui non si è mai piegato alle leggi del mercato discografico ("le case discografiche sono le fabbriche degli illusi" disse), non è mai venuto a compromessi per vendere la sua musica. Ha sempre percorso la sua strada, inciampando negli insuccessi, nelle critiche, ma mai cadendo  e se è successo si è rialzato più forte di prima. E lo stava facendo di nuovo con Maledette Malelingue, ma venne sconfitto-solo-dalla malattia nel 1997. Colto, libero, ironico, diretto e tagliente da diventare scomodo e di difficile e non immediata lettura. 
Però, poi, sono contento che qualche giovane rocker possa scoprirlo ascoltando I Metallari, rivestita di grossi riff nu-metal ed elettronica, rifatta dai torinesi Linea 77. Perché Graziani è stato uno dei pochi veri e genuini cantautori rocker che abbiamo avuto in Italia (io ci aggiungo il primo Edoardo Bennato). E chi vuole aggiungerci quei due che stanno sempre a battibeccare tra loro lo faccia. Io non sono d'accordo. Era anche un grande chitarrista (fieramente autodidatta) che amava la sua chitarra come e più di una donna, tanto da considerarla prolungamento del suo corpo, come solo i più grandi chitarristi fanno.
 "Ma tu smetterai?"(di suonare) "Mai. Un vero chitarrista muore, deve morire sul palco". da una intervista di Pino Scaccia.
Perché una canzone come Pigro, rifatta dai Marta Sui Tubi andrebbe insegnata ad ogni giovane uomo che non vuole commettere sempre i soliti errori in società.
Graziani era anche un bravo pittore e disegnatore di fumetti e la grottesca storia di Monnalisa rifatta con un pesante e grosso riff '70 dai Marlene Kuntz, era un po' il suo testamento d'artista: "la scuola è una gran cosa/ soprattutto se ti insegnano ad amare/ i capolavori del passato/ però è un gran peccato che tu non li puoi vedere nè toccare" . L'arte è di tutti.                   
C'è l'impegno e la critica sociale: I Lupi (rifatta da Tre Allegri Ragazzi Morti) parla della guerra, dei fantasmi di un reduce che solo spezzando il fucile e ritornando sul luogo dell'orrore riesce a scacciare gli incubi; l'epicità rock'n'roll e la follia dell'uomo nella poco conosciuta ma bellissima  Lontano dalla paura (Massimo Zamboni-Angela Baraldi), che in origine faceva da colonna sonora al misconosciuto film di Noel Marshall: "Il grande ruggito".
Ci sono quei ritratti di quotidianità provinciale da cronaca vera (nera), cantati con sapiente ironia in cui qualcuno riusciva ad identificarsi: la geniale violenza teppista di Motocross  nella pesante versione dei torinesi Titor, l'autoritratto veritiero di Prudenza Mai  nella versione rocksteady di Roy Paci: "Prudenza mai/mai neanche adesso che son grande/e dovrei stare attento/a quel che pensa la gente/e invece ti mando a fare in culo/a te che sei il direttore/che mangi sempre minestrina/e dopo fai la cacchina/beh, niente sermoni, aio, aio/non rompetemi i maroni". Gli evocativi paesaggi di Fuoco sulla collina nella versione elettro-dub di Raiz. La migliore cover del disco, secondo me.
E poi, i tanti romantici e malinconici ritratti di luoghi e donne, nati per essere inscindibili tra di loro. Ballate che spesso fanno male, facendo riaffiorare situazioni e ricordi che tutti, chi più chi meno, abbiamo provato sulla nostra pelle legandoli ad un particolare momento di vita: Firenze  nella fedele riproposizione di Simone Cristicchi che dimostra, purtroppo, quanto le canzoni di Graziani siano difficili da interpretare, Lugano Addio (Mauro Ermanno Giovanardi), l'amore separato dai chilometri di distanza in Cleo (-Luca- MorinoMigrante), le illusioni e le storie mancate in Olanda che diventa una canzone elettro/rock (Paolo Benvegnù).
 E poi le donne, tutte le donne, poeticamente rappresentate, cantate e descritte in Agnese  in cui si specchia con dolcezza Cristina Donà e Sei Così bella che il figlio Filippo Graziani canta con quella voce che sembra, sempre, far rivivere papà. Fu scritta e dedicata alla moglie Anna. Un piccolo cerchio che si chiude.
" Se c'è un brano nella produzione di mio padre che avrei voluto scrivere è proprio questo. L'eterna lotta e l'autodistruzione per capire il gentil sesso e la consapevolezza che è impossibile farlo" Filippo Graziani.
Nel secondo disco di questa raccolta sono incluse altre 14 canzoni originali, prese dalla discografia di Ivan Graziani.                                                                         foto di Cesare Monti


giovedì 30 agosto 2012

RECENSIONE: NICK CAVE & WARREN ELLIS ( Lawless-original motion picture soundtrack )

NICK CAVE & WARREN ELLIS   Lawless-original motion picture soundtrack  ( Sony Music, 2012)

A leggere le varie recensioni del lungometraggio presenti sul web, sembra che la colonna sonora batta il film, ai punti. Non posso dirlo con assoluta chiarezza avendo a disposizione solamente la musica, ma una volta ascoltata, lo si può immaginare ed ipotizzare, vista l'alta qualità della soundtrack.   
Lawless del regista australiano John Hillcoat (The Proposition, The Road) è stato presentato al festival di Cannes nel Maggio 2012, ed uscirà negli States il 31 Agosto mentre in Italia drovremo aspettare l'arrivo di Novembre. Recitato da una parata di stelle del cinema internazionale: Gary Oldman, Tom Hardy, Jason Clarke, Shia Labeouf, Jessica Chastain, Guy Pearce, Dane Dehaan, Noah Taylor, Mia Wasikowska.
Ambientato nel periodo della grande depressione e del proibizionismo americano degli anni 20/30 (parallelismo e amara riflessione con i nostri hard times? Pura casualità?), narra la storia di tre fratelli (Bondurant brothers) che sbarcano il lunario con la produzione (clandestina) di liquori ad alta gradazione. Le distillerie di Moonshine (whiskey) in quegli anni animavano il sottobosco clandestino. Poteva andarti bene o meno, in base al livello di complicità che riuscivi ad instaurare con le massime autorità. Ai fratelli Bondurant gli affari vanno bene, grazie al favoreggiamento della polizia locale, disposta a chiudere un occhio, anche due. Tutto peggiora e precipita con l'arrivo di un nuovo poliziotto nella piccola contea di Franklyn in Virginia, che pretenderà una parte degli introiti guadagnati dai fratelli . Da quel momento la trama inizierà a colorarsi di rosso sangue.
La sceneggiatura del film, forte e cruda ma a quanto pare non eccelsa, sembra l'anello debole della pellicola ( mi baso sempre sulle recensioni trovate in rete), è di Nick Cave che già lavorò su The Proposition . Ispirata dal romanzo di Matt Bondurant ("La contea più fradicia del mondo"), che a sua volta si basava su fatti realmente accaduti ai suoi avi.
A Nick Cave e al fedele Warren Ellis è affidata anche la colonna sonora come avvenuto con The Road, precedente film del regista Hillcoat. Questa volta i due fidi compagni (Bad Seeds e Grinderman) decidono di fare interpretare le canzoni -niente strumentali quindi-, reclutando un cast di interpreti di prim'ordine ( Mark Lanegan, Emmylou Harris, Ralph Stanley e Willie Nelson i principali) e scegliendo di far accompagnare alcune composizioni scritte di loro pugno da una manciata di cover assolutamente non banali; ma su questo con Nick Cave si va sul sicuro. Tutte rivestite di bluesgrass/country dal taglio spesso incisivo ed inquietante.
Battezzata la band di accompagnamento con il nome Bootleggers- in tema con il film- che vede oltre a Cave e Hellis anche Martyn P. Casey (fido bassista nei Bad Sedds e Grinderman), George Vjestica (chitarrista aggiunto nei Groove Armada) e il musicista David Sard.
Spetta a Mark Lanegan aprire il disco.
La voce di Lanegan, sempre più di moda ed inseguita in questi ultimi anni, calza a pannello su Fire and Brimstone, canzone di Link Wray, seminale chitarrista che rivoluzionò la chitarra moderna e che non ebbe mai l'esposizione mediatica e i riconoscimenti meritati sia in vita che ora. Canzone, quasi stonesiana, presa all'omonimo disco del 1971, in cui il chitarrista, dopo anni di molti strumentali, si cimentò al canto con eccellenti risultati. Fire and Brimston verrà ripresa più avanti nel disco e affidata alle cure di Ralph Stanley, in modo minimale con sola voce e chitarra. Stanley, che oggi è un arzillo ottantacinquenne, in compagnia del suo fido banjo riuscì a portare alle masse, insieme al fratello (oggi scomparso) un genere come il bluegrass, che attualmente, in America, sta vivendo una seconda popolarità grazie al crescente numero di giovani bands che si stanno buttando sulla tradizione. Stanley, un eroe del buegrass in patria, reinterpreta a cappella anche Sure'Nuff Yes I Do di Captain Beefheart e la sua voce non può non far venire in mente luoghi solitari e affascinanti come i vecchi monti Appalachi.
Un interprete come Lanegan va però sfruttato al meglio: eccolo, allora, alle prese con la più canonica, conosciuta e allucinogena  White Light/White Heat dei Velvet Underground (ripresa anche da Stanley e a tal proposito Cave in una intervista rilasciata a John Jurgensen dice: "Non si era mai avventurato in questo tipo di roba contemporanea, quindi alla fine è stato un bel colpo"), riveduta e corretta in una improbabile ma divertente rilettura country/grass -decisamente meglio di quella nenia noiosa sentita recentemente da Metallica/Lou Reed- e Sure' Nuff Yes I Do di quel genialoide di Captain Beefheart.
Lanegan va a nozze con tutto, così come la voce angelica di Emmylou Harris che contrasta in maniera rimarchevole con l'ugola profonda e cavernosa dell'ex Screaming Trees.
Il breve  intermezzo Fire in The Blood (ripreso due volte dalla Harris e una volta da Stanley) cantata da Emmylou Harris non lascia il segno pur essendo il motivo portante del film, diversamente da Cosmonaut, lieve e lucente affresco originale accompagnato dal mandolino. Così come notevole è la bella interpretazione di Snake Song di Townes Van Zandt (cantata recentemente anche da Lanegan/Campbell nel loro Hawk-2010), accompagnata da Cave e Hellis alla chitarra. La Harris ribadisce e riconferma che la vera icona femminile -incontrastata-del country continua a rimanere lei.
Emmylou Harris duetta anche con Liela Moss (affascinante e bionda cantante dei britannici The Duke Spirit) in So you'll aim towards the sky , melodica e pianistica ballata che chiudeva il secondo album The Sophware Slump (2000) degli ormai sciolti Grandaddy.
La brevissima Burnin' Hell di John Lee Hooker cantata da Nick Cave è un oscuro, marziale e darkeggiante bluegrass con uno stridente violino che ricorda le pazzie di Tom Waits, così come l'unico strumentale della colonna sonora, scritta appositamente per il film, End Crawl che chiude i battenti in modo raggelante e inquietatamente sinistro.
C'è ancora il tempo per la ciliegina sulla torta: è la stupenda Midnight Run di Willie Nelson, un fuorilegge della country music, autore quest'anno del bel Heroes(2012), che ci sguazza in una pellicola del genere; pur essendo ambientata nei primi anni del '900, grazie ai paesaggi naturali della Virginia e al profilo da fuorilegge dei protagonisti, sembra quasi un vecchio western. La canzone è già in odor di Oscar, e non compare nemmeno nel film.
A questo punto, non rimane altro che aspettare l'uscita del film per poter constatare di persona se la pellicola vale la colonna sonora. Intanto si può affermare con tutta chiarezza che Cave, dopo Wim Wenders , ha trovato nel conterraneo John Hillcoat, il regista che tramuta in immagini i suoi peggiori incubi e viceversa. Una di quelle colonne sonore pensate, lavorate e destinate a rimanere.


lunedì 27 agosto 2012

RECENSIONE: SHAKEY GRAVES ( Roll the Bones )

SHAKEY GRAVES  Roll The Bones (  autoprod., 2011)

Con un po' di ritardo, grazie alla segnalazione di una amica americana (thanks Tracy), mi si intrufola sulla cartella musicale del pc questo Shakey Graves. Posto sbagliato per conservare la sua musica, ma per ora bisogna accontentarsi. Dietro al monicker Shakey Graves, si nasconde il texano (di Austin) Alejandro Rose-Garcia e la sua musica assolutamente lo-fi, dalla antica e primordiale formula folk/blues che si fa bastare una chitarra, un banjo, claphands, battiti di piedi e poco altro per catturare l'attenzione ed ipnotizzarti all'ascolto. Ti odio pc.
Alla disperata ricerca di qualche nozione biografica sul web, ottengo ben poco, se non sapere che il suo è un passato da attore cinematografico che nel 2005  fu folgorato dalla musica che si è presentata  sottoforma di fantasma, da lui catturato e messo in gabbia. La folgorazione sembra arrivare dopo l'ascolto di un vecchio vinile anni sessanta della cantautrice folk Buffy Sainte -Marie, scoperto, insieme a tanti altri, dopo aver dato in pegno il suo banjo per l'acquisto di un giradischi e tanti vecchi vinili. 
Il suo album si può ascoltare interamente e scaricare su bandcamp. Al nostro piace mettere mistero, tanto da giocare ironicamente con le date: l'anno di uscita del disco è il 1987 e una canzone registrata live, City in A Bottle reca addirittura la data 2023, mentre lui gioca a fare Tom Waits in mezzo ai fiati.
Tutte le canzoni sono volutamente sporche e acustiche, registrate con sovraincisioni spesso dozzinali e poco precise ma, proprio per questo, emanano quel fascino che sa di spontaneità e verità, raccontando la sua America fatta di tante strade ancora  polverose, tante ingiustizie e romantici e disperati amori per la vita. 
Basta l'opener Unlucky Skin per dare l'idea della cifra stilistica dell'intero album: banjo, battiti e armonica con la voce spesso doppiata. Un one-man band dei tempi andati, un hobo solitario e viaggiatore che ha raccolto lungo la strada le  parole da mettere in musica, capace di colpire l'immaginario in presa diretta. Buona la prima.
Sorprendentemente affascinante la rilettura blues di I'm On Fire di Bruce Springsteen che, svestita di quella patina anni ottanta, diventa quasi un altra canzone  tanto che il taglio di 6 inch in mezzo all'anima sembra ancora più lungo e doloroso.
Romantiche nottate sotto la luna che sembra illuminare distese di campi di cotone (Gerorgia Moon) e sonnolenti viaggi tra polverose strade di campagna e lunghe autostrade coast to coast. Piccoli paesi di campagna e grandi città. Falò accesi e instancabile finger picking (Roll the Bones).Voce rotta e incubi che giocano a disturbare la realtà e il sogno. Tante voci vaganti (Business Lunch), tutte meravigliosamente ipnotizzanti e ammaglianti.
Shakey Graves, a quanto ho capito, è alla disperata ricerca di fondi per poter realizzare un nuovo disco, magari con l'aiuto di qualche casa discografica che ancora-distratta- non lo ha notato, diversamente dalla sua città, Austin, che lo ha già adottato a nuovo beniamino locale della folk-music.
Per ascoltare Roll The Bones.
   


venerdì 24 agosto 2012

RECENSIONE: PONDEROSA ( Pool Party )

PONDEROSA   Pool Party  (NEW WEST Records, 2012)


I Ponderosa, dopo due soli dischi, sono ufficialmente un gruppo in cerca di una identità: figli del solare e bucolico southern rock degli anni settanta o fratelli del neo indie/rock del nuovo millennio? Il loro debutto fu una piacevole ondata di aria fresca che piegava spighe gialle e faceva oscillare verdi rami, Moonlight revial si poneva esattamente a metà strada tra i primi e campagnoli Kings Of Leon e l'anima più semplice, southern e diretta dei Black Crowes. Nulla per cui strapparsi un qualcosa da dosso ma comunque un ascolto piacevole di analogia musicale.
Poco meno di due anni fa concludevo la recensione del loro esordio con queste parole: "Per chi crede che i Kings of Leon abbiano perso quel poco di rustico che sembravano avere ad inizio carriera, consiglio l'ascolto dei Ponderosa, sperando che la loro genuinità non si perda per strada come successo ai sopracitati "nuovi dei" del rock americano".
In Pool Party di quell' esordio uscito un paio di anni fa, rimane veramente poco se non nulla. L'incontro con il produttore Dave Fridman (Flaming Lips, Mercury Rev) ha trasformato letteralmente il loro suono. La fresca brezza di campagna che soffiava sull'esordio sembra perdersi nello sconfinato spazio celeste in compagnia della voce di Kalen Nash che viene doppiata come fatto splendidamente dai Fleet Foxes, le chitarre che zigzagano, la batteria che diventa sincopata e ipervitaminica, e il pianoforte che lascia il posto a tastiere che in alcuni punti sembrano giocare con la new vawe elettronica, ricordando oltre ai già citati Fleet Foxes, gli ultimi lavori in casa Arcade Fire, My Morning Jacket e Okkervil River.
Dall'iniziale crescendo di Here I Am Born con il suo finale, inaspettatamente cacofonico e noise; passando dall'alt -pop contagioso del  singolo Navajo, un omaggio moderno ai nativi americani; alla calata in questo mondo moderno delle atmosfere '60 alla Roy Orbison/Beach Boys della ballata Never Come Back si cammina su una enorme bolla, tra il perenne sogno e l'incubo imcombente.  
Le atmosfere si fanno tese ma dolcemente psichedeliche nelle visioni di The Nile, claustrofobiche in Get A Gun, esplosivamente industriali in On Your Time, in continua attesa di una imminente catastrofe che sembra non arrivare mai, così come il disco lascia un senso di incompiutezza.
Se fino a metà disco si viaggia nella bellezza eterea, con il passare dei minuti si rischia di galleggiare sopra ad una formula ripetitiva e stancante in cerca di un appiglio concreto per poter ricordarsi qualcosa di queste canzoni che funzionano meglio prese singolarmente. 
Se il secondo disco è sempre il più difficile nella carriera di un artista, per i Ponderosa da Atlanta, lo sarà il terzo. Tanto per capirci qualcosa.