giovedì 14 giugno 2012

RECENSIONE: CORY BRANAN ( Mutt )

CORY BRANAN  Mutt (Bloodshot Records, 2012)

Cory Branan è quasi coetano di Ryan Adams (uno classe 1975, l'altro 1974), tutti e due uscirono allo scoperto da solisti all'inizio del nuovo millennio, promettendo una ventata di aria fresca nel mondo cantautorale americano. Il suo debutto The Hell You Say uscì nel 2002 e sorprese non poco la critica, facendo incetta di riconoscimenti. A differenza di Adams però, la sua carriera si allarga ad un solo altro disco: 12 Songs  del 2006. Mentre Adams in questi anni ha continuato a far uscire dischi in modo compulsivo, con bassi e stupendi alti-tra cui l'ultimo Ashes & Fire-, Cory nativo della terra del Misssissippi, figlio di un batterista, inizio carriera in una metal band e folgorazione cantautorale ascoltando John Prine, fa il suo ritorno a ben sei anni dal precedente lavoro. In questo lasso di tempo si è fatto crescere barba e capelli ("I was fucked up as my haircut" canta in Freefall), si è trasferito da Memphis a Nashville, ma ha mantenuto inalterato il carattere della sua scrittura: disincantata e cinica lettura della vita con in primo piano i sentimenti compresi cuori spezzati, malesseri e storie intriganti, tanto che i Lucero lo citarono in una loro vecchia canzone Tears don't Matter much contenuta in That Much Further West(2003). Cory, oggi, di rimando per non essere da meno, cita-anche musicalmente- Mellencamp in Yesterday(circa Summer 80 Somethin).
In Mutt sono raccolte tutte le sue innumerevoli influenze che convergono comunque in uno stile personale che sa guardare in tutte le direzioni del rock americano. Dall'iniziale folk esistenziale di Corner (bissata da Lily) in solitudine con la sola chitarra acustica e la voce doppiata, alle tirate Survivor Blues ( che ricompare in versione acustica nel finale del disco) e Bad Man, rock songs che incrociano i Replacments e lo Springsteen tagliente, spigoloso e diretto di Darkness, con una band (Dave Douglas-batteria, James Finch Jr.-basso, Russell James Miller-chitarre,tastiere) che recita la parte della E Street Band. Le accecanti liriche dentro alla buia e notturna Darknen My Door sulla strada di Ryan Adams; le country Freefall e Karen's Song con la slide ospite di Luther Dickinson; le lievi e romantiche orchestrazioni della notturna There There Little Heartbreaker condotta da crooner navigato; la sbilenca e ubriaca andatura di un clarinetto e le parole di una vendetta amorosa di Snowman che portano dritto e consapevolmente a Tom Waits, tanto che nella canzone compare anche Ralph Carney, collaboratore storico di Waits.
La bizzarra deviazione dello scatenato rock'n'roll di Jericho con il suo finale pieno di cori e fiati.
Un percorso avventuroso quello di Branan, con pochi o tanti punti di riferimento reali a seconda dei casi. Un cantautore randagio, cinico (uomo cattivo come canta in Bad Man) che riesce a piazzare la zampata vincente e riconoscibile giocando con la musica. Un disco che avanza in modo imperfetto, in bilico tra i chiaro-scuri, così come la sua voce rotta, profonda e camaleontica nel cavalcare gli umori delle canzoni. Ma è quella imperfezione che fa la differenza. Candidato alla mia top ten di fine anno.  




lunedì 11 giugno 2012

RECENSIONE: PATTI SMITH( Banga )

PATTI SMITH  Banga (Sony Music, 2012)

Solo pochi mesi fa, Patti Smith fu ospite sopra il palco di Sanremo insieme ai Marlene Kuntz. Il giorno dopo l'esibizione, in  uno di quei contenitori pomeridiani della tv nazionale (perchè fossi lì davanti non lo so...si dice sempre così...), il famoso critico musicale con il ciuffo e gli abiti sgargianti, interrogato sugli ospiti stranieri presenti la sera prima, minimizzò l'intervento di Patti Smith-per la cronaca è stato il momento più alto di quella competizione canora-asserendo che solo più in Italia riusciamo a scaldarci per lei, artista in declino nel resto del mondo. Secondo lui, Patti Smith lavorerebbe solo in Italia perchè in patria non è più considerata ed i suoi dischi passano inosservati. Come se lavorare in Italia fosse una colpa. Alla fine,  infierì con l'ultima uscita: "Because the Night di Springsteen avrebbe funzionato cantata da chiunque"-dimenticando che la cantante contribuì alla stesura del pezzo.
Sul mio volto un grande punto di domanda. Che Patti Smith ami l'Italia è cosa risaputa ed il nuovo disco, l'undicesimo della sua carriera  a sette anni dall'ultimo disco di cover Twelve(2007) e ben otto da Trampin'(2004), sembra dimostrarlo e confermarlo. Alcune canzoni hanno addirittura preso vita sopra alla Costa Concordia-sì proprio quella- durante un viaggio in mare insieme a Lenny Kaye, invitati dal regista Jan Luc Godard( vedi il carezzevole candore di Seneca e la titletrack Banga). Forse perchè è una dei pochi artisti internazionali a trovare ancora ispirazione dall'ARTE italiana, cosa che nemmeno noi italiani-ciechi in patria- riusciamo più a fare.
I dieci tesi e stridenti minuti di Costantine's Dream sono stati ispirati dal dipinto di Piero della Francesca conservato nella basilica di San Francesco, musicati insieme ai folker aretini Casa del Vento. Santi, imperatori, navigatori (viene citato anche Cristoforo Colombo) e Rinascimento. L'iniziale spoken song Amerigo ci immerge completamente nelle acque in compagnia dell'esploratore Vespucci, guidandoci verso la scoperta di nuove terre. Brava.
Capirete che i suoi dati di vendita negli States e nel resto del mondo poco interessano, in verità. Perchè Banga è il miglior disco di Patti Smith degli ultimi vent'anni. Diamo a Patti Smith anche la cittadinanza italiana, se necessario.
Un disco uscito solo dopo aver raccolto le storie, le emozioni, gli omaggi, le citazioni storiche e moderne necessarie a riempire più di sessanta minuti di musica. Patti Smith ha i suoi tempi. La musica è solo una parte della sua arte, e come tale deve condividere i preziosi minuti, le ore e i giorni con la poesia, la fotografia, la narrativa (Just kids), la sua vita (tutta). Attenta osservatrice e unica nel riversare in musica quello che i suoi occhi vedono. E dove non arrivano le pupille ci pensa la sua inseparabile macchina fotografica "vintage" a cogliere i momenti in giro per il mondo-non solo in Italia. Poetica visiva.
Tanti omaggi e ricordi legati all'attualità e alle persone: Fuji-San è un rock chitarristico ma carezzevole, omaggio al popolo giapponese vittima di disastri naturali (e non) negli ultimi anni, un popolo coraggioso da seguire come esempio, ogni tanto; This is the Girl è uno splendido ricordo di Amy Winehouse, che non conobbe mai, ma musicato in modo tale che sicuramente sarebbe piaciuto cantare anche alla scomparsa cantautrice londinese; la toccante ballata Maria per la sua amica Maria Schneider, attrice, pure lei scomparsa l'anno scorso. Diventò famosa grazie al film più censurato di sempre, Ultimo Tango a Parigi di Bernardo Bertolucci. Intensa e interrota dall'assolo chitarristico del figlio Jackson. Due vite e due talenti quelli di Amy e Maria finiti troppo presto.

Banga, la title track ha quel crescendo, sentito milioni di volte, ma dannazione, sembra sempre di vedere le danze attorno al fuoco e i cani ululare in lontananza  (è il figlio Jackson ad abbaiare, Johnny Depp l'ispiratore musicale).
Chi non ha mai sognato di avere come regalo di compleanno una canzone scritta appositamente per l'evento. Johnny Depp-ancora lui-, oltre a tante altre fortune, ha pure questa. Nine fu scritta da Patti Smith come regalo, in mancanza di qualche oggetto fisico, sicuramente meno indispensabile. La chitarra di Tom Verlaine fa il resto.
Il primo singolo uscito April Fool, mentiva riguardo la natura di questo album. La sua costruzione pop e la chitarra di Tom Verlaine non lasciano presagire la bellezza di questo disco e le innumerevoli citazioni letterarie che le altre canzoni contengono: ancora il sentimento d'amore che esce da  Mosaic, la narrativa Tarkovsky, sugli orrori di guerra. 
Registrato e pensato in giro per il mondo, anche negli storici studi Electric Lady di New York, insieme allo  storico Lenny Kaye, e ai fidati collaboratori dell'ultimo periodo: Tony Shanahan al basso, Jay Dee Daugherty alla batteria, Jack Petruzzelli alla chitarra e a tutti gli altri che ho già citato.   
After the Golrush di Neil Young, potrebbe essere uno scarto (...e che scarto) del precedente Twelve e chiude il disco con uno dei testi più psichedelici scritti dal canadese. Riletta in modo quasi fedele con l'aggiunta di un coro di bambini ad esaltare ed aggiornare "la fuga di madre natura", nel corso dei decenni.   
Se Patti Smith continua a lavorare solo in Italia, come dice qualcuno...impariamo a difendere questo patrimonio piovuto dal cielo, come dobbiamo imparare a difendere la nostra arte, capace ancora di ispirare  (solo) i grandi.


vedi anche RECENSIONE/REPORT live: PATTI SMITH ,Collisioni Festival, Barolo(CN) 14 Luglio 2012











 








 

venerdì 8 giugno 2012

RECENSIONE/REPORT live: BRUCE SPRINGSTEEN live@Stadio SAN SIRO, Milano 7 Giugno 2012



Con il sacro gioco del calcio ai minimi storici di credibilità, lo stadio San Siro ha ospitato, nel giro di una settimana, le due ultime icone di fede "apparentemente" credibili rimaste. Anche se, su una delle due ho sempre nutrito forti dubbi. Solo pochi giorni hanno separato il weekend milanese di Papa Ratzinger da Bruce Springsteen. Ma la differenza non la fanno solo i giorni. Ratzinger ha sfoggiato palchi avveniristici (quello all'aereoporto di Bresso-MI era quasi pinkfloydiano) ed impiegato tre giornate per conquistare i milanesi (credenti) e forse mai riuscirà a convertire nuove anime; a Bruce sono bastate 3 ore e 40 minuti (qualcosa da studiare scientificamante, altro che il sangue di Ozzy Osbourne) ed un palco spoglio come sempre, senza trucchi, maggiordomi corvi e personale che pensa a tutto, anche al conto delle lettere nei discorsi. A Springsteen bastano le canzoni, ma anche a tutto il resto sembra pensare lui. E' ancora lui a trascinare la forza di una festa più forte della punizione divina (la prima in Italia senza "big" Clarence), che non accenna a fermarsi o solo rallentare. Anzi, si gioca sempre al rilancio e la funzione del giorno prima non è mai uguale a quella del giorno dopo. Lui sì, i nuovi adepti sa conquistarseli. La vera famiglia era riunita qua, stasera.
E poi? E poi sapevo che mi sarei trovato qui, seduto, davanti a questo schermo, con il livello di adrenalina ancora abbondantemente sopra a quello di soglia, di poco inferiore a quello che ho raggiunto solo poche ore prima, quando San Siro è esploso, con i suoi livelli di suono finalmente modificati al rialzo-quelli sì finalmente giusti ed adeguati- sulle note di We Take Care Of Your Own. Brividi che stanno in standby tra un concerto e l'altro. Possono passare pochi mesi o molti anni, ma sono sempre lì, pronti ad uscire alla prima nota del primo brano dell'ultimo concerto. Succede solo con lui. Così come, solo per lui, calco questi spazi, che reputo sempre troppo grandi per godersi un buon concerto. Solo per lui. Mi spiace per tutti gli altri.
Sapevo che Wrecking Ball, un disco che continuo a non farmi piacere così come un vero fan non dovrebbe fare, sarebbe stato rivalutato-alle mie orecchie- incastrato dentro a quasi quattro ore di musica, celebrate nella prima chiesa italiana che lo accolse a braccia tese. Ci furono i giorni di gloria del 1985: il battesimo italiano con dieci anni di ritardo rispetto al mondo; il ritorno benedetto dal diluvio divino nel concerto eroico del 2003; la bella scaletta dei giorni magici nel  2008 e lo strascico di polemice per i fantomatici 22 minuti di sforamento. La quarta volta a San siro in questo Giugno 2012: unico artista internazionale a fare poker alla scala del calcio Giuseppe Meazza, chiamiamolo anche così, che poi i calciatori si arrabbiano.
Il solito e completo concentrato di quello che il rock di Springsteen è in grado di offrire. Tutto dentro al corpo/animo di un sessantatreenne che sopra al palco continua a non risparmiare nessuna goccia di sudore. Quel vecchio detto: "il mondo si divide in chi ha visto Springsteen ecc...ecc..." continua ad essere valido, senza scadenze. La sua messa non ti tradisce mai: quando entri sai cosa aspettarti, quando esci, hai ricevuto sempre quel qualcosa in più che non ti aspettavi, e saresti già pronto a riniziare tutto il giorno dopo. Anche le canzoni di Wrecking Ball, qui esplodono e raggiungono pienamente il loro obbiettivo e fanno da scheletro ad una scaletta che ogni sera sa stupire (33 canzoni!). Bella e sentita Jack of All Trades-con dedica a tutti quelli che stanno lottando in America come in Italia, We Are Alive sarebbe piaciuta tanto a Johnny Cash, Death to my Hometown trascina.
La pioggia prevista non ha osato disturbare (eppure qualcuno-sotto sotto- sperava di sentire Who'll stop the Rain come qualche giorno prima a San Sebastian in Spagna o come nel 2003 proprio qui a Milano) ed è rimasta chiusa fuori come le tante persone che erano alla disperata ricerca di un biglietto (settore prato sempre il più ambito...). Dentro al campo, la consueta girandola multigenerazionale di persone che seguono Springsteen. Bruce ha sempre pensato a tutti i suoi fans."Quando salgo sul palco ho sempre in mente di essere al concerto degli Who del 1965 nella Convention Hall di Asbury Park. Ci immagino sempre un ragazzo là...Forse c'è un ragazzo di quindici anni che sta pensando di suonare la chitarra. Forse ha delle idee. E stasera devo essere al meglio, devo andare meglio che mai perchè voglio ispirare quel ragazzo". Questa la sua filosofia.
L'anticipo del tour americano e le date europee lo davano in gran forma. Tutto mantenuto e diciamocelo: stasera a San Siro ha strafato, facendoci un grande regalo.
Tanta gente sopra al palco oltre alla E Street Band: c'è posto per la nutrita sezione fiati, compreso il nipote di Clarence Clemons, Jake che si sta ritagliando sempre più spazio, un percussionista, più i tre coristi a donare quel tocco soul/black che caratterizza l'ultimo album e questo tour. Max Weinberg è il solito martellatore, elegante e compassato. Little Steven la spalla ideale sempre buona per gli scherzi, gli altri (Roy Bittan, Garry TallentNils Lofgren, Suzie Tyrell, Charlie Giordano ) svolgono il loro compito alla grande ma con il passare degli anni sono letteralmente schiacciati dalla personalità del capo.
Bruce tiene in piedi la band. Non il contrario.
"Prendetevi cura di voi stessi" è il primo monito del concerto. Inizia a prenderci per mano così ,con We care take on our own e Wrecking Ball, quasi a voler raccogliere tutta la rabbia accumulata per poi lasciarsi andare, in discesa, per il resto della serata.
My city of Ruins è la canzone per presentare la band ma anche per ricordare chi è lontano in questo momento ("Patti è a casa con i figli e vi saluta") e chi purtroppo non c'è più.
L'accoppiata Spirit in the Night, The E street Shuffle riporta al Jersey Sound degli esordi, con la fantastica reprise della seconda che diventa jam, l'altra accoppiata Candy's Room, Darkness on the Edge of Town è pura, spigolosa energia rock. Radio Nowhere si poteva evitare. Johnny 99 parte solo chitarra e voce per poi trasformarsi nella versione "treno" che abbiamo già conosciuto negli ultimi tour.
Penso che a Bruce il concerto di Milano 1985 sia veramente rimasto nel cuore: No Surrender, Working on the Highway, Born in The Usa (che bello risentirla dopo tantissimo tempo, ma soprattutto dopo averla odiata), Bobby Jean, Dancing in the Dark, Glory Days, sei canzoni estrapolate da Born in the USA. Un tuffo indietro di ventisette anni. Bruce ama Milano("...this is a very special place"). Ora è chiarissimo!
Da pelle d'oca The River ma soprattutto la sorpresa The Promise, uno dei gioielli di Springsteen, fatta in solitaria  al pianoforte.
Bruce cerca sempre il contatto con il suo pubblico "La cosa più importante è il pubblico, la folla è l'unica cosa che conta in uno spettacolo". Un rispetto che non è mai venuto a mancare durante la sua carriera, anche nei momenti più difficili. Qualche altro artista in quarant'anni di carriera non l'ha mai capito. Ecco così, la fortunata ragazzina (che domani mattina potrà vantarsi a scuola) chiamata sopra al palco a cantare con il saggio nonno sulle note di Waitin' on a Sunny Day, ormai diventata la canzone dei siparietti così come lo era Dancing in the dark trent'anni fa, quando il nonno era ancora ragazzo e al posto della ragazzina c'era un'avvenente fanciulla cresciutella, che Bruce, poi, riesce a trovare anche stasera, peccato volesse ballare con Jake Clemons, come da cartello. Bruce è di cuore buono. Accontenta pure lei.
Bruce da il cinque a Claudio Trotta (il promoter amico), lì sotto il palco. Bruce bacia una ragazza. Bruce raccoglie tutto quello che può (bambole, salvagenti, bandiere e cartelli) e li trasforma in  spettacolo come un prestigiatore. Poco importa se tutto l'hai già visto milioni e milioni di volte.
Difficile trattenere la lacrima quando Tenth Avenue Freeze-Out si interrompe. Cala il silenzio. Sullo schermo le immagini di Clarence Clemons. Parte l'applauso. La E Street Band riparte. E' la vita.
Springsteen ha voglia di suonare, di divertirsi. Tira fuori dal cilindro Cadillac Ranch
L'encore normale non gli basta. C'è ancora tempo e voglia per Glory Days e una Twist and Shout che dopo tre ore e quaranta minuti, senza una pausa, decretano la fine. Se potesse, continuerebbe fino all'alba e noi con lui. Già finito?
Anche stavolta si è sforato di venti minuti. Bruce ha voluto fortissimamente riprendersi Milano dopo lo sgarro di quattro anni fa. Bruce da quarant'anni si  è preso anche il rock.
La prossima fumata bianca la voglio per lui.

SETLIST 
1.We Take Care Of Our Own/2.Wrecking Ball/3.Badlands/4.Death to My Hometown/ 5.My City of Ruins/
6.Spirit in the Night/ 7.The E Street Shuffle/ 8.Jack of All Trades/ 9.Candy's Room/ 10.Darkness on the Edge of Town/ 11.Johnny 99/ 12.Out in the Street/ 13.No Surrender/ 14.Working on the Highway/15.Shackled and Drawn/ 16.Waitin' on a Sunny Day/ 17.The Promised Land/18.The Promise/ 19.The River/ 20.The Rising/21.Radio Nowhere/ 22.We Are Alive/ 23.Land of Hope and Dreams/ 24.Rocky Ground/25.Born in the U.S.A./ 26.Born to Run/ 27.Cadillac Ranch/28.Hungry Heart/ 29.Bobby Jean/ 30.Dancing in the Dark/ 31.Tenth Avenue Freeze-Out/32.Glory Days/33.Twist and Shout (The Isley Brothers cover)

mercoledì 6 giugno 2012

RECENSIONE: ALEJANDRO ESCOVEDO ( Big Station)

ALEJANDRO ESCOVEDO  Big Station ( Concord Music Group, 2012)

Big Station è il disco delle tappe. Quelle segnate con una bandierina sopra ad una carta geografica degli Stati Uniti del sud, ma anche quelle di una vita ripresa per i capelli e con volontà, ricondotta  verso l'eccellenza artistica, dopo un cammino di sofferenza che negli ultimi vent'anni ne ha segnato la vita (la morte della moglie a cui dedicò i primi album solisti Gravity-1992 e 13 Years-1994 e la vittoria sull'epatite C negli anni duemila). Soprattutto, è l'ultima e provvisoria tappa musicale di un artista che non osa fermarsi, a cui piace anche stupire.
Real Animal e Street Songs Of Love, gli ultimi due dischi hanno trovato in Tony Visconti, un produttore capace di canalizzare tutte le esperienze musicali di Escovedo verso un suono grintoso, fedele in egual misura al rock chitarristico degli esordi, quanto al folk delle radici della sua terra,senza disdegnare la scena glam britannica degli anni settanta, di cui Visconti fu gran protagonista, lavorando nelle retrovie e lasciando le paillettes alle primedonne. Due dischi che furono un ritorno per restare, sospinto anche dal grande amore/incoraggiamento dei musicisti "amici".
Alejandro Escovedo questa volta ha sentito la necessità di cambiare qualcosina senza snaturarsi troppo, sostenuto ancora una volta, in fase di scrittura, da Chuck Prophet. Uno sguardo verso le sue origini messicane e un altro verso altre tappe musicali che Visconti conosce alla perfezione. Non sorprendano quindi alcune reminescenze, già accennate nei due precedenti dischi, che qui trovano compimento e sembrano portare al David Bowie americano e quello berlinese-che anticipò la scena new vawe prossima a venire- dei seventies, il largo uso di cori femminili (Gina Lopez Holton e Karla Manzur), alcune venature pop più marcate del solito. 
Il racconto di frontiera di Sally Was a Cop, tra loop e tronbe, lo sfrontato e vincente connubio tra Bowie e Dylan di Headstrong Crazy Fools con il testo che sembra citare il sommo poeta di Duluth-sarà veramente lui?- ("You See Dylan dropped acid in the limelight..."), Common Mistake, Big Station (con le vocals di Kristeen Young), il pulsante basso di Can't Make Me Run che guida il punto massimo di questo disco, dove compare ancora la tromba suonata da Ephraim Owensn su un testo che sembra raccontare tutto:

"You can break the wheels of a Cadillac/You can break the bank in two/Smash the windows on a new guitar/If that's what you want to do.../You can't make me run/Make me run/Make me run"

Anche se l'inizio è puro rock/punk con la sua band The Sensitive Boys sugli scudi: Man of The World è un forte grido di esistenza e bilancio di vita suonato con la spavalderia dei Ramones, come faceva più di trent'anni fa con i suoi Nuns. Rimane l'unico episodio di puro rock chitarristico del disco insieme alla spassosa Party People che però batte già verso altre sfumature. Ci troviamo sempre dentro al CBGB di fine anni settanta, ma sembra di ascoltare una canzone uscita dalla penna schizofrenica di David Byrne.
Dall'alto dei i suoi sessant'anni, Escovedo può permettersi di sedersi e guardare-con velata nostalgia- i cambiamenti della sua Austin nel corso degli anni in Bottom Of The World, una ballata folk riflessiva come lo sonola texana  San Antonio Rain e la stupenda, malinconica Never Stood A Chance, fino ad arrivare alle troppe lacrime che bagnano un rapporto d'amore nell'incedere teso e primitivo di Too Many Tears. 
La finale Sabor A Mi, canzone di Alvaro Carillo, un classico messicano datato 1959, ed interpretato in lingua madre spagnola su un leggero tappeto elettronico è curiosa e anomala.
Un disco che vuole soddisfare le ambizioni artistiche del suo compositore. Allo spiazzante ascolto iniziale si sostituiscono tutte le sfumature che Escovedo riesce a dare alle sue canzoni, forte di una scrittura mai così attenta, piena, ricercata e avventurosa. Una tranquillità riconquistata e pienamente palpabile ascoltando il disco.La giusta chiusura alla trilogia iniziata con Real Animal.




 



 

lunedì 4 giugno 2012

RECENSIONE: THE WHITE BUFFALO ( Once Upon A Time In the West )

THE WHITE BUFFALO  Once Upon A Time In The West ( Unison Music, 2012 )


 

Una delle sorprese più fresche ed accattivanti di quest'anno arriva da un personaggio che titola il suo secondo disco, poco originalmente: c'era una volta nel west.
Il suo aspetto fisico, un mix perfetto tra Warren Haynes e Jeff Bridges che recita la parte del grande Lebowski e quello nei panni di Bad Blake il cantante country di Crazy Heart, solo più giovane e prestante, può bastare a farsi un'idea della musica che Jake Smith, in arte The White Buffalo, suona. Quando poi arriva la voce, un pensiero corre subito all' Eddie Vedder solista e al "premio oscar" Ryan Bingham. Il quadro si completa mostrando anche l'animo da outsider e il paesaggio inquietantemente solitario in cui si muove, popolato da pochi di buono, poeti solitari, madri disperate, accecanti ritorni di memoria verso un' infanzia che "ha segnato", vecchi ex combattenti di un'America che da qualche parte sopravvive in questa antica e mitica  incarnazione. Voglia e ricerca di vera libertà.
Scusate se vi ho anticipato e tolto i piaceri dei paragoni. Ma non sono nemmeno gli unici.
Once Upon A Time In The West (omaggio a Sergio Leone?) è il secondo album dopo Hoghtide Revisited(2008) ed alcuni Ep. I White Buffallo, nome che oltre a rievocare il sacro bisonte dei nativi americani , ricorda vecchi western con Charles Bronson, comprendono oltre a Jake Smith, Tommy Andrews al basso e Matt Lynott alla batteria, e sono una vera e propria band proveniente dalla California.
La voce di Jake Smith è l'elemento catalizzante delle canzoni che, obiettivamente, non hanno nulla di veramente originale: americana che staziona in perfetto equilibrio tra le ombre crepuscolari di desolate ballate folk, oppure up-tempos trascinanti e sporcate sul polveroso ritmo di un country/rock viscerale che ripercorre i sentieri tracciati da vecchi fuorilegge come Waylon Jennings o lo Steve Earle di Copperhead Road, perdendone la parte più elettrica.
Ma un qualcosa di magico sembra sempre prevalere. Uno storytellers, quasi d'altri tempi, che affascina e seduce con il divino dono di una profonda voce da rocker che contrasta con il carattere intimo, nostalgico e doloroso delle sue liriche. Il contrasto è una delle armi di questo disco. 
I suoi testi raccontano di una vecchia America sonnolenta che sopravvive osservando il panorama di una piccola città di periferia accompagnati dal lento incedere di una carezzevole ninna nanna (Sleepy Little Town); la luce abbagliante di una luna che in poche ore lascia il posto a quella del sole senza modificare le pesanti e scure ombre di una lettera che non sarebbe mai dovuta arrivare (Ballad of a Dead Man); il crepuscolo di una notte in solitaria (One Lone Night) che diventa struggente (Wish It Was True) e grido d'indipendenza (I Am the Light).
Ma anche il treno in corsa che semina pistole e libertà nel country/rock veloce di How the West Was Won guidato da banjo (Cooper McBean), dobro e lap steel (Joey Malone); l'antico west in assetto da guerra-tra Cash e Morricone- (Good Ol' Day to Die); i sogni e le speranze che sembrano ricalcati su The Passenger di Iggy Pop (The pilot); malinconici ricordi d'infanzia (BB Guns and Dirt Bikes) e vecchie ferite dure da rimarginare (The Bowery). C'è perfino una divertente ma oscura filastrocca con tanto di fiati (The Witch) che sembra uscita da una festa gitana dentro a qualche sperduto campo nomade costruito nella Central Valley californiana.

sabato 2 giugno 2012

RECENSIONE: DANIELE TENCA ( Blues For The Working Class/Live For The Working Class)

DANIELE TENCA Blues For The Working Class ( Ultratempo, 2010 )

L'ennesimo suicidio. Oggi sul giornale, un altro quarto di pagina è dedicato a chi, strozzato da una crisi che solo pochi mesi fa ci dicevano essere passata, se non-addirittura-inesistente, si toglie la vita. Vittima di un lavoro che non c'è più. Notizie che passano quotidianamente (con la stampa non immune da colpe nel calcare la mano, diffondendo terrore più del dovuto), così veloci che sembrano diventate pericolosa routine, in una società che sembra non volersi fermare un solo secondo. Una pausa per riflettere è quello che ci vorrebbe in mezzo a continue discussioni su proposte di legge, cancellazione di articoli, violazione di diritti acquisiti negli anni con tanta fatica e salari fermi e stagnanti alla prima repubblica.
Uno stato che non ascolta, impegnato solamente a chiedere, e banche che guardano dall'alto di una piramide conquistata senza troppa fatica. Il lavoro è diventato campo di battaglia da difendere con i denti, ma anche luogo dove la velocità si è impadronita di tutto. Tagli di personale, imprenditori alle corde, leggi per la sicurezza dribblate per ottimizzare i costi, dignità operaia cancellata in favore della competizione più sfrenata, non ultimo: fabbriche che si accartocciano come castelli di carte sopra agli operai e sotto le infernali scosse del terremoto di questo Maggio 2012, da dimenticare.
Qualunquismo, retorica, populismo? Se chiamassimo il tutto con il suo vero nome? Realtà (scomoda)? Chi si nasconde ancora dietro a questi aggettivi non conosce i fatti. Non ha mai calpestato il campo, continua a guardare il tutto da una tribuna, lassù in alto, che l'onore non sa cosa sia. Non ha mai varcato i cancelli di una fabbrica alle 5 e 30 di mattina, con gli occhi stropicciati che ancora bruciano, aspettando il suono di una sirena che ora rimane solamente appesa ad un sottile filo elettrico; timbrato un cartellino e sporcato i suoi arti di olio e grasso, aspettando-e sperando- che quella sirena, a penzoloni, suoni una seconda volta.
Daniele Tenca, solo due anni fa, con grande coraggio e dedizione, alla classe operaia ha dedicato un intero disco, che in questi tempi di vuoto assoluto, dovrebbe e meriterebbe di riempire quei vuoti che la musica italiana ha su certi argomenti, relegati a sporadiche canzoni cantautoriali o sotto la sempre scomoda etichetta di canzoni di protesta, che vengono rispolverate quando fa comodo, nelle date delle solite ricorrenze, per venire immediatamente dimenticate il giorno dopo.
Concetti ribaditi e sottolineati l'anno scorso con un live, Live For The Working Class(2011), che attraverso la ruvidezza di un concerto dava una seconda vita ai suoi testi, amplificandone il significato.
Undici piccole storie dove Tenca trasporta le lezioni cantautorali del folk/rock dentro al suo blues: quelle americane di Guthrie, Seeger, Phil Ochs, Dylan e Springsteen; quelle del proletariato inglese di Billy Bragg e Joe Strummer, e quelle italiane degli anni settanta e di certi gruppi, come i Gang, mai elogiati a dovere (scomodi pure loro?).
Carriera ventennale segnata e legata prima alla tribute band di Springsteen, i Badlands, poi dal primo disco solista in italiano "Guarda Il Sole", ora dal passaggio all'inglese e questo album dedicato-interamente- ad un tema scottante e sempre d'attualità. Tenca si immerge completamente, armato di penna, chitarra e cuore, con cognizione di causa e conoscenza (quando non suona è impegnato nel campo della sicurezza sul lavoro ) in liriche che non hanno paura di affrontare argomenti  dimenticati negli impolverati e scomodi spartiti degli anni settanta, almeno qui in Italia. Un concept sulle condizioni lavorative che riesce a toccare il nervo scoperto: le difficoltà nel portare avanti una famiglia e l'amore in tempi di profonda crisi (Cold Comfort), gli infotuni sul lavoro (nel martellante e ripetitivo ritmo da fabbrica nel blues di The Plant), i pericoli di chi lavora nell'oscurità in mezzo ad una autostrada nel blues acustico di Spare Parts, il banjo che accompagna le storie di chi in fabbrica ha perso i propri cari e si trova solo davanti ad una vita ancora tutta da vivere (He's working). Ancora: le fabbriche che chiudono (The Mills are closing down), la gente che perde il proprio lavoro (My work no longer fits for you) e avvenimenti di cronaca recente da non dimenticare, raccontati nella tesa ed elettrica 49 People, ispirata dalla vicenda degli operai della INNSE di Lambrate.
Un campionario poco edificante, raccontato con vero trasporto e dovizia di particolari, riscontrabile nei curati testi a cui si aggiungono il traditional folk Eyes on the prize insieme agli ospiti Cesare Basile e Marino Severini dei Gang., già rifatta da tanti, tra cui mi piace ricordare la bella reinterpretazione di Mavis Staples insieme a Ry Cooder, contenuta in  We'll Never Turn Back(2007) e la rilettura in chiave blues dell'immancabile Factory di Springsteen.
Il finale scelto da Tenca è di speranza. Nel blues elettrico di This working day will be fine, con "l'armonica ospite" di Andy J. Forest e l'auspicio che un giorno, tutti possano ripetere questa frase a inizio turno: "Questa giornata di lavoro sarà fantastica" e uscire dai cancelli della propria fabbrica, a fine giornata con un sorriso che conferma quelle parole.


DANIELE TENCA  Live for the working class (Route61 music, 2011)

Live for the working Class è l'appendice ideale di Blues for the working class. Registrato al Amigdala Theatre di Trezzo sull'Adda (MI), completa e rinvigorisce il messaggio delle canzoni. La band che lo accompagna: Pablo Leoni alla batteria, Luca Tonani al basso, Heggy Vezzano alle chitarre, a cui si aggiunge la chitarra di Leo Ghiringhelli, irrobustisce il blues di Tenca. Le vibrazioni si fanno più tese, appesantendo le denunce che i testi vogliono portare a galla. Tutto è amplificato. Il Live riprende otto delle undici canzoni del disco in studio, dalla robusta e trascinante 49 People, alla sofferta Flowers at the gates, passando ai momenti acustici di Spare Parts, e aggiungendo le proprie riletture in chiave blues di Johhny 99, della più leggera Red Headed Woman sempre di Springsteen, scritta per la moglie Patti Scialfa e apparsa per la prima volta nel disco unplugged, Breach in the Levee di Andy J. Forest e il finale affidato al traditional John Henry. Da segnalare, infine, anche il buon lavoro fatto in coppia con Francsco Piu, sull'ultimo album del bluesman sardo.

vedi anche RECENSIONE: DANIELE TENCA-Wake Up Nation (2013)















mercoledì 30 maggio 2012

RECENSIONE: NEIL YOUNG & CRAZY HORSE (Americana)

                                                                   
NEIL YOUNG & CRAZY HORSE   Americana ( Reprise Records, 2012)

L'ultima istantanea dall'universo younghiano.
Di archivi, Neil Young è un intenditore. Un navigato topastro d'archivio. Non pago di sguazzare in mezzo a nastri e bobine delle sue composizioni archiviate nel fantomatico museo personale che è il suo Broken Arrow Ranch, il buon canadese ha pensato di dare una spolverata anche agli archivi del musichiere della tradizione americana, lui nato a Toronto in Canada. Per dare più sale ad un'altra delle sue bizzarre idee, ha richiamato in studio i Crazy Horse al completo, cosa che non accadeva dall'incisione di Broken Arrow(1996). Ecco che l'attenzione su un disco di semplici cover è catalizzata e assicurata. C'è chi adora Young ma non sente un suo disco da un decennio (qualcuno sicuramente anche da più tempo), c'è chi lo adora, non si perde un'uscita, colleziona i suoi dischi ma difficilmente riesce a digerirli tutti, e chi fagocita tutto in preda a devozione maniacale.
L'ultimo e minimale Le Noise(2010) insieme a Daniel Lanois aveva stupito e brillato, A Treasure(2011) ha riportato lustro, attraverso il recupero di esibizioni live, ad un periodo non propriamente memorabile della sua carriera negli anni ottanta, l'idea bizzarra dietro ad Americana, incuriosisce, cattura e alla lunga convince, e porta  l'ultimo periodo musicale di Young dalla parte del segno positivo dopo alcuni dischi non  entusiasmanti come il pretenzioso Greendale, le istantanee affrettate di Living with War e Fork in the Road.
Neil Young come un ragazzino alle prime armi si butta brutalmente su standard della musica americana con spietata irruenza, avvicinandosi in alcuni frangenti all'intemperanza di Ragged Glory (1990) e continuando a portare avanti la sua idea di catturare l'immediato e darlo in pasto a tutti.
Oh Susanna è una canzone di Spephen Foster datata 1948 che anche in Italia abbiamo imparato a conoscere fin da bambini attraverso i "film dei cowboy americani" che uscivano giornalmente dalle televisioni in bianco e nero. Questa versione si ispira, come tutto il disco (parole di Neil), alla versione fatta da Tim Rose nel 1963 e uscita nel 1964 sotto il nome Tim Rose and the Thorns. Tim Rose in quel periodo diede vigore rock'n'roll a molte vecchie canzoni folk e i Crazy Horse ne seguono indubbiamente l'esempio. Quando si sentono i primi feedback di chitarra, capisci che i Crazy Horse sono tornati.
Neil Young era ritornato a suonare con Ralph Molina (batteria), Frank Sanpedro (chitarre) e Billy Talbot (basso) in occasione del gran galà in onore di Paul MacCartney nel febbraio di quest'anno, annunciando i nuovi progetti, tra cui Americana, appunto. Young e i Crazy Horse non suonavano insieme, sopra ad un palco dal 2004, mentre per ritrovare le ultime incisioni in sala di registrazione bisogna arretrare a Broken Arrow del 1996 (su Greendale-2003, mancava "Poncho" Sanpedro)
"Un collegamento fra le canzoni che rappresentano un America che non esiste più. Le emozioni e gli scenari che stanno dietro queste canzoni risuonano ancora oggi in quello che sta succedendo nel nostro paese. I testi riflettono uguali preoccupazioni e sono ancora significativi per una società che sta passando all’interno di sconvolgimenti economici e culturali. Queste canzoni sono struggenti e potenti, oggi come il giorno che sono state scritte".
Capita così di imbattersi in una corazzata Clementine, in origine Oh my Darling,Clementine, una ballata folk della seconda metà dell'ottocento, che diventa pericoloso strumento di guerra. Canzone per un perduto amore: fidanzata o figlia non si è mai capito. Dalla storia e testo un po' controversi che nel tempo si trasformò in una canzone per bambini. La versione è pesante e tosta con la batteria di Molina che picchia duro ed i cori ficcanti (molto presenti su tutto il disco). Tambureggiante e tribale discesa in campo dei nativi americani.
Tom Dula, più conosciuta come Ton Dooley e portata  al successo dal Kingston Trio negli anni '50 è in verità una canzone di metà '800 basata sui racconti di Laura Foster ispirati dal suo amore per Tom Dula, veterano di guerra. Musicalmente riprende la versione dei The Squires, tra le primissime band in cui militò Neil Young. Difficile riconoscere la nenia country dell'originale, surcalassata dalle chitarre e da un coro ossessivo che ripete all'infinito"Tom Dula". Penalizzata dall'eccesiva lunghezza monocorde: otto minuti.
La versione più famosa di Gallow Pole, vecchia folk song (The Maid freed from the Gallows) che narra di una donna condannata a morte, l'hanno rifatta i Led Zeppelin in Led Zeppelin III, rifacendosi a Leadbelly. Ma Young si basa sullla versione interpretata da Odetta. Chitarre elettriche duellanti che accompagnano l'andatura sbilenca.
Get a Job è più recente, racconta di un uomo costretto a mentire alla moglie perchè non riesce a trovare un lavoro. Fu registrata da The Silhouettes nel 1957, canzone doo-wop che mantiene sostanzialmente le caratteristiche dell'originale. Il momento più divertente e rilassato del disco con bizzarri cori e contro cori.
Travel on (in orgine Gotta travel on), dalle lontane origine britanniche, si basa sulla versione del 1958 fatta da Billy Grammer, storia di un uomo costretto dalle vicissitudini a viaggiare in lungo e in largo per l'America. Ruvido country/rock chitarristico da bettola, viaggio e ritorno in bettola per la nottata.
High Flyin' Bird, canzone di vita, libertà e morte. Scritta da Billy Edd Wheels e suonata dai The Company, uno dei primi gruppi di Stephen Stills e dai The Squires nel 1964. Young si ispira a quest'ultima versione del suo vecchio gruppo. Canzone tesa, dove esce il lato migliore dei Crazy Horse: garage rock chitarristico ed incalzante con una splendida chiusura. Vecchie intese ritrovate e mai andate in soffitta. 
Ancora i Crazy Horse sugli scudi nella terremotante versione di  Jesus Charlot ( in origine Jesus Charlot-She'll be comin' round the mountain), feedback e batteria in assetto da guerra. La migliore canzone del disco per chi scrive. Nata come canto spirituale nero con il tempo si è trasformata in una filastrocca per bambini. Diverse le interpretazioni del testo: la seconda discesa di Cristo in terra o l'arrivo della fine del mondo? Risposta: il ritorno dei Crazy Horse!
This Land is your Land di Woody Ghutrie non ha bisogno di troppe presentazioni. Datata 1944 è una delle canzoni folk più eseguite di tutti i tempi. Lo stesso Ghutrie ne cambiava spesso il testo. In questa versione viene recuperato il primo manoscritto. Ospiti alla voce la moglie Pegi e Stephen Stills. Nessuna grande sorpresa per una canzone che viaggia nella sicurezza della coralità.
Wayfairing Stranger, conosciutissima e ripresa da tantissimi ( da Johnny Cash a Jack White) è una vecchia folk song del diciannovesimo secolo. Questa versione si basa su quella del 1944 di Burl Ives ed è eseguita quasi in solitaria da Neil Young. Corta ed intensa, con una sentita e grande interpretazione di Neil. 
A chiudere God Save the Queen, inno britannico con qualche radice americana, incalzante come una marcia militare, chitarre ad eseguire il famosissimo riff ed un coro di tantissimi elementi (tra cui bambini) in grande evidenza.   
Curiosa anche la storia dietro alla copertina: vecchissima foto dei primi del novecento che ritraeva Geronimo ed una vecchia automobile. Nel 1975 fu modificata, sostituendo le facce originali con quelle di Young ed i Crazy Horse. Non fu mai usata. Ora è rispuntata. Eccola qua (accompagnata da un piccolo ed esaustivo libretto con tutti i testi). 
Brusii, risate e voci prima e dopo le canzoni, riportano i tempi indietro, alla primaria genuinità, quando Neil Young ed i suoi Crazy Horse si identificavano con la miglior musica prodotta dentro ad un garage e di fianco ad un fienile, con tutte le sue imperfezioni. Watts che trasportati sopra ad un palco erano terremoto. A parte la spavalda giovinezza, i ragazzi non hanno perso nulla per strada e Americana (prodotto dallo stesso Young insieme a John Hanlen e Mark Humphreys) potrebbe essere solo il preludio a qualcosa di veramente nuovo. Another Year of the Horse? Sempre dura ed impegnata la vita per i biografi di Neil Young.









lunedì 28 maggio 2012

RECENSIONE: JOEY RAMONE (...Ya Know?)

JOEY RAMONE  ...Ya Know? (  BMG, 2012)

"I miei momenti di maggior creatività sono alle cinque del mattino quando sono ancora a letto, mentre sono al bagno a defecare e in tutti quei momenti in cui sto facendo qualcos'altro".

Chissà cosa starà facendo in questo istante Joey Ramone? Quaggiù, il fratello Mickey Leigh ha pensato di fare uscire, a undici anni dalla sua scomparsa, il secondo disco postumo. Sì perchè, purtroppo, anche il primo Don't Worry About Me uscì quando Joey aveva abbandonato definitivamente le scene già da un anno, sconfitto dalla malattia (un linfoma lo portò via il 15 Aprile 2001), per fare qualcos'altro lassù, e Don't Worry About Me fu un grande momento di creatività. L'ultimo.
Joey Ramone iniziò le registrazioni di quell'album immediatamente dopo l'ultimo concerto che la band fece per salutare le scene nell'Agosto del 1996. I Ramones abbandonarono, come quei pochi grandi calciatori che hanno le palle per farlo, al top della carriera. Si sciolsero in un momento artistico felice. Avevano appena rilasciato uno dei loro migliori dischi in carriera, forse il più completo: Adios Amigos! Pochi se ne accorsero. Furono di parola.
4,3,2,...1...Ya Know? riporta per un attimo tutto indietro al 1996. Ya know? raccoglie demos e canzoni scritte da Joey che vanno dalla fine degli anni settanta fin dopo lo scioglimento dei Ramones. Il fratello Mickey le ha raccolte, spinto dai fans e intuendo l'enorme potenziale che potevano ancora avere. Poi affidate, in gran parte, al produttore storico dei Ramones, Ed Stasium (tecnico del suono dietro a Ramones leave Home,Rocket to Russia, Road to Ruin...), a Jean Beauvoir produttore del loro Animal boy(1986) e Daniel Rey.
Ascoltando le canzoni, a sorprendere ancora una volta, è la totale mancanza di spazio divisorio tra la rockstar e l'essere umano: quella voglia di non crescere che si prolunga in maniera infinitesimale e che magicamente attraversa la vita e lo spirito. Joey Ramone (...e i Ramones tutti) erano veri, puri e tanto bambini. Nessun abito di scena ha mai vestito la loro vita, eppure il loro look fece scuola. Attratti come i bambini da tutte quelle cose belle e divertenti che le brave mamme ti nascondono e ti proibiscono.
Ironia, nonsense, disimpegno, scherzo, dissacrazione e qualche stoccata ben assestata al perbenismo di massa animano il loro bizzarro mondo. In più, soprattutto nelle canzoni di  Joey Ramone, traspare tutta la malinconia e la parte più riflessiva, la sua sofferenza ed i suoi periodi bui.
La voce originale di Joey viene circondata da una schiera di ospiti che ne hanno risuonato e creato la musica: da  Joan Jett a Richie Ramone (batterista dei Ramones nella seconda metà degli anni ottanta), Bun E. Carlos(Cheap Trick), Lenny Kaye(Patti Smith group), Holly Beth Vincent, Pat Carpenter; a volte con una sovraproduzione, naturalmente moderna, che potrebbe aver rovinato il carattere originale delle canzoni. Ma non dimentichiamoci che siamo nel 2012 ed i produttori, pur cercando di mantenere lo spirito che fu dei Ramones, hanno dovuto calarsi nel presente. 
La sua voce, anche se difficilmente scindibile dalla musica dei fratelli, con il tempo migliorò, avventurandosi anche in qualcosa di diverso e in territori più introspettivi, e nella ballata folk/country Waiting for the Railroad ed in altri episodi curiosi come Cabin Fever che parte con uno strano effetto elettronico di synth per proseguire diretta, o in Make Me Tremble con i suoi accenni latini scritta insieme a Andy Shernoff (Dictators), lo possiamo constatare.
Rock'n'Roll is The Answer, scritta insieme a Richie Stotts dei Plasmatics, è un (già)classico che potrebbe essere stata scritta dai Ramones in un qualsiasi momento della loro carriera compreso tra il 1976 e il 1996, così come il punkabilly-semplice semplice- di I Couldn't Sleep, e le più classiche dei classici Going Nowhere Fast, 21st Century Girl (con Joan Jett), le chitarre possenti di Seven Days of Gloom.
New York è un testamento d'amore verso la sua città che dice tutto nel titolo. 
Merry Christmas(I don't want to fight tonight), già conosciuta in Brain Drain(1989), è qui riproposta in una versione casalinga e spartana, rivista e corretta con una strana drum-machine non propriamente esaltante.  
Party line con le vocals della vecchia amica Holly Beth Vincent ( i due incisero insieme I Got You Babe nel 1982) e la chitarra di Little Steven è puro doo-wop '60, quello "stile Ronettes" che ai Ramones è sempre piaciuto tanto. Joey partecipò al progetto Sun City contro l'apartheid, organizzato dal chitarrista di Springsteen che ha modo e privilegio di ricordare Joey nelle note introduttive al disco:
"Ya know è solo un altra sorpresa da un uomo che amava sorprendere tutti regolarmente..." 
What did I do to deserve you con il suo appeal pop '50 è tra le cose migliori. Sembra un estratto di End of the Century(1980), disco che cambiò il corso della loro carriera sotto "il muro del suono" di Phil Spector. Molti storsero il naso ma servì alla loro crescita musicale.
Per vent'anni dai Ramones ci siamo aspettattai i tre accordi tre dei Ramones. Sarebbe sciocco e pretenzioso ora, aspettarsi sorprese da una raccolta di pezzi dimenticati per strada, raccolti e fatti risuonare da musicisti amici. Forse il tutto risuonerà poco punk e Don't worry about Me era ben altra cosa, ma riascoltare ancora una volta la voce di Joey Ramone ripaga di tutto.
Non sarà questo disco ad ingiallire la foto che ritrae due gambe divaricate davanti ad un microfono ed un pugno roteato in aria. Un' icona entrata nella cultura popolare.
La conclusiva ballad Life's Gas (che appariva -in diversa forma-già in Adios Amigos-1995) racchiude in poche e sintetiche parole tutto il Ramones-pensiero. Un testamento ancora valido: "Life's a gas, life's a gas/So don't be sad cause i'll be there/Don't be sad at all". Io ci aggiungo: "...ya know?".