mercoledì 9 maggio 2012

RECENSIONE: WILLIE NELSON ( Heroes )

WILLIE NELSON  Heroes (Legacy Records, 2012)

"Willie Nelson è un americano vero.Uno dei più grandi artisti del mondo. Ha scritto alcune delle migliori canzoni di sempre, classici che canta con la sua inconfondibile voce soul, originale ed unica." Kris Kristofferson.

Grazie a icone viventi e (ancora) super attive come Willie Nelson, le più antiche radici della musica americana continuano a sopravvivere e attecchiscono sulle nuove generazioni. La  fenomenale esplosione dell'alt-country avvenuta in questi ultimi anni ne è testimonianza viva e pulsante. La voglia di riscoprire le proprie tradizioni, forse un po' per moda, forse, mi auspico, alla ricerca di un patriottismo che questi anni spingono a recuperare e preservare. I vecchi lo fanno da tempo, i giovani iniziano ora. Bene.
Willie Nelson festeggia le settantanove candeline e il ritorno alla vecchia Columbia (ora Legacy Sony music) con un album, a pochi mesi dal precedente Remember Me Vol.1, che sa ripercorrere a bordo di una macchina temporale sempre elegante, lucida, calda e raffinata, come d'abitudine, il passato, il presente e un po' di futuro. Come quei forti Whiskey invecchiati, da sorseggiare senza fretta, gustandone il gusto e il calore che si espande nel corpo, come la sua voce inconfondibile che il tempo non sembra proprio considerarlo. A testimonianza, la sua interminabile discografia e una prolificità su disco e live ineusauribile. Se cercate il caldo rassicurante della vostra casa e del fedele liquore preferito: questo disco ve lo promette, con qualche piacevole sorpresina.
Sulla scia delle American Recordings dell'amico Cash, Heroes mette in fila quattordici canzoni tra vecchi traditionals pre-1950, degli anni trenta e quaranta, nuove composizioni firmate con il figlio Lukas Nelson, ospite fisso  nei duetti insieme a tanti altri artisti, e curiose e ben riuscite cover di gruppi delle ultime generazioni (dai già "veterani" Pearl Jam, agli impensabili Coldplay). Senza dimenticare che Nelson, ai nuovi musicisti, ha sempre dato fiducia e stima, ottenendo eguali feedback, non ultimo, il bel disco Songbird con Ryan Adams e che le contaminazioni musicali non gli hanno fatto mai paura, a scapito dei mugugni dei tradizionalisti della country music.
Le sfumature che Nelson ha portato al genere country (omaggiato recentemente nel disco dal titolo esplicito Country Music) sono tutte presenti: tra le eleganti note jazzate di Cold War With You ( datata 1949), in compagnia di Ray Price, ottantasei anni sul groppone e il merito di lanciare, a suo tempo, l'allora giovanissimo Nelson, del brioso jazz di Home in San Antone (1943) e My Window Faces the South(1937) sempre con Lukas, vicine al bel connubio con Wynton Marsalis di pochi anni fa; il country più tradizionale e crepuscolare di A Horse Called Music insieme al vecchio compagno di suonate Merle Haggard, la piacevole e nuova Every Time He Drinks He Thinks Of Her scritta dal figlio; lenti valzer country come That's All There is To This Song, Hero con Billy Joe Shaver, e Come On Back Jesus , intinta di gospel spirituale e famigliare con la presenza contemporanea dei due figli Lukas e Micah Nelson; alla rockeggiante ballad The Sound of Your money , trascinanti up-tempo- honk tonk come Roll Me Up (stesso nome della band che lo accompagna) in compagnia di Kris Kristofferson, Jamey Johnson e l'inusuale e azzardata presenza (comunque non fa danni) di Snoop Dogg, già sperimentata qualche anno fa in un precedente disco. A Nelson è sempre piaciuto rischiare: vi ricordate il duetto To all the Girls I've Loved Before con Julio Iglesias negli anni ottanta? 
Fino ad arrivare a tempi più recenti con il lento incedere Soul/Blues, puntellato dall'organo di Come On Up To The House a firma Tom Waits con Sheryl Crowe a duettare. A sorprendere, perchè così lontane-a prima vista- dalll'universo di Nelson, sono Just Breathe, ballad dei Pearl Jam , inserita nel loro ultimo (ad oggi) disco in studio Back Spacer(2009) e la bellissima The Scientist dei Coldplay, registrata per buone cause benefiche, così spoglia e tirata a nuovo, facendola completamente sua e che, certamente, divverrà un suo nuovo classico.
Heroes è un disco vario (come tanti incisi da Nelson) che unisce il piacere, a volte imprevedibile, del viaggio -sempre On the road again- compresa qualche piacevole e nuova deviazione, al rifugio e calore rassicurante e affidabile che solamente vecchi eroi come lui riescono ancora ad infondere. Nulla di nuovo sotto il sole del Texas che però continua a splendere radioso. Non è poco.




martedì 8 maggio 2012

INTERVISTA a DAVE ARCARI


Nobody's Fool è il suo quarto album solista. Un disco che raccoglie vecchie canzoni risuonate con lo stile e l'impeto di oggi. Il bluesman scozzese Dave Arcari (il cognome svela le lontane origini), è un personaggio vero, profondo, impegnato e schietto come le sue canzoni. Ha appena terminato un tour che purtroppo non ha toccato il nostro paese. Instancabile, ha già registrato  parecchie canzoni che finiranno sul  prossimo disco. A lui la parola...

Ciao Dave! Tre parole per descrivere la tua musica agli ascoltatori italiani?
 "Fucked up blues";-)
Mi è piaciuto molto il tuo nuovo album "Nobody's Fool". Si può considerare una sorta di  greatest hits "alternativo"? Come è nato?
 Inizialmente la Dixiefrog voleva far uscire nuovamente il mio secondo album Got Me elettric ... Ma io ho pensato, invece, che sarebbe stato meglio rilasciare una compilation dei miei primi tre album e alla fine si è deciso, insieme, che fosse una buona idea. Mi piaceva l'idea di registrare nuovamente  alcune canzoni e vedere come si erano evolute dalla loro prima  incisione ...
...e perchè metà dell'album è stato registrato in Finlandia?
Ho tenuto alcuni concerti programmati in Finlandia e il marito del mio agente in Finlandia, Juuso, suonò il contrabbasso con me. Abbiamo suonato delle divertenti jam insieme nel passato. Poi, Honey, un noto batterista finlandese ha iniziato a presenziare a tutti i miei concerti fin dalla mia prima data, in più il suo stile mi piace molto ... così ho pensato che poteva essere divertente provare a registrare alcune nuove versioni delle canzoni che la Dixiefrog voleva, insieme a loro. Abbiamo registrato nove brani e tre di loro sono finiti sull' album. Ho registrato anche un paio di nuove canzoni da solo e alcune covers per l'album, nel mio studio vicino a Loch Lomond in Scozia .
Attualmente, sono appena tornato dal  tour europeo che comprendeva alcuni grandi spettacoli in Finlandia e mentre ero lì ci siamo messi insieme a registrare altre 13 canzoni!
Come è stato lavorare con Paul Savage (batterista dei Delgados e produttore)? Come vi siete conosciuti?
Ho registrato due album con Paul (Got Me electric e Devil's Left Hand), ai Chem19 Studios appena fuori Glasgow. E 'un tecnico fantastico ed è diventato un grande amico ... così quando abbiamo avuto bisogno di mixare le nuove canzoni per l'album della Dixiefrog è stato naturale lavorare con lui. Ha suonato anche una gran parte di batteria su Dragonfly, che inizialmente appariva sul mio album Devil's Left Hand ... con uno stile leggermente diverso da quello che ha con  i Delgados!
Il tuo cognome è italiano. Hai origini italiane?
Sì, i genitori di mio padre erano italiani - originari di Picinisco! (Abruzzo)
Parlami della tua band Radiotones. Suoni ancora con loro?
I Radiotones esistono ancora ... ma facciamo solo uno o due spettacoli ogni anno. Gli altri componenti sono tutti occupati con i loro lavori e le proprie famiglie. Quando abbiamo iniziato non avevamo altre intenzioni diverse dal divertirci ... ma poi la band è diventata piuttosto popolare. Come risultato c'è stata la possibilità di fare tour in molti posti - però, piuttosto che scioglierci ho deciso di tentare la carriera da solista, l'ho fatto ... e questo è quello che è successo!
Hai avuto l'opportunità di suonare con grandi artisti:  tra cui Steve Earle e Seasick Steve. Che esperienze sono state? Che tipo è Seasick Steve? Mi piace molto Steve!
Yeah man, ho avuto la fortuna di suonare con un sacco di grandi artisti che ammiro ... Steve Earle e Seasick Steve sono due di questi e sono grandi persone. Seasick Steve è entusiasmante ma con i piedi per terra, vero e grande sostenitore della musica ... un ragazzo molto, molto positivo e carino. Steve Earle è un altro bravo ragazzo ... molto amichevole e solidale.
Suoni sia concerti da solo che con la band. Quali sono le maggiori differenze e cosa possiamo aspettarci dai tuoi concerti?
Anche se le canzoni sono le stesse, quando suono da solo ci sono un sacco di libertà in più, non ho preoccupazioni, anche perchè so che posso cambiare le cose al volo ... quando suono con la band è più difficile tenere bene il tempo! Lo spettacolo attuale ha anche altre differenze: da solo posso correre come un pazzo, ma quando sto condividendo il palco con altri musicisti devo ricordarmi  che anche loro hanno bisogno del proprio spazio e visibilità, così devo darmi una calmata.
Il tuo blues è istintivo, onesto e semplice, ma è influenzato da molti altri stili musicali. Quanto la musica scozzese ha contaminato la tua musica? Quali sono i tuoi primi ricordi musicali e da cosa sei stato influenzato? ( su Baby, Let Me Follow You Down ... sembri il primo Dylan! )
 Mi piace farla semplice ... non voglio pensare troppo alle cose tecniche ... Preferisco lasciar scorrere il feeling. Il mondo non ha bisogno di qualcuno che suoni covers o di qualcosa che suoni come tutte le altre cose - Credo che il mio stile sia influenzato dai generi di musica che ascolto di più:  trash country, punk, rockabilly. Amo il rock'n'roll anni '50. Una delle prime canzoni che ricordo è Johnny Cash che canta 25 minutes to go ... e molte cose sono iniziate proprio da lì. Quando ho ottenuto la mia prima chitarra acustica - all'età di 19 anni, circa - ascoltavo Bob Dylan ... specialmente il primo Dylan. Ora non lo ascolto più tanto, ma mi piaciono molto i suoi dischi e il suo suono.
 Quanto è difficile avere il controllo totale sulla tua musica ( la Buzz Records è la tua etichetta personale). Una scelta personale o obbligata? Come sta andando? 
Per un musicista come me, che vive di musica, è molto importante avere il controllo e il copyright della propria musica e delle registrazioni ... quindi col senno di poi, aprire la mia etichetta ed imparare a lavorare nell'industria discografica è stata una scelta molto positiva. Se non avessi la mia etichetta dubito che sarei in grado di guadagnarmi da vivere con la musica, oggi. Non è difficile, ma a volte sarebbe bello avere a disposizione i soldi che le etichette più grandi possono spendere dietro ad un progetto. L'accordo di licenza con la  Dixiefrog si è trasformata in una grande collaborazione e credo che stiamo lavorando molto bene insieme.
Da dove nasce il tuo stile chitarristico?
Non sono mai stato molto bravo  nell' "apprendimento" ... e, ad essere onesti, non mi interessa copiare altre persone, così ho fatto le cose a modo mio. All'inizio è stata dura, ma ora sono davvero contento che sia andata così, perché penso che mi abbia aiutato a sviluppare uno stile abbastanza unico.
Ti ricordi il primo disco che hai comprato con i primi soldi che hai avuto?...e l'ultimo? 
Il primo fu  una raccolta di Johnny Cash - un doppio album ... dopo aver ascoltato 25 minutes to go, a sette anni, a casa di amici. L'album che ho comprato però, non  aveva quella canzone, ma conteneva un sacco di canzoni dell'era Sun, canzoni che sono state molto influenti. Sono molto fortunato che un sacco di case discografiche e artisti mi spediscano della musica - anche se non so bene il perchè - ma l'ultimo disco che ho comprato l'ho scaricato da iTunes: Cedell Davis 'The Horror of it All' ... Ora sto ascoltando il nuovo di  Scott H Biram ...
Quali sono i tuoi programmi futuri? Stai già scrivendo nuove canzoni?
Ho registrato 13 brani a Helsinki lo scorso mese tra cui alcuni nuovi di zecca che ho appena scritto e due melodie per banjo! Ho un altro paio di idee da registrare, poi vedremo quello che viene - c'è una etichetta finlandese interessata a pubblicare tutto o in parte in un album, anche la Dixiefrog è interessata al materiale. Mi piacerebbe vedere una bella collaborazione tra tutti, anche con la Buzz ... far uscire tutto in formati diversi: CD, vinili, download in differenti nazioni. Qualcosa del genere, insomma. 
Ti auguro molta fortuna e spero di vederti presto in Italia. Quando?
Grazie! Divertente, ho suonato in Francia, Belgio, Olanda, Germania, Svizzera, Finlandia, Estonia, Polonia, Repubblica Ceca, Canada, Irlanda e, naturalmente, tutto il Regno Unito ... ma non l'Italia! Spero di visitarla e suonarci presto!
Un caloroso e sincero ringraziamento a Dave per la disponibilità mostrata. 


vedi anche RECENSIONE: DAVE ARCARI-Nobody's Fool (2012)


vedi anche RECENSIONE: DAVE ARCARI & the HELLSINKI HELLRAISERS-Whisky In My Blood (2013)



sabato 5 maggio 2012

RECENSIONE: JACK WHITE ( Blunderbuss )

JACK WHITE  Blunderbuss (  Third Man Records, 2012)

Devo ammetterlo: la stella di Jack White, per me, ha iniziato a risplendere dopo l'affossamento dei suoi White Stripes. Prima vedevo l'astro brillare ad intermittenza, con il buon Jack che mi sembrava più un eroe da fumetti, o un personaggio cinematografico impersonato dal trasformista Johnny Depp. Non che ora i suoi look non andrebbero bene per le sceneggiature dei film di Tim Burton, anzi. Stella schiavizzata dentro ad una formula "a due" che imprigionava il suo talento. Ai White Stripes ho sempre preferito i suoi progetti collaterali: The Raconteurs (ottimo il loro Consolers of the Lonely-2008), The Dead Wheater e i suoi preziosi ripescaggi vintage da produttore: Loretta Lynn e l'ultimo divertente The Party Ain't Over(2011) con Wanda Jackson. Il mio disco preferito dei White Stripes è sempre stato l'ultimo Icky Trump che qualcosa in comune con Blunderbuss sembra averlo.
 Jack White è una star, relativamente giovane, che sta cercando di preservare le radici della musica americana: aiutandola, diffondendola, mettendoci la faccia e cercando di portare, alle orecchie dei  più giovani, generi musicali che difficilmente troverebbero l'esposizione mediatica che la sua figura riesce a dare. White sta al roots "americana" come Dave Grohl sta al Metal (vi ricordate del progetto Probot?). La loro sembra quasi una missione, spesso criticata, che direi riuscita in tutti e due i casi. White ci aggiunge anche -oltre a tanti soldi- un negozio di dischi, fabbriche per stampare vinili e una etichetta discografica (Third Man) a suo nome. Soldi investiti per l'amore in musica a 360°.
 Per la prima volta, nessun gruppo a cui badare ma la libertà di sfogare la fervida fantasia compositiva: "un album che non avrei potuto pubblicare prima di oggi. Ho evitato di pubblicare dischi a mio nome per molto tempo, ma ho l’impressione che queste canzoni possano essere presentate solo a mio nome. Sono state scritte da zero e non hanno avuto nulla a che fare con altro che non sia il mio modo di esprimermi, i miei colori e la mia tela...".
Le tredici canzoni di Blunderbuss hanno il volto scuro, decadente, gotico e sono quanto di più omogeneo White abbia prodotto in carriera. Rappresentazione moderna della parte più scura e nascosta della sua visione di Nashville, città dove vive da alcuni anni e che ha ispirato gran parte delle composizioni, dove i rapporti umani e le tragedie amorose giocano un gran ruolo nei testi.
La sua torrenziale chitarra elettrica si sente poco rispetto a quanto ci aveva abituato ( Sixteen Saltines e Freedom at 21 ) e compare qua e là con acidi e taglienti incursioni ed assoli dentro a canzoni piene di tutte quelle sfumature sacrificate in anni di striscie bianche. Perchè, sarà anche il suo disco solista, ma solo, Jack White non lo è mai. Circondato da una nutrita schiera di musicisti, molti nativi di Nashville, tante donne tra cui spicca la batterista Carla Azar (bizzarro sarà il suo nuovo tour che comprenderà due spettacoli in uno: la prima parte accompagnato dalla band maschile, nella seconda, dalla band femminile) e tanti strumenti vintage registrati con le tecniche più moderne del suo studio di registrazione personale. 
Se I'm Shakin', unica canzone non sua, ma cover di Rudolph Toombs, sembra riprendere il divertente lavoro di riscoperta fatto con Wanda Jackson, tutto il  disco viaggia su un tappeto di tastiere e pianoforti: il lento walzer country con la pedal steel di Fats Kaplin in Blunderbuss; gli iniziali alti e bassi di Missing Pieces guidata dal piano Rhodes; il folk anomalo con clarinetto e wurlitzer di Love Interruption in coppia con la ghanese Ruby Amanfu alla voce; l'oscurità classicheggiante del pianoforte di Brooke Waggoner (gran protagonista in gran parte del disco) in Hypocritical Kiss; una Weep Themselves to Sleep dove il british rock degli Who incontra le paludi americane e Thrash Tongue Talker come un Elton John in visita agli Stones in esilio a Parigi. E poi ancora gli  inserti quasi rappati dentro alle chitarre che rimpolpano Freedom at 21; il bagno nel Mississippi di I Guess I Should Go To Sleep che sa di antichi canti neri, la psichedeliche visioni pop '60 di On and On and On e la bizzarra conclusione con i violini e l'assolo di chitarra di Take Me with You when You Go che con Hip (Eponymous)Poor Boy rivelano ancora tutto l'amore per i Led Zeppelin "unplugged", con il piano di Waggoner e il banjo di Kaplin ancora in primo piano.
Lontano dall'essere il disco salvifico che molti hanno dipinto, Blunderbuss è però una buona biografia dell'animo (oscuro e variegato) musicale di Jack White, per anni nascosto dietro a riff di chitarra elettrica ed ora libero di volare come uccello rapace e curioso sopra alla musica tutta. Disco che cresce con gli ascolti.





vedi anche RECENSIONE: WANDA JACKSON-The Party Ain't Over (2011)

mercoledì 2 maggio 2012

RECENSIONE: EBO TAYLOR ( Appia Kwa Bridge )

EBO TAYLOR Appia Kwa Bridge ( Strut , 2012)

Basterebbe iniziare l'ascolto dall'ultima canzone Barrima, per entrare a contatto con l'anima di Ebo Taylor e da lì proseguire in discesa, scoprendo gli accecanti colori delle sue composizioni. Barrima è acustica, solo voce e chitarra. Una canzone che entra in profondità dopo pochi secondi. Dedica accorata alla defunta moglie che il chitarrista/cantautore ghanese, classe 1936, interpreta con commovente trasporto, registrandola in presa diretta, da buona alla prima.
Ebo Taylor, dopo essere uscito allo scoperto al mondo discografico occidentale con il precedente Love and Death (2010), seguito dalla compilation retrospettiva Life Stories (2011) , si rifà vivo a soli due anni di distanza, mantenendo le caratteristiche che ne hanno fatto un personaggio leggendario e di culto della musica High life/Afrobeat africana. Ebo Taylor ebbe la grande fortuna di incontrare Fela Kuti in Inghilterra nei primissimi anni sessanta. Dalla collaborazione con il grande innovatore dell'afrobeat trasse grande profitto, trasportando le grandi contaminazioni nel suo Ghana, dove tornò in veste di autore, musicista e produttore, avendo modo di sperimentare e creare nuovi suoni che ne hanno fatto uno dei più grandi musicisti africani di sempre.
La sua sembra essere un'uscita allo scoperto per rivendicare una paternità verso alcuni suoni Afrobeat che dopo le cure Eno/Byrne degli anni ottanta sono ritornate di gran moda, in questi ultimi anni, nella musica pop/rock occidentale.
Appia Kwa Bridge registrato a Berlino, contiene otto canzoni di cui sei appositamente registrare per il disco e due già conosciute. Il groove costante e instancabile delle sue canzoni, suonate, come nel precedente disco, con l'aiuto dell'Afrobeat Academy di Berlino (un ensemble di giovanissimi musicisti tra le migliori afro-funk band del mondo), è una riuscitissima mistura tra highlife, afrobeat, blues/soul, jazz, fusion e funk dove anche il rock ha modo di accedere. Fiati, percussioni, tastiere e chitarre sono mulinelli che trasportano come un unica onda travolgente, interrotta solamente dalla forza interpretativa acustica di Yaa Aponsah, vero e proprio inno highlife ghanese degli anni venti, riletto da Ebo Taylor con grande ardore e dalla finale Barrima di cui ho già detto.
Tutto il resto è altamente trasportante: la title track, che prende il nome dal piccolo ponte di Saltpond, nella Cape Coast, località dove Ebo è cresciuto , impone all'attenzione il grande lavoro di chitarra; i sette minuti dell'iniziale Ayesama,  grido di guerra della popolazione Fante; l'eleganza di Abonsam, dove dietro al titolo si nasconde il "diavolo" in ghanese, responsabile del male nel mondo ed esempio da non seguire; le tastiere ed il basso funky che guidano  Kruman Dey ed il ritmo di  Assomdwee con il bel assolo di chitarra e le percussioni dell'ospite Tony Allen, batterista nigeriano che suonò con Fela Kuti. Tutte canzoni piene di energia e spiritualità, dove la creatività di un settantaseienne incontra la solida freschezza di una band (Afrobeat Academy) che rispettosamente lo accompagna e lo proietta nel mondo moderno.Viaggio intenso tra l'Africa e New Orleans. Da provare e seguire nelle tappe europee del suo tour a Maggio, che purtroppo non toccherà l'Italia.

vedi anche RECENSIONE: VICTOR DEME- Deli
vedi anche RECENSIONE: TINARIWEN-Tassili

sabato 28 aprile 2012

RECENSIONE: EUROPE ( Bag Of Bones )

EUROPE Bag Of Bones ( earMusic/EDEL, 2012)

Con Bag Of Bones, gli svedesi Europe confermano quanto il loro ritorno nel 2004 ( a tredici anni dallo scioglimento), con il sorprendente Start From The Dark, non fu il classico fuoco di paglia di una reunion estemporanea, ma una dichiarazione e dimostrazione di grande carattere artistico, crescita ed il primo mattoncino verso un nuovo futuro ed una seconda parte di carriera che sta raggiungendo e superando la longevità della prima. Togliersi di dosso certi stereotipi che giravano negli anni ottanta e che li hanno accompagnati per lunghi anni, non è stata impresa facile, ma alla fine, bisogna darne atto: ci sono riusciti, eccome. E qui, devo aprire una parentesi per tutti quelli che ancora adesso (mi)si chiedono con quel sorriso malizioso: ma esistono ancora? Quelli di The Final Countdown? La risposta è sì, e sono dannatamente e diversamente meglio di allora. Il ritorno di John Norum, uno che ebbe il coraggio di lasciare il gruppo nel momento di maggior successo, immediatamente dopo The Final Countdown, per percorrere la sua strada di musicista lontano dalla ribalta, ha spostato la loro musica verso quell'hard-heavy/blues suonato con  quella freschezza moderna (non modaiola) che li rende, ad oggi, tra i migliori gruppi del genere e della loro generazione. Tanto da presupporre che la lunga pausa abbia portato solamente giovamenti e benefici.
Bag Of Bones, prodotto dal sudafricano Kevin Shirley ( Rush, Joe Bonamassa, Black Country Communion, Journey, Iron Maiden, Black Crowes, tra i tanti...), per il sottoscritto è nettamente migliore del già ottimo suo predecessore Last Look At Eden(2009), e può tranquillamente considerarsi tra i migliori lavori in carriera degli svedesi (anche se continuo ad adorare il sempre dimenticato Prisoners in Paradise-1991).
L'ispirazione bluesy e sporca della chitarra di Norum ( spesso sottovalutato,ma autore di ottimi dischi solisti) e i suoi numerosi ed ispirati assoli, sparsi lungo tutto il disco, sono la marcia in più degli Europe di oggi. Lo si prova subito, ascoltando la veloce opener Riches to Rags; nel primo singolo Not Supposed to Sing the Blues con il  testo autobiografico e dichiarativo di Tempest, e la presenza di tutte le sfumature musicali che potete trovare nella band odierna; nella stupenda title track dove la gradita presenza dell'ospite Joe Bonamassa alla slide guitar fa la differenza, il masterpiece del disco che ondeggia tra le parti lente ed acustiche e le esplosioni elettriche. Mai come in questo disco gli Europe costruiscono canzoni complesse e stratificate. Le tastiere di Mic Michaeli si ritagliano i propri spazi come in Firebox, roccioso hard '70, non lontano da quanto proposto dalla superband Black Country Communion, con quel sapore orientale dato dal sitar nell'intermezzo centrale, che sa tanto di Led Zeppelin, così come potrebbero ricordare Plant e Page, i due minuti dell'acustica ed unplugged Drink and A Smile, buon lascito della bella esperienza fatta con il tour e conseguente disco Almost Unplugged(2008).
Joey Tempest è sempre stato un signor cantante, cresciuto e devoto agli anni settanta di UFO, Whitesnake, Thin Lizzy e Led Zeppelin ma che non ha avuto paura ad intraprendere nuove strade legate al folk/rock americano, durante la pausa della band. Esperienza servita per far uscire nuovi timbri dalla sua voce. Ascoltare Drink and  A Smile e My Woman My Friend
Tra i pesanti riff di Mercy You Mercy Me in stile Black Label Society, dove Norum non nasconde tutta la sua ammirazione, dichiarata, per il chitarrismo di Zakk Wylde, hard/southern rocciosi (Doghouse) con la sezione ritmica sempre all'altezza guidata da Ian Haugland alla batteria e  John Leven al basso, e canzoni dirette come Demon Head, spuntano il breve intermezzo sinfonico guidato dall'hammond di Requiem, l'oscura e pianistica My Woman My Friend e  la finale ballad Bring It All Home, l'episodio più melodico e gigione del disco, ma costruita con grande classe (nell'edizione giapponese da notare la presenza di una bonus track, l'incalzante e hard Beautiful Disaster ).
Gli Europe con Bag Of Bones si avvicinano ancor di più al calore dell'hard/ blues settantiano (bella ed esemplificativa la cover), che è sempre stato nelle loro corde di musicisti, ma che solo ora sta uscendo in modo naturale e stupefacente. Mai così vicini alle radici degli anni '70, rivisti in chiave moderna e personale da cinque musicisti che si stanno riprendendo la loro rivincita sulla critica, senza rinnegare completamente il loro passato ma soprattutto senza portare in giro pacchiani e pesanti ricordi dei tempi andati, come molte formazioni coetanee tendono a fare. Nulla da buttare in Bag Of Bones.
Ascoltate e, per piacere, toglietevi quel sorrisetto quando sentite nominare il loro nome. Loro sono cresciuti e maturati. Voi?
 

vedi anche RECENSIONE: BLACK COUNTRY COMMUNION-2

giovedì 26 aprile 2012

RECENSIONE: TRAMPLED BY TURTLES ( Stars And Satellites )

TRAMPLED BY TURTLES Stars And Satellites ( Banjodad Records, 2012)

Quando il buon Neil Young vuole suonare rock pesante e veloce, depone violini, banjo e mandolini, chiama a raccolta i suoi Crazy Horse, attacca i jacks delle chitarre elettriche e parte. Ora immaginate una band che di posare i propri strumenti della tradizione non ci pensa nemmeno sotto tortura. I Trampled By Turtles suonano veloci e diretti, evocativi e country, usando i medesimi strumenti musicali, seppur il nuovo Stars and Satellites smorza i toni, rallenta i ritmi, diventando il loro disco più introspettivo, maturo e personale.
Nati nel 2003 a Duluth nel Minnesota, Stars And Satellites è il sesto disco e succede a Palomino, uscito nel 2010, lavoro che li ha spinti verso un crescendo di successi in patria, stazionando per 52 settimane nella top 10 delle classifiche dedicate al genere bluegrass.
Ma il loro è un alt-bluegrass che sa essere fast and furios (qualcuno è riuscito ad appiccicarci sopra il terminne thrash grass), frutto delle passate esperienze nel punk dei membri della band, ma anche più tradizionale, quando a prevalere sono le immagini evocative e i ritmi lenti come proposto in questa nuova raccolta di undici canzoni. I Trumpled By Turtles cercano altre strade.
Registrato nella loro terra, quasi in presa diretta, in una casa immersa nel verde denominata Soleil Pines sulle rive del Lake Superior, il disco risente di tutta la rilassatezza accumulata in un posto lontano dagli stress, cercato e voluto appositamente. I risultati si sentono immediatamente dall'iniziale e notturna Midnight on the Interstate, così lontana dall'urgenza espressiva della nervosa Wait So Long che apriva il precedente disco e dal primo singolo Alone, desolata ed evocativa, che si impenna solamente nel finale. Così come in High Water che cerca nelle ombre la sua anima, condotta benissimo dal cantante, chitarrista e principale songwriter Dave Simonett. Widower's Heart, il folk di Keys To Paradise, il lentissimo walzer della finale e "younghiana" The Calm and The Crying Wind, Beautiful con la grevità del suo violoncello, giocano tutte dalla parte della meditazione, con liriche che si interrogano, in prevalenza, sul passare del tempo e su come, molto spesso, sia bello apprezzare la vita nelle sue semplicità naturali e quotidiane. Riflessioni di chi sta crescendo.
Chi rivuole la velocità dei dischi passati dovrà accontentarsi di Sorry, la strumentale Don't Look Down guidata dal banjo di Dave Caroll e dal violino suonato da Ryan Young (completano la formazione: Tim Saxhaug al basso e Erik Berry al mandolino), Walt Whitman che è una country song corale che aumenta di velocità con il violino ancora protagonista e in fuga, così come la velocità da treno in corsa dell' altra strumentale Risk che piacerà molto ai vecchi fans della band, con il complicato intreccio tra violino, banjo e mandolino lanciati e spediti. Ecco, se c'è una caratteristica che differenzia i Trumpled By Turtles dai tanti gruppi giovani che si stanno imponendo in questo genere (Mumford and Sons, Avett Brothers...), gli arrangiamenti e le splendide armonie sono un grande punto a favore.
Disco da grandi spazi, panorami stellati, guida lenta, meditativa e rilassata con l'imprevisto delle fast songs che potrebbero indurrre a schiacciare il pedale dell'acceleratore in modo improvviso e nei momenti meno opportuni.   

lunedì 23 aprile 2012

RECENSIONE: SAINT VITUS ( Lillie: F-65 )

SAINT VITUS Lillie:F-65 ( Season of Mist, 2012)

Dopo il ritorno dei Pentagram, l'anno scorso, questo 2012 vede un altro peso massimo del doom metal riunito. I Saint Vitus mancavano su disco dal lontano 1995, anno d'uscita di Die Healing inciso con il loro primo cantante Scott Reagers.
Lillie:F-65,che prende il nome da un barbiturico che sembra alleviasse la loro "giovane" vita negli anni settanta (nessun dubbio in proposito), vede il rientro al microfono del grande Scott "Wino" Weinrich (Obsessed e Spirit Caravan tra i suoi tanti progetti) che ritrova i suoi vecchi compagni, in particolar modo il chitarrista e vero deus-ex machina della band Dave Chandler, tratto distintivo del suono grazie alla sua chitarra, e uno dei pochi freakettoni, selvatici, veri e puri esistenti (il suo look è ancora qualcosa di fantastico alla vista). Reclutato il bravo Henry Vasquez  dietro alle pelli, in sostituzione dello scomparso Armando Acosta e con il basso saldamente in mano a Mark Adams, i Saint Vitus possono riprendersi in mano lo scettro che compete loro.
Abbandonate quasi totalmente le accelerazioni che distinguevano il loro doom-metal (stiamo pur sempre parlando di una band che divideva il palco con i Black Flag, nella Los Angeles dei primi anni ottanta), Lillie:F-65, in soli 35 minuti (durata in linea con i primissimi dischi) riesce ancora una volta a farci compiere un viaggio nella parte più oscura, spirituale e depressa dell'essere umano. Sette tracce che sanno bagnarsi nel dolore e disperazione, che diventano cinque, escludendo il breve interludio strumentale e arpeggiato di Vertigo e i tre minuti finali di Withdrawal, composti da feedback stordenti, liquidi e spiazzanti nel congedare l'ascoltatore.
Il disco si apre con Let Them Fall, canzone ben rappresentativa dello status attuale della band. The Bleeding Ground contiene un ottimo assolo e l'unica accelerazione del disco nella parte finale, oppressiva sinfonia della decadenza che trova il culmine nel lento, oscuro e tetro discendere di The Waste Of Time, con il gran lavoro del nuovo batterista Vasquez e con i riff di Chandler, da sempre il simbolo sonoro della filososia che si cala dietro al doom del gruppo, e nei sette minuti di Dependence, brano più lungo e contorto del disco, fuzz e psichedelia al rallentatore con una spirale centrale di feedback risucchiante e stordente che riparte per poi morire nel rumore della finale Withdrawal. Il punto più estremo del disco.
Episodio a sè, sembra essere Blessed Night, groove sulfureo in odor di Black Sabbath (non volevo nominarli, ma come si fa?) e vicina a certo Stoner dei primi anni novanta. Ma è un cane che si morde la coda.
I suoni non saranno più grezzi, abrasivi e malati come quelli del loro debutto; l'oscura, fumosa decadenza che li avvolgeva nel 1984, con Reagers alla voce è ormai impressa indelebilmente nelle rocce, preda(resistente) solamente dei più nefasti agenti atmosferici. Ora i tempi sono cambiati, ma i Saint Vitus rimangono quella macchina fosca e poco penetrabile che nell'anno 2012 li fa preferire ai tanti cloni sparsi per il mondo. Ancora bentornati, maestri "drogati" di Doom.

  


vedi anche RECENSIONE: PENTAGRAM-Last Rites (2011)

sabato 21 aprile 2012

RECENSIONE REPORT/live: MICHAEL KIWANUKA live@Magazzini Generali, Milano,21 Aprile 2012

Quando arrivo ai Magazzini Generali di Milano, l'atmosfera è già calda e il concerto presumo sia iniziato da almeno un quindicina di minuti. Ad aprire c'è stato Jake Bugg, giovanissimo folk-singer di Nottingham. A Michael Kiwanuka è bastata un 'ora di concerto per farmi convincere delle sue enormi qualità e non si è dovuto sforzare più di tanto, mettendo sul piatto il solo talento. Senza trucchi ed inganni. Kiwanuka è una piccola stella genuina, che dovrà ancora crescere e dare tante altre conferme per brillare come (forse) qualcuno vuole per lui (è il dubbio maggiore che avevo), ma che stasera ha confermato che l'aggettivo "vero" davanti al suo nome ci sta veramente bene.
Il suo approccio con il pubblico è ancora quello di chi ha appena iniziato una grande avventura che porterà lontano. Un feeling genuino ed estremamente umile.Vestito di una semplice maglietta a righe orizzontali, rilascia poche e timide parole: la presentazione dei brani e della band, una dedica al povero Levon Helm-batterista di The Band-scomparso proprio in giornata, qualche scambio di battutte con una ragazza prima del suo grande successo Home Again, e poco altro. La sua voce, tanto timida e appena sussurrata quando parla, si trasforma in matura e coinvolgente quando canta.  Ma nessuno, stasera è qui per sentirlo parlare.Il giovane Michael, che dal vivo sembra dimostrare ancor meno dei suoi ventiquattro anni, risparmia tutta la sua voce per le canzoni. Quello che speravo, si è avverato. Le canzoni, la voce, i suoni, gli strumenti basilari sopra al palco rendono giustizia a tutti gli Hype che gli circolano intorno. Tutta la perfezione, gli arrangiamenti ed i suoni che avvolgono il suo debutto Home Again (2012), dal vivo si svestono e si foderano di una nuova realtà, lasciando spazio anche a quelle umane imperfezioni che emanano tanto calore e positività. I cinque giovanissimi componenti della band (chitarra, basso, batteria, percussioni e tastiere) riescono a rivestire e colorare di funk canzoni, già ricche di loro, che toccano il soul, il pop, il jazz ed il folk, e il talento di Kiwanuka è palpabile quando parte una Home Again, accolta come fosse già un piccolo classico. Quando poi la band esce di scena e lascia i fari puntati solamente su di lui e la sua chitarra, la sua anima soul sembra amplificarsi e la purezza della sua voce penetrare maggiormente, facendo riaffiorare quelle ombre romantiche che pensavo di non avere più. Per chi, come me non ha vissuto l'epoca d'oro del soul, è un salto temporale mica da ridere. Il Soul è ancora vivo. Mi piace.
Tra Bones, Tell Me a Tale, I Won't Lie e una  I Don't Know, cover di Bill Withers, canzone che riesce a coinvolgere e far cantare il pubblico, il concerto si chiude (forse sul più bello) e a me come a tutti i presenti non rimane altro che augurare a Kiwanuka di calcare palchi più grandi in futuro, anche se la sua musica in questo contesto raccolto funziona a meraviglia. Si esce, consapevoli di aver visto la prima italiana di un talento che farà molta strada.
Sono le 22 e 30, il personale ci sta spazzando fuori con poca gentilezza. Fuori un'orda di ragazzini sta aspettando la riapertura del locale che si trasformerà in pochi minuti in una discoteca. Chissà se tra loro qualcuno è a conoscenza che, proprio lì dentro, ha suonato un ragazzo che alla loro età sognava già Marvin Gaye e Otis Redding?

SETLIST: I'll Get Along/I Need Your Company/Always Waiting/I'm Getting Ready/Tell Me a Tale/Worry Walks Beside Me/Bones/May This Be Love (Jimi Hendrix)/Any Day Will do Fine/I Won't Lie/Home Again/I Don't Know(Bill Whiters)/Lasan
 


  vedi anche RECENSIONE: MICHAEL KIWANUKA-Home Again (2012)

RECENSIONE: KILLING JOKE ( MMXII )

KILLING JOKE MMXII ( Spin-Farm, 2012)

Tanto tuonò che il fatidico 2012 è iniziato da ben quattro mesi. Jaz Coleman, profeta apocalittico di lunga data, ancora in cerca della location ideale di vita e bunker per ripararsi dall'imminente catastrofe, lontana dal caos frenetico della modernità esasperata ( ora, le cronache, lo danno accasato in Francia ), aspetta sornione gli accadimenti per poter dire: sono più di trentanni che ve lo stavo dicendo. Vi avevo avvertito in tempo.
Intanto fa uscire il quindicesimo album della sua creatura. Se a fine anno qualcosa succederà, speriamo che nulla travolga e spazzi via i Killing Joke, che da alcuni dischi hanno ritrovato la scintilla dei migliori tempi. Complice la reunion (Kevin”Geordie”Walker, Martin”Youth”Glover e Paul Ferguson) della storica formazione che sembra, ancora una volta, centrare il bersaglio, sempre a fuoco, salvo alcune (rare) cadute di tono ormai alle spalle ed una ritrovata ispirazione nata dopo la morte del compianto bassista Paul Raven. Se nel 1980 erano proiettati nel futuro, nel 2012 sono un monumento da preservare e difendere, rispettato, influente ma assolutamente ancora inimitabile.
Anche se poco cambia nella loro musica e nei loro testi, a loro è assolutamente permesso, la sensazione è sempre quella di essere davanti a chi avanti lo è sempre stato in tutti i sensi.
MMXII non si allontana di troppo da quanto proposto nel precedente Absolute Dissent (2010), se non per alcune puntate più marcate verso il periodo post-punk/New Wave degli anni ottanta. La ferocia velocità nelle chitarre di Geordie Walker in Corporate Elect, Primobile ma soprattutto In Cytheria e Trance che vedono un Coleman ritornare alla voce pulita e melodica, e i synth rimpossessarsi della scena, che diventa trascinante ed oscuramente danzereccia, dentro alle ripetute trame industrial.
Pole Shift si apre con la classica calma prima della tempesta sonora. Coleman, travestito da hippy postmoderno ci manda l'ennesimo messaggio: tutto si sta invertendo, i poli della terra per primi, siamo ancora in tempo per salvarci. Svegliamoci! Nove minuti di caos epico.
Prese di posizione antinucleari, rispetto della natura ( campagna a favore dei generatori di energia pulita), affossamento del capitalismo ed esaltazione della spiritualità rimangono gli argomenti preferiti di Coleman, argomenti che nel tempo sono divenuti un mantra instancabile, ripetitivo ma segnale assoluto di una continuità ed una attitutine reale. I ripetuti disastri ecologici e le cadute degli imperi "che contano" stanno dando ragione a chi, fino a qualche tempo fa, veniva bollato come pazzo.
I Killing Joke vogliono riprendersi la paternità di alcune sonorità che i figli prediletti estremizzarono negli anni novanta.
La pesantezza di una Fema Camp con le chitarre che girano pesanti e heavy intorno alle presunte notizie che danno imminente la costruzione di campi simil-concentramento negli States, la circolarità industriale di Rapture con la voce da orco/sermoniere a cantare lodi ad una liberazione da tutti i materialismi , la saltellante andatura di Colony Collapse che la segue e il pachiderma Glitch spazzano via tutte le ombre presenti nel loro cammino.
Fino ad arrivare ai tribalismi melodici di una On All Hallow's Eve: lenta discesa verso la morte e conseguente rinascita. E' il mondo-umanità migliore che cerca i giusti cambiamenti. Il momento tanto atteso sta per arrivare e la colonna sonora ci viene servita su un piatto d'argento dai Killing Joke. Loro ci credono ancora. Voi?


vedi anche: KILLING JOKE-Absolute Dissent(2010)




venerdì 20 aprile 2012

LEVON HELM: THE LAST WALTZ...un piccolo ricordo


Il Film /documentario The Last Waltz fu la mia prima school of rock. Ricordo ancora la videocassetta PHILIPS su cui registrai il film di Martin Scorsese, captato, chissà come e perché, da un canale Rai, quando la televisione pubblica trasmetteva ancora cose buone e utili. Registrato in modo del tutto inconsapevole, ignorandone il contenuto se non per aver letto da qualche parte che quel film doveva essere assolutamente visto, perché conteneva una grande parata di stelle della musica rock. Quelle cose che si leggevano nelle riviste TV che ti promettevano tante canzoni (?) e tanti sorrisi (?), in quei piccoli trafiletti sotto la foto della locandina, con tanto di stellette e giudizio dato da chissà chi.
Doveva essere l'ultimo concerto di un una delle più grandi Band della musica americana che paradossalmente era per quattro/quinti canadese. Il classico concerto d'addio. Finì per essere uno dei miei primi passi verso la musica di qualità, e mi piace immaginare, ma certamente lo sarà, che possa essere il primo passo di tanti altri adolescenti, allora, adesso, come in futuro. Un nuovo mondo che si apriva e che mai più troverà chiusura (quante cose ancora da imparare...).
The Last Waltz doveva essere una festa, ma ha sempre trasmesso quella velata malinconia /tristezza che già le prime note-Theme From The Last Waltz-promettevano e che Scorsese seppe evidenziare in modo perfetto con il montaggio.
Il più grande "addio" alla musica rock mai immortalato su pellicola. Il concerto/film che in un solo colpo ti metteva di fronte Neil Young, Joni Mitchell, Neil Diamond, Dr.John, Eric Clapton, Van Morrison, Muddy Waters, Ronnie Wood e tanti, tanti altri, riuniti a celebrare, duettare e ringraziare, come Bob Dylan che con The Band scrisse importanti pagine della sua carriera su disco e in tour. Esibizioni intervallate dalle confessioni dei componenti di The Band davanti alla telecamera di Scorsese, tralasciando la "polvere bianca" che si alzava dietro, a telecamere spente. Un pezzo di storia del rock che, nell'anno 1976, lasciava le scene dopo soli nove intensi anni di attività.
Quando le note di Theme from the Last Waltz si rimpossessano dello schermo, calano i titoli di coda e cala la malinconia. L'orchestra di inizio film non c'è più, il Winterland di San Francisco è vuoto, The Band è sopra quel palco che nel frattempo è diventato  piccino piccino. Garth Hudson suona l'organo a pompa dietro a tutti, gli altri da sinistra a destra sono: Richard Manuel al dobro, Rick Danko al contrabbasso e Robbie Robertson  all'arpa/chitarra.
Tra le tante stelle del rock che mi rimasero impresse, un personaggio ha sempre occupato un ricordo più vivido, fatto di quella simpatia che nasce a pelle, senza un perché che ne spieghi il motivo, e senza la voglia di cercare quel motivo se non, negli anni, imparare a conoscere l'artista, la sua storia, le sue opere a confermare quella prima impressione.
Aveva la barba, un sorriso contagioso e sincero, i capelli arruffati e rossicci. Suonava la batteria (ma anche chitarra e mandolino), allo stesso tempo cantava divinamente e aveva l'aspetto umile e "contadino" che l'altezzoso Robertson non possedeva. I due non sono mai andati d'accordo. L'ultimo ricordo? Ho comprato uno dei suoi ultimi dischi solisti nel 2009, Electric Dirt. Lo sto ascoltando ora. La copertina, da sola, sembra raccontare tutto il suo semplice mondo (e modo) di affrontare la vita. Splendido.
Il destino, in modo beffardo, ha cercato di zittire The Band, usando il tempo, la malattia ed i vizi come alleati. Le tre voci del gruppo si sono spente in successione: Richard Manuel nel 1986 suicida dopo anni di alcolismo, il cuore di Rick Danko nel 1999 ha smesso di battere improvvisamente, ora un terribile ed incurabile tumore alla gola ha abbassato il volume all'ultima voce.   
Quando i titoli di coda di The Last Waltz  finiscono la loro corsa, lì all'estrema destra di quel palco piccino, con un minuscolo mandolino in mano, c'è quel un quinto di parte americana del gruppo: LEVON HELM.
Perchè nessun destino beffardo potrà mai zittire la voce e la musica di un musicista. We Can Talk...about it now.

 

martedì 17 aprile 2012

RECENSIONE/REPORT live: TINARIWEN live@Hiroshima Mon Amour, Torino 14 Aprile 2012


La pioggia incessante su Torino è acqua preziosa (Aman Iman...acqua è vita, dicono loro) che innaffia la rossa sabbia del deserto che stasera si è depositata dentro all' Hiroshima Mon Amour, facendo crescere germogli di assoluta leggerezza e voglia di lasciarsi trascinare dal groove continuo che i Tinariwen sanno tenere lungo tutta la durata del concerto. Ma è anche lacrima che scende, pensando alla situazione che il Mali, loro terra d'origine, sta vivendo in queste ultime settimane. L'inasprirsi della tensione interna (notizia così lontana dai nostri telegiornali) ha indotto il leader della band Ibrahim Ag Alhabib a lasciare il tour e ritornare in patria per difendere l'indipendenza della propria famiglia e dei nomadi Tuareg (trattati con disprezzo). Questo per ribadire e rinforzare, per chi fosse ancora scettico, la nomea di "gruppo di guerriglieri" che si portano dietro da circa trent'anni. La musica è la loro arma, ma quando c'è il richiamo patriottico, le armi diventano altre e più pericolose.
La sua assenza è stata però indolore e nessuno stasera si è accorto di nulla, in quanto i Tinariwen sono una band assolutamente democratica, dove ogni membro sa ritagliarsi il proprio spazio alla voce e alternandosi a chitarra e basso, sostenuti dalle percussioni, motore primitivo e folkloristico, in mezzo alla strumentazione elettrica (questa sera si presentano in formazione a cinque).


Ad aprire, i torinesi Cletus, che in mezz'ora di tempo a disposizione, portano la temperatura ai gradi adatti ad un gruppo come i Tinariwen. Il loro minimalismo sonoro, assolutamente strumentale, tra loop elettronici e i ritmi incalzanti intrecciati da basso e chitarra elettrica, con i fiammeggianti battiti tenuti da batteria e percussioni raccoglie applausi e consensi meritati.
I Tinariwen salgono sul palco, recenti vincitori di un Grammy Award nella categoria World Music ottenuto dal loro ultimo disco Tassili(2011), uno dei dischi più freschi ed interessanti dell'anno trascorso; un disco acustico e primitivo, un ritorno alle lontane origini, ma poco indicativo di quello che il gruppo sa sprigionare on stage. Se Tassili era una lenta danza all'ombra di oasi sahariane, in compagnia di falò e tazze di tea, lo spettacolo live sa riportare la musica a quel blues elettrico ed ipnotico che dopo un inizio in cui artisti e pubblico si studiano a vicenda, dopo una manciata di brani conquista definitivamente.

Poco importa se i loro testi parlano di rivolte ed indipendenza o solamente dei loro luoghi d'origine. Lo stato di trance che si impossessa del pubblico è palpabile con l'avanzare del concerto. Rapiti dagli scenografici vestiti della loro terra, dalle danze contagiose del simpatico Alhassane Ag Touhami e da una sbalorditiva tecnica strumentale che travolge durante i ritmi più sostenuti e ammaglia durante gli atmosferici momenti più lenti. Il tutto nella essenzialità di un vero blues, primordiale ed incontaminato, che nasce dalla pancia e allarga il cuore.
Amidinin, Arawan, Assuf Af Assuf, Chatma, Tamadrit n Sahara, Imazaran Nadagh, A Dunya sono solo titoli di difficile pronuncia per noi occidentali ( Tamasheq, è la loro lingua), un pò meno per la numerosa schiera di fans africani presenti alla serata. Festanti e rumorosi, gli unici a riuscire a comunicare con gli artisti e strappare sorrisi che escono da sotto i loro Tagelmust. Una serata di grande contaminazione musicale ma soprattutto culturale.

Comunicativi come non mi aspettavo.Groove ed impatto che non conoscono cedimenti, in grado di aprire sconfinati spazi, dove danza e impegno creano intensità ipnotica e poco contenibile. Suoni al limite della perfezione e voci che quando si uniscono provocano brividi micidiali.
Una iniezione di pura vitalità. Se vi dico che è stato uno dei concerti più veri, spirituali e completi a cui ho assistito negli ultimi anni, qualcuno mi crede?
anche su Impattosonoro.it




SETLIST:Amidinin/A Dunya/Issekad/El Ghalem/Toumast/Djere Djere/Kunten Telay/Kel Tinawen/Imazaran/Tamatent Tilay/Assoul/Assouf Ag Assouf/Tiwiyen/Chatma/Tamadrit/Arawan/Assastan Nakam/Mafel Nedress/Achry TBone


vedi anche: TINARIWEN-Tassili(2011)





vedi anche: ENZO AVITABILE-Black Tarantella (2012)

lunedì 16 aprile 2012

RECENSIONE: ENZO AVITABILE ( Black Tarantella )

ENZO AVITABILE Black Tarantella ( CNI Music, 2012)

Il giusto coronamento ad una carriera impeccabile sotto il profilo della ricerca musicale arriva con Black Tarantella, un disco dove undici grandi musicisti di livello mondiale dialogano con il cantautore/polistrumentista napoletano Enzo Avitabile, dando voce alla forte comunicatività che l'artista ha sempre portato avanti durante la sua carriera, guadagnandosi quel rispetto internazionale che qui in Italia è ancora di nicchia (che gran peccato). Il nome di David Crosby potrebbe bastare per tutti. Il duetto con il musicista americano, simbolo della west coast californiana '70, uno che ha cantato Oh Yes I Can prima di tutti-anche prima che si trasformasse nel plurale Yes We Can-e che, forse, di apparizioni salvifiche in momenti difficili della vita se ne intende; in E ‘a maronn’ accumparett’ in Africa ci racconta della singolare speranza di assistere all'apparizione della Madonna a Soweto. Rapace e significativa. Ma non è il solo momento magico di questo album.
Un disco il cui termine universale è appagante e arricchente, e dove il genere black tarantella si scosta dal significato puramente musicale, per inglobare situazioni più terrene, con la quotidianità protagonista: dando voce, attraverso le tante lingue presenti, ai popoli di tutto il mondo accomunati dalle difficoltà di tirare a campare (nel bello e sostanzioso libretto, i testi in italiano, napoletano-of course- ed inglese).
Enzo Avitabile ama la musica allo stesso modo con cui ama la parte più debole ed indifesa del mondo, riuscendo ad unire le due cose in maniera perfetta come pochi riescono a fare. I ritmi funk, il folklore, il blues, le radici "dei sud" di tutto il mondo si incrociano con le storie di immigrazione, d'immedesimazione tra uomo e natura, di fede religiosa, di lenti ed antichi misteri africani come dei veloci e frenetici battiti metropolitani e occidentali. La tradizione che incontra il moderno, dove il dialetto modenese di Francesco Guccini nel folk di Gerardo nuvola 'e Povere (tra immigrazione e morti bianche) convive con il diluvio hip hop di parole partenopee dei Co'Sang in Mai Cchiù, con gli amici Bottari di Portico a percuotere i loro inusuali strumenti della tradizione; il folk di Suon' 'a Pastell (canto contro tutti i sopprusi ai danni dei bambini) con l'anima irlandese di Bob Geldof, che lascia il cammino alla voce penetrante di Raiz nella taranta "dub" di Aizamm' na mana. Nulla sembra forzato, ma appare tutto naturale come sempre dovrebbe essere.
Avitabile e Pino Daniele (entrambi classe 1957, con pochi giorni di differenza) si ri-incontrano dopo tanti anni e ne esce fuori la bella E' ancora Tiempo che apre il disco splendidamente, rinnovando il sodalizio tra i due e ricordandoci il gran musicista e chitarrista che si cela dietro a Pino Daniele. Mentre l'incontro con Franco Battiato, un altro che con la contaminazione ci è sempre andato a nozze, genera No é No, canto anti-mafia/omertà con il dialetto siciliano che si confonde con il napoletano, e genera un solo grido liberatorio.
Tutto il disco è una girandola di suoni, strumenti, emozioni, colori e voci: la travolgente Nun è giusto con l'algerino Idir; il bellissimo testo, amaro e poetico di Elì Elì con Enrique e Soleà Morente; la vecchia Mane e Mane, riletta in compagnia di Daby Tourè; i testi sentiti ed espliciti di A nnomme 'e Dio e Nun Vulimm' 'a luna.
Fino ad arrivare al treno di Soul Express(vecchio successo di Avitabile, datato 1986) diretto ad alta velocità verso quel futuro dei migliori mondi possibili, in compagnia di un violino del "maestro"Mauro Pagani e Toumani Diabatè.
Black Tarantella
è un disco vivo, pulsante, ispirato e blues come ne escono pochi in Italia. Enzo Avitabile riesce a raccogliere i linguaggi musicali del mondo indirizzandoli verso la sua unicità di musicista, rendendoli universali.



vedi anche:RECENSIONE/REPORT live- TINARIWEN live@Hiroshima Mon Amour, Torino 14 Aprile 2012