mercoledì 7 marzo 2012

INTERVISTA a CESARE CARUGI

Il suo Here's to the Road non ha nulla da invidiare ai grandi dischi provenienti dagli States. Un disco dove i temi del viaggio e del tempo guidano le cinematografiche liriche, vero punto di forza di un lavoro con pochi difetti, sospese tra velato romanticismo e fughe di libertà.
Cesare Carugi ci parla di questi viaggi, degli ospiti e amici incontrati durante il suo cammino di vita e musicale, le sue passioni, le difficoltà giornaliere nel fare musica live, stando lontano dai grandi circuiti e la pigrizia dell'ascoltatore medio:"...manca la curiosità, si parla di musica ma le persone non sono stimolate ad uscire dal guscio, non vedono oltre la punta del loro naso..."


Here's To The Road sta ottenendo buoni riscontri sia in Italia che all'estero. Te lo aspettavi?Non proprio, o meglio, non mi aspettavo un entusiasmo così unilaterale. Ero soddisfatto del lavoro svolto però rimane comunque una sensazione personale.

Sei arrivato ad incidere il tuo primo disco, anticipato dall'ep Open 24Hrs, dopo i trent'anni d'età. Cosa è successo prima?Altre cose, lunghe pause, qualche serata a suonare le solite cover, impantanandomi in una realtà che adesso combatto fermamente. Poi c’è chi mi ha dato l’input a riprendere la scrittura e a rimettermi in gioco, e ho preso la palla al balzo

Le tue canzoni con le loro storie, i viaggi, i loro paesaggi ci portano direttamente negli Stati Uniti e mi vengono in mente le belle Goddbye Graceland, Dakota Lights & The Man who shot JohnLennon o Too Late to Leave Montgomery. Potrebbero rivivere in un contesto tutto Italiano? In futuro potresti lasciarti ispirare dalla tua terra?Spesso e volentieri non è il dove sono che mi ispira ma il cosa vedo. “Here’s To The Road” ha un approccio visivo tutto americano, ma le strade dove è nato sono anche quelle italiane. La strada è la strada ovunque tu vada.

Il tema del viaggio è ricorrente nei tuoi testi. Più voglia di fuga o conoscenza?Entrambi, qualsiasi fuga bene o male ti porta a fermarti prima o poi. Però c’è anche il senso di libertà, d’immaginazione, di osservare i grandi spazi. Il viaggio a modo suo è un bagaglio culturale immenso, e non è mai fine a sé stesso. Non sono un “leather tramp” (così in America definiscono i viaggiatori senza meta, tutti sacco a pelo e autostop), anzi, sono puntiglioso e studio sempre bene la situazione. Il viaggio è una cosa seria.

Tanti ospiti in questo tuo disco: da DanieleTenca a Riccardo Maffoni fino a Michael McDermott . Vuoi presentarli e spiegare come sono nate queste collaborazioni?Michael McDermott è uno dei personaggi che più hanno influenzato la mia scrittura negli ultimi anni. Nel 1991 fece un esordio col botto con “620 West Surf” che gli dette gran successo e varie etichette, come al solito inutili, di “nuovo Dylan” o “nuovo Springsteen”… Poi le cose con gli anni cambiarono, Michael è una persona troppo sensibile per fare la rockstar… Durante il suo tour italiano la scorsa estate rimase colpito dalla canzone e gli proposi il duetto. Accettò, con mia sorpresa, perché conoscendolo è una persona che tiene molto alla sua privacy e difficilmente si concede a cose come queste. Penso sia stato per il buon vecchio e sano valore dell’amicizia. Che poi è quella cosa che mi ha permesso di fare anche le altre collaborazioni.
Riccardo Maffoni ha un curriculum lungo un braccio, dal primo posto a Sanremo Giovani nel 2006 alla vittoria al Festival di Castrocaro, alle finali di Recanati ad altri premi, e concerti d’apertura per PFM, Van Morrison, Nomadi, Alanis Morissette… Daniele Tenca è on the road da un pezzo e sta portando avanti un progetto alquanto rispettabile sul blues unito alle problematiche della sicurezza sul lavoro. Ma credo debbano essere nominati tutti coloro che hanno partecipato, dal mio amico Massimiliano Larocca a Giulia Millanta, da Leo Ceccanti a Mike Ballini, dal mitico Fulvio A.T. Renzi a Gianni Gori, da Gianfilippo Boni (che ha anche mixato il disco) a Jacopo Creatini, fino a Lele Bianchi (ha suonato tutte le batterie) e Matteo Barsacchi (da cui ho registrato il 90% del disco). Un ringraziamento va anche a un fuoriclasse del mastering, Tommy Bianchi, il cui tocco ha dato una spinta pazzesca all’intero lavoro.

Due tra i migliori dischi del 2011 arrivano da Cecina. Il tuo e l'esordio dei Verily So. Sarà solo un caso o da quelle parti crescete a pane e buona musica?Magari è proprio perché mancano pane e buona musica che cerchiamo di sfondare il muro della mediocrità?! A parte gli scherzi, conosco Simone Stefanini ormai da un paio di decenni e ho sempre rispettato la sua verve musicale, quindi quanto di buono ha fatto coi Verily So non mi stupisce.

Quando si parla di rock in Italia, il grande pubblico nazionalpopolare tende a circoscriverlo attraverso i soliti nomi noti(Ligabue, Vasco Rossi...). Da musicista come ti poni di fronte a questa "pigrizia" tutta italiana verso il rock. Pensi si possa fare veramente qualcosa per invertire questa tendenza, spronando a cercare nel sottobosco o c'è veramente poco da fare.La pigrizia musicale non è solo un problema italiano comunque. Spesso e volentieri le majors vincolano troppo il panorama musicale, e quello che ti viene dato in pasto è quello che a loro rende introiti, e la gente, già pigra di suo, prende quello che gli viene dato. Manca la curiosità, si parla di musica ma le persone non sono stimolate ad uscire dal guscio, non vedono oltre la punta del loro naso. Brutto a dirsi, ma negli ultimi quindici anni c’è stato un vero e proprio crollo della cultura musicale. Spesso ci infilano negli orecchi cose che definiamo “nuove”, solo perché un qualche ufficio stampa ha avuto il colpo di fortuna di piazzarle bene. Penso all’exploit dei Black Keys nei mesi scorsi, ma forse nessuno sa che i Black Keys esistono da un decennio, e che “El Camino” è il disco più brutto della loro carriera.

Hai avuto modo di aprire concerti per importanti nomi del rock americano. Qual'è l'esperienza che ti è rimasta più a cuore?
Ho aperto per Jesse Malin, Michael McDermott, Bocephus King, Matthew Ryan, Israel Gripka e tanti altri, tutte esperienze interessantissime. Forse quella più emozionante resta il concerto d’apertura a Willie Nile della scorsa estate, davanti a 400 persone nella splendida cornice della Rocca di Cento, conclusa poi con una jam finale sul palco con Willie e la band spagnola Stormy Mondays a fine serata. Fatico a pensare a un musicista che ti trasmette entusiasmo più di Willie Nile. Un carissimo amico con un cuore enorme.


Quali sono le maggiori difficoltà che incontri nell'organizzare delle date live in Italia e come presenterai il disco nelle prossime date del tour? Sarai da solo o accompagnato dalla band?Potrei ricollegarmi ai discorsi che facevo sulla pigrizia delle persone, unisco le solite problematiche organizzative e lo spazio che purtroppo viene dato sempre di più alle troppe cover band, che rimangono “macchine per invogliare il pubblico” ma che artisticamente propongono la solita solfa. C’è bisogno di aria fresca e di talento, di fotocopie in giro ce ne sono troppe, e bisogna osare, fare un passo avanti e mettersi in gioco. In quel modo si resta bloccati in mezzo alla strada della mediocrità generale, in attesa di essere investiti. Sto presentando il disco proponendo diversi tipi di show, dall’acustico in solitaria al duo, fino al Double Show che stiamo portando avanti io e Riccardo Maffoni, sulla scia del connubio Dylan-Knopfler. Spero per l’estate di avere la possibilità di fare delle cose in trio. Con la band mi piacerebbe moltissimo, mancano tempo e pazienza in questo momento, quindi vedremo in futuro.

Qual'è il tuo primo ricordo legato alla musica americana? Un disco, un concerto...
La prima cosa che mi viene in mente è il breve show di Porter Wagoner che vidi alla Grand Ole Opry a Nashville. Ricordo che arrivai a Nashville la sera prima ed ero ancora distrutto dalla fatica, ma vedere quest’uomo di quasi ottant’anni con l’entusiasmo di un quindicenne mi ha rimesso al mondo. Se penso a un disco non posso non citare “Soldier” di Calvin Russell. Non è il suo disco migliore, ma è stato il mio personale apripista per la music roots americana.


Bob Dylan, Bruce Springsteen, Neil Young, Tom Petty...o chi vuoi tu. Dovessi scegliere uno solo di loro, con chi collaboreresti per un disco scritto a quattro mani, e perchè?Non sarebbe male avere i testi di Dylan con l’entusiasmo del Boss, la voce di Neil, e la backing band di Tom Petty. Sono 4 autori diversi e se ne stanno lassù nella mia lista personale di mostri sacri. Ma se dovessi sceglierne uno, pensando al mio modo di fare musica, sceglierei il Tom Petty di “Wildflowers”, quello che si sposa di più alla mia concezione di suono e di emozionalità.

C'è già un disco che ti ha colpito in questi primi mesi del 2012 e che consiglieresti? Per ora buoni dischi, come “Wrecking Ball” di Springsteen, i lavori di Craig Finn e Anais Mitchell, o gli Shearwater. Però il mio 2012 è stato letteralmente folgorato dal nuovo di Mark Lanegan. Ha ricreato le sue vecchie concezioni, è provocatorio, è potente, è profondo. Lo adoro.(...condivido pienamente)

 vedi anche RECENSIONE: CESARE CARUGI-Here's to the Road (2011)




vedi anche RECENSIONE: CESARE CARUGI-Pontchartrain (2013)




vedi anche INTERVISTA ai W.I.N.D.





lunedì 5 marzo 2012

RECENSIONE: CORROSION OF CONFORMITY ( Corrosion Of Conformity)

CORROSION OF CONFORMITY Corrosion Of Conformity (Candlelight, 2012)

Avevo accettato il tour nella vecchia formazione a tre, quella storica di Animosity (1985), pur avendo sempre amato il secondo periodo della band con Keenan alla voce. Sembrava uno dei tanti tour commemorativi (sempre più di moda) per festeggiare un disco epocale e basilare del crossover thrash/core. Mi andò giù un pò meno il fatto che i tre membri originali ( Mike Dean, Wood Weatherman con il rientro in formazione dopo undici anni del batterista, imbolsito dal tempo, Reed Mullin) fossero entrati subito in studio senza Pepper Keenan, ormai in pianta stabile nei Down, per lavorare a dei nuovi pezzi. L'idea che mi ero fatto era quella di un disco intransigentemente hardcore a ricordare le prime mosse dei tre fondatori originali del gruppo, rinnegando la seconda parte di carriera,
Ora, dopo l'ascolto di Corrosion Of Conformity mi sono dovuto ricredere, in quanto dentro a queste nuove tredici canzoni risiede l'intera (vera) anima dei C.O.C., quella primitiva e hardcore della prima parte di carriera e quella Stoner/southern '70 di un disco epocale come Deliverance ed i suoi successori, meno ispirati, come Wiseblood(1996) e il più accessibile e ruffiano America's Volume Dealer (2000), che pur essendo ottimi dischi, sembravano meno freschi e una copia del precedente.
Appurato che la separazione da Kennan è stata consenziente ( si parla di un prossimo ritorno nella formazione a quattro), Corrosion Of Conformity recupera la grezza attitudine thrash/hardcore degli anni ottanta inserendola alla perfezione dentro alle trame fangose, rallentate e sludge/doom degli anni novanta. Quello che è uscito è senza dubbio il disco più rappresentativo della band (attenzione non il migliore): quello ideale da mettere in mezzo tra Animosity e Deliverance, prendendo il posto che fu di Blind uscito nel 1991 e che fece da spartiacque tra il primo e secondo tempo di carriera dei C.O.C.
Forse qualcuno lamenterà il classico piede in due staffe. Semplicemente, credo più ad un tentativo di unire le due vere anime della band e tutte le esperienze accumulate in quasi trent'anni di carriera. Cosa altrimenti impossibile con Keenan in formazione; a tal riguardo le parole del bassista Mike Dean nell'intervista inclusa nel libretto sono esplicite: Pepper possiede un'influenza creativa molto grande; quando non c'è, ognuno di noi può ritagliarsi il suo spazio...
Concetto che esce fortemente ascoltando canzoni come l'iniziale Psychic Vampire un concentrato di primi Metallica, accelerazioni hardcore e rallentamenti in stile Volume IV dei Black Sabbath, (nelle parole, sempre di Mike Dean), in River Of Stone, nel lento e sulfureo incedere di The Doom interrotto da belluine ripartenze e nella bonus track Canyon City con i suoi riff di chitarra ispirati dai grandi Trouble ed il curioso inserimento delle vocals campionate di Bon Scott nel chorus.
Puro hardcore/punk sono invece Leeches con il travolgente anthem: "Leeches are Speechless", nella crisi finanziaria trattata nella velocissima The Moneychangers, nel delirante punto di vista di un topo verso noi abbietti umani nel punk/core "alla Bad Brains" di Rat City.
La lisergica e desertica strumentale El Lamento De Las Cabras è un diversivo che fa tirare un sospiro di sollievo prima dei travolgenti riff di chitarra di Woodroe Weatherman in Your Tomorrow, canzone che si pone di rispondere all'antico ed irrisolto quesito di quanto sia utile la guerra.

Weaving Spiders Come Not Here è un lento macigno sludge/doom con le vocals del batterista Mullin che scrive anche le invettive sociali della panteriana What You Despise Is What You've Become; pesantezza e chitarre voivodiane in Time Of Trials, thrash metal nell'altra bonus track The Same Way.
Il tutto sotto la regia del fido John Custer e registrato nello Studio 606 West del loro grande fan Dave Grohl a Northbridge in California.
Un disco senza compromessi, diretto, tagliente ma anche ibrido e personale pur nell'estrema gamma di influenze musicali messe in gioco. Il classico disco in grado di dividere i fans, ma che nella sua irruenza presenta tante sfumature e si rivela una vera sorpresa...e se i veri C.O.C. siano veramenti questi? Ad Aprile, unica data italiana al Rock n Roll arena di Romagnano Sesia(NO).


CORROSION OF CONFORMITY-Deliverance(1994)




vedi anche ORANGE GOBLIN A Eulogy For The Damned (2012)

venerdì 2 marzo 2012

INTERVISTA agli HOGJAW


Ho raggiunto Elvis D (bassista di lontane origini italiane) dei southern rocker Hogjaw, per alcune veloci domande. Il gruppo dell'Arizona ha appena pubblicato il suo terzo album, Sons Of Western Skies, un concentrato di southern rock/hard stoner dal grande impatto, sincero, diretto ma soprattutto divertente e positivo. Aspettando il loro arrivo in Italia...

L'anno scorso il vostro tour italiano è stato cancellato. Perchè? Quando potremo vedervi qui in Italia?
Il nostro tour è stato cancellato e ancora oggi non sappiamo le specifiche ragioni. Speriamo di tornare presto in Italia grazie al buon lavoro della teenageheadmusic( booking manager per l'Europa). Io sono italiano (la mia famiglia di cognome fa De Luca e sono siciliani), e adoro visitare la mia terra di origine.

La vostra biografia è curiosa. Quando e come si sono formati gli Hogjaw?
Gli Hogjaw si sono formati nel 2006, da un gruppo di vecchi amici di scuola. Suonavamo tutti insieme nella prima band. Se cerchi su youtube troverai una clip (Hogjaw the movie pt.1), nella prima parte del video potrai vedere noi quattro che suoniamo insieme nel lontano 1988.
Così, si può dire che gli Hogjaw si sono formati sia nel 2006 come nel 1988.

Qual'è stato il momento musicale che via ha fatto pensare:"ok...vogliamo suonare quella cosa"? Tra i padri del Southern rock come Lynyrd Skynyrd /Molly Hatchet e band come i Clutch, avete creato qualcosa di ibrido e speciale. Da quali bands siete stati influenzati?
Jonboat (voce e chitarra) e Kreg (chitarra) avevano già scritto molte canzoni insieme e quando ci siamo uniti io e Kwall (batteria) e la band è diventata Hogjaw, il materiale è letteralmente balzato fuori dalle chitarre per entrare nei nastri. In tre mesi avevamo sei canzoni demo (il primo demo EP Cheap Whiskey che diventò il primo album Devil in Details).
Le influenze di Skynyrd e Clutch ci sono perchè loro sono il meglio e amiamo quello che fanno.


Perchè un titolo come "Sons of Western skies"?
Mentre stavamo scrivendo i testi per Ironwood (il disco uscito nel 2010), volevamo scrivere una canzone con quel titolo, ma rimase fuori dal disco perchè non fu mai finita. Durante la lavorazione di questo nuovo album, Kwal la ritirò fuori ed è diventata anche il titolo dell'album.

Il vostro nuovo album sembra diviso in due parti. Le prime quattro canzoni sono compatte e suonano classicamente southern, la seconda parte è diversa: canzoni come Everyone's goin Fishin sono molto curiose(una delle mie preferite), Minstream Trucker è un canoninco Blues, The Sum Of All Things è in grado di disegnare ed evocare ampi spazi. Come è cambiato il vostro modo di comporre dal debutto a oggi?
Siamo cresciuti molto. Abbiamo scritto canzoni per più di vent'anni, ora da cinque anni le scriviamo sotto il nome Hogjaw senza mai chiuderci dentro a degli steccati. Negli anni abbiamo fatto molte esperienze: musica acustica, live album, molti esperimenti ma ora finalmente abbiamo trovato la nostra strada anche con canzoni più lunghe e complesse. Queste canzoni non le ascolterai molto spesso in radio, ma ai nostri fans piacciono perchè fanno compiere a loro molti viaggi mentali ed è quello che vogliamo fare con la nostra musica; portarli fuori dai loro uffici, dalle loro case, farli viaggiare nelle highways, portarli a pescare, ai party mentre si ubriacono, insomma divertirli.

Cosa pensate del movimento Stoner degli anni '90? I deserti dell'Arizona sono stati una buona ispirazione?
Lo Stoner rock ci piace! Abbiamo suonato con molte bands stoner e fatto amicizia molto velocemente. L'Arizona non ha avuto una grande scena stoner ma quei dischi li abbiamo ascoltati molto. I miei gruppi preferiti sono gli Sleep e gli Split Hoof da Austin (Texas).


Quali sono i vostri piani per i prossimi tour?
Un bel tour alla Iron Maiden! Suonare in ogni posto possibile!

Durante i tour mondiali riuscite ad andare a pesca?
Noi amiamo la pesca, ma bisogna fare molta attenzione ad avere le licenze. Se il nostro management ce le pagherà, il prossimo anno avremo molti pesci! :)

Ok, per concludere quali sono gli ultimi album che avete ascoltato nel tour bus?
Questa è facile, me li ricordo come fosse ieri. Rebel Son (Choke on Smoke), Danko Jones (We sweet blood), Hank III (Straight to Hell), Beat Farmers, Kylesa (stoner rock!), Southern Culture on the skids.



Recensione: HOGJAW Sons Of The Western Skies

lunedì 27 febbraio 2012

RECENSIONE: BRUCE SPRINGSTEEN ( Wrecking Ball )

BRUCE SPRINGSTEEN Wrecking Ball ( Sony Records, 2012)


"Dio aiuti Springsteen nel giorno in cui qualcuno deciderà che non è più lui il dio del rock'n'roll. Non l'ho mai visto suonare non sono uno spettatore che segue le mode ma ho sentito dire un gran bene di lui. Oggi che parla di fughe, di automobili e di corse dietro alle ragazze ha tutti i fan ai suoi piedi. E' ciò che vogliono da lui adesso. Ma quando si ritroverà più vecchio a fronteggiare il suo successo, sarà più dura." John Lennon


John Lennon per una volta fu cattivo profeta e per un paio di anni, suo malgrado, si perse Nebraska, il disco da cui Springsteen iniziò a prendersi in mano il futuro sociale del suo paese, raccontando le ferite della sua America dentro alle storie disperate dei suoi uomini qualunque. Ma all'ex Beatles questo possiamo perdonarlo. In più, per ora, nessuno si è accollato il gravoso compito di decidere se Springsteen è o non è più il dio del rock'n'roll. Il sold out annunciato delle prossime tappe del tour italiano, però, parlano chiaro.
Le probabilità di rimanere soddisfatti al cento per cento di un disco di Springsteen da qui agli ultimi vent'anni è un po' come chiedere ad un fan dello stesso quale sia il proprio disco preferito e sentirsi rispondere con il titolo di un album post 1984. Può succedere ma raramente: troppe aspettative, troppi proclami e sinceramente, troppi dischi inarrivabili nei suoi primi venti anni di carriera. Forse solamente The Rising e We Shall Overcome -The Seeger Sessions potrebbero rientrare in graduatoria. Proprio da questi due ultimi dischi sembra ripartire Wrecking Ball. Dal primo riprende l'uniformità delle liriche a tema e, purtroppo, certi suoni artefatti e fastidiosi; dal secondo l'idea di quel irish/folk combattente, corale ed impegnato che già aveva sperimentato di suo pugno con la composizione di American Land (...guarda caso, presente nella deluxe edition di Wrecking Ball, insieme alla bella ed oscura Swallowed Up (In the Belly of the Whale)), tanto da diventare la sigla di chiusura degli ultimi tour. Io, un disco completo e autografo sulla scia delle Seeger Sessions prima o poi me lo sarei aspettato. Ma dovrò ancora attendere, perchè Wrecking Ball, aveva tutti i numeri per esserlo, ma lo è a metà.
Musicalmente vuole essere troppe cose, senza esserne nemmeno una. Prendiamo una canzone a caso: l'evangelica Rocky Ground. Parte con dei loop elettronici a metronomo (dal successo di Streets Of Philadelphia, Springsteen li inserisce spesso e volentieri e non si sa bene il perchè) e finisce come una canzone Hip Hop con l'aggiunta di un coro black e gospel (molto presenti su tutto il disco) che francamente delude e poco convince nell'insieme. Perchè rovinare Easy Money, This Depression, l'irish march della bella Death To My Hometown con quella percussioni pompate che già davano fastidio e sembravano superate ai tempi di Born In The USA?La E Street Band svolge un ruolo molto marginale, superata dagli strumentisti della Seeger Sessions Band(violini e strumenti a fiato in gran quantità). Il muro di suono abbattutto dalla palla distruttrice. Le chitarre elettriche sono poche e quando si sentono sono quelle dell'ospite Tom Morello nel finale di Jack Of All Trades ed in This Depression, però, pure loro svolgono un compito assai modesto, tanto da distinguersi con difficoltà, così lontane dai caratteristici e funanbolici effetti a cui Morello ci ha abituato fin dai suoi esordi con i Lock Up per non parlare dei suoi seguenti e più fortunati gruppi dove il suo stile diventerà un marchio di fabbrica.
Tanti fiati a sopperire l'assenza di big Clarence: da quelle trombe nella finale We are Live che ricordano tanto la Ring Of Fire di Cash, a quelle della title track o della splendida Jack Of All trades, ballata in crescendo vecchio stampo e tra le cose migliori insieme a You've Got It.
Il primo singolo We Take Care Of Our Own svolge il compito che svolsero singoli come Human Touch o Radio Nowhere, senza infamia e senza lode, canzoni totalmente spiazzanti che nulla hanno a che fare con il resto del disco.
Insomma sì, Rick Rubin, io ci aggiungo Ry Cooder, avrebbero reso questo disco un capolavoro. Lo dicono tutti. Lo dico anch'io. Con buona pace delle idee innovative(?) del produttore Ron Aniello. Per chi voglia approfondire le tematiche: la bella recensione del maestro Paolo Vites.Se musicalmente mi ha parzialmente deluso, i testi sono quanto di più coeso, duro ed ispirato scritto da Springsteen dai tempi di The Rising, creando un' asincronia tra musica e testi che dopo aver visto, recentemente, Bruce cantare sul palco e su disco in compagnia di gruppi rock come Gaslight Anthem e Dropkick Murphys, non mi aspettavo. Dai roboanti proclami mi attendevo un disco tagliente e spigoloso, anche strumentalmente.

Momentaneamente abbandonato l'impegno e il lavoro per costruire il grande sogno che animava il precedente Working for a Dream -forse non si è avuto nemmeno il tempo necessario per iniziarlo quel lavoro- che la nuova scure della recessione è piombata tagliando il mondo in due.
Come fatto da Ry Cooder (ancora lui) con il suo recente e bellissimo Pull Up Some Dust and Sit Down ( disco splendido e perfetto) e dallo stesso Tom Morello in World Wide Rebel Songs, anche il grande cuore di Springsteen non poteva sottrarsi e nascondersi nel nulla. Bisogna darne atto. Ecco quindi che il motto "distruggere per ricostruire" diventa anima e modus operandi del disco. Il giovane degli anni settanta che si alzava ogni mattina per l'ennesima e noiosa giornata lavorativa, quello che passava il tempo libero gareggiando in automobile giù in città e trovava anche il tempo per sognare la terra promessa, ora impugna una pistola Smith & Wesson 38 e si aggira per le vie in cerca di soldi facili (Easy Money), perchè ora si muore anche senza essere colpiti da bombe, fucili e cannoni, ma standosene comodamente stesi sul divano di casa nella propria città (Death to my Hometown).
Se scappi alla morte, in qualche modo ti viene a cercare nella maniera più subdola e meno dignitosa. Quella vecchia ragione per vivere che si trovava al calar del sole, dov'è finita? Affogata nella depressione economica ma con ancora un appiglio nel cuore e nell'amore che esce da You've Got It, con quel mood desertico che riporta al disco più sottovalutato di Springsteen, Lucky Town (che errore, all'epoca, farlo uscire insieme a Human Touch).
Poi, ci sono le già conosciute Wrecking Ball, rivestita di Irish folk e Land of Hope and Dreams, messa lì per ricordare il fratellone Clemons che ci regala il suo ultimo assolo terreno.
Meglio del suo predecessore Working on a Dream ma con il rimpianto del capolavoro mancato.
Ora sarà interessante vederlo riproposto dal vivo e visto la composizione della nuova band che lo accompagnerà nel prossimo tour insieme alla fida E Street Band, canzoni come Shackled and Drawn, Easy Money e Death to My Hometown potrebbero diventare travolgenti. Come sempre si ritorna ai live e lì il dio del rock'n'roll è sempre lui. Con buona pace del povero Lennon.

RECENSIONE/REPORT live: BRUCE SPRINGSTEEN live-SAN SIRO, Milano 7 Giugno 2012




RECENSIONE/REPORT live: BRUCE SPRINGSTEEN live-Stadio Euganeo, Padova 31 Maggio 2013 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

sabato 25 febbraio 2012

RECENSIONE/REPORTAGE live: D-A-D Live@GLAM ATTAKK -Rock n Roll Arena-Romagnano Sesia(NO),24/02/2012


Volete diventare ricchi e famosi come i Guns n'Roses?"No, sicuramente no. E' un successo troppo stressante quello;devono essere persone davvero molto forti per non scoppiare, circondati come sono da tanto nervosismo e tante chiacchiere.Vorrei, però, riuscire a raggiungere il loro livello economico:avremmo, in questo modo, la possibilità di suonare in tutto il mondo e raggiungere tutti i nostri fans". Così parlò Jesper Binzer (Cantante e chitarrista dei D-A-D) in una vecchia intervista rilasciata ad HM nel 1992Vent'anni dopo, i danesi D-A-D, famosi e ricchi non lo sono mai diventati, ma un piccolo e importante particolare li rende assolutamente superiori all'attuale baraccone messo in piedi da Axl e comparse al seguito (loro sì, sono effetivamente scoppiati vent'anni fa...): l'onestà, l'attitudine e la coesione tra i membri a trent'anni dalla formazione della band è rimasta invariata(particolare non da poco per un gruppo di nicchia).
Anche se la fama nazionalpopolare che li accompagna in patria non corrisponde al titolo da cult band in giro per il mondo, i D-A-D. sono, ancora oggi, un gruppo con un seguito affezionato e devoto. Stasera lo si è testato.

Quello che doveva essere uno dei due loro concerti in Italia (l'altro a Pinarella di Cervia) si è trasformato, con l'aggiunta di tre band italiane , nella quattordicesima edizione del festival annuale Glam Attakk. Anche quest'anno (l'anno scorso ci fu Michael Monroe) ad ospitare la manifestazione ci pensa il sempre più meritevole Rock n Roll Arena, locale ormai assurto a vero polo di attrazione per la musica pesante nel nord Italia.
Serata ricca e lunga, aperta dai Waste Pipes di Rivoli (TO). Attivi da una decina di anni e fautori di un rock fortemente influenzato dagli anni settanta con l'ugola del cantante Chris, vera protagonista.
Seguono i lucchesi H.a.r.e.m., carriera quasi ventennale alle spalle con il carismatico leader e cantante Freddy Delirio(già tastierista nei Death SS di Steve Sylvester) a guidare le canzoni attraverso il loro piglio street hard rock dal taglio sinistro.
A ridosso dei D-A-D salgono sul palco gli altri torinesi Hollywood Killerz,
promotori di questo festival dal 1999 ed ormai diventato appuntamento fisso e seguito. Il gruppo ha occasione di presentare anche nuovi brani dal disco di prossima uscita che seguirà il fortunato Dead On Arrival uscito nel 2010. Un concentrato di street rock'n'roll punk, tagliente ed incalzante il loro.
Alle 23 passate, salgono sul palco gli headliner della serata D-A-D( ...anche se, a dire la verità, poco o nulla hanno avuto a che fare con il glam durante tutta la loro lunga carriera). L'arena nel frattempo si è riempita. C'è da presentare il loro ottimo e recentissimo disco " DIC.NII.LAN.DAFT.ERD.ARK" e proprio per dimostrare quanto il gruppo tenga alle nuove composizioni (un bel crocevia tra il loro passato rock'n'roll e la pesantezza grunge di metà carriera), gli estratti sono parecchi ad iniziare dall'apertura di concerto affidata a New Age Movin In. Nemmeno il tempo di riscaldarsi che dopo pochissime note di Jihad, problemi all'impianto audio/luci bloccano la performance.
Ma quello che può essere un incidente diventa teatrino e presupposto per dimostrare tutta l'esperienza accumulata in anni di concerti, mista alla ineguagliabile capacità di divertire ed intrattenere i fans da sopra un palco. Il cantante Jesper ed il bassista Stig sono maestri. Tutto si sistema, non senza qualche difficoltà, ed il concerto può riprendere.
La nomea di gruppo folle e spettacolare che li accompagna dal vivo, non viene disattesa fin dalle prime battute e il bassista Stig Pedersen grazie ai suoi innumerevoli, folli e bizzarri bassi a due corde( da quello trasparente all'ormai mitico missile, compagno di mille concerti), alle pose e arrampicate sopra a casse e batteria, mantiene lo spettacolo promesso. I fotografi ringraziano.

Il nuovo album viene sviscerato per bene: The end, Last Time In Neverland, The Place Of The Heart, più la darkeggiante ballad We All Fall down con il chitarrista Jacob A. Binzer alle tastiere ed il trascinante nuovo singolo I wan't what she 's Got, sul finire del quale a mettersi in mostra è il batterista Laust Sonne, ultimo entrato nella band nell' ormai lontano 1999 ma diventato importantissimo nel suono del gruppo grazie al suo stile elegante dal passato retaggio jazzistico."We want What Laust's Got".Tutte le sfumature della loro musica vengono messe in scena: gli esordi con il cowpunk'n'roll di Riding with Sue e nella finale It's After Dark con il bassista Stig alla voce. Il periodo di maggior successo a cavallo tra il 1989 e 1992 con l'anthemica Point Of View, la già citata Jihad e l'immancabile hit Slleping My Day Away estrapolate da No Fuel Left For The Pilgrims(1989), più il rock'n'roll di Grow or Pay e la tiratissima Bad Craziness da Riskin' it all(1991).
Ci fu anche il periodo durante il quale i D-A-D, come centinaia di altri gruppi, dovettero scendere a compromessi con il Grunge per rimanere in pista, ma lo fecero molto bene: la pesante Reconstrucdead ce lo ricorda , insieme alle più recenti Everything Glows e Monster Philosophy.
I D-A-D si divertono ancora e fanno divertire con il loro compromesso così ben incastrato tra energia e melodia, i loro chorus memorizzabili, le svisate
country/western che ogni tanto riaffiorano dal passato e una tenuta di palco da veri maestri con Jesper Binzer sempre pronto a coinvolgere il pubblico con i suoi "esperimenti" e sempre capace nel tirar fuori un sorriso.
Peccato che il tempo tiranno cancelli dalla scaletta la ballad Laugh'N'A 1/2 che non sarebbe dispiaciuta a nessuno per concludere la lunga serata.

SETLIST: A New Age Movin In/Jihad/The End/Everything Glows/Point Of View/Monster Philosiphy/Reconstrucdead/Ridin' with Sue/Last Time in Neverland/Grow or Pay/We All Fall Down/I Want What She's Got/Evil Twin/Bad Craziness/The Place Of The Heart/Sleeping My day away/It's After Dark



RECENSIONE: D-A-D "DIC.NII.LAN.DAFT.ERD.ARK"

giovedì 23 febbraio 2012

RECENSIONE: HOGJAW ( Sons Of The Western Skies )

HOGJAW Sons Of The Western Skies ( Swampjawbeamusic, 2012)

Con il terzo album Sons Of The Western Skies, gli Hogjaw dall'Arizona rivendicano di diritto un posto tra le migliori Southern rock band contemporanee. Amici fin dai tempi di scuola, hanno dovuto aspettare vent'anni prima di unirsi come band nel 2006.
Già dai primi due album Devil in Details (2008) e Ironwood (2010) si erano fatti notare per il loro roccioso e solido hard southern rock, tanto vicino alla tradizione dei Lynyrd Skynyrd quanto alle band più leggendarie, heavy e toste del movimento quali Molly Hatchet, Doc Holliday, Blackfoot e Hydra, senza tuttavia snobbare e nascondere la pesantezza, il carattere ed una presenza scenica più moderna e vicina allo stoner rock di gruppi come i Clutch, avvicinati anche con il look da trasandati boscaioli redneck.
Gruppo con pochi fronzoli: diretto, viscerale e schietto. Il poker di canzoni che aprono il loro terzo album ne sono una prova inconfutabile.
Spoonfed, Hells Half Home of Mine, Road Of Fools e Six Shots picchiano giù duro, non facendosi apprezzare per l'originalità quanto per il loro carattere rozzo, solido e concreto. Le chitarre di Jones e Kreg Self lavorano duro e giocano con gli assoli in Six Shots, una cavalcata d'impronta heavy che non lascia prigionieri.
Poi, si arriva a Everyone's Goin Fishin, un divertente boogie/soul con il basso di Elvis DD ed un sax contagioso che ci introducono alla vera passione/hobby dei nostri: la pesca( a tal proposito, su alcuni loro video, potete trovarli impegnati durante le loro divertenti -ma professionali-battute in alto mare).
Look to the Sky è una classica southern ballad: otto minuti di spazi infiniti, terra rossa e la "grossa"voce di Jonboat Jones a condurre metà canzone, mentre l'altra metà è strumentale e free.
Mainstream Trucker(18 wheeler mix) è un canonico e terroso blues con l'armonica che serpeggia in lungo ed in largo, a cui fa seguito la tambureggiante Midnight Run To Cleator, con la batteria di Kwall a tenere il ritmo come una marcia forsennata. Ecco che si inizia a capire quanto gli Hogjaw, a loro modo, siano un gruppo fuori dagli schemi: accelerazioni e rallentamenti in odor di stoner '90 a tradire il chiaro retaggio metal della band.
A chiudere la lunga western ballad The Sum Of All Things, i confini si riallargano ed i tipici paesaggi americani si rimpossessano della scena.
Canzoni di vere e sincere persone per veri e sinceri ascoltatori.
Nessun trucco e nessun inganno.


INTERVISTA HOGJAW

martedì 21 febbraio 2012

RECENSIONE: EDDA (Odio i Vivi)

EDDA Odio i Vivi ( Niegazowana, 2012)

Odio Edda come lui odia i vivi. Lui ha i suoi buoni motivi ma non li dice, io ho i miei e ve li dico.
Odio Edda perchè è vivo e ci mentiva. Ci mentiva quando diceva, dopo l'uscita del suo esordio solista Semper Biot, che non avrebbe più suonato elettrico, accampando mille scuse, tra cui quelle di essere sordo e vecchio per certi suoni, diciamo "a volume alto". Questo disco, a suo modo, è sinfonicamente Noise.
Odio i vivi, perchè mentivamo a noi stessi. Mentivamo quando, dopo l'ascolto di Semper Biot, pensavamo che un disco così difficilmente avrebbe avuto un degno successore, indotti e convinti dallo stesso autore così pessimista sulle proprie potenzialità.
I motivi erano tanti: Semper Biot ha custodito e custodisce al suo interno oltre che buone, a volte ottime canzoni, anche dei sentimenti, quelli di chi ha sempre amato la voce, il carattere ed il carisma di quello che fu l'ex cantante dei Ritmo Tribale; il cantante che la maggioranza dava per scomparso nel nulla. Ricordi ed emozioni che affioravano, mischiandosi alla realtà degli ultimi anni trascorsi da Stefano Edda Rampoldi e dalla sua timida resurrezione con canzoni che piano piano divennero la sua autobiografia, svelando tante cose. Un disco che mi ha accompagnato quasi giornalmente. Poi ho dovuto smettere perchè l'ascolto mi lasciava dentro troppe cose risolte e irrisolte. Troppo di tutto. Anche per questo odio Edda.
E' difficile raccontare Edda a chi l'ha scoperto solamente nel 2009. Lui ci ha provato con Semper Biot. Molto bene.
Un misto di irrequieta voglia di vivere e latente rassegnazione. Un pulcino bagnato sopra ad un mappamondo gigante e scivoloso. Occhi curiosi a forma di cannocchiale sopra ad un alto ponteggio metropolitano. Indifeso soldato che mostra denti e bestemmia per auto proteggersi e scacciare demoni veri e patacche vestite da diavolo.
Con la stessa squadra di lavoro (no, qui i ponteggi in giro per Milano non c'entrano più nulla), dell'esordio: ossia Walter Somà, suo alter ego e coautore delle canzoni ( presto il suo disco solista), e Taketo Gohara in produzione. Tutto quello che (musicalmente) non c'era in Semper Biot c'è qui. Dove là c'era una chitarra acustica, qui c'è una chitarra elettrica, e tanti archi e strumenti a fiato, degni di una filarmonica "impazzita" sotto la regia di Stefano Nanni.
"Ho dei rapporti interpersonali proprio di merda. E' una qualità che mi riconosco, soprattutto con le donne che non capiscono che le amo tutte", così parlava in questa intervista.
Perchè Odio i Vivi è il più grande disco d'amore di questi anni, con tanti nomi di donna nei titoli che nemmeno i Toto osarono mettere in un solo disco: Emma, Anna, Marika, Tania.
Forse Laura, canzone di Ciro Sebastianelli che Edda ama cantare spesso nei suoi live, ha fatto scattare la scintilla...

"L'amore diventa merda dopo due settimane/ I Miei amici hanno figli, figli, figli / Io ho sempre fame" canta in Anna fino ad arrivare al crescendo tra chitarre, archi e rumori assortiti di seghe e lamiere: "Anna non faccio regali/ Io non ho buon gusto".

Canzoni destrutturate, pieni di chitarre elettriche rumorose e pesanti ( Topazio-variante della sua famosa Il Grande Brescia?-), che rasentano la cacofonia quando partono gli archi, le frasi spezzate, le imprecazioni, gli ammiccamenti e le urla di Edda (Gionata-scritta da Somà e Gionata Mirai-) e poi ancora i fiati (Qui). Canzoni piene di radici: partono da una parte e scappano in mille direzioni (Odio I Vivi); canzoni che sembrano nate durante i suoi imprevedibili e sgangherati live, pronte a trasformarsi in qualunque cosa voi vogliate.
Canta con la voce che diventa strumento aggiunto sia nelle frasi sbiascicate ed incomprensibili, sia quando arrivano i vocalizzi impossibili quasi degni del compianto Demetrio Stratos.
Pensieri arruffati lanciati in pasto al mondo, dove ci si può perdere ma spesso si finisce per immedesimarsi tanto sono intrisi di quella quotidiana e pessimistica saggezza:

"Perchè le strade, amica mia, dividono/Ho sbagliato tutto nella vita e ho avuto te"(Emma)
"Nessuno sa rovinare la mia vita meglio di me"(Odio I Vivi)
"Vivo sul filo dell'invisibilità tra la gente/e vado sotto e vado sotto questa grande città"(Qui)
"Ricordati che devi morire. Rilassati"(Marika)
"Io già lo so che rinascerò in un altro corpo/per favore no"(Tania)

Edda ha poca voglia di vestirsi. Si mette a nudo una seconda volta. Se Semper Biot era autobiografia, Odio i Vivi è radiografia. Another side of Stefano Rampoldi.
Sinfonie dei topi, ponteggi crollati, autobus impazziti. Un cuore gigante che vorrebbe abbracciare l'intero universo, mentre si trova a lottare tu per tu con un sentimento che non corrisponde mai alle proprie esigenze. Debolezze che diventano forza.
L'incomunicazione in Omino Nero, l'invisibilità in un mondo che gioca (Qui). Il blues di Edda.
Il suo difficile rapporto con le persone, con le donne in particolare, con il mondo tutto, sono la chiave di lettura di un disco che puritani perbenisti hanno iniziato ad attaccare appena la foto di copertina ha iniziato a girare in rete, intanto Belen, in prima serata su Rai 1, faceva volare la sua "farfalla". Ora ascoltate il resto, maledetti!
A Edda creare corazze non serve più. Ora, ha una schiera di soldati in armatura che lo hanno adottato o meglio che non l'hanno mai abbandonato, pronti a difenderlo.
Dimenticavo: odio Edda perchè si è fottuto anche il nome di mia madre. Maledetto pure lui.





Recensione: IN ORBITA



Recensione: Live, Tronzano Vercellese, 8 Gennaio 2011



INTERVISTA




domenica 19 febbraio 2012

RECENSIONE: NINA ZILLI (L'amore è Femmina)

NINA ZILLI L'amore è Femmina ( Universal Records, 2012)


Per chi già conosceva la bella e brava Nina Zilli, il suo passaggio sanremese non è stato una sorpresa ma una conferma dell'esuberante personalità dell'artista piacentina dal ricco bagaglio musicale.
Cresciuta musicalmente a pane, Soul e Rhythm and Blues, la sua carriera potrebbe conoscere una vera impennata di notorietà nazionalpopolare che la dura gavetta artistica, il primo Sanremo del 2010 ed i numerosi premi della critica hanno appenna sfiorato due anni fa.
Gavetta spesa come corista per svariati gruppi reggae (tra cui Africa Unite, Franziska, Smoke) e qualche passaggio televisivo a rinforzare l'altrettanto ricco bagaglio di vita tra l'infanzia passata in Irlanda e due anni di apprendistato musicale negli States. Poi il primo Sanremo con L'uomo che amava le donne, vero preludio al primo album Sempre Lontano del 2010, e il successo del singolo 50mila insieme all'amico Giuliano Palma.
Personalità, presenza scenica solare, autoironia e tanta determinazione che trovano conferma nel secondo album L'amore è femmina, con qualche cambiamento di sound rispetto al debutto: la semplicità travolgente, vintage e black che permeava i suoni (da live band) del primo disco si amplia con inserti di moderna elettronica, mai troppo invasivi come nell'apertura Per le Strade scritta da Pacifico. Un disco più controllato nel sound (Michele Canova Iorfida in produzione); vengono a mancare le numerose influenze jamaicane dell'esordio, sostituite da canzoni più soul e confidenziali, mantenendo l'amore e la leggerezza come protagonisti dei suoi testi, con quella punta di femminismo che piacerebbe ad Aretha Franklin, pur con qualche rara e piacevole eccezione. Non cercate troppo impegno, con Nina Zilli ci si svaga e ci si diverte, anche quando un sentimento come l'amore, da leggero si fa pesante.
La tradizione pop della musica italiana dei sessanta con Mina come saldo punto di riferimento, senza cadere mai nella pura imitazione e mettendoci un po' del suo: la sanremese Per Sempre, La Felicità (scritta da Diego Mancino).
Poi le solite influenze Motown e Stax, con Etta James, Nina Simone (il suo nome d'arte arriva proprio da qui), i Temptations e le più attuali Amy Winehouse e Caro Emerald sempre ben presenti in Una Notte , L'Inverno All'improvviso e nella struggente prova vocale di Non Qui.
Da segnalare il rocksteady di Un'Altra Estate scritto a quattro mani con Carmen Consoli, il travolgente R&B/rock Anna e il testo esistenzialista nella blueseggiante La casa sull'Albero.
Voce temprata dallo studio ( soprano) ma assolutamente naturale e mai forzata. Grande passione per la musica afro/black, temperamento e voglia di arrivare, sensualità, ricerca maliziosa del look; seguendo la sua indole ed una attitudine sincera, così lontana dal cantato "urlato" imposto dagli amici di Maria.
Se le sue polemiche dichiarazioni sui talent show (x-factor in particolare) hanno fatto parlare, facendola passare per spocchiosa, una base di verità nelle sue parole è comunque presente. A volte i talenti possono emergere senza passare dal calderone mediatico forzato e un po' (troppo)preconfezionato del fenomeno televisivo degli ultimi anni. I suoi sudati live-show (cercate il suo Live @ Blue Note 2010) sono una buona conferma, tanto da riuscire a guadagnarsi il rispetto della scena musicale alternativa italiana. Il duetto sanremese con Skye dei Morcheeba è stato tra le poche cose da salvare del recente Sanremo e resterà un buon biglietto da visita per il futuro, premiandola (per quel che può ancora valere nel 2012) con la partecipazione al prossimo Eurofestival in rappresentanza dell'Italia.
Ora la cosa più importante sarà scrollarsi di dosso le ingombranti ombre, mai negate da lei stessa(Mina , Amy Winehouse) che la seguono alla voce termini di paragone, dimostrando che Nina Zilli è Nina Zilli; proseguendo la sua carriera in modo libero ed indipendente come la carriera della prediletta Nina Simone insegna.

giovedì 16 febbraio 2012

RECENSIONE: FIRST AID KIT ( The Lion's Roar)

FIRST AID KIT The Lion's Roar ( Wichita Recordings, 2012)

Una bella fiaba nordica. Le giovani Klara e Johanna Soderberg sembrano proprio uscire da lì. Da quelle fiabe popolate da principi e principesse, piccoli animaletti, giganti, trolls, castelli, torri e grandi distese di foreste verdi e incantate.
Una fiaba che è riuscita a far commuovere Patti Smith durante l'esecuzione di Dancing Barefoot, cantata dalle due giovani sorelle (19 anni la bionda Klara e 22 la bruna Johanna-spero di aver indovinato- ) durante la cerimonia del Polar Music Prize Award a Stoccolma; una fiaba che ha attraversato gli oceani incuriosendo e rapendo il sempre vigile Jack White, forse pure lui incollato a youtube a visionare le First Aid Kit mentre eseguivano Tiger Mountain Peasant Song dei Fleet Foxes o Simple Man di Graham Nash. Il buon Jack ha voluto fortissimamente conoscerle in quel di Nashville.
Scoprire cosa si nasconda dietro a queste due sorelline svedesi( i loro video sono veramente ben fatti e prodotti), se mai ci fosse qualcuno, sarebbe interessante, ma distoglierebbe troppo l'orecchio dalla loro musica e riempirebbe l'ascolto di pregiudizi inutili. Quindi, fidiamoci delle lacrime di Patti Smith e delle nostre emozioni.
The Lion's Roar è il secondo disco delle First Aid Kit, dopo un Ep e l'esordio The big Black and the Blue uscito nel 2010 .
Tante le cose che colpiscono al primo ascolto: le voci, tutte e due stupende e irresistibilmente tentatrici quando si uniscono, i testi velati di quella triste malinconia sempre indirizzata al sogno, che solamente gli scandinavi posseggono e che da due ventenni non ti aspetteresti; infine i suoni, ma qui il merito non è tutto loro, perchè per questo primo vero lancio internazionale, Klara e Johanna, insieme al papà Benkt(suona il basso) hanno preso l'aereo e si sono spostate ad Omaha in Nebraska a casa dei Bright Eyes, facendosi produrre il disco da Mike Mogis e aiutare da personaggi di primo piano della scena alt/folk americana.
Cavalcare l'onda nel new-folk potrebbe essere cosa scontata di questi tempi. Per lasciare un segno devi assolutamente avere qualcosa in più, e le sorelle Soderberg le loro carte, vista la giovane età, se le giocano più che bene. Cresciute dalla mamma con quei dischi che avevano le stesse copertine che loro hanno scelto per The Lion's Roar. Se non bastasse la copertina per svelare le loro influenze, ascoltando il testo del traditional country Emmylou con tanto di pedal steel suonata da Mogis, potremo anche scoprire cosa girava nel giradischi della mamma e quali siano i loro sogni in musica.
Come le foto che popolano il libretto, le canzoni sono abbagliate da tenui, quanto penetranti raggi solari che s'infilano come nell'obiettivo di una macchina fotografica, virando la foto e trasformandola in qualcosa dal sapore antico ed evocativo. Una foresta svedese cresciuta nei rossi deserti americani.
A parte la finale, allegra e festaiola marcetta King of the world, scritta in compagnia di Conor Oberst, presente anche nelle vocal, con la presenza di James Felice(Felice Brothers), il disco è una convincente, a tratti un po' manieristica, collezione di canzoni in perfetto bilico tra folk e alt/country con il passato ( Emmylou Harris, Joni Mitchell, Johnny Cash, Gram Parsons e Joan Baez) che si mischia al presente(Okkervil River, Fleet Foxes, O' Death, Bright Eyes appunto). Canzoni coese, affascinanti e pronte a catturare al primo ascolto, senza cadere nella mera commercialità ma pagando l'unico scotto della ripetitività e di una produzione fin troppo perfetta e su misura. Ciò' non toglie che il crescendo di The Lion's Roar, l'algida To a Poet, il perfetto folk/pop di Blue, le sinfoniche atmosfere di Dance to Another Tune e le romantiche visioni della spoglia New Year's Eve riescano a catturare l'attenzione e farsi piacere immediatamente, magari senza arrivare alle lacrime come Patti. Ma funzionano.
Lasciamo che le First Aid Kit (il nome è alquanto curioso, comunque) continuino a vivere la loro fiaba appena iniziata. Ci saranno ostacoli (il pop è dietro l'angolo) nascosti nelle pagine del libro, ma il finale è lontano e ancora tutto da scrivere.

Se volete prolungare la fiaba, sulla Limited Edition del cd, vi è il codice per poter scaricare un piccolo live set acustico di sei canzoni comprendente: The Lion's Roar, Emmylou, Ghost Town, Marianne's Son, Hard Believer, I Met Up With the King. Devo dire che, ascoltando le canzoni così spoglie e al naturale, la bravura delle First Aid Kit emerge in modo maggiore.

lunedì 13 febbraio 2012

INTERVISTA a LUCA GEMMA

A due soli anni di distanza da Folkadelic, il cantautore eporediese, Luca Gemma fa uscire il suo quarto album solista, Supernaturale,continuando a dimostrare una freschezza di scrittura invidiabile, sospesa, così com'è, tra pop, rock e folk.
Animo vagabondo, Luca Gemma trasporta in musica il suo ricco bagaglio di esperienze di vita e musicali, partite negli anni novanta...

Supernaturale parte da una semplice quanto onesta e dura considerazione: la riscoperta della natura( con tutte le sue bellezze) intorno a noi, come antidoto per dimenticare tutto il brutto che l'Italia ci ha dato in questi ultimi tempi: politica in primis...



Intervista a Luca Gemma.

Ti ritrovi nella definizione di "nomade"? Nel disco non esiti a parlare male dell'Italia, quasi un invito ad abbandonarla..
Sono stato "nomade" fino ai venti anni e mi è piaciuto molto, a conti fatti. Ma da tempo sono stanziale a Milano e quindi nomade non lo sono più. Ho vissuto sette anni in Germania e mi piacerebbe presto riuscire a stare qualche mese l'anno a Berlino. Per ciò che riguarda l'Italia, ne parlo sia bene che male, direi senza pregiudizio, e in ogni caso preferisco starci e contribuire a cambiarla.

Supernaturale è un disco nato in pochi mesi. Avevi da parte alcune idee oppure è stato tutto così istintivo?
Avevo due canzoni più o meno complete, CANZONE AL BUIO e IO VOGLIO, sulle quali mi sono rimesso a lavorare. Tutto è il resto è nato in pochi mesi, a partire dalla primavera del 2011.

Le canzoni sembrano seguire un determinato percorso, legandosi le une con le altre. Si parte dal brutto per arrivare all'esplosione della bellezza. Possiamo considerarlo a tutti gli effetti un concept?
Questo è un effetto casuale della tracklist e me ne sono accorto anch'io a cose fatte. In alcune canzoni si sentono l'amarezza e l'incazzatura per la situazione politica e culturale italiana e per l'aria che di conseguenza si respira per strada. In altre prevale la ricerca della bellezza come antidoto allo stato delle cose. Ma non ho pensato a un concept-album e stento ancora a vederlo in questo modo. Ovviamente mi piace che ci sia un mood unico che lega le canzoni tra loro e ciò è dovuto al fatto di averle scritte e poi registrate molto di getto.

Bye Bye, mette alla berlina la politica. Mai, come in questi mesi, la politica con i suoi partiti, i suoi protagonisti e le sue misere comparse vive una profonda crisi. Che stagione sta vivendo secondo te?
La politica, soprattutto qui da noi, ha vissuto negli ultimi venti anni la sua stagione peggiore. Da un lato è stata sostituita dalla comunicazione, spacciando la forma per la sostanza. Dall'altro si è dedicata agli interessi personali di qualcuno e non a quelli di tutti. Insomma il concetto della delega della
rappresentanza è stato completamente svilito. Tutto questo nell'indifferenza totale di gran parte delle persone, felici di pensare unicamente ai cazzi propri. Insomma il CHIAGNI E FOTTI, come dico nel ritornello, perfetto per un paese di sudditi e non di cittadini.

Blu Elettrico sembra un invito a seguire i propri sogni ed i propri interessi. Tu, giustamente, parli di musica. Cosa consiglieresti ad un giovane d'oggi che sogna il proprio futuro nella musica?
Sì, per me la musica è soprattutto una grande fonte di gioia. L'era digitale ha reso semplice l'accesso alla produzione e alla diffusione attraverso la rete della propria musica. Contemporaneamente questa facilità e la conseguente quantità di roba hanno reso la musica un sottofondo costante per cui è diventato più difficile concentrarsi sull'ascolto e sapere approfondire. Scaricare gratis mille canzoni sull'ipod dà un senso di onnipotenza ma è come avere davanti mille paste alla crema. Alla fine più di sei o sette non ne mangi. Detto questo, se uno ha talento e molta volontà non deve far altro che coltivare entrambi.

Nel disco ci sono molti ospiti. Hai voglia di presentarceli?
Posso dirti che ognuno di loro ha dato al disco qualcosa di prezioso adattandosi perfettamente alle canzoni in cui hanno suonato, lavorando di sottrazione. Nessuno aveva sentito nulla prima di venire in studio perché sia io che Paolo Iafelice, il produttore, volevamo che suonassero di getto. Nik Taccori (Sananda Maitreya) ha suonato la batteria, Andrea Viti (Karma e Afterhours) il basso, Patrizia Laquidara ha cantato in un brano in una tonalità piuttosto inusuale per una cantante donna. Vittorio Cosma (pianista e produttore) piano wurlitzer e organo, Pasquale de Fina (Atleticodefina) qualche chitarra elettrica, Mattia Boschi (Marta sui Tubi) il violoncello, Roberto Romano (già con i Rossomaltese, ora collaboratore dei Baustelle) alcuni fiati e Gaetano Cappa (Istituto Barlumen) ukulele e chitarra tenore. Li ringrazio tutti molto.

Quanto è stato importante il lavoro di Paolo Iafelice in produzione?
Con Paolo ho lavorato tante altre volte, fin dai tempi dei Rossomaltese. Siamo molto amici e per me è un piacere lavorare con lui senza riverenze reciproche: se una cosa è brutta, lo è e basta. E' molto bravo a capire se un pezzo gira oppure no e tecnicamente è imbattibile.

Ascoltando Credo, mi è sorto spontaneo chiederti:qual'è il tuo rapporto con la religione?
Non sono credente ma osservo da lontano e ho molto rispetto per le persone che hanno una ricca spiritualità. Ma non sono attratto dai dogmi. Credo nella natura, ecco.

La natura è la grande protagonista del disco (tra le tante canzoni, mi piace citare la bella Il cielo sopra di te cantata con Patrizia Laquidara). Tu ora vivi a Milano. Come ti rapporti con la città?
Per indole io sono decisamente metropolitano e non ho difficoltà a vivere in città. Milano mi piace ancora, è una città in cui mi sento a casa ( pur essendo romano) e che ancora mi incuriosisce. Piena di cose che non vanno, certo, ma sono fiducioso nella sua rinascita culturale e sociale


In carriera , hai scritto molte canzoni per grandi interpreti femminili. Di solito come nascono? Scrivi appositamente, pensando a chi le interpreterà, oppure scegli quelle più adatte, tra tutte quelle già scritte?
Mi piace scrivere pensando a chi canterà la canzone, ma questo non sempre è possibile. Di solito però, mentre scrivo, capisco subito che non è un brano che canterò io. Allora viene messo nella cartella dedicata agli altri interpreti.

Uscirà qualche video promozionale? Credi ancora che le immagini possano aiutare la promozione?
Uscirà tra pochi giorni il video di BYE BYE, girato da Claudio Del Monte, poi quello di UNA MELA ROSSA e un altro ancora. A me piace molto il cinema e le immagini possono aggiungere potere evocativo alla musica. Inoltre grazie al web un video vive per sempre, o almeno finché lo vuoi tu, e così te ne freghi della programmazione delle tv musicali

Presentando Supernaturale, hai citato i Black Keys? Quali sono i tuoi ascolti più recenti?
Oltre a loro, Bon Iver, Fink, Superheavy, Camille e Bobo Rondelli

E' appena uscita una discutibile ed opinabile classifica (come tutte le classifiche),dei più belli dischi italiani (33 giri) di sempre da parte di una nota rivista musicale. Hai una personale (ed opinabile) top 5 anche tu?
Cinque dischi italiani sono decisamente pochi anche se con quelli stranieri avrei ancora più difficoltà. Comunque ci provo e scelgo una raccolta di Modugno e una di Tenco (allora i 33 giri intesi come album non si facevano), Anima Latina di Battisti, Burattino Senza Fili di Bennato e Rimmel di De Gregori

Sulla tua agenda del 2012 cosa c'è scritto...
Ricordati di fare dei bei concerti.





RECENSIONE: LUCA GEMMA-Supernaturale

venerdì 10 febbraio 2012

RECENSIONE: CISCO ( Fuori i Secondi )

CISCO Fuori i Secondi (Color Sound Indie,2012)

Sapori antichi, album fotografici sbiaditi, biografie consumate, futurismo, racconti epici da osteria di provincia e numeri sensazionali da circo di inizio secolo('900 ovviamente).
Per il terzo album solista, dopo La lunga Notte(2006) e Il Mulo(2008), Stefano "Cisco" Bellotti, si traveste da grande capo banda di inizio '900, andando a raccontare dodici storie/canzoni, sospese tra amarcord, amore per la sua terra emiliana e i suoi "illustri" abitanti di seconda schiera, e speranza nel futuro travestita da sano ottimismo. Piccoli ritratti che fanno compiere all'ex cantante dei Modena City Ramblers un lungo e ben disteso passo in avanti nella scrittura, avvicinandosi sempre più a quella forma cantautorale inseguita fin dal suo abbandono dei Ramblers.
Un disco che fin dal titolo, preso in prestito dalla boxe, vuole prendere la parte più ottimista della vita, andando a riscoprire il passato legato a situazioni e personaggi "perdenti" che solo il tempo ha riscattato: c'é l'immensa lontananza (quasi prog nel suo incedere) nel diario di bordo di Yuri Gagarin, primo uomo a vedere la terra da una nuova e insolita prospettiva; c'è il sofferto e commovente ricordo di Augusto (Daolio, ex cantante dei Nomadi), compianto corregionale di cui quest'anno, ad Ottobre, ricorrono i vent'anni dalla morte; ci sono la "pazzia" di Antonio Ligabue, il pittore, tanto deriso in vita quanto rivalutato in morte e poi c'è una delle storie più epiche dello sport italiano, lo swing di inizio '900 cantato in dialetto di Dorando (Pietri, atleta vincitore delle medaglia d'oro mai vinta alle olimpiadi di londra del 1908).
Lontano dalla rivoluzione "populista" della grande famiglia, ma più vicino ad una rivoluzione poetica che chiama in causa immagini seppiate e ricordi di un tempo che fu. Si circonda di vecchi amici ex Ramblers che danno una mano in fase di scrittura: Giovanni Rubbiani, Alberto Cottica e Kaba Cavazzuti e una band ormai colladauta dove spiccano le presenze di Andrea Faccioli alle chitarre e il maestro Francesco Magnelli(ex Moda, CCCP,CSI e PGR ) al piano e tastiere.
Uno sguardo sul mondo visto da diverse prospettive geografiche e temporali.
Il passato e il presente messi a confronto in La Dolce Vita: il disagio e il duro vivere dei nostri giorni raccontati, rispolverando nostalgicamente la spensieratezza neorealista della "Dolce vita " di Fellini e Mastroianni, e la pesantezza-pessimistica della vita agra di Luciano Bianciardi; costruendo un mariachi folk come Golfo Mistico o prendendo consapevolezza dei tempi che si stanno vivendo in I Tempi siamo Noi.

Lo sguardo introspettivo nella poetica fantasiosa della leggera ballad pianistica Lunatico, sospesa tra sogno e realtà ; l'importanza dei piccoli gesti nella preghiera Credo e il ritratto autoironico/biografico del Il Gigante, folk/blues in gran stile big band e forti accenni waitsiani.
Infine due amare ma speranzose dediche ai luoghi e alla lontananza: Una Terra di Latte e Miele ed Emilia.
Un disco che profuma di vecchio (in senso buono), sia musicalmente che testualmente. Una maturità di scrittura raggiunta con l'aggiunta di sopraffini arrangiamenti (Augusto e Gagarin sono un buon esempio) ed una sfida-quella di abbandonare nel 2005 i famosi Ramblers-che a questo punto si può dire più che vinta.


martedì 7 febbraio 2012

RECENSIONE: VAN HALEN ( A Different Kind Of Truth)

VAN HALEN A Different Kind Of Truth ( Interscope Records, 2012)


I primi ascolti del vizioso singolo Tattoo mi avevano lasciato molti dubbi. I ripetuti ascolti del medesimo , sono riusciti a farmi cambiare idea, preparandomi all'ascolto dell'abum in modo positivo e speranzoso. Se i Van Halen targati 2012 sono questi, ben vengano, anche con canzoni ripescate dalla cantina e rilucidate a nuovo, saranno sempre meglio dell'ultimo disco in studio: il lontano III, registrato con Gary Cherone alla voce (comunque immune da grandi colpe, un po' come il buon Blaze Bayley negli Iron Maiden ), disco che doveva rilanciare e traghettare i Van Halen nel nuovo millennio, finendo per esserne, invece, la momentanea pietra tombale.
Dal 1998 ad oggi, in casa Van Halen sono successe tante , anche troppe cose extra-musicali che hanno dato, come risultato, un assordante silenzio discografico.
Normale, quindi, che il ritorno alla voce di David Lee Roth ( già anticipato, illusoriamente, con due canzoni nella raccolta The Best of Van Halen Vol.1-1996 ) faccia tanto rumore. L'ultimo grande guizzo lo diedero con F.U.C.K. (1991), unico disco del periodo Sammy Hagar che mi abbia preso e convinto in toto. Nonostante la popolarità, mai scemata, i dischi post 1984 non mi hanno mai entusiasmato pienamente e la super-costola Chickenfoot, nata nel 2009, ha rivalutato alla grande l'ex cantante dei Montrose.
A Different Kind Of truth, pur non presentando la cristallina e vivace freschezza compositiva del periodo d'oro con Lee Roth (1978-1984)-gli anni passano per tutti-è un disco che cresce alla distanza, dando il meglio di se' agli estremi musicali e nella seconda metà.
La già citata Tattoo, She's the woman (nata da vecchi demo targati 1976) e You and Your Blues sono tre mid-tempo hard rock piazzati in apertura che scoraggiano l'ascolto, nella loro incompiutezza. Ma sono pronto a scommettere che qualcuno mi smentirà, eleggiendole migliori canzoni del disco.
Se avete la pazienza di proseguire, potrete trovare, oltre alla chitarra di Eddie, quella sì già in forma dalle prime tracce(il lavoro su She's the woman, nonostante tutto, è spettacolo), una buona prova d'insieme, dove anche il paffuto figliol prodigo Wolfgang fa la sua bella figura, sostituendo al basso, più che degnamente, Michael Anthony (insostituibile, però, nei chorus).
Anche se la sensazione di dejà vu, ogni tanto fa capolino e il gioco dei rimandi è tanto divertente quanto inutile, le veloci China Town, Bullethead (anche lei ripresa da un demo 1977), Outta Space si fanno ben ascoltare, rinnovando la parte più heavy di una delle band con il disco di debutto più sensazionale e sorprendente della storia del rock. La buona orecchiabilità di Blood and Fire, potrebbe candidarla, fin da ora, a secondo singolo.
As I mischia la moderna pesantezza con la velocità, interrotta solamente da un breve siparietto acustico, risultando la canzone più singolare ed imprevedibile del disco, con un Lee Roth istrionico, camaleontico ed in forma come ai vecchi tempi ( si parla di sola voce, naturalmente); anche Honeybabysweetiedoll , dal vago sapore esotico, sembra incastrata perfettamente in un suono hard rock pesante e moderno, al passo con i tempi ,con Eddie Van Halen ancora irrangiugibile nei suoi funambolici assoli.
Stay Frosty riprende le divertenti canzoni boogie/blues cabarattestiche dei tempi che furono e l'aggancio con la vecchia Ice Cream Man va ben oltre il titolo.

Certo, per un gruppo che ha costruito la sua carriera con dei tormentoni indelebili ( Runninn' with the Devil, Ain't Talkin' 'bout love, Dance the Night away, Panama, Jump), aspettare la fine del disco per trovare l'unica canzone, Beats Workin', con un chorus che ti si stampa in testa ed in grado di rivaleggiare con i vecchi classici, potrebbe essere scambiato per un segnale di poca salute.
Uno sforzo maggiore, in fase di composizione, si poteva fare ed i commenti dell'ex Sammy Hagar a proposito, mi sembrano ben affondati, più che leciti e giusti; anche se, da diretto interessato, dettati da un po' di rabbia repressa.
Nonostante tutto, il disco è piacevole, divertente e ben fatto, in grado di riportare la band dei fratelli Van Halen nei gradini più alti dell'hard rock melodico, insieme ai vecchi dinosauri che tengono ancora botta, e riconsegnare un pò di visibilità mediatica.
A patto che il tutto sia un buon allenamento per successive e più ispirate mosse; sperando che in casa Van Halen continui a regnare pace e armonia. Chissà, forse in famiglia c'è già un cantante scalpitante, pronto a completare il bel quadretto familiare.
Perchè, se reunion deve essere, i vecchi fans meritano qualcosina in più di vecchi scarti tirati a nuovo. Voto 6/7

lunedì 6 febbraio 2012

RECENSIONE: The KENNETH BRIAN BAND (Welcome to Alabama)

The KENNETH BRIAN BAND Welcome to Alabama (Southern Shift Records, 2011)


In fondo, Brian Kenneth non fa paura. Dietro al suo aspetto da componente di una Sludge-Core band, si nasconde un cuore romantico e totalmente devoto al southern/country rock d'annata. Ascoltando le note iniziali del disco, si capisce quanto sia l'amore e la dedizione che questo artista riversa verso il southern rock dei primi anni settanta. Per cui, se la sempre più revivalistica formazione dei Lynyrd Skynyrd, quella che si gode la baby pensione ottenuta nei soli 7 anni di vera attività nei settanta, quella dal sound un po' plastificato e hard degli ultimi dischi (The Last Rebel , a mio avviso, rimane l'unico vero picco della seconda parte di carriera), per intenderci, vi delude sempre di più, un ascolto al tatuato Kenneth è d'obbligo.
Tutto suona vintage in questo secondo disco del gruppo (registrato tra Settembre 2009 e Marzo 2010), dopo l'esordio "Fallin Down Slow". I suoni, il titolo, il produttore e l'immagine di copertina lasciano pochi margini di immaginazione. A metà strada tra The Allman Brothers Band di Brothers and Sisters e la melodia chitarristica dei primi The Outlaws. Proprio dal disco che portò il sound degli Allman verso il country, arriva il produttore Johnny Sandin, un veterano, anche musicista e manager della Capricorn Records, ai tempi. Un vero Guru del Southern sound. Per non farsi mancare nulla, Kenneth coverizza pure Nothin you Can Do, accompagnato dalla voce di Bonnie Bramlett, brano di Dickey Betts tratto da un album solista del chitarrista: il solare Dickey Betts and The Great Southern(1977).
Kenneth Brian (un passato nel metal prima di spostarsi a Nashville, ecco spiegato l'aspetto truce) non picchia mai troppo duro ma lascia ampio spazio alla melodia, anche quando sono le chitarre elettriche a guidare le canzoni come nell'iniziale Something Better, nella cavalcata di Tonight We Ride che ruba qualcosa a Southern Man di Neil Young e nel suo manifesto: Welcome to Alabama, non originalissima a partire dal titolo, ma vera dichiarazione d'amore verso la sua musica e la sua terra.
Per chi nutre dei dubbi sul cuore romantico del buon e tatuato Brian: Last Call e Prayer For Love, sono due delicate country songs; la prima cantata in compagnia della voce femminile di Lillie Mae Rische, la seconda con la slide di di Jason Isbell ad imperversare. Due canzoni in grado di aprire infiniti varchi, portati al culmine dall'esecuzione in solitaria della finale Cry to the Dark con la presenza di Lillie Mae Rischie nel controcanto.
Un disco omogeneo a cui manca, certamente, il guizzo vincente o la canzone da ricordare. Anche se, fortunatamente, lontanissimo dagli eccessi dell'ultimo southern sound tamarro dell'ex rapper Kid Rock, dalla spavalderia di uno Shooter Jennings o dal calderone musicale "pasticciato" di Hank III tanto per rimanere a dei suoi contemporanei.
The Kenneth Brian Band, per ora, sono una fedele ed onesta riproposizione delle grandi band dei settanta. Sicuramente, con il tempo, verrà fuori anche la personalità che gli farà compiere il grande salto. Un ascolto piacevole e legato alla tradizione.

venerdì 3 febbraio 2012

RECENSIONE: THERAPY? ( A Brief Crack Of Light)

THERAPY? A Brief Crack Of Light ( Blast Records, 2012)


Nell'immenso marasma del rock più alternativo degli anni novanta, i nord irlandesi Therapy? sono spesso ricordati per i loro due album Troublegum(1994) e Infernal Love(1995). Poi, nonostante una carriera lunga venti anni (questo è il tredicesimo album), di loro nessuno ha più parlato, lasciando le sorti del gruppo in mano ai devoti (e fortunati) fan. Eppure, se dovessi premiare un gruppo per l'onestà e la sincerità della proposta musicale, non avrei dubbi nel scegliere la band di Andy Cairns.
La popolarità (anche commerciale: canzoni come Screamager , Nowhere e Stories lasciarono il segno) di metà anni novanta è scemata velocemente, ma non ha minimamente influito sulla musica. I dischi hanno continuato ad uscire regolarmente, mostrando una libertà di movimento che ha sfiorato tutte le sfumature del rock: dai dischi pù melodici e rock'n'roll(Shameless-2001, High Anxiety-2003) a dischi più sperimentali ed ostici (Suicide pact-you first-1999, Never Apologise never expain-2004 e Crooked Timber-2009), il tutto senza farsi influenzare da mode musicali passeggere, ma seguendo un proprio percorso artistico, lontano da qualsiasi catalogazione o etichetta.
Con la collaudata formazione a tre: Andy Cairns, voce e chitarra , il fedele bassista Michael McKeegan, da sempre insieme al timone della band e il batterista Neil Cooper, i Therapy?, anche con A Brief Crack Of Light danno lezioni su come chitarre pesanti, intelligenza compositiva, testi mai banali e melodia possano viaggiare insieme in perfetto equilibrio, facendosi contaminare da tante altre idee. Registrato a Newcastle e prodotto dallo stesso Cairns insieme ad Adam Sinclair, l'album si presenta come uno dei più estremi e sperimentali registrati in carriera, andando a recuperare, anche, alcuni suoni presenti nella primissima parte di carriera, risultando molto 90's nei suoni ma presentando alcune novità mai sentite prima nei loro dischi.
Il singolo, posto in apertura, Living in the Shadow Of The Terrible Thing, con i suoi pesanti e diretti riff heavy è sicuramente fuorviante rispetto a quanto il resto dell'album ci mostrerà. Una canzone 100% Therapy che svolge degnamente il compito.
Se Plague Bell e Ghost Trio sono due grevi post-core song, che mi hanno ricordato, in alcuni punti, i migliori Helmet di Page Hamilton, Stark Raving Sane è puro Therapy? sound con finale noise.
Le sorprese arrivano con la strumentale Marlow, quasi ballabile nel suo incedere e curiosa nei chorus femminili; nel vortice noise guidato dal basso della bella The Buzzing con le spoken words urlate di Cairns; nell'industrial ipnotico con inserti simil dub di Get Your Dead Hand Off My Shoulder e nella lenta e cupa discesa della finale Ecclesiastes, elettronica con tanto di vocoder.
Il punto massimo del disco si tocca in Why Turbulence, dopo la sfuriata quasi thrash iniziale si trasforma in un lento e cadenzato pachiderma stoner/doom; il punto minimo, nelle chitarre alt della poco incisiva e scialba Before You, With You, After You.
Per chi ha continuato a seguire i Therapy? in tutti questi anni ,una nuova riconferma, da parte di un gruppo sempre e comunque sorprendente, poco convenzionale ma coerente che, a ventitrè anni dalla nascita, continua a stupire, consapevole di non avere più mire commerciali. Dischi che escono diversamente l'uno dall'altro e che indicano quanto la loro fame di musica sia ancora tanta, anche se, oramai, diretta a pochi. Sottovalutati?
Per chi ancora non li conoscesse, è meglio fare un salto nel 1994 e procurarsi Troublegum, uno dei dischi fondamentali degli anni novanta.

vedi anche RECENSIONE/LiveReport: THERAPY? live-Rock'n'Roll Arena, Romagnano Sesia (NO),9 Novembre 2012