giovedì 17 marzo 2011
RECENSIONE: DAVIDE VAN DE SFROOS (Yanez)
Davide Van De Sfroos ne ha fatta di strada, giù dalla stradine del suo paese di Mezzegra che lambisce il lago di Como per arrivare al punto che ha toccato con la sua partecipazione all'ultima edizione del festival di San Remo. Tra le montagne e il lago per arrivare al mare. Chi gli dava del matto, chi del venduto e chi, invece, la maggior parte dei suoi fans (i cauboi), bisogna riconoscerlo, era convinto che questa sua esposizione non avrebbe intaccato le genuina vena poetica dei suoi testi in lagheè. La conferma arriva proprio dal nuovo album, Yanez.
Un album "del coraggio" come lo stesso Davide Bernasconi ha voluto sottolineare, consapevolezza di uomo di 46 anni che ha deciso, dopo anni, dischi e libri con protagonisti gli altri, di mettersi a nudo e di raccontare un pò di sè. Sì, perchè in mezzo alla storie raccontate in Yanez, c'è modo di trovare qualcosa di autobiografico. Il viaggio di Semm Partii(2001), il mistero dei luoghi del suo capolavoro Akuaduulza (2005) e i personaggi tra mito e realtà che animavano Pica!(2008), per rimanere agli ultimi anni, lasciano spazio, per una volta anche a delle confessioni, dediche e ritratti più personali. Un disco intimo e raccolto, forse il meno giocoso e gioioso della sua carriera, tanto per ribadire e sottolineare che non basta una settimana in Riviera ligure per distruggere una carriera. Anzì dirò di più, Yanez contiene alcuni dei testi più belli mai composti da Van De Sfroos.
Chi ha conosciuto Van De Sfroos grazie al brano Yanez, un mariachi allegro e spensierato costruito sul parallelismo tra i personaggi di Salgari (a cent'anni dalla sua morte e quasi 150 dalla nascita, tanto per rimanere in linea con gli anniversari di quest'anno) e quei vitelloni da riviera romagnola sospesi tra gli anni sessanta e il moderno , deve mettere in conto di trovarsi di fronte a uno dei dischi più profondamente cantautorali del musicista lombardo. La stessa Yanez in realtà, dietro all'allegria musicale, nasconde dediche al padre e a certi miti romantici con cui Van De Sfroos è cresciuto.
La capacità di musicare e dare parola a dei piccoli film, quasi dei cortometraggi, completi di tutti i particolari, rimane il grande pregio della scrittura di Van De Sfroos. Canzoni in grado di far vivere all'ascoltatore i sapori, gli odori, saper coinvolgere fino all' immedesimazione, usando la poesia di frasi che solo il dialetto riesce a far risaltare.
L'infanzia del cantautore con la sua passione musicale, allora nascente, esce da La macchina del ziu Toni, un blues evocativo ( con la chitarra di Francesco Piu) dove la memoria torna alla campagna e a quella macchina in disuso parcheggiata nel fienile dove l'adolescenza cavalcava a suon di ribellione fatta in musica ( citati Black Sabbath, Ramones, Rolling Stones, Bob Marley) e i sogni che presto hanno dovuto fare i conti con la dura realtà. I miti musicali di una volta ritornano e si fanno maturi nel folk sospeso tra Dylan e Guthrie di Il camionista Ghost Rider, geniale viaggio tra la via Emilia e il west dove Johnny Cash, Guthrie stesso, Robert Johnson e Jimi Hendrix diventano protagonisti di un fantomatico viaggio nella pianura padana, che sembra quasi di esserci sopra a quel tir insieme al camionista.
Tra le pieghe della ballata Dona Luseerta si nasconde la dedica al padre e la frase finale è sintomatica (E sarà menga questa polaroid cun soe una facia s'è sculurida a scancelà la mann che m'ha tegnuu in brasc) come non è difficile leggere un fiero bilancio di vita fatto in Long John Xanax (E vò innanz a ruzza la mia biglia perchè fin che gh'è tèra la voe rutulà).
Anche quando vuole raccontare spaccati di vita contadina, che sembrano arrivare da lontano, ma che nei paesi di tutta Italia continuano a vivere e sopravvivere come tradizioni da tramandare di generazione in generazione. E' il caso di Setembra , canzone dall'andatura sbilenca ed avvinazzata che rende perfettamente l'atmosfera da festa di paese, tra gioia e triste malinconia o El carnevaal de Schignan, che apre il disco e musicalmente fa il paio con la sanremese Yanez.
Il dialetto riesce a rendere meno scontata ed elevare Maria, canzone dal tema un pò abusato, sulla prostituzione imposta ad una extracomunitaria e riesce ad unire idealmente l'Italia in Dove non basta il mare. Ospiti Luigi Maieron, Patrizia Laquidara, Peppe Voltarelli e Roberta Carrieri intenti a cantare ,ognuno nel suo dialetto, una strofa della canzone.
Piedi ben piantati in terra e poca concessione a idee di successo, questo è quello che i suoi fans continuano ad aspettarsi e lui li ripaga con canzoni come El Pass del Gatt, alta vena poetica su tappeto di steel guitar e fisarmonica ( Davide Brambilla), (E ho fa'l bagn insema ai aspis, ho majà sceres o ho majà caden, gh'è anca una foto induè paar che ridi ma l'è una smorfia per la tropa luus) o la triste storia de Il Reduce, viola, violini (Angapiemage G. Persico) e tromba e la memoria torna alla guerra , ai racconti di chi porta i segni indelebili nella memoria e nel corpo (Eri mai cupaa gnaa un fasàn e ho trataa sempru bee anca i furmiigh serum in tanti cargà in sole quel trenu, cume foej destacàa e imraum la geografia...).
Un disco che nel finale nasconde le gemme più poetiche di Van De Sfroos, la pianistica e orchestrale tragedia di un amore impossibile, vissuto desfroos contro ogni maldicenza, La figlia del tenente, le chitarre di Maurizio "Gnola" Glielmo guidano il Blues di Santa Rosa, il mississippi si materializza a Como.
L'evocativa melanconia di Ciamel Amuur e Rosa del vento, chiudono un disco di conferme di un cantautore in grado di ingrandire anche le cose più piccole e semplici, grazie all'uso delle parole musicate come un folk singer americano con la fantasia tutta italiana. Un cantastorie , quasi d'altri tempi, che dopo il sold out al Forum di Assago e l'esposizione di Sanremo è tornato a guidare verso le sue due modeste strade: una porta verso il suo lago, l'altra è quella del suo percorso artistico e tutte e due sono chiare e definite con un'unica destinazione che lo porteranno in cerca di nuove storie da musicare.
Van De Sfroos, vedi anche :
http://www.impattosonoro.it/2010/05/26/reportage/davide-van-de-sfroos-koko-club-castelletto-cervobi-7-maggio-2010/
mercoledì 16 marzo 2011
RECENSIONE : PAOLO BENVEGNU'( Hermann)
Ci vuole del tempo, quello che si trova dopo una giornata di lavoro, la sera quando tutti i pensieri e le domande del giorno vengono accantonate. Quel tempo spesso prezioso da dedicare a se stessi, ad un libro o al disco di Paolo Benvegnù. Liberate la mente perchè il terzo disco dell'ex cantante dei Scisma ha tanto da offrire per riempirvela nuovamente. Un disco che conferma Benvegnù come uno dei migliori cantautori attualmente in Italia e uno dei pochi a poter ereditare la forma e la sostanza della cara categoria italica.
Ambizioso è l'aggettivo che forse più si addice a raccontare le tredici canzoni che compongono una sorta di concept basato sull'umanità e la sua evoluzione che come un boomerang sta trasformandosi in involuzione, tratto liberamente da un racconto di un certo Fulgenzio Innocenzi, di cui nessuno ha mai sentito parlare, esisterà veramente?
Gli spunti, gli agganci e i riferimenti storici e letterari a cui Benvegnù si affida sono molteplici e ad un primo ascolto anche intricati da cogliere. Si parte da molto lontano per arrivare al quotidiano con tutto tutto quello che vi è in mezzo. Dalla mitologia, passando per Sartre, arrivando alla frenesia del lavoro di oggi.
Uomo fatto di carne, sentimenti, ambizione,coraggio e valore,valoroso e traditore, capace di pugnalare alle spalle per l'innalzamento del proprio ego per poi affidarsi alla fede arrivando infine a negarla. Nessuno esce da questa categoria. Chi più, chi meno ci portiamo addosso la reputazione e il Dna che ci siamo costruiti nei secoli. Ecco che il tempo diventa prezioso alleato per cercare sosta ed un riparo dalla marcia di progresso , cui siamo costretti a partecipare quasi come automi senza controllo e a domandarci in quanto uomini, cosa vogliamo?
Il tempo come alleato e nemico per capire la nostra collocazione sulla terra(Non sai distinguere il tempo perso da quello vissuto) nell'iniziale Il Pianeta perfetto o come pretesto per tornare all'inizio dei secoli per raccontare l'origine dell'uomo (Ma poi finirono le terre ed inventammo Dio , lo trafiggemmo all'alba, l'ultima volta che provò a sorridere, così inventammo la notte...) in Love is talking. I secoli che passano, i posti e la gente pure ma i problemi sempre presenti e l'uomo, al centro di tutto, come sempre si accorge che le distrazioni lo hanno allontanato dal proprio essere interiore.
Se la speranza era quella che il trascorrere dell'età riuscisse a trascinare con sè il benessere, bisogna invece fare i conti con l'esatto contrario. Il dito indice accusatorio sempre pronto ad inquadrare qualcuno da sacrificare e punire in Date fuoco (Il primo dice che è stato lui a ricoprire il mondo di automobili e il terzo dice che non si vedeva niente), prendendo spunto dall'"eretico" Giordano Bruno e trasportando il tutto al presente.
La bramosia di conquista ed invicibilità di Moses (...Infliggi le tue regole, distruggere per conquistare...), l'amore , anche non a lieto fine, come evasione e rifugio da tutti i mali , Johnnie and Jane, così come il viaggio, per approdare ed affrontare qualcosa di nuovo in Il Mare è bellissimo(...e un viaggio senza destinazione significa destinazione...) ed il tempo che torna inesorabile a scandire la vita (...e intanto si è fatto tardi e tardi è legge e attendere un'attesa sempre attesa...).
L'uomo inerme davanti alla sua vita, al trascorrere degli eventi che ha visto e vissuto, la consapevolezza che poi,alla fine, l'eguaglianza tra di noi non è così lontana dall'essere trovata in Io ho visto , uno dei punti più alti del disco ( ...Ho visto il sole restare al buio e gli animali rimanere in branco fiutando il cielo più sicuro...ho visto inverni piegare gli alberi e setacciare al grembo con le mani cercando polvere e ho bestemmiato iddio perchè non si fa mai vedere e ho perso falangi nei combattimenti e nelle fabbriche...)
Un disco dall'anima rock, che si concede fughe orchestrali, suonato da una band, "i Paolo Benvegnù", appunto, alcuni tratti pop presenti nei ritornelli in inglese di Love is talking e Good Morning, Mr.Monroe, piccola messa in musica dei tempi moderni(con l'inizio che tanto mi ricorda Milano circonvallazione esterna degli Afterhours) che cercano la continuità con il suo passato in un disco impervio che vuole essere diretto nella sua complicata complessità e spronante nel metterci di fronte al punto in cui l'essere umano, perso, è arrivato a piantare la sua bandierina di evoluzione, così poco colorata da esserne poco fieri.
venerdì 11 marzo 2011
RECENSIONE: DROPKICK MURPHYS ( Going Out in Style)
Pub e pinte di Guiness sembrano materializzarsi anche nella finale e corale The Irish Rover, altro traditional che stempera le lyrics sociali delle precedenti canzoni.
Con questo disco i Dropkick Murphys giocano più del solito a fare i Pogues e il tutto sembra deporre a loro favore. Cheers e appuntamento al giorno di San Patrizio.
vedi anche RECENSIONE: FLOGGING MOLLY -Speed Of Darkness (2011)
martedì 8 marzo 2011
RECENSIONE: LUCINDA WILLIAMS ( Blessed)
Benedetto sia l'operaio cinese che cuce in un sotteraneo di New York, benedetta la ragazza indiana che passeggia per i boulevard con il suo cagnolino di rosa vestito, benedetto il signore d'età tatuato e sfrattato che vive le sue giornate sopra ad un grosso van, benedetto il tassista con la coppola in testa figlio di emigrati, benedetti i due innamorati con zaino seduti sul marciapiede che si baciano, benedetto il maturo biker figlio degli anni sessanta che anche senza più i lunghi capelli continua a inseguire la sua utopia, benedetto il giovane emigrato arabo che studia e che da qualche anno non passa più inosservato nella grande America, benedetto l' indios in jeans e cappello che vive i tempi moderni in una riserva indiana a difendere i valori dei suoi antenati.
Benedetto sia, allora, il cantautore Vic Chesnutt, scomparso suicida, a cui Lucinda Williams dedica ispirata con tormento la rabbiosa e chitarristica Seeing Black . La tormentata vita di un cantautore che portava dentro di sè una verità e una visione di vita dai colori ben definiti.
Benedetta sia Copenhagen in Ottobre, sotto la neve, quando tristi notizie arrivano e sembrano unirsi tutt'uno con il grigiore del tempo, quasi a voler amplificare le lacrime di Lucinda che passeggia per le strade della capitale danese.
Benedetto sia il soldato di Soldier's Song, ballad malinconica ed oscura dedicata a chi vive lontano dagli affetti cari.
Benedetto sia Elvis Costello, ospite alla chitarra elettrica nell'iniziale Buttercup, forse la canzone più solare, se si può passare il termine di un disco carico di speranza vista attraverso gli occhi degli altri, dei più deboli e di chi la debolezza l'ha pagata anche a caro prezzo.
Benedetto il carattere dualistico delle canzoni. Rock e folk. Scatti di rabbia, vendetta e tenue dolcezza. Da una parte le chitarre , anche esplosive come in Awakening, un risveglio lento che sbotta in feedback, la chitarra di Costello in Convince me o il rock oscuro della title track, elegia e perno dell'intero lavoro. Lezione di vita, che insegna a cercare la bellezza nei volti, nelle persone che apparentemente di solito ignoriamo, attratti dal facile e poco abituati per pigrizia e diffidenza a scavare in profondità.
Benedetto l'amore di Sweet Love, folk di poche e dolci parole dedicate presumibilmente al neo marito o l'amore universale di Born to be Loved, i consigli e le verità di Ugly truth.
Benedetta sia allora Lucinda Williams, che fa uscire un disco bilanciatissimo e maturo, prodotto da una "vecchia volpe" come Don Was. Forse lontano dal suo capolavoro assoluto che rimane "Car Wheels on a Gravel Road" , ma sicuramente superiore alle ultime e comunque buone prove di studio.
Benedetta la versione deluxe del disco che include un secondo cd denominato Kitchen tapes, dove il carattere delle canzoni, la voce della Williams vengono fuori ancora più prepotenti nella crudezza di versioni casalinghe registrate solo voce e chitarra, stupenda Copenhagen. Uscirà in diverse copertine raffiguranti i "benedetti" e silenziosi protagonisti della vita che ci circonda. Un invito a guardarsi intorno, a scoprire le facce che ci girano a fianco, ognuna delle quali nasconde ne più ne meno quello che noi nascondiamo loro: la vita. Quando solo i silenzi di uno scatto ed un cartello dicono più di mille parole.
sabato 5 marzo 2011
retroRECENSIONE: GRAZIANO ROMANI (ZAGOR, king of Darkwood)
Graziano Romani è certamente una delle voci rock italiane più profonde e vere, con più di 25 anni di carriera alle spalle: prima con i Rocking Chairs, band che attingeva a piene mani dal folk e rock'n'roll americano, poi da solista con una gran quantità di dischi, tra cui numerose presenze in tributi a Bruce Springsteen che hanno visto il suo nome affiancato ai grandi del rock mondiale, da Bowie a Willie Nile, Joe Cocker, Billy Bragg ed Elvis Costello. Partecipazioni che hanno accresciuto la sua popolarità internazionale, certamente superiore a quella ottenuta in patria.
L'idea originale di questo concept dedicato a Zagor parte, innanzitutto, dalla grande passione di Romani per i fumetti e per "l'eroe di Darkwood" principalmente, a cui fa seguito una canzone singola, Darkwood, appunto, scritta nel 2008. Quella che doveva essere una canzone unica dedicata al suo eroe preferito, piace talmente tanto agli editori del fumetto da spingere e solleticare l'artista emiliano nell'ardua ed originale impresa, riuscita, di scrivere un intero album-concept dedicato a Zagor. Senza dimenticare la grande importanza e lo spazio che la musica e le canzoni avevano all'interno delle strisce dedicate allo "spirito con la scure".
Il fumetto Zagor nasce dalla mente di Sergio Bonelli e dai disegni di Gallieno Ferri nei primissimi anni sessanta, raggiungendo il culmine di notorietà nei settanta, periodo in cui rivaleggiava in popolarità con Tex. Zagor è un eroe schierato dalla parte dei più deboli, senza distinzione di razza, viaggia con scure e pistola, indossando jeans e una maglietta rossa da nativo americano. In compagnia dell'amato e goffo amico, il messicano Cico, le sue avventure si svolgono nella foresta di Darkwood, dove vive tra amici e molti nemici da combattere e sconfiggere in nome della giustizia.
Uscito sul finire del 2009, distribuito dalla casa editrice Coniglio che pubblica attualmente le avventure di Zagor, fu venduto e distribuito, per mantenere fede alla tradizionalità dei fumetti, solamente in edicola.
In queste 15 canzoni tra cui 4 covers, i protagonisti del fumetto diventano i protagonisti di canzoni folk-rock che si spingono anche oltre toccando Irish e tex mex. Accompagnato da Lele Cavalli al basso e chitarre più Pat Bonan alla battrista e svariati ospiti in diverse canzoni.
L'apertura non poteva che essere affidata a Darkwood, la canzone che diede inizio a tutto il progetto e che ha il compito di inquadrare l'ambiente in cui si svolgeranno le avventure ma soprattutto l'animo e il carattere del protagonista (...I will let my spirit free to roam...). Un folk acustico e narrativo così come in Clear Water Home, Zagor ripercorre la sua infanzia con i ricordi che tornano al padre e alla madre (...Sometimes i recall that old familiar place,where i got to know the greatest love and pain...) e alla vecchia casa nativa. La natura, gli uomini e il loro destino escono da The Tin Star, una western song con la dobro guitar di Niki Milazzo gran protagonista, evocativa e toccante.
Non poteva mancare una canzone dedicata al grande amico di Zagor, Cico Felipe Cayetano Lopezy Martinez y Gonzales, un mariachi travolgente guidato dal violino di Giulia Nuti, da dove esce il carattere goliardico ma anche malinconico del paffuto amico (...yo quiero a la vida aunque la vida no me quiera a mi...). Ma neppure i nemici vengono risparmiati da Guitar Jim, il nemico gentil uomo e tutti gli altri elencati nella lunga sfilza di nomi della rockeggiante Bring on the bad guys.
In mezzo quattro traditionals, dall'irish di The Minstrel boy con Franco D'Aiello dei Modena City Ramblers al flauto, a Molly Malone con Andy White al canto , passando a The Willow Tree e On top of Gold Smoky con l'ospitata di Matthew Ryan alla voce e chitarra.
Un disco che sa affiancare la semplicità del folk rock alla complessità di riuscire a raccontare attraverso delle canzoni un personaggio dei fumetti . Solamente un grande amante del personaggio Zagor sarebbe riuscito a farlo. A patto che questo vorace lettore sia anche un grande musicista dalla voce stupenda come Romani. Come uno Springsteen che incontra un fumetto tutto italiano ma americano nelle sue radici.
L'unico grande rammarico è stato la poca pubblicità che un disco del genere ha avuto, rimanendo a tutt'oggi un prodotto di nicchia, forse già introvabile e per collezionisti, proprio come chi ama i fumetti. Tutto torna.
giovedì 3 marzo 2011
RECENSIONE: HAYES CARLL (KMAG YOYO-& other American stories)
Avesse vissuto negli anni settanta, Hayes Carll avrebbe preso di petto il conflitto socio-politico che la guerra del Vietnam causò con tutte le conseguenze che portò agli Stati Uniti. Lui, però, insieme a Ryan Bingham, è sicuramente uno dei più promettenti cantautori di "americana" usciti negli ultimi anni. Se Bingham con il suo ultimo disco( Junky Star), forte del premio oscar 2010 vinto dalla sua The Weary kind, smorza l'impatto e opta per il cantautorato folk, Carll con questo KMAG YOYO va giù duro nelle liriche e con certi guizzi ruspanti di country-rock.
Visioni dylaniane e cultura beat si mischiano al sarcasmo di un songwriter che sa pescare a piene mani nella giovane storia musicale statunitense. Rock'n'roll, country, folk e soul vengono saccheggiati e suonati in modo diretto come se lui e la sua band suonassero sopra ad uno sgangherato palco di un live club americano.
Il titolo dell'album, acronimo di "kiss your ass guys,you're on your own", frase in voga tra i militari americani è una dichiarazione d'intenti che fa il paio con la forte apertura affidata a Stomp And Holler e con l'artwork sarcastico-satirico. Canzoni nate durante il tour seguente al buon successo del precedente disco Trouble in mind e che prendono spunto dalla vita on the road e dagli avvenimenti che in quel periodo hanno toccato l'animo del trentaquatrenne cantautore, storie personali e non.
Fiumi in piena di parole che si trasformano in talkin' rock chitarristici come le speranze affidate a Stomp and Holler, le critiche all'esercito USA racchiuse nella title-track o le parole d'amore non convenzionali dell'honk-tonk The Lovin' Cup con la voce femminile di Bonnie Whitmore, presente anche nella country e delicata Chances Are.
Country spensierato ad alto tasso alcolico quello di Bottle in my Hand, racconto di viaggi e bevute in compagnia degli amici Todd Snider e Corb Lund alle voci.
Singolare la storia d'amore della ciondolante Another like You, cantata in coppia con Cary Ann Hearst dove l'opposizione e le diverse vedute politiche tra un uomo ed una donna, trovano un comune accordo in una stanza da letto, camera 402, per la precisione.
Più personali ed intime le liriche di The Letter, l'affresco familiare della talkin'folk Grateful For Christmas o della finale Hide me, resoconto degli ultimi fortunati anni di un texano uscito dall'anonimato con la musica che non ha perso, però, i suoi valori e dal futuro tutto da scrivere, ma più che roseo all'orizzonte.
domenica 27 febbraio 2011
retroRECENSIONE: LIFE SEX & DEATH(The Silent Majority)...e la strana leggenda di Stanley, il cantante "barbone"
Notizie dei Life Sex & Death (guarda caso abbreviati in LSD) ce ne furono poche all'epoca dell'uscita di questo album, siamo nel 1992, ancor meno ora a distanza di 19 anni. Qualche video su Youtube, un fan site su Myspace e poco altro.
Venuti allo scoperto sul finire degli anni ottanta, balzarono agli onori della cronaca per il bizzarro cantante e la sua strana storia, che ancora oggi aleggia nella leggenda. Si raccontava che fosse un barbone notato per strada dal resto della band che, rimasta colpita dalla sua voce, lo volle immediatamente in studio di registrazione. Il tizio che si faceva chiamare Stanley, accettò di mettere al servizio del gruppo la sua arte, costruita su testi alquanto intelligenti e provocatori, rispetto alla stragrande maggioranza dei gruppi street hard rock. Stanley, però, decise di non ripulirsi ma di rimanere tale e quale, con i suoi vestiti sporchi e stracciati, le sue unghie nere e le sue scarpe rotte, a vederlo quasi un Elvis Costello abbandonato per strada dal almeno due mesi.
Stanley è un emarginato, caduto in depressione dopo il suicidio del padre, che nasconde dentro di sé un animo artistico, che la band riuscirà a far venire fuori. Divertenti alcune storielle che giravano attorno a questa figura enigmatica: come quella che racconta di uno Stanley strafatto che vomita sulle scarpe di un pezzo grosso di una label altrettanto grossa. Il contratto dubito sia stato firmato. Ora, il punto ancora da smuovere è: fu una invenzione per attirare attenzione sulla band o la leggenda di Stanley "il barbone" è tutta verità? Sempre su Youtube è visibile un'intervista datata 1993, in cui si vedono i tre componenti, classici ragazzotti metallari americani dai lunghi capelli, e Stanley con la sua giacca lisa e i suoi occhiali stile fondo di bottiglia accucciato e imbarazzato in mezzo a loro sul divano. Attore o vero imbarazzo?
Una cosa è certa, il disco merita e Stanley, vero o falso che sia, è un buon compositore che a volte ricorda addirittura il Tom Waits di "Bone Machine" (1992), nella sua interpretazione vocale, ascoltatevi la feroce "Tank" dove ripete all'infinito "I'm a tank" o la finale "Rise Above", ballad pianistica con Stanley- solo voce e piano-raccontare la sua storia di solitudine ed emarginazione. Prova struggente da cantautore. Accompagnato da una band solida e potente che lascia spesso intravedere influenze blues, formata da Bill E. Gar al basso, Alex Kane alle chitarre (formerà in seguito gli Antiproduct) e Rian Michael Horak alla batteria.
Ascoltare, oggi, una canzone come "Jawohl Asshole" ( i titoli e i testi furono censurati all'epoca, così come la copertina), suona ancora maledettamente moderna, un hard street grezzo e martellante così come "Fuckin' Shit Ass", con un chorus radiofonico che avrebbe sfondato se la canzone si fosse intitolata diversamente.
"Train" è un bluesaccio con tanto di armonica, sparato a velocità folle da thrash metal song, un gioiello, mentre la sempre veloce "Big Black Bush "sembra uscire dai primi lavori della coppia Van Halen/Lee Roth. Divertenti, poi, le piccole perle di country roots sparse per il disco come "Farm Song" (registrata quasi in lo-fi con rumori di strada in sottofondo), "Hey Buddy" e lo spoken blues di "Guatemala".
Un disco che si discosta nettamente dalle uscite street hard dell'epoca, lontano dalle altre band californiane dai suoni ripuliti e dai look improbabili, i Life Sex & Death erano puri, aggressivi, ironici e furono abbandonati al loro triste destino...Rise Above cantava Stanley...
La recensione compare in origine su Debaser...
http://www.debaser.it/recensionidb/ID_28610/Life_Sex__Death_The_Silent_Majority.htm
mercoledì 23 febbraio 2011
RECENSIONE: CRISTINA DONA' ( Torno a casa a piedi)
Piccole tracce le aveva lasciate nel precedente La quinta stagione, ora è chiaro che la trasformazione di Cristina Donà è completa. Una trasformazione spontanea e legata principalmente alle vicissitudini della sua vita privata. La solarità musicale e il carattere dei testi non possono scindersi dalla recente maternità e dalla maturità raggiunta dopo vent'anni di carriera.
Cristina Donà torna a casa a piedi dopo aver guidato ed indicato la strada alla leva di cantautrici femminili, chiamiamole ancora alternative, anche se ormai il termine che andava bene quindici anni fa, ora è seguito da un punto interrogativo assai grosso.
Ritorna indietro da un viaggio che l'ha portata ad incontrare i favori in Italia( Afterhours, La Crus, Massimo Volume, Diaframma, Gianni Maroccolo) e all'estero( fra tutte Robert Wyatt ed Eric Wood), collaborazioni e riconoscimenti non sono mancati e sempre inspiegabilmente lontani dai grandi circuiti mediatici.
Ora la voglia di stanarsi è tanta e dopo la sua presenza sul palco del festival di Sanremo per accompagnare Nada nel 2007, la sua tentata candidatura all'edizione 2011 è un segno più che chiaro del suo cambiamento. Miracoli che apre il disco è la cartina di tornasole della nuova Donà. La canzone è stata scartata preventivamente ma sicuramente avrebbe fatto faville sul palco dell'Ariston. Fiati strombazzanti, stile big band, aprono una canzone musicata insieme a Saverio Lanza( vi ricordate dei toscani Rockgalileo?) , coautore di tutte le musiche del disco. Una marcia trionfante dove le piccole cose "giornaliere" diventano le più importanti sino a divenire dei miracoli.
"Tu credi nei miracoli che la musica può fare, e canti le canzoni che ti han fatto sognare...". La musica al centro di tutto ricompare in In un soffio. " Cerco la risposta dentro a una musica facile da ricordare", ritmi vagamente soul e balcanici dove le parole diventano essenziali e più dirette rispetto al passato. Dove una volta primeggiava l'introspettività ora campeggia il messaggio diretto e semplice.
La battistiana Giapponese (L'arte di arrivare a fine mese), è un esercizio pop giocato sull'ironia che coniuga la quotidianità con lo stress dell ' incalzante vita moderna. Il vecchio Battisti nel testo sembra mescolarsi al duo Battisti/Panella, periodo anni ottanta nella musica. La voglia di giocare con la musica traspare in ogni canzone del disco, il fischiettio Morriconiano che apre la folk Più forte del Fuoco, una melodia immediata e di sicuro effetto che nasconde una dedica sentita all'amico Niccolò Fabi colpito recentemente da un "prezioso" lutto. " C'è quella frase che dice: chi ha già provato le ortiche riconosce la seta."
Il rock chitarristico, alla vecchia maniera, compare ancora su Tutti che sanno cosa dire, invettiva sui moderni saccenti, che con la sua carica spezza un disco giocato sui colori caldi e contrastanti lasciati da strumenti a fiato ed orchestrazioni costruite sugli archi.
La quotidianità che si ripete ossessivamente con piccoli dettagli apparentemente futili "Le scarpe, i contratti , i sofficini..." e si intreccia con storie di amore clandestine, Torno a casa a piedi o di amore verso il piccolo figlio nella delicata e sentita Bimbo dal sonno leggero, dove viene esaminato il delicato rapporto genitore-figlio, ora di primaria importanza per una neo mamma.
La conclusione è però amara e viene affidata ad una lettera, Lettera a mano, anacronismo dei tempi moderni, dove carta e penna sembrano sempre più cosa rara da trovare sopra alla nostra scrivania. "Sulle pagine bianche cade inchiostro nero, è il sangue del mio pensiero" e con una conclusione "...ho paura sempre di rimanere sola..." che inquadra benissimo i nostri tempi del tutto e tutti. Puoi avere beni materiali e l'amore di una persona ma quella paura, dannazione, rimane sempre...
Ci hanno sempre detto che per capire e cogliere le sfumature delle città e dei luoghi in generale bisogna come minimo camminarci a piedi, addentrarsi nelle vie e cogliere tutte quelle cose che viaggiando sopra ad un mezzo di trasporto mai e poi mai riusciresti a vedere. Cristina Donà ci prova e ci trasmette in musica tutte le sfumature che è riuscita a cogliere nello straordinario viaggio della sua vita.
sabato 19 febbraio 2011
RECENSIONE: MARIANNE FAITHFULL(Horses And High heels)
venerdì 18 febbraio 2011
RECENSIONE: PONDEROSA (Moonlight Revival)
PONDEROSA Moonlight Revival (New West, 2010)
Esaurita la carica propulsiva e ribelle nel decennio degli anni settanta, il southern rock ha visto una rinascita negli anni novanta, uscendo da un coma artistico che ha toccato i punti più bassi nei plastificati '80. La riscoperta delle radici americane ha portato alla nascita di un nuovo movimento che fa della commistione tra i generi il suo punto di forza.
I giovani Ponderosa fanno gli americani in tutto e per tutto. Le radici rock ben piantate nel terreno boschivo che si apre su vallate verdi acide e vagamente psichedeliche, strade impolverate che sanno di tradizione folk/soul e l'antico country/west che fa capolino di tanto in tanto. Sono la new sensation del nuovo southern rock da Atlanta, con un occhio che guarda indietro agli anni settanta e l'altro fermo nella contemporaneità. Esempio significativo è il tocco di gradevole pop ( ascoltare l'inizio solare e country-pop di Pistolier, che nella sua coralità fa tanto Beatles) che colora e apre interessanti strade alla loro musica.
L'iniziale Old Gin Road rimanda subito ai migliori Faces e di rimando ai Black Crowes, veri e propri progenitori del rilancio southern. Hold on you è cadenzato ed oscuro rock-blues, lento e lisergico con chitarre aperte e duellanti. Little Runaway piace e si fa ricordare per la sua semplicità e melodia, ricordando a tratti lo Springsteen più spensierato e radiofonico. Pretty People e Revolution sono invece dei rock'n'roll senza troppe pretese, chitarre e cantato anni sessanta, la prima più veloce e con un attacco in stile Stones, la seconda un cattivo honk-tonk.
Oscurità( Girl I've ever seen) e solarità(Penniless è una country song che si perde nella west coast californiana dei primi anni settanta tra Eagles e primi America) si intrecciano in continuazione come le ombre lasciate da un sole che cerca di penetrare il verde di un fitto bosco . A chiudere il disco, la pesantezza inaspettata di Devil on my shoulder, sporca ed abrasiva nel cantato, nelle chitarre e nel suo basso pulsante.
I Ponderosa guidati dalla voce di Kalen Nash, hanno rilasciato un debutto di tutto rispetto per chi ama il southern rock odierno, a metà strada tra romanticismo melodico e la dura vita on the road. Per chi crede che i Kings of Leon abbiano perso quel poco di rustico che sembravano avere ad inizio carriera, consiglio l'ascolto dei Ponderosa, sperando che la loro genuinità non si perda per strada come successo ai sopracitati "nuovi dei" del rock americano.
giovedì 17 febbraio 2011
RECENSIONE: TWILIGHT SINGERS (Dynamite Steps)
TWILIGHT SINGERS Dynamite Steps (Sub Pop, 2011)
Dopo il buon e fortunato Saturnalia in compagnia del gemello maledetto Mark Lanegan, Greg Dulli continua la personale battaglia con la profondità contenuta in domande e risposte sospese tra la vita e la morte. Il limbo, la fede, la redenzione vissute con lo sfondo di periferie urbane degradanti e abitate da personaggi perdenti e vogliosi di riscatto.
Il cuore nero e soul che ha sempre battutto dentro a Dulli fin dai tempi dei compianti Afghan Whigs continua a battere nell'oscurità di canzoni color notte, illuminate da veloci e illusori lampi. Notti e incubi in Last Night in Town, chitarre e synth guidano il presagio della fine. L'amico Lanegan c'è anche stavolta e compare quasi subito in Be invited che prosegue il discorso di Saturnalia, la profondità della voce dell'ex Screaming Trees incastrata perfettamente tra le armonizzazioni di un violino.
Se Waves è una scheggia rock/noise, veloce e cupa, mosca bianca all'interno di questo disco, in contrapposizione Never seen no devil rievoca fantasmi country-western in salsa dark e malinconica.
Tanti gli ospiti oltre a Lanegan, Ani Di Franco duetta nella delicata Blackbird and the fox , dove il degrado urbano descritto si contrappone alla pacatezza del duetto.
Quando tutto è perso c'è ancora chi si aspetta dalla vita un segnale(She was stolen) e chi è costretto a vivere negli angoli di una strada come descritto nelle impietose istantanee della "nera" e "pop" On the corner, con l'ex QOTSA Gene Trautmann ospite alla batteria.
Ancora fuoco che brucia in The beginning of the end, la canzone più soul e black che rimanda al passato di Dulli, mentre la ballata per piano ed archi Get Lucky stride con l'esplosione finale della conclusiva e lunga title track, giocata su un crescendo fantastico.
I chiaroscuri disseminati lungo tutta la durata del disco, ci consegnano un Dulli in splendida forma ed un artista viscerale tra i più originali ed ispirati della sua generazione.
sabato 12 febbraio 2011
Retro RECENSIONE: BLACK SABBATH- Dehumanizer (I.R.S., 1992)
Questa recensione ha due ragioni di esistere, la prima è rendere omaggio al grande R. J. Dio che ci ha lasciato nello scorso 2010, la seconda per rendere giustizia ad un album, troppo spesso sottovalutato o addirittura sciaguratamente considerato, da molti, uno dei peggiori album dei Black Sabbath, come se dischi quali Technical Ecstasy, Never Say die del periodo Ozzy o Forbidden del periodo Martin non fossero mai usciti.
Dehumanizer è un disco figlio del suo tempo che però a mio modesto parere è l'unico post Ozzy a contenere alcune peculiarità che fecero dei primi Sabbath degli anni settanta, un gruppo in grado di influenzare in modo netto e tangibile il futuro heavy metal.
Uscito nel 1992, Dehumanizer è paradossalmente più granitico, heavy e malvagio di molte uscite dell’epoca da parte di grossi nomi dello starsystem metallico, dai Maiden di Fear of the dark, ai Metallica che si godevano il successo planetario del Black album, tanto per citare due grossi nomi.
Un canzone dall’incedere doom e fumoso come After All (the dead), non si sentiva dai primi anni settanta e con un po’di fantasia, sostituendo la voce di Dio con quella di Ozzy, il gioco è fatto.
Ronnie J. Dio è la grande novità di questo album. Dopo aver prestato la la sua ugola nei due meravigliosi dischi dei primi anni ottanta che ebbero il pregio di far entrare i Black Sabbath in un nuovo decennio a gareggiare con la nascente NWOBHM, i rapporti tra il folletto di Portsmouth e Iommi non furono dei più amichevoli, complice una miriade di clausole legali ma soprattutto i famosi ritocchi apportati a Live Evil, mai digeriti da Dio che ne decretarono la separazione.
La formazione che registra Dehumanizer nei Rockfield Studios nel sud del Galles, sotto la produzione di Mack(già produttore dei Queen) è la stessa di Mob Rules che vedeva oltre a Dio e Iommi, Geezer Butler al basso e Vinny Appice alla batteria, formazione che diciassette anni dopo darà vita agli HEAVEN & HELL di The devil you know, tanto per ribadire la bontà di questa formazione, sicuramente la migliore mai avuta dai Sabbath dopo l’originale e storica line-up.
Se all’epoca, la reunion della formazione con Dio, sembrava una bella mossa commerciale per rialzare le quotazioni di due carriere, quella solista di Dio, dopo il poco ispirato Lock up the wolves e quella dei Sabbath reduci dall’epicità di un disco come Tyr ( che comunque conteneva anche lui i suoi gioielli), con gli anni la bontà di questo disco sembra accrescere. Canzoni ben impiantate nel presente di allora, con Dio che lascia i suoi testi fantasy a favore di liriche proiettate alla vita di tutti i giorni e nell’incerto futuro con tutte le sue insidie umane e tecnologiche. I suoni riabbracciano la solenne lentezza del passato, perdendo il calore del blues ma acquistando la freddezza di riff metallici e quasi thrash.
L’apertura affidata a Computer God è un monito contro la nuova generazione cresciuta con i computer ma ancora lontana dall’ingabbiamento totale di internet e dei social network ma certamente profetica. Canzone che parte lenta e sontuosa per accellerare nel finale con Iommi a dimostrare l’assoluta leadership di re dei riff. La componente doom è presente oltre che nella già citata After all(the dead) anche nella straziante e pesantissima Letters from earth, e nella bella e sontuosa Sins of the father. Il basso caratteristico di Butler apre invece la cadenzata Master of insanity che sfocerà nell’epicità del chorus guidato da un Dio in ritrovata forma.
Discorso diverso per Tv crimes, la canzone più veloce del disco e ancora con Dio sugli scudi per l’ottima interpretazione che mette alla berlina i famosi telepredicatori, in quegli anni sulla cresta dell’onda nelle reti televisive americane e nemici numeri uno della musica metal e per la groovy e malvagia I, ancora con Dio protagonista in un crescendo di teatralità vocale.
Too late è una semi -ballad che parte acustica fino crescere sfociando nell‘assolo di Iommi, in verità sempre molto ispirato durante tutta la durata del disco, spargendo buoni assoli in tutte le canzoni, la finale Buried alive e la più famosa del lotto, Time Machine, che verrà usata anche nella colonna sonora di Fusi di testa sfiorano il tipico rifferrama del thrash metal.
Purtroppo il sodalizio di questa formazione durò lo spazio di questo disco, con il relativo tour che toccò anche l'Italia nel 1992 in un Monsters of rock a Reggio Emilia, insieme a Iron Maiden, Testament, Megadeth e Pantera, poi i soliti litigi si impossessarono della scena e il resto è storia...
Il disco passerà nel dimenticatoio e ricordato solo per la pessima copertina che rivaleggia con quella di "Forbidden", per venire in seguito rivalutato dagli stessi Heaven & Hell che da esso hanno ripescato alcune canzoni come I, After All e Computer God durante i live.
giovedì 10 febbraio 2011
RECENSIONE: SOUTHSIDE JOHNNY AND THE ASBURY JUKES- Pills and Ammo
Questo è il disco che mi sono regalato nel Natale appena passato. Desideroso di cercare qualcosa di caldo, rassicurante ed avvolgente. Una musica che scaldasse cuore ed anima, che non ti lasciasse immobile ma che ti facesse muovere e battere i piedi in ogni situazione della giornata, in ogni luogo e circostanza. Mai autoregalo fu più azzeccato ad assolvere i desideri di cui sopra.
Difficile, veramente difficile, immaginare Southside Johnny in un posto che non sia un piccolo club dall'insegna esterna tanto luminosa e sgargiante quanto buio e fumoso all'interno, affollato di gente festante, con il calore e il sudore che diventano un tutt'uno. Gente festante ed inneggiante un personaggio e la sua numerosa crew che non si risparmiano, incendiando le assi del palco con il loro Jersey sound.
Johnny Lyon, ma per tutti Southside Johnny, non è mai diventato una star del rock come il suo grande amico Springsteen, ma non per questo ha mollato la presa. Al suo fedele seguito di fan ha sempre dato dischi dignitosi, accompagnati da live performances all'ultima goccia di sudore. Rimasto, forse, l'ultimo vero depositario di quel suono denominato Jersey Shore sound, un miscuglio di Soul, R&B e Rock'n'roll che nei primi anni settanta mise a fuoco e fiamme i locali di mezza America.
Bluesman dalla voce calda e sporca quanto basta, con Pills and Ammo, ritorna a pestare il piede sull'acceleratore, facendo uscire un disco ruspante e parecchio chitarristico, semplice e diretto dove le due anime, soul e rock vanno a braccetto.
Rimanere indifferenti alla sua voce è impresa ardua, a partire dalle canzoni più rock come l'omaggio al vecchio rock'n'roll dei '50 di una Keep on Moving, dove un trascinante piano alla Jerry Lee Lewis traghetta una infuocata song che nel testo ricalca tutto l'amore per la musica e fumosi locali di divertimento.
Voce maschia e decisa in Heartbreak City, un rock-blues dove le chitarre di Bobby Bandiera e Andy York fanno furore e in One more night to rock , armonica, chitarre, fiati e la passione che trabocca.
C'è poco spazio per tirare il fiato anche quando le canzoni sono delle ballate che rimandano la memoria all'America di Bob Seger come nella stupenda Lead me on, l'energia musicale cala ma la voce sopperisce a tutto o come nella malinconia di Strange strange Feeling, vita passata e presente che scorre inesorabile.
Quando parte Umbrella in my drink, sembra di vederli Southside Johnny e un altro vecchio amico, vera e propria istituzione del New Jersey, Gary Us Bond, duettare davanti al loro pubblico e cantare il loro amore per il New Jersey anche se è un posto dannatamente freddo come loro stessi dicono. Forse questo il motivo per cui questi personaggi riescono a scaldare i cuori e se serve anche un pò di alcol in corpo per farlo, ben venga.
Avete capito, questo disco è ciò che serve quando le temperature esterne ed interne iniziano a calare, quando il ghiaccio deve essere per forza sciolto e la vostra ricerca di calore non ammette più spreco di tempo.
domenica 6 febbraio 2011
Morto il chitarrista irlandese GARY MOORE
GARY MOORE Wild Frontier (1987)
Gary Moore, irlandese classe '52, è uno dei chitarristi più influenti e spesso sottovalutati della sua generazione.
Artista della sei corde genuino e sanguigno ha sempre prediletto la forma canzone alla pura spettacolarizzazione e alla tecnica della chitarra pur non avendo nulla da invidiare a chitarristi piu' egocentrici e in vista. La sua carriera e' un continuo alternarsi tra dischi di matrice hard rock e dischi blues. Ormai vicino ai quarant'anni di carriera, Moore inizio' giovanissimo prestando, negli anni '70, il suo feeling chitarristico a gruppi come Skid Row (non quelli di Sebastian Bach ovviamente), Colosseum e Thin Lizzy (suono' in 'Black Rose', uno dei migliori dischi del gruppo irlandese).
Gli anni ottanta si apriranno ancora prestando i servigi ai G-FORCE per poi iniziare la sua carriera solista vera e propria."Wild Frontier", settimo disco solista, esce nel 1987 ad un anno dalla scomparsa del fraterno amico PHIL LYNOTT, morto un anno prima, inghiottito dalla droga. I due collaborarono gia' nel precedente disco di Moore 'Run For Cover' (1985) e avrebbero dovuto farlo anche in questo nuovo capitolo che invece sara' solo dedicato allo scomparso leader dei Lizzy.
'Wild Frontier' e' un disco ambizioso e sperimentale per Moore che cerca di unire Hard Rock e folk irlandese creando qualcosa di nuovo e fresco, se non fosse, il tutto, rovinato dalla moda imperante degli anni'80, di usare synth e batteria elettronica a coprire ogni buco libero delle canzoni. Insomma sarebbe stato un capolavoro del rock se solo fosse uscito un decennio prima, invece in alcuni punti rimane inghiottito in un vortice di suono pomposo che ne mina la tenuta negli anni. Fu lo stesso Moore a pentirsi pubblicamente per non aver usato un batterista in carne ed ossa. Ma se si passa sopra a questo incoveniente, ci rimangono almeno sei o sette canzoni da tramandare ai posteri.
I primi due pezzi sono l'esempio chiaro dell'intento di Moore. OVER THE HILLS AND FAR AWAY in apertura e' un pezzo epico in cui rock e folk vanno a braccetto grazie anche all'intervento di strumenti tradizionali folk suonati dai leggendari THE CHIEFTAINS, vere e proprie icone folk dell'Irlanda, paese a cui tutto in disco e' dedicato. WILD FRONTIER, e' la continuazione ideale della splendida "Military man", cantata da Lynott sul prcedente 'Run for Cover'. Anch'essa doveva essere cantata dallo scomparso cantante. Rimane comunque una delle migliori canzoni in assoluto di Moore con un testo che mette in risalto bellezze naturali e bruttezze della guerra in Irlanda.
TAKE A LITTLE TIME e' un hard rock dal chorus accattivante così come THUNDER RISING, veloce e diretta. Stupenda la strumentale THE LONER in cui Moore mette in pratica tutta la sua classe chitarristica. FRYDAY ON MY MIND e' una di quelle canzoni rovinate da synth e tastiere a cui accennavo prima, tanto da ricordare certe cose di Billy Idol dell'epoca (e' solo una mia sensazione). STRANGERS IN THE DARKNESS e' una semi ballad che riporta alla mente U2 e SIMPLE MINDS di quegli anni. Chiude l'atmosferica CRYING IN THE SHADOWS in cui Moore fa sfoggio anche della sua ottima voce.
Infine una menzione per NEIL CARTER che suona le tastiere e a BOB DAISLEY al basso. Alla batteria... ehm... perche' Moore ha rovinato un disco del genere??
La recensione compare in origine su Debaser:
http://www.debaser.it/recensionidb/ID_17252/Gary_Moore_Wild_Frontier.htm
mercoledì 2 febbraio 2011
RECENSIONE: MINISTRI Live Koko club, Castelletto Cervo(BI) 28/01/2011
Stasera nella set list, come giusto che sia, il protagonista è l'ultimo album, già dall'apertura affidata a Il sole(è importante che non ci sia) passando a canzoni che a pochi mesi dall'uscita del disco sembrano aver già trovato una loro collocazione tra i classici da concerto. Noi Fuori, Tutta roba nostra, Una questione politica, Due dita nel cuore, Gli Alberi dimostrano la straordinaria capacità del gruppo nello scrivere anthem di facile presa sul pubblico che però riescono ad inglobare al loro interno una certa forma di impegno e forza musicale. Un mix quasi perfetto che fa presa soprattutto sulle nuove generazioni, sempre alla ricerca di nuove guide spirituali.
lunedì 31 gennaio 2011
RECENSIONE: WANDA JACKSON (The party ain't over)
WANDA JACKSON The party ain't over (Nonesuch Records, 2011)
Che in questi anni del nuovo millennio e sono già undici, si stia cercando di riportare a galla personaggi pionieri del rock'n'roll anni '50 caduti in disuso penso sia un dato di fatto appurato. A partire dall'intuizione di mister Rubin che fece rinascere Cash consegnandolo in pasto alle nuove generazioni e facendogli guadagnare l'immortalità, ai duetti con le più grandi rockstar mondiali di Jerry Lee Lewis(bello Last man standing,un pò tirato per i capelli il recente Mean Old man). La ricetta è quanto di più semplice ci possa essere: prendi un settantenne dal grandioso passato rock, affidalo ad un buon produttore e fagli cantare classici e nuovi successi rivestendoli di suoni attuali ma non troppo.
Anche per Wanda Jackson, il tentativo ad opera di Jack White sembra funzionare. La Jackson fu senza dubbio la prima donna che rivaleggiò con i grandi ometti del rock'n'roll. La sua voce graffiante, la sua carica di ironia la fecero presto diventare un'icona del rockabilly. Dopo aver attraversato la popolarità degli anni sessanta, il buio dell'abisso dell'alcol nei settanta e aver ritrovato le forze anche attraverso la strada religiosa negli ottanta, a settantatre anni (classe 1937) accetta di buon grado la sfida lanciatagli da White(White Stripes ), già abituato a sortite del genere, vedi il disco con Loretta Lynn.
Registrato nella casa di Nashville di White, con musicisti a lui cari (membri di Raconteurs e My Morning Jacket hanno suonato nel disco), The party ain't over sprizza energia in barba a chi crede che i vecchi dinosauri del rock dovrebbero andare in pensione e lasciare il campo libero. Tutt'altro, di questi esempi, nell'era del successo facile e di durata effimera delle stelle contemporanee, bisognerebbe averne sempre.
La chitarra di White e la voce unica della Jackson sono protagoniste di queste undici canzoni. La chitarra di White sa accompagnare per ergersi a protagonista di volta in volta in assoli grezzi e al limite dell'hard. La voce della regina del Rockabilly sa essere carta vetrata in episodi rock come l'apertura affidata a Shakin' all Over di Johnny Kidd and the Pirates e nella trascinante Nervous Breakdown(Eddie Cochran), mentre riesce a mantenere una incredibile cadenza infantile e senza tempo nel pieno rock'n'roll di Rip it up(Little Richard) e nel country-gospel-soul di Dust on the bible. Quando poi ricevi il nullaosta da Bob Dylan a cantare una sua canzone, la recente Thunder on the Mountain(presente in Modern Times, 2006) che lo stesso Dylan sceglie e consiglia, Wanda Jackson ringrazia e interpreta, trasformandola in una ruspante ed energica versione rockabilly.
Il lavoro di White in produzione e negli arrangiamenti è superlativo soprattutto nell'inserimento dei fiati, presenti e il più delle volte protagonisti in tutte le canzoni e in special modo in episodi come le caraibica Rum and Coca Cola, nel country di Busted dove le trombe riescono a donare un tocco tex-mex, nel blues di Like a Baby e nel soul di You know i'm no good(Amy Winehouse).
Alla fine, i due protagonisti, si regalano una passerella con l'acustica, solo chitarra e voce, di Blue Yodel #6 di Jimmie Rodgers. Esperimento riuscito e piacevole che riporta alla ribalta una protagonista femminile fondamentale del rock, bravi tutti.
martedì 25 gennaio 2011
RECENSIONE: GREEN LIKE JULY(Four Legged Fortune)
Ci risiamo. Ancora una volta, dobbiamo fare i conti con la fuga di giovani talenti italiani all'estero. Già dalla copertina firmata da Olimpia Zagnoli, giovane artista di gran fama negli States. Questa volta però il risultano di tale trasmigrazione vedrà i propri frutti, almeno spero, anche in Italia. I Green Like July sono una band, nata nel 2003 nel basso lombardo-piemonte, che ha trovato, per un breve periodo di tempo, utile alla realizzazione del proprio secondo disco, habitat naturale ad Omaha nello stato del Nebraska. Da buoni ospiti in terra straniera sono riusciti a far loro, con alcune correzioni geografiche, il vecchio detto "quando sei a Roma, la miglior cosa è vivere come i romani" . Essendo i Green Like July una band di folk-rock già avviata, hanno fatto di più, sono riusciti a coinvolgere i musicisti americani al loro progetto e che musicisti, Mike Mogis dei Bright Eyes e Monster of Folk(uno dei tanti supergruppi creati da Conor Oberst) e Jake Bellows dei Neva Dinova tra gli altri, riuscendo a registrare un disco in grado di tener passo, senza nessun problema, ai grandi nomi del genere.
Se nomi e cognomi dei componenti non tradissero la loro italianità, sfiderei chiunque ad individuare la vera provenienza della band.
Il folk rock prodotto da Andrea Poggio, Nicola Crivelli e Paolo Merlini si avvale comunque di un'esperienza costruita in anni di lavoro che hanno portato all'uscita di due mini ep e di un debutto May this winter Freeze my heart uscito nel 2005. Dopo una breve esperienza di alcuni di loro, sempre fuori dall'Italia, a Glasgow per la precisione, è capitata la grande occasione di poter registrare in America nei prestigiosi Arc studios con la produzione di A.J. Mogis (già produttore di The Faint e Bright Eyes tra i tanti).
Quello che ne è uscito, è un disco di nove canzoni dal carattere fresco ed omogeneo, maturo, dove l'amore per i suoni della tradizione americana riesce a convivere con la modernità di alcune scelte care all'alternative -folk e melodie che a volte sembrano rivelare anche un forte amore per il pop-folk di matrice anglosassone. Dalla corale Hardly Thelma, da cui sembra trasparire tutta la devozione verso il passato di gruppi come The Band a ballate fortemente evocative come Jackson, guidata dalle pedal steel o la bella e narrante Better man. Un hammond che richiama i fantasmi del primo Dylan elettrico nella iniziale Flying Scud e l'atmosferica nostalgia evocata da Nothing is forever. Canzoni che pur richiamando grandi nomi dell'odierna scena, riescono a mantenere un piede nella tradizione, tramutandosi in una originalità intrisa di calda malinconia emotiva che ha pochi paragoni almeno in Italia. Batteria, basso, chitarra e piano per costruire canzoni semplici ma di una concretezza già di valore assoluto. Dalle note delle canzoni e dalla bella voce traspare tutta la passione di un gruppo motivato e con pochi dubbi sulla strada giusta da percorrere, anche se porta in terre apparentemente lontane come il Nebraska.
TRACKLIST:
Flying scud
No light will shine on me
Jackson
Wai is worth after all
A better man
Hardly Thelma
Nothing is forever
A perfect match
St. John of the cross
INTERVISTA su ImpattoSonoro.it
venerdì 21 gennaio 2011
RECENSIONI: SAHG (III),SOCIAL DISTORTION(Hard Times...), THE DECEMBERISTS(The king is dead)
Questo disco, uscito nella tarda estate del 2010, mi era sfuggito, ma visto l'enorme potenziale in suo possesso, si candida, in ritardo, a rientrare nella classifica delle più piacevoli uscite dell'anno appena trascorso in campo doom/hard rock. I norvegesi guidati dall'ugola di Olav Iversen,un perfetto mix tra Ozzy Osbourne e un buon cantante di hard rock settantiano, arrivano al terzo disco e sbancano con una prova fresca ed agile, forse meno fumosa dei due precedenti lavori ma con un occhio all 'hard di annata con organo hammond a fare la sua comparsa senza essere troppo invasivo e disburbante nei confronti dei massicci riff chitarristici. Si potrebbe partire dal fondo e dalla più cadenzata e doom del lotto, Spiritual Void, una lenta e psichedelica discesa nell'oscurità degna dei migliori nomi del genere. Un salto nelle paludi hard/stoner con la cavalcata Mortify e la più cadenzata Hollow Mountain che non dispiacerebbero affatto a Zakk Wylde. Anche se alla fine il metro di paragone più calzante rimangono i maestri Black Sabbath (e gli adepti più famosi, passando da Trouble, Saint Vitus e Cathedral), i cui germi si possono trovare in tutte le altre composizioni dalla più heavy e "moderna" Mother's Revenge, alla più sulfuree Shadow monunent e Hollow Mountain.
SOCIAL DISTORTION Hard times and nursery rhymes(Epitaph,2011)
RECENSIONE COMPLETA: http://www.impattosonoro.it/2011/01/24/recensioni/social-distortion-hard-times-and-nursery-rhymes/
THE DECEMBERISTS The King is Dead (Rough Trade, 2011)
La voglia di semplicità porta il gruppo al ritorno verso suoni e testi lontani dalla complessa architettura che costruiva il loro precedente The Hazards of love . Là dove vi era un concept di base (anche piuttosto lungo ed arzigogolato) ed un suono che spesso toccava l'hard progressive degli anni settanta, questa volta le dieci canzoni che compongono The king is dead ricercano la semplicità di suoni folk e country. Nelle nuove composizioni scritte da Colin Meloy viene a galla tutto l'animo americano del gruppo. Ospiti illustri sono Peter Buck dei REM che lascia l'impronta del gruppo di Atlanta in tre canzoni (Calamity song ne è un esempio significativo), mentre la cantante Gillian Welch impresta la sua ugola che diventa protagonista in quasi tutto il disco. Tra i richiami alla tradizione irlandese contenuti dentro a Rox in the box, l'honk tonk country di All arise!, le velate malinconie folk di January Hymn e della finale Dear Avery, l'andamento ciondolante dell'iniziale Don't carry it all( una "Out on the weekend" dei giorni nostri), i richiami a Dylan di June Hymn vi è un universo rurale che sembra fatto di ampie vallate verdi, incontaminati boschi ed una serenità e pacatezza che danno tanta rassicurazione.