domenica 18 giugno 2023

RECENSIONE: JOHN MELLENCAMP (Orpheus Descending)

 

JOHN MELLENCAMP  Orpheus Descending (Republic Records / Universal Music, 2023)



un'altra sigaretta

Autodichiarandosi un eterno outsider in una recente intervista  John Mellencamp continua a smarcarsi da un certo mainstream e sembra prolungare all'infinito la sua corsa ai margini. Lo fa con un nuovo disco che esce a poco più di un anno dal precedente Strictly A One-Eyed Jack che vedeva l'amico Bruce Springsteen presente in tre canzoni. 

La voce porta con sé tutti i segni del tempo e delle tante sigarette fumate ("ho iniziato a dieci anni" dice) ma forse sta proprio lì anche in quella voce catramosa che da ancora più peso alle storie il segreto di una longevità artistica livellata nei piani alti del rock americano con veramente poche cadute di stile in carriera.

Ma mentre l'amico del New Jersey in questo periodo della sua vita sembra concentrato su se stesso mettendo a nudo tutta la fragilità degli anni che passano, John Mellencamp (71, due anni in meno) a suo modo continua a gettare l'occhio fuori dalla finestra di casa e dal finestrino dell'automobile anche se non mancano canzoni intimiste e autoconfessionali come la finale 'Backbone' dove canta " così cercherò di essere migliore con il tempo che mi rimane" e quella spina dorsale sembra far riferimento all'operazione alla spina bifida con il quale è nato e alla delicata operazione a cui è stato sottoposto da bambino, erano in quattro con quel problema, tre sono morti, lui è ancora qui "sono il ragazzo più fortunato del mondo" ha detto.

Quel che vede  lo piazza subito a inizio disco con un uno-due micidiale: 'Hey God', un folk blues con una bella slide National (presente spesso nell'album e quasi protagonista) che si concentra sulle tante stragi avvenute nelle scuole americane per mano di armi da fuoco mentre in  'The Eyes Of Portland' si ricorda dei tanti figli dimenticati della sua terra costretti a un'esistenza da senzatetto.

Un disco prevalentemente acustico, dai tonicupi e grevi di belle chitarre, violino e ricami d'Hammond: in 'The So-Called Free' fa capolino una certa disillusione in lontananza, in 'The Kindness Of Lovers' dove il teso violino di Lisa Germano, un bel ritorno in un disco che richiama le atmosfere di Big Daddy) ricama su un dialogo tra amanti mentre dio  interviene a dire la sua: "mettere l'opinione di un uomo contro quella di un altro è solo uno scherzo, E guarda il casino che avete combinato qui. Un giorno ho paura che perderai la speranza".

Se dopo una vita passata a fare quello che hanno deciso altri hai un asso nella manica giocalo all'ultimo suggerisce in 'One More Trick', così  come in 'Lightning And Luck'  canta "quindi usa quello che hai, per ottenere quello che vuoi" cercando di dare speranza perché un mondo perfetto da qualche parte esiste ancora ('Perfect World').

Tre canzoni sembrano smarcarsi musicalmente  dal resto del disco: 'Amen', un esercizio waitsiano al pianoforte, con la presenza di una delle poche chitarre elettriche, dove con velata rassegnazione ha veramente poco da dire: "puoi dare la colpa al tempo, O semplicemente al giorno, I tempi difficili sono qui per restare...Amen è tutto ciò che abbiamo da dire", e 'Orpheus Descending' un latin funky che sembra uscito dalla penna di Stephen Stills e dove si scappa in cerca di salvezza, sarà troppo tardi o siamo ancora in tempo? "L' oscurità ci ha trovato, con il sangue fino alle nostre ginocchia".

"Il giorno del giudizio" segna anche le liriche di 'Understand Reverence' altro numero alla Tom Waits, solo pianoforte e violino, atmosfere notturne che la elevano tra i picchi di un disco, personale ma sociale, registrato e prodotto da lui stesso nel suo Belmont Mall Studio nell'Indiana con l'aiuto dei fidati Andy York, Lisa Germano, Dan Clark, Troye Kinnett.

Pochi, veramente pochi come lui: una integrità artistica da invidiare e insegnare.





domenica 11 giugno 2023

RECENSIONE: BEN HARPER (Wide Open Light)

BEN HARPER  Wide Open Light (Chrysalis Records, 2023)



pensieri in solitaria

Era un bel disco Bloodline Maintenance, quasi ostico, tanto personale (dedicato al padre e alla ancora fresca ferita per la perdita dell'amico Juan Nelson) quanto combattivo in alcune stoccate inflitte alla politica USA. A un solo anno di distanza, a confermare un'ispirazione alta e prolifica , Ben Harper ne confeziona un fratello per certi versi ancora più sorprendente. Un fratello completamente acustico, spogliato di quasi tutti gli strumenti presenti nel precedente: ci rimangono Ben Harper uomo, le sue storie molto intime e personali raccolte nel tempo e legate l'una con l'altra, una chitarra acustica, qualche amico ospite (Jack Johnson in 'Yard Sale', Piers Faccini a ricamare di chitarra nella title track, Shelby Lynne ai cori in '8 Minutes') e due strumentali ('Heart And Crown' e 'Thank You Pat Brayer') ad aprire e chiudere il discorso.

Folk ridotto all'essenziale con una lap steel protagonista a rievocare quei fantasmi che ci accompagnano per tutta la vita, in  'Giving Ghosts', registrata live in Australia, dove canta "ogni giorno assomiglio un po' di più a mio padre e ogni giorno assomiglio meno a me", acquerelli soffici come un abbraccio che invitano a vivere il presente ( 'Masterpiece' cantata con una sensibilità cara a Cat Stevens). 

Wide Open Light cammina con delicatezza sui generi, ci parla di amore in 'Love After Love' (canzone più ricca di strumenti) dove l'amore è  visto "come l'ultima risorsa rinnovabile" ma anche di abbandoni (in 'Yard Sale' si chiede se è troppo tardi per il "sesso d'addio"), del tempo come prezioso alleato (il valzer folkie che sfocia nel gospel 'One More Change'), sembra pure citare Bob Dylan periodo New Morning in 'Growing Growing Gone', e poi ci sorprende con una jazzata 'Trying Not To Fall In Love With You' condotta in solitaria al pianoforte, canzone folle da piano a tarda notte quando i freni inibitori sono completamente fuori uso, tra Tom Waits e Randy Newman. 

Un riflessivo ritorno alla semplicità  delle origini, un dialogo soffuso e intimo con se stessi, : "c'è stato un tempo in cui gli album non avevano bisogno di una storia o di una favola. Quando bastavano le canzoni". E qui dentro di canzoni ce ne sono di buone. 





sabato 3 giugno 2023

RECENSIONE: RIVAL SONS (Darkfighter)

RIVAL SONS  Darkfighter (A Low Country Sound/Atlantic, 2023)



conferme, senza bisogno

Tra le tante band devote all'hard rock revival dei seventies apparse sulla scena negli ultimi quindici anni i californiani Rival Sons non li ho mai messi in discussione. Li ho adottati fin dal primo disco e ora che sono arrivati al traguardo del settimo posso dire con tutta tranquillità che non hanno mai sbagliato un colpo. La conferma mi era già arrivata durante un loro concerto, uno degli ultimi visti prima che il lockdown chiudesse le porte in faccia a tutti  per un po'. Ma è proprio la pandemia ad aver dato lo spunto al tema che lega le nuove otto tracce di questo Darkfighter. Perché per quanto oggi ci sembrino lontani, quei giorni continuano a lasciare strascichi, ricordi e purtroppo anche malanni ben camuffati.

"Getta un'ombra, parla di tutta la divisione che abbiamo attraversato negli ultimi anni, è emozionante, molto personale" hanno raccontato del disco.

Un disco dalla tematiche scure legate all'isolamento che anticipa di pochi mesi una seconda uscita dall'umore più disteso e positivo: si intitolerà Lightbringer.

Ecco cosa ha detto recentemente il chitarrista Scott Holiday in un' intervista:" ci piace fare album, non singoli, e penso che questo ci renda un po' diversi – nel genere in cui ci troviamo, siamo una delle poche band che vogliono fare album. È il modo della vecchia scuola. Metti il ​​disco, siediti, prendi il vinile, sali sulla giostra. Al giorno d'oggi è troppo facile scegliere semplicemente le canzoni e inserirle in una playlist".

Il pregio che distingue i Rival Sons da tanti altri gruppi che indirizzano lo sguardo al passato è la capacità di tenere l'altro piede nel presente con piccole ma importanti impronte e arrangiamenti perfetti, basti ascoltare l'iniziale 'Mirrors', un concentrato di vecchio blues nero, Led Zeppelin e Free ma con il timbro 2023 impresso sopra.

Prodotto ancora una volta da Dave Cobb, Darkfighter presenta una freschezza tutto sommato invariata rispetto agli altri dischi: 'Nobody Wants To Die', la più rock’n’roll in scaletta, ha tutte le caratteristiche di quei brani epici capaci di cavalcare le epoche. E il bel video che la accompagna fa il resto.

Jay Buchanan poi è uno di quei cantanti che non ha troppo bisogno di sforzarsi per arrivare là dove i grandi vocalist degli anni settanta arrivavano. Non scimmiotta nessun ed è carismatico il giusto per lasciare sempre un segno del suo passaggio così come la chitarra di Scott Holiday che si destreggia tra hard, blues e acustica, moderno e passato.

Se 'Bird In The Hand' si distingue e pare più di un omaggio ai Queens Of The Stone Age con i quali hanno condiviso il palco in passato, con quel riff circolare che pare uscire dalla chitarra di Josh Homme e 'Bright Light' è un lampo di freschezza da sterminati spazi aperti, quello che si nota maggiormente nelle restanti canzoni è quella voglia di costruire composizioni cangianti ('Rapture', 'Guillotine', 'Horses Breath', 'Darkside') dove elettricità e acustico, scosse e calma apparente si susseguono creando crescendo emozionali che sanno tenerti incollato al disco almeno fino all'uscita quasi imminente del prossimo. Una grande band.





domenica 28 maggio 2023

RECENSIONE: THE COLD STARES (Voices)

THE COLD STARES  Voices (Mascot Records, 2023)



sopra ogni ostacolo

Abbandonata per strada la pesantezza che aveva  segnato il precedente Heavy Shoes (2021), la band dell'Indiana si catapulta in una nuova avventura musicale con rinnovato entusiasmo, una nuova formazione a tre e un suono a tratti più melodico e morbido ma sempre coerente con la loro storia lunga sei album. Ciò che rendeva "pesante" la vita del cantante e chitarrista Chris Tapp sembra lasciato alle spalle una volta per tutte: se non bastava la difficile infanzia che segnò i primi duri anni di vita, Tapp ha recentemente vinto la sua lotta con un tumore che invece ne ha minato gli ultimi anni anche se ispirato i testi.

"Una volta che hai vissuto l'esperienza di guardare la morte, sai che il tappeto può essere strappato da sotto i tuoi piedi in qualsiasi momento. Inizi davvero a trattare ogni spettacolo come se potesse essere l'ultimo" ha raccontato recentemente. Voices vede l'entrata in formazione del bassista Bryce Klueh che si va così  unire ai veterani Tapp e Brian Mullins (batterista) dando al suono più profondità, meno spigolosità heavy e una maggiore ricerca melodica  nonostante i temi affrontati oscillino sempre tra i lati della vita meno baciati dal sole.

Se l'hard blues iniziale 'Nothing But The Blues', la "fuzzosa" 'Voices', il funky di 'Light Out', le influenze hendrixiane che segnano canzoni come 'It's Heavy' e 'Come For Me', l'amore per i Cream dichiarato in  'Got No Right', li tengano ancora uniti al passato, le aperture melodiche di 'The Joy', della notturna 'Sorry I Was Late', dell'acustica 'The Ghost', della psichedelica 'Sinnerman' e della scura 'Waiting On The Rain', tratteggiano nuove strade che rendono la loro proposta più varia e meno monolitica. Registrato in due soli giorni con il produttore Mark Needhan per preservare tutta l'autenticità riversata sopra ai palchi durante i live, i Cold Stares rimangono una delle realtà hard blues più convincenti dell'attuale panorama musicale. Senza fronzoli, senza alzare troppo la voce ma con tanto sudore, dedizione e vita da raccontare. Fino a ieri erano un duo che aveva il suono e l'attitudine dei migliori power trio, da oggi lo sono a tutti gli effetti.





domenica 21 maggio 2023

RECENSIONE: GRAHAM NASH (Now)

GRAHAM NASH  Now (BMG, 2023)


vivete! Ora!

Leggendo l'autobiografia Wild Tales di Graham Nash uscita qualche anno fa, due personaggi, musicisti e amici occupano tante pagine: uno è David Crosby naturalmente, l'altro è Allan Clarke, primo compagno di banco alla Ordsall Board Secondary Modern a Manchester, primo amico di  ascolti musicali, primo compagno di band negli Hollies. "Un giorno, a scuola, la mia vita musicale cambiò per sempre" scrive Nash. La musica la scoprirono insieme, in diretta, giorno dopo giorno con i dischi di Elvis, Gene Vincent, i Crickets, Everly Brothers, Buddy Holly. Insieme, appena quindicenni, videro pure il primo concerto rock'n'roll, Bill Haley all'Odeon Theatre di Manchester nel Febbraio del 1957. 

E insieme li ritroviamo oggi, in una canzone nel nuovo disco di Graham Nash, uscito a distanza di sette anni dal precedente This Path Tonight che ne sanciva una nuova rinascita dopo la separazione dalla moglie Susan Sennett (38 gli anni di matrimonio) e l'incontro con la nuova e giovane fiamma Amy Grantham. 'Buddy's Back' ritorna indietro ai tempi delle prime scoperte musicali nel testo e guarda agli Hollies nella musica. E la collaborazione tra i due è proseguita nel nuovo album solista di Clarke (I'll Never Forget) dove Nash ha lasciato la sua impronta in molti brani.

"Siamo amici da quando avevamo 6 anni. Allan ha perso la voce e dopo un po' ha dovuto lasciare gli Hollies. L'ha recuperato e mi ha chiamato un giorno di recente e ha detto: 'ho trovato la mia voce. Voglio fare questo disco da solista' "  e l'hanno fatto.

È un bel disco Now. Un concentrato di carriera tra passato e presente,  privato e pubblico, di ballate e qualche scatto rock. Nash ha tagliato il traguardo degli 81 anni ma mantiene l'aria giovanile e lo sguardo disincantato ma sempre maturo che negli anni d'oro gli hanno permesso di fare da collante tra le varie personalità degli artisti con i quali ha condiviso tempo, musica, sogni e utopie. Su 'I Watched It All Come Down', composizione segnata dalla presenza degli archi, pare guardare proprio agli anni trascorsi con David Crosby, Stephen Stills e Neil Young.

"Credo sia l'album più personale mai realizzato prima d'ora. A questo punto della mia vita, ho qualcosa da dire" ha lasciato detto presentando il disco. E gli si può credere ascoltando canzoni come la confessionale 'Right Now' che apre il disco ("sto vivendo la mia vita, ora" canta), o l'amore cantato in 'Love Of Mine', delicato canto per armonica e Wurlitzer suonato dal fidato Todd Caldwell anche co produttore del disco insieme a Nash, 'In A Dream' composizione arrangiata per archi, 'It Feels Like Home' ballata chitarra e armonica che inevitabilmente rimanda a 'Our House', nella delicata 'Follow Your Heart' e in 'When It Comes To You'. In 'A Better Life' sembra riprendere un classico tema che non ha mai abbandonato. Che mondo lasceremo alle future generazioni?

Ma se Nash non hai smesso di amare non ha nemmeno mai smesso di lottare, di guardare il mondo che lo circonda, osservarne le stranezze e le incongruenze. Là dove c'erano canzoni come 'Chicago' e 'Military Madness', oggi ci sono canzoni come la graffiante 'Stand Up', un inno di resistenza con le chitarre di Shane Fontayne in bella evidenza, 'Golden Idols' e 'Stars and Stripes', travestita come una carezzevole ballata ma dichiaratamente contro Donald Trump e il suo slogan Maga. 

Ascoltando il disco vengono in superficie numerosi e inevitabili rimandi a dischi come Songs For Beginners e Wild Tales, a volte voluti, anche casuali ma che sembrano, cinquant'anni dopo, confermare quanto Graham Nash non ci abbia mai fregato ma piuttosto insegnato che si può arrivare al punto anche senza alzare mai la voce, facendo buon uso di raffinatezza e gentilezza. "Voleva cambiare il mondo", qualcosa gli è riuscito, qualcosa no e questo disco ne è la testimonianza più diretta. 

Ha vissuto una vita intensa Nash tra musica, arte e fotografia e oggi a 81 anni non sembra aver perso nulla rispetto a quel ragazzo inglese che nel 1966 lasciò i grigi sobborghi di Manchester per volare a L.A. e scrivere un pezzo di storia della musica americana ancora lontana dalla parola "fine". 

Perché  sta vivendo ancora la sua vita, ora! E il monito sembra proprio quello: vivete giorno dopo giorno, anche a 80 anni ci sono cose belle da raccontare.





sabato 13 maggio 2023

LUCIO CORSI live@Hiroshima Mon Amour, Torino, 12 Maggio 2023


 

Sembra quasi che lo strabordante talento di Lucio Corsi fatichi a rimanere dentro al suo esile corpo. E infatti evade, sprizza, dilaga e permea tutto ciò che trova sulla propria strada,  volando alto su settant'anni di rock&roll e poco importa chi ci sia tra il suo pubblico plurigenerazionale, composto da ragazzine adoranti in prima fila, famiglie con bambini al seguito, cinquantenni come me e personaggi ben più vecchi di me.

E io fatico a ricordare un artista musicalmente così completo in Italia, in grado di unire con freschezza il glam rock inglese di David Bowie, Sweet, Slade e l'amato Marc Bolan (stasera in scaletta '20th Century Boy'  e 'Children Of Revolution' dei T.Rex), il folk americano ridotto ad armonica e chitarra (caspita se c'è pure tanta Rolling Thunder Revue di Dylan in quella faccia pittata di bianco e nel chaos che combina nel palco), il cantautorato  sofisticato del suo amato Randy Newman di cui propone le versioni italiane pianoforte e voce  di 'You've Got A Friend In Me' (via Riccardo Cocciante) e 'Short People', e il classico cantautorato italiano "i miei cantautori preferiti sono Lucio Dalla, Paolo Conte, Ivan Graziani ecco però stasera faccio Lucio Battisti" e parte con una versione di 'Ho un Anno in Più' piena di chitarre e lustrini.


Lucio Corsi è musicalmente colto, preparato, curioso, sparge indizi in ogni piega del suo spettacolo di due ore e dieci minuti: ecco partirgli 'Il Chitarrista' di Ivan Graziani mentre accorda la chitarra, 'Maremma Amara' (canto popolare spesso ripreso anche da Gianna Nannini) dedicata alle sue terre, ad un certo punto parlando tira fuori pure i Grateful Dead...

Con la sua band suona dai tempi del liceo, sono affiatatissimi, tutti giovani e belli e sembrano appena usciti da una serata al Marquee Club di Londra, annata 1973 però.

Lucio non si risparmia, si muove, suda, si ferma, riparte, chiacchera e cerca la fuga da questo mondo con i suoi testi poetici, naif, sognanti, surreali e ironici ma con i piedi sempre sulla strada davanti, alternando in continuazione le sue due personalità musicali, quella da rocker (tre chitarre sul palco e si sentono) e quella da folker intimo e  solitario. Tutto con naturalezza innata.

Ma lo fa con profonda umiltà e devozione, consapevole della tanta strada che ancora lo attende, e per questo si porta anche avanti presentando due canzoni che finiranno nel suo prossimo disco ('Francis Delacroix'), "che uscirà tra quattro, cinque...sei anni" dice. "Facciamo due" grida qualcuno. Ok.

Naturalmente i suoi dischi precedenti sono saccheggiati a dovere, da Bestiario Musicale ('La Lepre',  'Il Lupo' "devo leggere il testo perché non ricordo mai le parole"), Cosa Faremo Da Grandi ('Trieste', la finale 'Freccia Bianca', 'La Ragazza Trasparente') e quelli del freschissimo La Gente Che Sogna sembrano già diventati dei piccoli classici da cantare ('Radio Mayday', 'Astronave Giradisco', 'Magia Nera', 'Glam Party',  'Un Altro Mondo', 'La Bocca Della Verità' presente due volte in apertura e nel finale). 




Musicista, scrittore, intrattenitore e performer d'altri tempi atterrato non si sa bene e come qua in Italia tra la Maremma e Milano. In giorni in cui non si fa altro che parlare della longevità artistica di Bruce Springsteen, ieri sera guardando Lucio Corsi mi sono venute spesso in mente le parole scritte da Jon Landau nel 1974 dopo aver visto Springsteen in concerto. Ho immaginato che tutti i presenti questa sera davanti a Lucio Corsi (finalmente qualcuno che usa nome e cognome e non un nome d'arte ad minchiam) sarebbero liberi di pronunciare " ho visto il futuro del rock’n’roll... " e nessuno potrebbe obiettare loro nulla. Di strada davanti ne ha tanta, di talento molto di più.





domenica 7 maggio 2023

RECENSIONE: COUNTRY WESTERNS (Forgive The City)

 

COUNTRY WESTERNS  Forgive The City (Fat Possum Records, 2023)



conferme

Nati a Nashville nel 2016, dall' incontro tra il cantante e chitarrista Joseph Plunket dei The Weight che nella città del country ci era andato per aprire un bar e il batterista ma anche attore Brian Kotzur con un passato nei Silver Jews, i Country Westerns, mai nome fu più ingannevole per capire cosa suonino, furono l'ultima scommessa di David Berman che intuendone le grandi potenzialità li spedì a New York sotto la visione del produttore Matt Sweeney per registrare il loro album d'esordio: uno dei migliori dischi usciti nell'annata 2020, un disco che fece incetta di premi e riconoscimenti.

Berman si suicidò nell'agosto del 2019 e non riuscì mai a vedere i tanti consensi rivolti ai suoi pupilli che adottando un suono minimale ereditato dal punk rock seppero attaccarci sopra le cose migliori della scena alternativa americana degli anni ottanta e novanta. Non è stato difficile rintracciare nella loro musica pezzi di Crazy Horse, Replacements, Green On Red, Dream Syndicate, Drive By Truckers, the Bottle Rockets, Son Volt, Old 97's, Lucero.

Ora, a tre anni da quell'esordio escono con il secondo disco, come sempre importante per saggiarne la salute e capirne le mosse, presenti e future.

Svanito il fattore sorpresa, i Country Westerns mantengono l'urgenza comunicativa, sparando dodici pezzi in poco più di mezz'ora. Con l'aiuto del confermato produttore Matt Sweeney anche chitarra solista in tre brani e con il basso di Jessica Wilkes (anche se il nuovo bassista è Jordan Jones), i Country Westerns guidati dalla voce roca di Plunket e dai suoi testi pregni di vita vissuta sulla propria pelle ('Country Westerns' è il suo manifesto, 'It's A Livin' "un incoraggiamento per coloro che devono andare avanti" che pare uscita da un cocktail alcolico ben shakerato tra Byrds e Television) si lanciano in canzoni d'assalto come l'iniziale 'Knucklen', la diretta  'Grapefruit' con le sue chitarre importanti, la rutilante e rock'n'roll 'Cussin' Christians', la scura 'Hell', anche se in questo secondo disco la furia è più addomesticata dando origine a canzoni come 'Speaking ill Of The Blues' ("la canzone più rilassante del disco" dice Plunket), la più orecchiabile e pop 'Wait For It', e che si avvicinano spesso al grande cantautorato rock americano e 'Something Goes Wrong' potrebbe uscire dalla penna di John Mellencamp.

Un disco di continuità, con una velata voglia di crescere, nella loro ancor breve carriera e i continuità con un certo tipo di american music che vuole avere ancor un peso ma tenersi lontana  dal mainstream imperante.







giovedì 4 maggio 2023

RECENSIONE: LUCIO CORSI (La Gente Che Sogna)

LUCIO CORSI  La Gente Che Sogna (Piccica Dischi/Sugar, 2023)



l'ultimo alieno

Anni fa quando  volevo sentirmi meno anziano di quello che già ero (ora lo sono certamente) abbassavo il volume di quel vecchio disco di  Bob Dylan and The Band che stava girando, prendevo il cellulare e mi mettevo ad ascoltare le nuove tendenze musicali e gli artisti in voga tra i giovani e i giovanissimi. Così a caso. Finiva spesso che l'ascolto della canzone non durasse più di trenta secondi. Avanti un altro. Sì sono vecchio! 

In un'epoca in cui gran parte di ciò che gira intorno alla giovane musica italiana sembra già essere omologato e pure un po' ripetitivo, ben venga allora un giovane, che poi ha trent'anni anche se fisicamente ne dimostra sedici, come LUCIO CORSI, cantautore toscano, figlio un artigiano, dal modo di pensare "antico" quanto me, pure di più, naïf, così distante da talent show, trap e cantautorato indie da sembrare un alieno degli anni settanta capitato per caso nei duemila. Capita così che oggi, per essere  alternativo all'alternativa bisogna rivangare nel passato. E lui lo fa molto bene. In casa Corsi hanno girato buoni dischi, lo si capisce subito. Dice di amare Randy Newman, il glam rock, Marc Bolan, Electric Light Orchestra e Paolo Conte. Io ci sento pure Ivan Graziani. Ah pure lui lo ama e lo ringrazia nei credit. Il suo sogno nel cassetto (irrealizzabile)  sarebbe suonare con The Band. The Band. Capito? 

Ama gli animali (tanto da dedicare loro tutte le canzoni del suo primo disco), la natura, la campagna, l'arte visiva (i suoi video sono dei piccoli corti). Le sue canzoni sono ironiche, piene di colori, avventurose, visionarie e sfuggenti quasi come il vecchio prog che intasava le classifiche italiane negli anni settanta. È uscito ora il suo quarto disco La Gente Che Sogna, scritto tra la Maremma e Milano, in copertina un dipinto della madre ed è composto da nove canzoni e "1425 parole" come ama precisare lui. 

Un viaggio, un sogno, un desiderio che si muove  tra terra e cielo, tra fantasia e realtà, tra onde radiofoniche provenienti dallo spazio ('Radio Mayday'), 'Astronavi Giradisco', irresistibili boogie rock tra Marc Bolan e Rocky Horror Picture Show, ballate che crescono sulle note di archi ('Orme). Ballate sui tasti di un pianoforte ('La Gente Che Sogna'), pop swing elettrici che riportano alla mente Faust'O e il primo Renato Zero ('La Bocca Della Verità), rock'n'roll con un riff sentito mille volte ma che possiede  quella grandeur da E Street Band che accompagna Meat Loaf.

"Basta credere agli occhi, anche quando si chiudono" canta nella finale 'Un Altro Mondo' con quella chitarra così seventies che più seventies non si può.

Ecco, ora ho solo un interrogativo: è meglio che Lucio Corsi rimanga così, puro e innocente per le orecchie di pochi o sarebbe meglio augurargli tutto il successo di questo mondo perché se lo merita? Con eventuali posdibili conseguenze che conosciamo.

Intanto gli auguro di continuare a suonare con questa leggerezza dove cantautorato e glam rock volano nel cielo che è una meraviglia.







venerdì 28 aprile 2023

RECENSIONE: THE DUCKS (High Flyin')

THE DUCKS  High Flyin' (Shakey Pictures Records, 1977/2023)




Neil Young e quella calda estate del 1977 a Santa Cruz

Venghino signore e signori, per soli tre dollari possono vedere la più calda garage band dell'estate californiana. E che sorpresa quando entrando nel bar che esponeva il manifesto,  sopra al palco, alla chitarra, ci trovavi un Neil Young trentunenne, appena uscito sul mercato con il più defilato American Stars 'N Bars ma già una leggenda grazie a Buffalo Springfield, CSN&Y, album come After The Goldrush, Harvest, la ditch trilogy. Con tre dollari oggi ci prenderemmo giusto due caffè per tenerci svegli e superare la nottata. Perché quelle notti erano spesso davvero lunghe, pubblicizzate di bocca in bocca, con la presenza di Neil Young in formazione tenuta segreta. L'unico indizio della presenza del gruppo dentro a un locale era dato dalla presenza di una Duckmobile parcheggiata fuori. 

Quella band che sopra al palco visse una sola estate, quella del 1977, si chiamava The Ducks (nel suo libro Special Deluxe Neil Young dedica tre divertenti pagine a quei giorni) e oltre ad avere Neil Young alla chitarra e voce era composta da Bob Mosley (basso e voce) membro dei Moby Grape, Jeff Blackburn (chitarra e voce) già nei suoi Blackburn & Snow e che in seguito diventerà famoso per aver collaborato alla stesura di 'My My Hey Hey (Out of the Blue)' e Johnny Craviotto (batteria), un surfer scavezzacollo, piccola leggenda di Santa Cruz che aveva suonato per Ry Cooder, Captain Beefheart e Arlo Guthrie.

Neil Young si trasferì a Santa Cruz in cerca di tranquillità lontano dallo star system, trovò sollievo suonando la chitarra, defilato e dividendo democraticamente la leadership con gli altri componenti. Uno dei tanti.

"Sto iniziando a ritrovare quella certa sensazione di suonare la mia musica", disse Young a Coyro per una intervista pubblicata su Good Times “in questo momento siamo in un posto dove siamo puri... è come rinascere. Siamo giovani e abbiamo bisogno della sicurezza di una piccola città in cui crescere. Siamo autosufficienti in questo momento, ma forse quando diventeremo più grandi, potremmo andare avanti... le possibilità ci sono. Ma in questo momento, i Ducks si stanno solo sviluppando e io sono solo uno dei Ducks".

Come però sappiamo tutto terminò finita l'estate quando le comparsate a sorpresa non erano più tali e la voce iniziò a girare: era chiaro che l'attrazione principale fosse Neil Young.


La breve avventura dei Ducks iniziò invece quasi per gioco dopo un concerto per festeggiare il compleanno di Jerry Miller dei Moby Grape.

La cosa piacque talmente tanto che proseguì per circa due mesi dal 15 Luglio al 2 Settembre del 1977 a volte anche con due set a serata in locali chiamati Back Room, Crossroads Club, The Catalyst, Veterans Auditorium, The Steamship fino al loro spettacolo finale al Civic Auditorium. Tutti nell'area di Santa Cruz.

Durante i concerti Neil Young, Blackburn e Mosley si dividevano voce principale e canzoni, tutte le inedite arrivano dalla penna di Blackburn e Mosley.

Di Neil Young sono state scelte una urgente versione di 'Mr. Soul', 'Are You Ready For The Country', 'Little Wing',  'Human Highway' e una allora nuova 'Sail Away' ancora inedita e che uscirà su Rust Never Sleeps.

L'alchimia tra i componenti  funzionava e ascoltando le venticinque canzoni scelte tra le tante suonate si percepisce. Serpeggiano divertimento e svago, voglia di suonare, lasciarsi andare senza steccati ne regole.

Facile così passare dal country rock di 'I Am A Dreamer' al funky di 'Gypsy Wedding' dei Moby Grape, dal blues di 'My My My (Poor Man)' al country folk di 'Hold On Boys', dal R&B al country folk di 'I'm Tore Down', la psichedelica 'Sailor Man', il southern rock di 'Silver Wings' e  'Truckin Man', il garage rock 'Bone Dead Train', la ballata 'Leaving Us Now'.

Ci sono le chitarre tese di 'Your Love', il rock’n’roll di Fats Domino ('I'M Ready'), la tambureggiante 'Honky Tonk Man', la strumentale 'Windward Passage' condotta sulle stesse strade calpestate dai Crazy Horse.

Per anni le registrazioni sono girate nei bootleg, ora dagli archivi di Neil Young escono queste registrazioni prese da più serate  che rendono giustizia a quelle settimane di spasso, gioia e divertimento.

"Parte della magia di quell'estate è che eravamo tutti così giovani, appassionati e intensi" raccontò Blackburn. Ascoltando le 25 canzoni si percepisce tutto. Un disco spassosissimo.






domenica 23 aprile 2023

OVERKILL - EXHORDER - HEATHEN live@Phenomenon, Fontaneto (NO), 22 Aprile 2023

 


Perché un locale come il Phenomenon di Fontaneto d'Agogna sia usato con il contagocce rimane un mistero tutto italiano visto che è a tutti gli effetti una delle miglior location del nord Italia. Ieri sera ci sono passati gli Overkill che si sono trascinati dietro vecchi compagni di antiche battaglie come Heathen e Exhorder (più i giovani croati Keops) per quello che è diventato a tutti gli effetti un mini festival di thrash metal americano vecchia scuola. 

I californiani HEATHEN si stanno godendo una seconda giovinezza da quando agli albori degli anni duemila si sono riformati. La chitarra di Kragen Lum e la voce di David White-Godfrey sono sempre una garanzia che viaggia tra il presente (due gli album post reunion) e quel passato segnato da due dischi epocali per lo speed thrash come Breaking The Silence del 1987 da cui estraggono la cover degli Sweet 'Set Me Free' e Victims Of Deception ('Opiate Of The Masses', 'Hypnotized'). Una mezz'ora maiuscola e di tutto rispetto che dimostra quanto la vecchia guardia abbia ancora tanto da dare e insegnare.





Pure per gli EXHORDER che vengono spesso ricordati per essere stati gli ispiratori di quel suono che fece la fortuna dei Pantera, si può parlare di una seconda rinascita dopo la reunion anche se la recente separazione dal chitarrista e fondatore Vinnie LaBella è pesante da mandare giù. È tutto in mano a un Kyle Thomas in forma strepitosa (sempre una gran voce!) che guida la band attraverso quel suono affilato (il loto esordio Slaughter In The Vatican del 1990 viene saccheggiato) che sa però assorbire tutti gli umori rallentati e southern della loro New Orleans. A sorpresa esce fuori una cover dei Grip.Inc visto che alla chitarra "siede" Waldemar Sorychta che ne ha fatto parte e a cui va un plauso per aver suonato con un piede ingessato.




Sulle note di 'Scorched' che apre il nuovo disco uscito da una sola settimana, gli OVERKILL rimangono una delle band più intransigenti e cazzute uscite dal metal USA anni ottanta. Una di quelle che non ha mai mollato la presa. Sono entrati nel quinto decennio della loro vita con uno dei migliori dischi degli ultimi anni che viene giustamente presentato con orgoglio ('Wicked Place', 'Surgeon'). Bobby Blitz Ellsworth che piaccia o meno la sua voce rimane uno dei cantanti più carismatici della sua generazione, unico e originale, e sul palco va e viene, esce e rientra come un pipistrello nella notte. In piedi o piegato con l'asta del microfono perennemente incollata alla mano ha dimostrato di non avere perso nulla della sua "graffiante" voce. Alla sua sinistra il sempre fedele D.D. Verni, fondatore del gruppo e vero motore della band, un bassista con i controcoglioni che ha sempre dato il suo marchio alle canzoni. I due chitarristi  Dave Linsk e Derek Tailer sono ormai i più longevi tra i tanti passati nella band e l'ultimo entrato, il batterista Jason Bittner sembra perfettamente amalgamato. 


Gli Overkill sotto le inconfondibili luci verdi mantengono vive le tre anime della band,  quella più propriamente thrash ('Coma', 'Elimination'), quella votata al groove, doomy ('Long Time Dying', 'Horrorscope') e quella punk, degli esordi, nata dal basso, dall'underground newyorchese dei primi anni ottanta ('Rotten To The Core', Overkill') e a distanza di tanti anni quel 'Fuck You!' (rubata ai Subhumans ma ormai quasi loro) piazzato in chiusura rimane il loro grido distintivo e di battaglia. Tanto semplice quanto liberatorio.

Quando esco per riprendere la macchina e accendo l'autoradio mi accorgo di non essere nel 1990 perché non trovo la cassetta di The Years Of Decay ma solo una chiavetta USB. È stato bello pensarlo per quasi quattro ore. 




sabato 22 aprile 2023

RECENSIONE: IAN HUNTER (Defiance Part 1)

 

IAN HUNTER  Defiance Part 1 (Sun Records, 2023)



l'ultimo eroe del rock'n'roll 

Durante il lockdown c'è stato chi usciva fuori nel balcone in tuta, ciabatte e canottiera con macchie di sugo d'ordinanza a gridare "ce la faremo" e chi come Ian Hunter si è chiuso nel personale studio di registrazione nel Connecticut e ha continuato a scrivere canzoni ricevendo feedback che solo una leggenda del rock'n'roll è in grado di catalizzare su di sé. "È incredibile quello che è successo" ha raccontato l'oggi prossimo ottantaquatrenne Hunter. 

Se c'è uno che ce l'ha fatta, quello è proprio lui.

Insieme al fedele Andy York ha buttato giù una serie impressionante di demo che aspettavano solo di essere ampliati e finiti. Mancando sull'immediato la fedele Rant Band (che sarà poi presente su tutte le canzoni), il blocco del lockdown ha suggerito loro tramite il manager Mike Kobayashi di provare a contattare alcuni musicisti che avrebbero potuto aggiungere qualcosa a quelle canzoni abbozzate. 

"Eravamo noi che facevamo demo nel mio seminterrato, e le demo nel mio seminterrato si sono trasformate in quello che avete".

Da lì in avanti fu una cascata di adesioni senza precedenti. È pur sempre Ian Hunter, ex leader dei Mott The Hoople, uno che se il mondo girasse alla giusta velocità siederebbe accanto a tutti i grandi songwriter che hanno calpestato questa terra.

Noi lo sappiamo e i grandi pure ed è questa la ragione per cui i featuring del disco sono un lungo e impressionante elenco di rockstar che hanno lasciato un po' della loro arte. A leggerlo di seguito manca quasi il fiato: Jeff Beck e Johnny Depp presenti nella evocativa 'No Hard Feelings', una delle ultime canzoni su cui ha suonato Beck prima di morire, Duff McKagan e Slash dei Guns N' Roses, Joe Elliott dei Def Leppard, Billy Gibbons  dei ZZ Top, Taylor Hawkins dei Foo Fighters (anche lui scomparso), Todd Rundgren, Jeff Tweedy  dei Wilco, Robert Trujillo dei Metallica, Ringo StarrWaddy Wachtel, Brad Whitford  degli Aerosmith, Dane Clark, Billy Bob Thornton, JD Andrew, Dean DeLeo , Robert De Leo  e  Eric Kretz dei redivivi Stone Temple Pilots.

Molto spesso dischi con troppi ospiti rischiano di diventare una inutile passerella che snatura il mood di un album, altre volte non si percepiscono nemmeno e rimangono solo nomi da leggere.

Con Ian Hunter non c'è stato questo pericolo e Defiance Pt.1 (naturalmente il materiale è così tanto che ci sarà un seguito) è un riuscito gioco di equilibrio dove il songwriting di Hunter rimane intatto e gli ospiti aggiungono e abbelliscono: l'ennesimo disco riuscito di una carriera con veramente pochi passi falsi. Lo avevamo lasciato nel 2016 con Fingers Crossed, disco che omaggiava l'amico David Bowie e ultimo di una serie di dischi partiti da Shrunken Heads che avevano segnato una terza parte di carriera impeccabile e ad alti livelli, lo ritroviamo ultra ottantenne con i consueti ricci e occhiali sugli occhi come se il tempo non avesse scalfito nulla della sua classe.

Il disco parte ad alti volumi con la title track, un hard rock a cui partecipano Slash e Robert Trujillo (i bene informati dicono abbia suonato lo stesso basso suonato da Pastorius in All American Alien Boy, secondo album solista di Hunter del 1976) e che farebbe comodo a tutte quelle band bollite che continuano a calcare i palchi per l'inerzia disegnata dei verdi dollari. Lungo le undici tracce ritroviamo un po' tutto l'universo di Hunter dove convivono rock'n'roll robusti come 'Pavlov' Dog' (in compagnia dei Stone Temple Pilots) e il boogie 'This Is What I'm Here For' e ballate come 'Angel' e 'Guenica' con il piano a condurre i giochi.

"La maggior parte delle tracce di questo album le ho scritte al pianoforte. Due di loro le ho scritte alla chitarra" lascia detto Hunter.

Una nota particolare per la già conosciuta 'Bed Of Roses' che ha fatto da primo singolo, suonata insieme a Ringo Starr e Mike Campbell degli Heartbreakers di Tom Petty, una canzone fortemente evocativa che pare guidare indietro nel tempo per le strade californiane degli anni settanta e che nel testo scava ancora più indietro arrivando allo Star Club di Amburgo dove lo stesso Starr suonò con i Beatles, per la frizzante, esplicita e diretta 'I Hate Hate' presente in due versioni, una delle quali con Jeff Tweedy, per una 'Don't Tread On Me' con l'ospite Todd Rundgren che emana forte tutto il mai nascosto amore di Hunter per Bob Dylan e che nel suo incedere black e gospel pare uscire da un disco della trilogia cristiana di Dylan, una  Kiss N' Make Up, bluesy, sorniona e desertica con Billy Gibbons ospite.

In un verso di 'This Is What I'm Here For', Hunter canta:"quando avevo trent'anni ero oltre la collina/cinquant'anni dopo uccido ancora" e mai verso fu più azzeccato per descrivere quanto questo "eroe del rock'n'roll" sia ancora in forma, ispirato e performante, certamente più di tanti altri che si guadagnano prime pagine per inerzia e meriti acquisiti troppi anni fa ma mai più confermati negli anni. Tutto da godere con una seconda parte già all'orizzonte.





mercoledì 19 aprile 2023

EELS live@Alcatraz, Milano, 18 Aprile 2023


Quando l'album più saccheggiato è uno degli ultimi (Earth To Dora del 2020 ) sembra chiaro che Mr. E dopo 30 anni di carriera creda ancora alla sua ispirazione che nonostante non abbia più le prime pagine di un tempo è ancora ad alti livelli. I dischi sono lì a testimoniarlo anche se non trattati più come un tempo. O più semplicemente vuole riprendere il discorso da lì, dove si era interrotto prima del lockdown,  il nome dato al tour è chiaro.

È un Mr.E gigione e ciarlone, a piedi nudi ma elegantemente vestito quello di questa sera:  l'ultima volta che lo vidi era nascosto dentro a una tuta bianca da meccanico e una bandana calata in testa, era il 2010 e l'Alcatraz era esattamente quello di stasera, diviso a metà. Regaliamo un Alcatraz pieno agli Eels la prossima volta! 


Una macchina da rock'n'roll  irrefrenabile, pura e grezza ( il vecchio sodale The Chet in cattedra con la sua chitarra) che sale sul palco sulle note di Also Sprach Zarathustra e accanto alle sue canzoni, un concentrato di emotività da montagne russe esistenziali dove pop, blues, garage, psichedelia e rock'n'roll si tengono per mano (immancabile Novocaine For The Soul, grezza Dog Faced Boy che piacerebbe a Billy Gibbons), sparge schegge di storia raccolte nel tempo: dagli Small Faces, ai NRBQ, i Kinks (My Beloved Monster cantata su You Really Got Me) , Nancy Sinastra e conclude in gloria con gli Argent di God Gave Rock And Roll To You dopo due ore di una serata magnifica che vorresti prolungare ancora almeno fino a mezzanotte. Il vecchio lupo ha il pelo bianco ma sa ancora ululare, raccontare  storie e riversarci addosso i propri irrequieti stati d'animo seppure mitigati dal tempo. 



martedì 11 aprile 2023

RECENSIONE: TIJUANA HORROR CLUB (Tales Of A Sinnerman)

 

TIJUANA HORROR CLUB  Tales Of A Sinnerman (2023)




scagliate la prima pietra

Una volta (ecco: parlo già da neo cinquantenne) la prima cosa che colpiva in un disco era la copertina. Quanti dischi avete comprato o lasciato dov'erano per colpa delle copertine? Ora viaggia tutto sui singoli ascolti e se le canzoni non sono raggruppate sotto a una foto o un disegno sembra importare a pochi.

I bresciani e camuni TIJUANA HORROR CLUB pur ancora giovani (è sempre il vostro cinquantenne che vi scrive) hanno "l'antico" dentro e radicato nel profondo per cui ci tengono ancora a presentare la loro musica con qualcosa ad effetto: dopo gli "affetti" personali del  loro svuota tasche che riempivano lo spazio del precedente album Naked Truth uscito nel 2020, proprio a ridosso della pandemia e del lockdown (che io ricordi furono i primi a suonare un concerto in diretta streaming), questa volta rovistano ancora più indietro nel tempo pescando un vecchio quadro "il moschettiere addormentato" di Francesco Domenighini, pittore camuno di fine 800. Del perché il moschettiere si sia addormentato si possono azzardare tante ipotesi ma ne sono quasi certo: è stordito per aver peccato e abusato dei piaceri della vita.

Già, quella vita a cui andiamo incontro alla nascita senza sapere nulla tanto che firmare un contratto a inizio vita potrebbe essere necessario come cantano nella iniziale dal tiro psychobilly 'Life '(Terms And Conditions)' uscita quasi un anno fa. I Tijuana Horror Club continuano a mischiare con sapienza antichi ingredienti musicali come rock'n'roll, blues e swing, componendo canzoni dal tiro rock blues micidiale come 'Mandatory Love Song', 'On The Reef' e 'All Work And No Party' con la batteria di Mattia Bertolassi e il basso di Davide Rudelli in grande spolvero,

non così distanti dai più "vicini" e attuali Black Keys a soluzioni musicali che intrecciano peccato e redenzione, il Tom Waits più orco e spregiudicato e lo Screaming Jay Hawkins più malefico (la voce del cantante e chitarrista Joey Gaibina è sempre malvagiamente cavernosa) come avviene nella ballata nera 'All Fake', in 'Jesus Made Me A Sinnerman' con quelle tastiere vintage suonate da Alberto Ferrari in grado di portare le lancette indietro di qualche decennio, nel giro funky soul di 'The Shy Bragger (Get Up And Boogie)', nella veloce e contagiosa 'The Rebound Blues' o nella finale 'Silver And Gold' un lento giro di valzer guidato dal pianoforte che ci congeda consegnandoci nelle mani della notte.

Prodotto dell'esperto Ronnie Amighetti, Tales Of A Sinnerman è un disco, come tutti quelli della band bresciana, che non ha tempo, e scadenze: tra cento anni ci saranno ancora tanti racconti di peccatori da tramandare ai posteri e il blues non ha avrà certamente finito di ardere dalle parti di Brescia, ancora isola felice per un certo modo di intendere e vivere la musica. I Tijuana Horror Club sono uno dei tanti esempi, certamente tra i più originali nel loro essere totalmente demodè.






sabato 8 aprile 2023

RECENSIONE: THE LONG RYDERS (September November)

THE LONG RYDERS   September November (Cherry Red, 2023)


si continua...

Erano passati trentadue anni dall'ultima incisione in studio quando nel 2019 uscì Psychedelic Country Soul, un disco sorprendentemente fresco e brillante che riportava agli onori delle cronache il gruppo di Sid Griffin e soci (Stephen McCarthy e Greg Sowders), il più rootsy di quel movimento Paisley Underground che negli anni ottanta tenne alta la bandiera di un certo modo di suonare rock’n’roll.

Pochi mesi dopo l'uscita di quel disco arrivarono anche in Italia e conservo tutt'ora un buon ricordo della data di Chiari, un concerto un po' confuso ma animato da tanti amici scatenati.

Ora sono passati altri quattro anni e nel mezzo è successo un po' di tutto: una pandemia, una guerra ancora in corso ma soprattutto un lutto che messi insieme hanno dato un'impronta diversa alle canzoni di questo nuovo album.

È proprio il trascorrere del tempo, la mortalità ('Hand Of Fate') a dettare ritmo e parole: la band che in quel fortunato ritorno era ritratta in piedi e battagliera nella foto di copertina, ora è intagliata nel legno, quasi a riposo e con i segni del tempo che sembrano farsi strada con più ferocia. Un disco amaro, a tratti dimesso, dedicato all'amico bassista Tom Stevens, scomparso due anni fa che viene omaggiato con una delicata e malinconica ballata ( 'Tom Tom'), e che lascia per l'ultima volta la sua firma e voce nella finale e già conosciuta 'Flying Out Of London In The Rain', tra l'altro una delle migliori delle dodici canzoni in scaletta.

"Due terzi del genere alt-country distillato che abbiamo contribuito a fondare negli anni '80 (e) un terzo di avventurismo Paisley  Underground... condito con un pizzico della nostra folle anima" così Griffin (recentemente in Italia per un tour in solitaria) ha descritto questo nuovo album. Un disco meno diretto, che ha bisogno di più attenzioni per essere assimilato e che lascia alle sole 'September November' (comunque un buon inizio), alle melodie byrdsiane di 'Seasons Change', alla tambureggiante 'Elmer Gantry Is Alive And Well', al tagliente rock’n’roll di 'To Be Manor Born' scritta dal chitarrista Stephen McCarthy il compito di ricordare la freschezza della gioventù andata.

Regnano così il passo agro-dolce della country 'Flyin Down', la malinconia folkish della strumentale 'Song For Ukraine' condotta dal violino di Kerenza Peacock, lo swing di 'That's What They Say About Love', il blues acustico  'Country Blues (Kitchen)',  la carezza beatlesiana di 'Until God Takes Me Away'. Prodotto da una vecchia e conosciuta volpe come Ed Stasium e con Murry Hammond (degli Old 97's) che si occupa del basso in alcune canzoni, cosi come DJ Bonebrake degli X è presente in un paio di pezzi, September November ha tutti i tratti di un disco di passaggio, seguito di un brillante ritorno e speriamo precursore di un nuovo ennesimo  inizio.




domenica 2 aprile 2023

RECENSIONE: MOLINA TALBOT LOFGREN YOUNG (All Roads Lead Home)

MOLINA TALBOT LOFGREN YOUNG  All Roads Lead Home (NYA Records/Reprise,  2023)



comunque Crazy Horse

È notte fonda, una di quelle notti che potrebbero durare all'infinito. Sono pervaso da continui pensieri, sembrano perlopiù positivi, nuvole bianche e serene sopra a una giornata negativa e faticosa da portare a termine. Nonostante tutto mi giro e rigiro nel letto. Quei pensieri mi portano lontano, con i piedi immersi su infiniti prati verdi, gli occhi attenti dentro a fitti boschi che la primavera sta svegliando e colorando. 

Con strade che si inerpicano sopra a colline, i raggi del sole che sbattono sulle lenti degli occhiali, il vento in faccia. Un quadretto di libertà semplice, il più semplice da immaginare.

Ho voglia di musica, mi alzo dal letto, dal cofanetto degli archivi di Neil Young sfilo un CD a caso, lo metto su, mi corico nuovamente e spengo la luce. Quando parte la prima canzone i Crazy Horse galoppano veloci e fieri su quei prati, proseguono imbizzariti, sono nel pieno della loro gioventù ma il povero Danny Whitten ci aveva già lasciati. È il momento di provare a richiudere gli occhi, le chitarre si inseguono in una di quelle classiche code jammate, lisergiche e malate che li ha resi famosi accompagnando l'amico canadese. La notte è arrivata, ma il mattino sembra più vicino.

Quando riapro gli occhi vedo il cavallo, è in piedi, ha corso tutta la notte, è stanco, segnato dal tempo, dai tempi, dalle perdite, dai faticosi giorni di questi tre ultimi anni. Nonostante tutto sembra sereno, in pace con se stesso e la natura che lo circonda. Ieri è uscito un disco che sarebbe dovuto uscire intestato ai Crazy Horse, quelli datati 2023: Billy Talbot, Ralph Molina e Nils Lofgren  decidono invece di metterci solo i loro cognomi. In tre fanno 229 anni, i primi due sono quasi ottantenni , Lofgren con i suoi 71 è il più giovane. Poi ci aggiungono anche Young che di anni ne ha 77.

Ma sarebbe stata una vera fregatura far uscire questo album sotto il nome Crazy Horse: i tre componenti attuali del cavallo pazzo non suonano mai insieme in nessuna delle tracce. Strano no? È un disco anomalo, nato nei giorni bui della pandemia quando si era tutti lontani e inaviccinabili. Quando si inventavano leggi per tenerci lontani. Ho sempre pensato fossero arrivati veramente i "strani giorni" cantati da Franco Battiato.  Quando non si poteva nemmeno lavorare a patto tu non fossi un musicista. I musicisti non si sono mai fermati.

Tre canzoni a testa scritte e registrate ognuno a casa propria con i musicisti più vicini in quel momento, più una canzone di Neil Young registrata live: hanno scelto una versione, sette minuti, voce, chitarra, armonica di 'Song Of The Seasons' che apriva Barn uscito nel 2021.

E All Roads Leave Home sembra un'appendice di Barn  anche se qui nessuno dei tre osa mai cavalcare le praterie elettriche, preferendo sempre le vie più leggere, melodiche e nostalgiche. Le canzoni di Billy Talbot ('Rain', 'Cherish', 'The Hunter') suonate con la Billy Talbot Band cavalcano la malinconia e la saggezza, quelle di Lofgren ('You Will Never Know', 'Fill My Cup', 'Go With Me') hanno un tocco musicale più aspro e blues e lo vedono impegnato su tutti gli strumenti, le canzoni di Molina ('It's Magical', la più rockeggiante 'Look Through The Eyes Of Your Heart', la ballata al pianoforte e sax 'Just For You') suonate anche insieme agli italiani Marco Cecilia, Francesco Lucarelli, Fabrizio Settimi e Marco Molino sono quelle con l'impronta più Younghiana.

Un disco che sulla carta per come è stato assemblato sembrava non promettere nulla di buono e che invece rivela un suo carattere, emanando pace e rilassatezza.

I Crazy Horse prendono posto dentro al mio semplice quadretto di libertà. Il paesaggio della foto interna e sul retro scattata a Rico in Colorado da Jay Dusard sembra combaciare con il mio sogno iniziale. La dedica a Danny Whitten, David Briggs e Elliott Roberts chiudono un cerchio. Il passato, il presente e un futuro che aspetta altre galoppate.





domenica 19 marzo 2023

RECENSIONE: THE ANSWER (Sundowners)

 

THE ANSWER  Sundowners (Golden Robot Records, 2023)


dopo sette anni

I nordirlandesi The Answer hanno atteso sette lunghi anni e il giorno di San Patrizio del 2023 per tornare sulle scene più in forma che mai. Dei tempi lunghissimi per un mondo che stritola rockstar e presunte tali con la stessa velocità con la quale qualunque buon irlandese si tracanna la prima pinta di Guiness dopo il lavoro in un normale giorno feriale giù al pub. Fortunatamente la band guidata dal rosso Cormac Neeson ha alle spalle delle buone basi inchiodate con ferro, martello e alcol appiccicoso (sei i dischi usciti) e quella maturità guadagnata negli anni partendo dall'essere semplicemente dei cloni del classic rock targato seventies fino ad aprire per colossi come Rolling Stones e AC/DC.

Oggi tocca a loro tirare la carretta, cosa che sembra riuscire bene.

"Non abbiamo fatto molti concerti da quando siamo tornati insieme, ma abbiamo fatto il disco e tutte le cose extra che lo accompagnano e stiamo iniziando a fare interviste e roba adesso. Quindi per certi aspetti sembra di essere tornati sul tapis roulant come qualche anno fa" ha dichiarato il chitarrista Paul Mahon

È una partenza diesel la loro con una title track da sei minuti che in verità pare più una lunga introduzione per le restanti dieci canzoni chiamando in causa più volte i Led Zeppelin nel suo avanzare sciamanico. E fu proprio Jimmy Page a decantare le qualità e sciorinare le somiglianze del gruppo con il dirigibile ai tempi dell'esordio Rise. Correva l'anno 2006. L'influenza  Led Zeppelin ritorna prepotente più avanti in Get Back On It.

Si cambia registro nella successiva Blood Brother, marziale e sincopata nel suo incedere, ricordando gruppi come Black Keys e White Stripes. Tra riff circolari di chitarra con un Hammond a fare da morbido cuscino (California Rust), chorus micidiali in salsa street glam (Livin' On The Line), suadenti messaggi con la sezione ritmica formata da Micky Waters al basso e James Heatley alla batteria in grande evidenza (Want You To Love), incursioni soul e funky (Oh Cherry) e due ballate come la bluesy e gospel No Salvation e una finale e acustica Always Alright che sa tanto di anni novanta, il disco scorre liscio come tutte le birre spillate durante una tipica serata irlandese, anche senza avere una vera canzone traino o hit.

Un ritorno alla semplicità del passato che il cantante Cormac Neeson, voce che a tratti ricorda il compianto  Dan Mc Cafferty dei Nazareth, ha spiegato così: "dopo sei album e un sacco di chilometri abbiamo sentito il bisogno di fare un passo indietro e resettare tutto".

Ok, si può riinanziare a riempire il boccale. Cheers!





domenica 12 marzo 2023

THE DAMNED + SMALLTOWN TIGERS live@Alcatraz, Milano, 11 Marzo 2023



Era stato presentato come il tour del Black Album del 1980 che doveva essere omaggiato (solo due i pezzi suonati: Waiting For The Blackout e Lively Arts), è stato invece il concerto di presentazione del nuovo disco Darkadelic in uscita in Aprile ma con solo un paio di pezzi già fuori e conosciuti tra cui il singolo The Invisible Man.

Chi ha presenziato con queste aspettative sarà forse rimasto deluso. Per tutti gli altri non c'è stata delusione alcuna credo, i Damned sono sempre una garanzia anche quando suonano una decina di canzoni che arrivano per la prima volta alla orecchie dei fan. Che sia sempre stato un gruppo camaleontico, disimpegnato e autoironico lo si sapeva e lo capisce anche da come si presentano ancora oggi sul palco. 


Captain Sensible con la consueta maglia a righe rossonere e baschetto rosso, smorfie e sorrisi lasciano pochi dubbi su quanto si diverta ancora con una chitarra tra le mani. Dave Vanian in perfetto completo nero da vampiro dark wave, cappello da gangster e una voce che a parte i primi momenti viene fuori ancora come un tempo quando fece scuola a molti. Paul Gray, t-shirt degli MC 5 per lui, non la tocca piano con il suo basso tanto da farsi sanguinare un dito a metà concerto, Monty Oxymoron è incatalogabile dietro le tastiere, con il suo pigiama di teschi, mosse tarantolate e capelli arruffati da scienziato pazzo (si prende la scena a centro palco per pochi secondi nel finale) , mentre il giovane e compassato batterista  Will Glanville-Taylor sembra  appena uscito dall'ufficio per sfogare la sua rabbia quotidiana nel pub di turno che questa sera è il palco di un Alcatraz diviso a metà ma comunque pieno. Incredibile in cambio generazionale che avverrà a fine concerto quando prenderà inizio il sabato sera danzereccio dei teenager.


Per il resto è un concentrato di vecchi punkster con figli al seguito (ho visto i papà pogare e i figli godersi il concerto davanti alle transenne) che non aspettavano altro che l'esecuzione di pezzi come Neat Neat Neat, Smash It Up, Love Song e quella New Rose che all'epoca passò alla storia come primo vero singolo punk e oggi è giustamente l'ultima e la più attesa in scaletta. Anche se poi non sarà proprio l'ultima: ecco una inaspettata, anche per il batterista, White Rabbit. Onesti, divertenti, stoici e storici. Per presentare così un disco che ancora deve vedere la luce vuol dire credere ancora in quel che si fa. Il passato, pesante, è stato omaggiato ma il presente sembra più importante. Una buona filosofia di vita per una band con quasi cinquant'anni di storia.






Sarà perché le all female band sono sempre cosa rara da vedere sopra i palchi che contano ma le romagnole SMALLTOWN TIGERS sono state una bella scoperta. Un po' per tutti credo. Stanno aprendo tutte le date del tour europeo dei Damned (Captain Sensible seduto a bordo palco le segue attentamente e tiene il tempo con testa, mani e piedi) e oggi senza timori reverenziali suonano finalmente in casa. Appena la cantante e bassista Valli ha aperto bocca presentando la band (Monty alla chitarra, Castel alla batteria) ho sentito uno dietro di me pronunciare con stupore "ah ma sono italiane!'. Ebbene sì.


Da Suzie Quatro alle Runaways di Joan Jett fino ad arrivare agli anni novanta di L7, Hole e Donnas, il trio è un concentrato di punk rock'n'roll senza fronzoli e pronto a partire ad ogni attacco di bacchette della batterista.

Si parte dai Ramones, dal surf rock'n'roll, dal garage, arrivando fino a toccare il grunge con spensieratezza, disinvoltura e sorrisi sempre stampati in faccia che non guasta mai. Ci fanno conoscere il loro debutto Five Things e concludono con una R.A.M.O.N.E.S. dei Motorhead che racchiude bene la loro proposta musicale senza fronzoli e in your face. Applausi per loro e si alza pure un meritatissimo "belle e brave!" alla loro uscita che condivido con piacere.