mercoledì 24 dicembre 2025

RECENSIONE: KADAVAR (K.A.D.A.V.A.R.)

 

KADAVAR  K.A.D.A.V.A.R. (CH Records, 2025)




nuovo inizio

A soli sei mesi dal precedente I Just Want  To Be A Sound, la band berlinese torna con nove nuove canzoni che una volta ascoltate ci mandano un chiaro segnale di pentimento: Kids Abandoning Destiny Among Vanity And Ruin  è un ritorno sui loro passi dopo la precedente sbandata per suoni più easy listening che evidentemente non era andata giù a nessuno, fan in primis. Un territorio calpestato per pochi mesi per sfida, curiosità, avventura, ambizione ma che evidentemente non era il loro habitat naturale. In questi giorni ho riascoltato il disco incriminato e devo dire che con orecchie diverse e preparate lo si può anche promuovere. E comunque loro non lo rinnegano ma lo bollano come "necessario". La luce sembra trasformarsi: tutto diventa più cupo e pesante. Appena parte 'Lies' le  chitarre pesanti e i riff che avevano caratterizzato la loro prima parte di carriera sembrano ritornare prepotenti. Al resto pensa la registrazione effettuata in analogico, direttamente su nastro.

Il batterista Tiger Bartelt dice "questa canzone ha segnato una svolta nella realizzazione dell'album. In qualche modo ci ha riconnessi con il nostro lato più duro. Non mi ero reso conto di quanto mi fosse mancato suonare arrabbiato e crudo".

Aggiunge il cantante e chitarrista Lupus Lindemann: "volevamo di nuovo riff corposi, avevamo semplicemente voglia di hard rock esplosivo". 

Ma i Kadavar pur con le radici ben solide nello stoner, nel doom blues sabbathiano degli anni settanta non sono mai stati un gruppo statico. E così raccolgono quello che hanno seminato a partire dall'album For The Dead Travel Fast uscito nel  2019 che aprì loro nuovi spazi sonori più dilatati e meno terreni o da quel The Isolation Tapes (2020) registrato e uscito in piena pandemia (furono tra i primi a trasmettere un concerto in streaming durante il lockdown) che li avvicinava più ai Pink Floyd, Hawkind e Can  rispetto ai Black Sabbath. Ecco così lo space rock psichedelico di 'Explosions In The Sky' o il kraut rock di 'Stick It' (anticipato dall'overture 'The Corner Of E 2nd & Robert Martinez') dove gran spazio lo prende il quarto uomo Jascha Kreft alle tastiere.

Per chi aspettava il gran ritorno del fuzz hard rock primordiale, oltre alla galoppante 'Heartache,  c'è la tripletta finale formata da  'Children', 'K.A.D.A.V.A.R." e l'ultima traccia 'Total Annihilation' che sconfina addirittura in territori cari al thrash metal.

La copertina che ci mostra le facce dei quattro membri che si specchiano in un vetro in frantumi sembra essere chiara: nonostante tutto siamo ancora qua.




lunedì 15 dicembre 2025

RECENSIONE: LUCIO CORSI (La Chitarra Nella Roccia)

 

LUCIO CORSI  La Chitarra Nella Roccia (Sugar Music/Universal, 2025)




anno da incorniciare

"Il mondo si divide in due: chi ama Lucio Corsi e chi non l'ha mai visto dal vivo". Prendo a prestito questa frase usata per una grande rockstar (e voi sapete chi), per concludere questo 2025 che ha visto il buon Corsi entrare nelle case di tutti, con permesso ma anche no, dopo dieci anni di onorata carriera. Naturalmente quando il tuo nome diventa mainstream, iniziano a piovere  paragoni altisonanti (chiamiamole citazioni o riferimenti perché qualcuno s'incazza veramente) ma anche critiche pesanti. Mi sono accorto, però, che le critiche maggiori spesso sono arrivate da chi non ha mai visto un suo concerto. Lucio Corsi ci mette una pezza facendo uscire questo live album che in qualche modo sa di antico proprio come i suoi live vissuti sul campo. Per me è incredibile che un ragazzo di trentadue anni sia riuscito a farmi vivere una sala da concerti degli anni settanta. Cose che né io né lui abbiamo mai vissuto veramente in diretta.

La Chitarra Nella Roccia è un lungo excursus sulla sua carriera che tocca tutti i suoi dischi pubblicati in studio, aggiunge il canto sociale e politico dell'ottocento 'Maremma Amara' ma dimentica le tante cover e citazioni  che ama eseguire nei suoi concerti (Battisti, Ivan Graziani, Randy Newman, T.Rex, ma pure gli Allman Brothers). Un peccato. Forse per problemi di copyright? La splendida cornice dell' Abbazia di San Galgano  (è stato pure girato in analogico un film documentario sulla serata), edificio gotico senza tetto piantato nel centro della Toscana e un packaging curato nei minimi dettagli con inserto e poster che mi ricorda tanto  quei vecchi vinili di Edoardo Bennato, ricchi di foto e fumetti.

Sedici musicisti sul palco (con tanto di fiati) che pare quelle carovane live un po' Joe Cocker Mad Dogs & Englishmen, un po' Rolling Thunder Revue  di Bob Dylan, scenografia con casse giganti che rimanda dritto al Rust Never Sleeps Tour di Neil Young, 21 canzoni eseguite, i soliti amici di sempre sul palco, quelli del liceo, "la banda" come li chiama lui e a tratti compaiono quattro chitarre elettriche   come le grandi band del southern rock. Rocker con tanto di stage diving o menestrello folk con armonica e chitarra acustica tenuta insieme con lo scotch, stella glitter e vanitosa del glam o piano man raccontastorie. Quasi tanti personaggi in uno. Lucio Corsi gioca con la musica, è una spugna, un bulimico di arte musicale. Ha trent'anni ma potrebbe benissimo viaggiare verso i settanta. Ha sempre vissuto sopra un vinile che girava. Continua a farlo anche ora che il vinile sembra essersi trasformato in un disco volante che lo trasporta intorno al mondo.

Omaggia i suoi miti, si ispira (Ivan Graziani, Paolo Conte, Flavio Giurato, Lucio Dalla, Neil Young, Randy Newman, Bob Dylan) ma poi nei suoi testi riesce a creare un mondo che è tutto suo. Solo suo.  Dagli animali della campagna protagonisti del suo Bestiario Musicale, agli elementi della terra che prendono voce e volto (Gli Alberi, il vento di Lugano, la bora di Trieste), a personaggi umani che diventano trasparenti o talmente leggeri da essere trasportati via dal vento, case che diventano astronavi spaziali, fino al più personale e autobiografico Volevo Essere Un Duro dove canta pezzi di vita (Sigarette), di strani amici (l'ormai leggendario Francis Delacroix), compagni di scuola, amore (Tu Sei Il Mattino) e amicizia (Nel Cuore Della Notte).

Eppure no, anche questo live, dove sembra mancare un po' il pubblico con il quale si relaziona parecchio, non riesce a rendere l'idea di quale festa rock'n'roll siano i suoi concerti. A volte pure sgangherati, con pause ed errori che ne risaltano l'umanità.

Credo che gli scettici per ricredersi debbano andare a un suo concerto. Per tutti gli altri il coronamento ideale di un anno importante. Tutti i grandi della musica hanno segnato nel calendario l'anno cruciale della loro carriera: per Lucio Corsi sarà il 2025!





lunedì 8 dicembre 2025

RECENSIONE: THE AVETT BTOTHERS / MIKE PATTON - (AVTT PTTN)

THE AVETT BTOTHERS / MIKE PATTON  AVTT PTTN (2025)




facciamolo strano ma non troppo

Diciamo subito che l'acronimo scelto per il progetto e le diverse radici di provenienza delle due parti coinvolte non aiutano affatto alla buona diffusione dell'opera. AVTT - PTTN potrebbe essere tutto o nulla, i fan degli Avett Brothers potrebbero aver paura di una strana e incatalogabile creatura come solo sa essere Mike Patton, mentre i sostenitori di quest'ultimo chissà se hanno mai ascoltato un disco di Americana Bluegrass? Questo disco lo sto ascoltando da alcune settimane ma come a volte accade è il luogo ad aprire le porte alla musica. Un tragitto in montagna, all'alba,  con l'ascolto di questa collaborazione frutto di reciproco rispetto musicale (soprattutto i due fratelli Avett si sono proclamati grandi fan di Patton e dei suoi mille progetti fin dagli anni novanta, Mr.Bungle in testa) ha sprigionato tutta la forza di un disco che fa proprio dell'uniforme pacatezza il suo maggior pregio (o difetto come ho letto in giro). Togliendo subito ogni dubbio: in queste nove canzoni è maggiormente Mike Patton ad entrare dentro al mondo dei fratelli Avett, d'altronde con la duttilità della sua voce potrebbe entrare senza permesso in ogni genere musicale. E un po' è quello che ha fatto durante tutta la sua carriera. Nove canzoni dai tratti malinconici e che mostrano pochi veri sorrisi, dipingendo quadri  dai sapori agrodolci e dalla successione cinematografica. 'Dark Night Of My Soul' è una lenta cavalcata western al crepuscolo con armonica e intreccio di voci con il baritono di Patton a creare profondità così come il country di 'Eternal Love' e 'The Things I Do' che stringono un patto con il pop.

'Disappearing' è la più oscura con delle aperture quasi sinfoniche e non sarebbe dispiaciuta a Johnny Cash. 'To Be Know' è invece appesa alla malinconia dei tasti di un pianoforte, mentre 'Too Awesome' accarezza e si avvolge in parole d'amore, ballata pop dalle armonie vocali che sembrano perdersi nei sixties. 'Received' conclude il disco con un canto corale di redenzione.

La bizzarria di Patton appare nettamente solo in due tracce: 'Heaven's Breath' con le sue chitarre distorte ci mostra cosa sarebbe potuto succedere se il volante l'avesse preso in mano Patton, mentre 'The Ox Driver's Song', l'unica canzone non scritta da loro, essendo un vecchio traditional, è un canto di lavoro rivisitato che batte ancora dove deve battere.

Finito il disco capisci le cause del perché di questo disco si parla così poco: oltre all'acronimo difficile da memorizzare e oltre all'apertura mentale di chi si approccia all'opera, non fa assolutamente nulla per attirare l'attenzione su di sé. Se avrete il prezioso tempo da concedergli (al giorno d'oggi buttiamo tanta musica nel cestino dopo un solo acolto) potrebbe catturarvi lentamente e rivelarsi come una delle collaborazioni più ardite e riuscite dell'anno al termine. Con ancora tante vie da esplorare per un futuro successore. Se nemmeno un determinato luogo in un determinato momento riusciranno a farvi entrare dentro a queste nove canzoni vorrà dire che è piaciuto solo a me.





domenica 7 dicembre 2025

DANKO JONES live@Legend Club, Milano, 6 Dicembre 2025


John Calabrese
, bassista storico che con Danko Jones ha messo in piedi la band quasi trent'anni fa, è il più felice di tutti questa sera. Indossa una t shirt delle nostrane glorie hardcore Raw Power e in sala ci sono dei suoi conterranei calabresi che lo hanno raggiunto a Milano ( lui ormai si divide tra le radici italiane il Canada e la Finlandia), amici che gli donano una bandiera con la scritta Cosenza Rock City immediatamente appesa per abbellire la scenografia, completamente inesistente. In fondo quel che conta per la band è solo la musica. Calabrese dispensa sorrisi ad ogni canzone. Ed è un po' l'effetto della musica di Danko Jones: dispensare buone vibrazioni in mezzo al brutto mondo lasciato fuori dal locale.

Lo fanno da sempre. Rock'n'roll senza troppe menate con  testi dozzinali (chi è qui stasera non cerca certamente Bob Dylan in una canzone), dodici album incisi come ricorda Danko Jones in uno dei suoi sermoni autoindulgenti che lanciano sempre il più semplice dei messaggi: divertitevi! E l'ultimo album Leo Rising, il più saccheggiato giustamente, che nel titolo cita il debutto Born A Lion sembra confermarlo: il leone è nato, è cresciuto ma di morire non ha assolutamente voglia finché ci sarà gente che balla e canta sotto i colpi di hard rock'n'roll a volte veloce come il garage punk altre pesante come l'heavy metal, altre ancora suadente e allusivo come il blues. Coerenti con la propria storia Danko Jones portano avanti il loro verbo buono per ogni occasione. Ieri, oggi e domani. Inni semplici e diretti da portarsi fuori dal locale (il power trio rende meglio su questi palchi ridotti) e continuare a cantare durante il viaggio di ritorno in auto: domani non sarà già più sabato sera ("I say, Mondays are now Fridays, Tuesdays are my birthday, Every day is Saturday night" cantano ed è già un piccolo inno) ma cosa importa, il rock'n'roll non conosce ferie e Code Of The Road, Lovercall funzioneranno ancora anche tra cent'anni. "È solo rock'n'roll" e "il rock'n'roll non morirà mai" cantavano negli anni settanta. Nonostante tutto avevano ragione, chi è qui stasera ha l'irrefrenabile bisogno di sentire la musica in modo fisico: basso roboante, colpi di batteria (il bravo Rich Knox) che arrivano al cuore, riff di chitarra penetranti e chorus cantabili. Danko Jones ti da tutto questo, sempre, e non delude mai perché sai quel che vuoi trovare e lo trovi. Sempre. Come canta nell'opener dell'ultimo slbum What You Need.

A conferma della serata ad alto voltaggio, ad aprire Tuk Smith (ex Biters) con i suoi Restless Hearts con la loro capacità di trascinarti indietro nei seventies con un'orgia  rock'n'roll tra Stones e Thin Lizzy e taglio di capelli alla Keith Richards anno 1973. Non a caso, consapevole di tutto ciò, Tuk Smith presenta i suoi compagni come Keith Richards alla chitarra, Peter Criss alla battetia e Dave Davies al basso. Il giusto tributo di chi sa da dove proviene ma anche dove vuole arrivare.