STEVE VON TILL Alone in a World of Wounds (NR, 2025)
immersione
Era qualche giorno che non dialogavo a modo mio con la natura. Una chiacchierata molto basica dove io mi limito ad osservare e ascoltare, il resto lo fa lei con i suoi umori, rumori, suoni, odori e colori. Le mie azioni sono semplici ed elementari: alzarsi presto al mattino (potrebbe essere la più dura, invece mi riesce sempre bene), cercare subito con gli occhi una volpe nei campi, trovarla (perché c'è sempre una volpe nei campi a quell'ora, è quasi un appuntamento), eccola ferma la in mezzo a fissarmi, devo aver rovinato qualche suo progetto, pochi secondi poi si dilegua in lontananza tra le ombre delle frasche dove i primi raggi del sole non battono ancora anche se si percepiscono puntando gli occhi al cielo. Cuciono le nuvole a punto croce. Ascolto le diverse voci degli esseri viventi già svegli come me, osservo i campi tagliati, ordinati e arati e gli altri no dove la vegetazione è alta, selvatica, diversamente ordinata e si va a confondere con il cielo dell'orizzonte.
Una divisione che rappresenta bene anche l'essere umano.
Poi il sole arriva veramente, tra l'oro e il rosso, ancora tiepido, le nuvole assorbono quelle tonalità calde, le montagne si vestono di ombre e le luci, un cane abbaia pigro e poco convinto al mio passaggio, due gattini, cuccioli, giocano tra un fienile e la legnaia, curiosi di affrontare la nuova vita ma ancora timidi davanti a tanta maestosità e a quello sconosciuto che si ferma davanti loro facendo strani versi con la bocca per cercare di avvicinarli, mentre il torrente giù a valle rotola ma non è troppo carico e il rumore dell'acqua è lieve, sordo e continuo, così come lo è il dialogo con la natura nel nuovo disco di Steve Von Till, il sesto fuori dalla creatura Neurosis (messi in pausa, finiti, ritorneranno?).
In giorni dove la natura sembra attaccata da ogni angolo dalle notizie di cronaca che provengono dal mondo, quello più vicino a noi con gli scandali milanesi che ci raccontano di un "magna magna" legato alla cementificazione imperante, a quello più lontano con guerre che polverizzano tutto il creato che incontrano sulla propria strada.
Voce baritonale dalla profondità abissale (a tratti ci senti Mark Lanegan, a volte Leonard Cohen, spesso Nick Cave), assenza quasi totale della chitarra per abbracciare un suono che si fa bastare un pianoforte, un violoncello, una pedal steel, un synth e un corno francese. Più i tanti silenzi che vi gravitano attorno, quelli che fanno più rumore creando ruote emotive che girano tra la gotica americana, l'ambient, il folk e il blues scarnificato fino a lasciare il piatto vuoto, graffiato da rumori ambientali.
"Certo, canto della mia vita personale, delle mie emozioni e delle mie difficoltà, ma sempre nel contesto di un quadro più ampio. E il quadro più ampio è che siamo disconnessi da noi stessi perché siamo disconnessi dall'essere parte del tutto. Consideriamo la natura un luogo dove andare, un posto da visitare. Una vacanza nella natura. Ma noi siamo natura, ce ne siamo semplicemente dimenticati" ha raccontato in una recente intervista Von Till che oltre a essere il musicista che conosciamo è pure un maestro di scuola elementare.
Stiamo abusando di questo mondo. "Siamo disconnessi dalla natura" è il mantra che allaccia le otto composizioni.
Von Till con racconti poetici e visionari, carichi di atmosfera, che si trascinano dietro un costante senso di perdita (sia esso per la natura, per il tempo, per i legami), tanto cupi quanto fascinossmente struggenti ci mette in guardia. Forse è troppo tardi ma almeno lui ci sta provando. Uno degli ascolti più immersivi di questa prima metà d'anno.
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