lunedì 29 settembre 2025

DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #88: GORAN KUZMINAC (Ehi Ci Stai)

 

GORAN KUZMINAC  Ehi ci stai (1980)





aria fresca

Fu un militare americano incontrato per caso durante uno spostamento sopra a un treno ad avvicinare un ancora giovane Goran Kuzminac alla tecnica fingerpicking con la quale iniziò a farsi poi notare negli anni settanta: il militare si fece imprestare la chitarra che Kuzminac portava con se e iniziò a suonarla pizzicando le corde con le dita, lasciando Kuzminac ad occhi aperti. Per l'uso di quella tecnica tutta americana, non così comune in Italia, verrà ricordato per sempre, ma non solo: perché durante la sua carriera di belle canzoni ne scrisse tante, più belle anche dei suoi quattro o cinque veri successi come amava spesso ricordare.

Nato a Belgrado, nella ex Jugoslavia nel 1953, arrivò in Trentino con la famiglia a soli sei anni, si trasferì in Austria, si laureò a Padova in medicina, e a Trento, nel suo amato Trentino, nel 2018 si spense a soli 65 anni per un brutto tumore al cervello.

Cresciuto ascoltando i suoi miti John Martyn, Peter Gabriel, James Taylor, Jorma Kaukonen, i Creedence Clearwater Revival, Crosby Stills Nash & Young, fu però folgorato vedendo Alvin Lee suonare durante un concerto dei Ten Years After: "fuggivo da casa per andare a seguire i pochi concerti che si tenevano al palazzetto dello sport di Bolzano. Lì ho sentito il mio primo grosso evento con i Ten Years After di Alvin Lee. Credo che quel chitarrista mi abbia realmente sconvolto, non ho dormito per molti giorni. Ricordo benissimo anche un mitico concerto dei Jethro Tull per non parlare di Joe Cocker con una band da paura..."

Gli anni settanta li passò suonando come chitarrista turnista e aprendo per i  concerti di diversi cantautori (Angelo Branduardi, Antonello Venditti, Lucio Dalla) fino a quando conobbe un Francesco De Gregori che stava per pubblicare Rimmel e che lo presentò alla RCA di Vincenzo Micocci. Da lì alla produzione dei suoi primi 45 giri il passo fu breve.

Ehi Ci Stai fu il suo album d'esordio , uscito nel 1980, si presentava con una copertina  tutta invernale: il suo volto, la sua barba rossa ghiacciata in primo piano, sul retro la custodia della sua amata chitarra adagiata sulla neve, all'interno foto dall'album di famiglia virate seppia.

Prodotto da Shel Shapiro con il quale scrisse la bella canzone d'amore 'Tempo', in verità fu un esordio baciato dal grande successo di due canzoni che ne segnarono tutta la carriera: una nuova versione di 'Stasera L' Aria è Fresca' (a cui venne aggiunto un 'N.2') con la quale vinse il Festival di Castrocaro due anni prima nel 1978 ("Era iniziato il periodo delle radio libere.Tanra voglia di musica. Era suonata in modo strano, era diversa l'atmosfera, il testo era un tormentone") e 'Ehi Ci Stai', brano quasi frivolo che si scoprì poi essere dedicato a Grazia di Michele della quale si era invaghito.

"Quando uno fa questo mestiere, cerca di scrivere delle melodie emozionanti, dei testi profondi che rimangano nella storia ma non si sa come, poi uno magari viene ricordato e diventa pure semi famoso con una 'stupidatina' che scrive per scherzo. E mi è successo proprio con questo brano. Che ormai è un vecchio cavallo di battaglia” disse in una intervista.

La canzone nell'estate del 1980 spopolò, arrivando al secondo posto al Festivalbar, anche se quel testo che recitava: "Ci stai a fare un rock, portarlo per la strada, ci stai ad esser sempre tu, qualunque cosa accada, ci stai un po’ per gioco, a toglierti la gonna, a metterti nel letto con la gioia di esser donna, ma ci stai o no?" non incontrò i favori della femministe più convinte.

Ma nel disco, ottimo compendio tra tecnica strumentale e cantautorato folk pop c'erano anche: il british folk bucolico di 'L'uomo Nel Grano' con i suoi sognanti arrangiamenti orchestrali, l'ironico rock blues alla Bo Diddley di 'F.F.S.S.' ("Evviva le Ferrovie dello Stato come una sardina sono sistemato"), la dolcezza di  'Sai Com'è' scritta dal poeta Angelo Penati, una 'Margherita Sì Sposa' che veleggia verso i territori di Antonello Venditti, le storie di strada del ciondolante rock blues con fiati di 'Marciapiedi', l'ariosa e fresca 'Donna Mia Donna', l'esercizio fingerstyle di 'Breve' e il commiato 'Saluto' sono due brevi intermezzi.

Dopo il buon successo del debutto, proseguì  con il successivo disco Prove di Volo del 1981 che conteneva un altro suo grande successo come 'Stella Del Nord', poi arrivarono i concerti Q Concert insieme a Ron e Ivan Graziani, con il passare degli anni la grande ribalta, piano piano, venne meno ma Kuzminac ha sempre continuato a fare dischi, comporre colonne sonore (collaborando anche con Ennio Morricone), tutorial musicali su Youtube, lontano dai grandi clamori mediatici ma con la passione, la saggezza, l'ironia e la simpatia di sempre, tanto da rispondere a chi si chiedesse che fine avesse fatto: "ma che fine avete fatto voi. Io ci sono sempre stato".





sabato 13 settembre 2025

ELLIOTT MURPHY And Murphyland Band live@Druso, Bergamo, 12 Settembre 2025



Ci sono concerti che vorresti non finissero mai e quello di Elliott Murphy con la sua Murphyland Band composta dall'inseparabile e bravissimo Olivier Durand alla chitarra acustica ma che ferisce come un'elettrica, la dolce Melissa Cox al violino e Alan Fatras al solo Cajun e scarne percussioni ma che sembra avere davanti un set completo , è uno di quelli, seppur di suo sia durato quasi due ore e mezza. Il Druso di Bergamo è pieno (oltre che accogliente e intimo), perché uno come Murphy lo merita come è pure vero che anche la sua carriera avrebbe meritato il "pieno" e in generale più attenzione di quanto ne abbia avuta e ricevuta. Chi conosce i suoi dischi sa che difficilmente ha deluso (soprattutto i suoi anni settanta non sono inferiori a nessuno) e stasera è qui a presentarci l'ultimo Infinity che ha pochissimi mesi di vita ('Makin' It Real' e 'Baby Boomer Lament' quelle suonate  più il nuovo video in bianco e nero di 'Night Surfing' proiettato prima del concerto).

È un viaggio coinvolgente e trascinante con il sorriso sempre pronto e la voglia di divertire e divertirsi (cosa che traspare dai volti dei musicisti), un giro completo intorno alla sua Murphyland che ci ha portato dalla Cadillac di Elvis a Lou Reed ("c'è il tuo amico Louis al telefono" gli diceva sua madre storpiando il nome. Cose da newyorchesi), dal suo primo sbarco in Italia nel 1971 a Roma dove ebbe un piccolo ruolo con Fellini al suo amico Springsteen del quale fa l'imitazione e nei bis propone 'Better Days'.  Tutto il pre concerto è stato dedicato alla visione del breve film sulla crociera "springsteeniana" Born To Cruise svoltasi in primavera a cui lo stesso Murphy ha partecipato. 


Da angelo biondo e ribelle di Long Island ad antico e saggio troubadour dei tempi moderni. Partito dalla New York  degli anni '70 e arrivato in Europa nel 1989, non se n'è più andato, conquistato da Parigi, costruendosi un seguito di fan affezionati e devoti. Amore contraccambiato con l'assegnazione a Murphy della prestigiosa Medaille de Vermeil de la Ville de Paris da parte del primo cittadino parigino. Dopo Parigi è l'Italia la sua terza casa.

Murphy ha storie da raccontare con ironia e tanta autoironia (scherza sul trascorrere del tempo: "una volta nel backstage c'era di tutto e di più, alcol e groupie, ora integratori, defibrillatori e viagra") e in musica ha una manciata di canzoni da knock out disseminate lungo più di cinquant'anni di carriera che cerca di sintetizzare toccando vari punti della sua discografia, dall'iniziale 'Drive All Night' condotta in solitaria con Durand ad accompagnarlo alla finale 'Rock Ballad,' passando dalla tittle track dell'omonimo Just A Story From America (1977),  le canzoni dello splendido Night Lights (1976) con 'Deco Dance' e 'You Never Know What You're In For', disco che non aveva nulla da invidiare a Born To Run, fino ad arrivare a 'Sonny' da Beauregard (1998),  una splendida 'Green River', una sempre toccante 'On Elvis Presley's Birthday da 12' (1990) e le più recenti 'Alone In My Chair' da Prodigal Son (2017), 'Consequential' e 'Sunlight Keeps Falling' da Wonder (2022). 

Murphy, rimane ancora un cantautore d'altri tempi, un dandy del rock che fa ancora della poesia in musica un vanto ed una ragione di vita, lontano dai grandi circuiti che contano ma sempre più vicino ai cuori e all'anima. La partecipazione del pubblico e la forte empatia creata  hanno detto tutto. Durante il festaiolo medley finale nessuno è rimasto fermo.

Allora è stato bello chiudere fuori questo brutto mondo per un paio di ore e rifugiarsi dentro a Murphyland," il posto dove tutti vorremmo stare" e dove "Louis Armstrong canta Hello Dolly" come cantava, il luogo dove poter realizzare i propri sogni, il posto da perseguire fin dalla giovane età, superando gli ostacoli e gli  incontri "sbagliati" o salvifici della vita. Lo ha creato Elliott Murphy. Ieri sera eravamo tutti invitati e credo nessuno sia uscito deluso. Intanto all'uscita ci aspettava la pioggia.

"A Hard Rain's A-Gonna Fall" cantava Dylan ma stasera si torna a casa in tutta leggerezza.





mercoledì 10 settembre 2025

RECENSIONE: GLENN HUGHES (Chosen)

 

GLENN HUGHES  Chosen (Frontiers Music, 2025)





"the voice" in my head

C'è chi a sessant'anni si è già sputtanato la voce ed è costretto a cambiare registro alle sue canzoni e poi c'è Glenn Hughes che a 74 primavere la preserva con mestiere d'altri tempi e canta come fosse ancora il 1974. Anche se concentrandoci  sulla voce ci si dimentica spesso del suo ruolo di bassista.

Il live visto l'anno scorso all'Alcatraz di Milano, incentrato sulle canzoni dei Deep Purple (si celebrava Burn) è buon testimone di tutto ciò.

Hughes ci disse pure che eravamo fortunati ad essere lì quella sera perché  lui è rimasto l'unico a cantare ancora le canzoni di album come Burn, Stormbringer e Come Taste The Band.

 Il segreto? Lo sa solo lui.

Sempre lui dice che questo Chosen (pubblicato dalla nostrana Frontiers Music) uscito a ben nove anni dall'ultimo solista Resonate e con in mezzo i progetti Black Country Communion e The Dead Daisy (abbandonati), sarà l'ultimo prettamente rock della sua carriera. Ma perché? Cosa si metterà a fare poi? In queste dieci tracce c'è poco spazio per la parte più funky della sua musica, quella che conquistò pure Stevie Wonder, pur se presente in canzoni come 'My Alibi' ,'Hot Damn Thing' e la nervosa 'Black Cat Moan', per il resto si picchia giù duro di hard rock alla vecchia maniera mantenendo sempre la faccia modernista  con il groove davanti a tutto ('Voice In My Head' è il buon inizio disco, 'Heal', la finale 'Into The Fade') ma con la melodia spiccata della title track ( "parla di libertà, di trovare se stessi in quest'epoca, in questo mondo folle in cui viviamo") e della ballata 'Come And Go', dove le acque si fanno meno impetuose, viaggiando a motore spento.

Ci sono poi due pezzi da novanta come le sabbathiane  'In The Golden' e soprattutto 'The Lost Parade', dove il buon chitarrismo del sempre sorridente Søren Andersen ( Ash Sheehan alla batteria e Bob Fridzema alle tastiere completano la band) cavalca le onde basse care al vecchio amico Tony Iommi, tanto che pare uscito dal disco Fused che Iommi e Hughes registrarono vent'anni fa .

Chosen è un disco fresco e vivace che pur ripetendo formule antiche e spesso già sentite, conferma Hughes come uno dei rocker meglio conservati di quell' epopea rock che sta lentamente navigando verso il tramonto.






domenica 7 settembre 2025

RECENSIONE: STEVE VON TILL (Alone in a World of Wounds)

 

STEVE VON TILL  Alone in a World of Wounds (NR, 2025)




immersione

Era qualche giorno che non dialogavo a modo mio con la natura. Una chiacchierata molto basica dove io mi limito ad osservare e ascoltare, il resto lo fa lei con i suoi umori, rumori, suoni, odori e colori. Le mie azioni sono semplici ed elementari: alzarsi presto al mattino (potrebbe essere la più dura, invece mi riesce sempre bene), cercare subito con gli occhi una volpe nei campi, trovarla (perché c'è sempre una volpe nei campi a quell'ora, è quasi un appuntamento), eccola ferma la in mezzo a fissarmi, devo aver rovinato qualche suo progetto, pochi secondi poi si dilegua in lontananza tra le ombre delle frasche dove i primi raggi del sole non battono ancora anche se si percepiscono puntando gli occhi al cielo. Cuciono le nuvole a punto croce. Ascolto le diverse voci degli esseri viventi già svegli come me, osservo i campi tagliati, ordinati e arati e gli altri no dove la vegetazione è alta, selvatica, diversamente ordinata e si va a confondere con il cielo dell'orizzonte.

Una divisione che rappresenta bene anche l'essere umano.

Poi il sole arriva veramente, tra l'oro e il rosso, ancora tiepido, le nuvole assorbono quelle tonalità calde, le montagne si vestono di ombre e le luci, un cane abbaia pigro e poco convinto al mio passaggio, due gattini, cuccioli, giocano tra un fienile e la legnaia, curiosi di affrontare la nuova vita ma ancora timidi davanti a tanta maestosità e a quello sconosciuto che si ferma davanti loro facendo strani versi con la bocca per cercare di avvicinarli, mentre il torrente giù a valle rotola ma non è troppo carico e il rumore dell'acqua è lieve, sordo e continuo, così come lo è il dialogo con la natura nel nuovo disco di Steve Von Till, il sesto fuori dalla creatura Neurosis (messi in pausa, finiti, ritorneranno?).

In giorni dove la natura sembra attaccata da ogni angolo dalle notizie di cronaca che provengono dal mondo, quello più vicino a noi con gli scandali milanesi che ci raccontano di un "magna magna" legato alla cementificazione imperante, a quello più lontano con guerre che polverizzano tutto il creato che incontrano sulla propria strada.

Voce baritonale dalla profondità abissale (a tratti ci senti Mark Lanegan, a volte Leonard Cohen, spesso Nick Cave), assenza quasi totale della chitarra per abbracciare un suono che si fa bastare un pianoforte, un violoncello, una pedal steel, un synth e un corno francese. Più i tanti silenzi che vi gravitano attorno, quelli che fanno più rumore creando ruote emotive che girano tra la gotica americana, l'ambient, il folk e il blues scarnificato fino a lasciare il piatto vuoto, graffiato da rumori ambientali.

"Certo, canto della mia vita personale, delle mie emozioni e delle mie difficoltà, ma sempre nel contesto di un quadro più ampio. E il quadro più ampio è che siamo disconnessi da noi stessi perché siamo disconnessi dall'essere parte del tutto. Consideriamo la natura un luogo dove andare, un posto da visitare. Una vacanza nella natura. Ma noi siamo natura, ce ne siamo semplicemente dimenticati" ha raccontato in una recente intervista Von Till che oltre a essere il musicista che conosciamo è pure un maestro di scuola elementare.

Stiamo abusando di questo mondo. "Siamo disconnessi dalla natura" è il mantra che allaccia le otto composizioni.

Von Till con racconti poetici e visionari, carichi di atmosfera, che si trascinano dietro un costante senso di perdita (sia esso per la natura, per il tempo, per i legami), tanto cupi quanto fascinossmente struggenti ci mette in guardia. Forse è troppo tardi ma almeno lui ci sta provando. Uno degli ascolti più immersivi di questa prima metà d'anno.