martedì 22 maggio 2018

RECENSIONE: RY COODER (The Prodigal Son)

RY COODER    The Prodigal Son (Caroline/Universal, 2018)





RY COODER ha sempre fatto quello che ha voluto, fregandosene dei tempi, completamente slegato da qualsiasi moda e corrente musicale, risultando avanti quando suona vecchio, antico quando racconta il presente. Innovativo, curioso e strabiliante sempre. Mai banale ma stimolante. Non è da meno PRODIGAL SON, un disco che arriva a ben sei anni da Election Special (2012) e sette da Pull Up Some Dust And Sit Down (2011), due dischi calati perfettamente negli anni in cui uscirono, due concept album di denuncia e protesta che mettevano in risalto crisi finanziarie e giochi di potere in prossimità delle elezioni governative americane del 2012. Riuscitissimo il secondo, un po’ meno il primo. Questa volta, spinto e spronato dal figlio Joachim, abbandona la stretta attualità (anche se parecchie canzoni possono benissimo incastrarsi con i tempi che stiamo vivendo, ecco l'immigrazione trattata in 'Everybody Ought To Treat A Stranger Right') e pesca a piene mani nel gospel, riesumando vecchi traditional e antiche canzoni spiritual di Blind Willie Johnson, Carter Stanley, Blind Roosevelt Graves, imparate quand’era ragazzo e ora verniciate a nuovo, registrate in modo semplice e diretto (quasi live) e imbastite con trame blues, gospel, folk e rock. È tutto ridotto all’osso qui dentro, dagli strumenti ai musicisti, atto a riportare le lancette del tempo indietro di molti anni ed esaltare le tematiche di morte, amore e fede dei testi, portando in superficie la moralità, la storia, la cultura: la chitarra, la voce di Ry Cooder e la batteria di Joachim sono sempre presenti (con sporadiche e bilanciate concessioni alla modernità), unica eccezione per il basso di Robert Francis e il violino di Aubrey Haynie in ‘You Must Unload’, più i cori del fedelissimo Terry Evans, scomparso poco dopo le registrazioni, Bobby King e Arnold McCuller. Tra la cupa, lenta e nera ‘Nobody’s Fault But Mine’ (uno dei picchi del disco) al gospel di ‘Prodigal Son’ scrive tre canzoni di proprio pugno: ‘Shrinking Man’, la più moderna nel testo ‘Gentification’ e ‘ Jesus And Woody’ che cerca di tracciare un dialogo immaginario tra Gesù Cristo e la figura di riferimento del folk Woody Guthrie. Seduti uno vicino all’altro, il figlio di Dio dice: “sì, sono stato un sognatore, Mr. Guthrie, e lo sei anche anche tu”. Dovremmo esserlo tutti, visti i tempi che ci aspettano là fuori.






2 commenti:

  1. Sei sicuro che Robert Francis sia scomparso? Io ovviamente intendo l'autore di Strangers In The First Plece e altro, sempre con la collaborazione di Ry Cooder. Se invece è un omonimo mi piacerebbe approfondire, ma in rete non trovo nulla.

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