martedì 29 marzo 2016

RECENSIONE: PARKER MILLSAP (The Very Last Day)

PARKER MILLSAP  The Very Last Day (Thirty Tigers, 2016)




"Non di soli Rolling Stones che suonano a Cuba si vive", fortunatamente. Lo penso mentre sto ascoltando la versione di 'You Gotta Move', spiritual interpretato da Mississippi Fred McDowell e portato sulle prime pagine rock dagli stessi Stones in STICKY FINGERS, che Parker Millsap ha rifatto splendidamente, caricata d'enfasi, nel suo nuovo, terzo, album THE VERY LAST DAY. Una rilettura personale (l'unica del disco) cantata quasi fosse Robert Plant nel 1969 sopra a un dirigibile che deve ancora lasciare terra, interpretazione che può solo  ridare fiducia a chi non crede che il futuro della musica debba ripartire necessariamente dal passato. Un disco intenso che lancia direttamente il ventitreenne nell'olimpo dei songwriter (in erba) che contano, perché Millsap non ha paura di mettere in discussione la sua infanzia, ancora troppo vicina e lì dietro l'angolo vista la faccia ancora così pulita, trascorsa a Purcell, un piccolo paese di seimila anime dell' Oklahoma, un angolo tra i più conservatori degli States. "Non c'è molto da fare a Purcell. Se ti regalano una chitarra quando sei abbastanza giovane, scrivere musica è un buon modo per passare il tempo".
Pur crescendo in una comunità evangelica a diretto contatto con la chiesa Pentacostale, continua a raccogliere  buoni spunti di osservazione sulla religione, mettendola in discussione, e pescandone pregi e difetti, come fatto nel precedente e apprezzato disco PARKER MILLSAP (2014), e  come fa, immedesimandosi in un ragazzo omosessuale alle prese con un padre predicatore, in 'Heaven Sent'. Pezzo di punta che sa conquistare e commuovere fin  dal primo ascolto grazie al suo crescendo emozionale. "Io non sono gay e non sono discriminato, ma mi infastidisce molto quando persone che lo sono vengono trattate male"
C'è poi tutta la sua curiosità sul mondo nell'apertura  'Hades Pleades', rock'n'roll veloce che si rotola nella polvere del bluegrass, scritta dopo aver letto un libro sulla mitologia greca, e nella descrizione dell' ultimo giorno in terra prima di una imminente apocalisse nucleare, un tema  presente in più pieghe dei suoi testi, cantata nella title track, caricata a gospel. Registrato con il produttore Gary Paczosa e con la sua efficace band ridotta all'osso: un basso (Michael Rose),  una chitarra acustica e un violino presentissimo (Daniel Foulks) che si uniscono nel frizzante ma antico rockabilly 'Heads Up' e nel trascinante blues alla Bo Diddley di 'Pining', lasciando il compito agli oscuri folk solitari e intimisti di 'Jealous Sun' e 'A Little Fire' di mettere in risalto la sua voce, e alla finale 'Tribulation Hymn', di avvicinarsi ad un irish folk che pare uscito dal catalogo del primo Rod Stewart.
Un ragazzo cresciuto a buona musica (la collezione di dischi dei genitori) e con le idee chiare e giuste. "Ho iniziato a suonare quando avevo nove anni. Ero sempre circondato dalla musica, i miei genitori anche, mio padre aveva una collezione di dischi piuttosto interessante (Lyle Lovett, Ry Cooder, Robert Earl keen, Muddy Waters). Non  abbiamo mai ascoltato troppo la radio". Racconta in un'intervista.
Dopo la sorpresa del disco del neo zelandese Marlon Williams, ecco un' altra raccolta di canzoni (undici  per trentasei minuti) fresche, viscerali, intense e frizzanti che amano e rispettano la tradizione roots americana ma allo stesso tempo sanno soffiare sopra alla polvere depositata nel tempo e osare quel poco necessario per differenziarsi dalla massa. Millsap si candida a nuovo trascinatore del movimento Red Dirt Music e questo THE VERY LAST DAY lascerà sicuramente il segno.



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THE WHITE BUFFALO. Per la prima volta in Italia. Due date: 28 Luglio a Ravenna, 30 Luglio a Brescia



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