venerdì 9 dicembre 2016

RECENSIONE: NEIL YOUNG (Peace Trail)

NEIL YOUNG   Peace Trail (Reprise Records, 2016)




Un disco di pancia che sacrifica la bellezza per il messaggio. Ora sta a voi scegliere da che parte stare. 


Qualche anno fa, in occasione dell' uscita del suo disco Odio I Vivi, feci una breve intervista via internet a Edda (l'ex cantante dei milanesi Ritmo Tribale), in conclusione gli buttai giù qualche botta e risposta tra cui: se ti dico “Meglio bruciarsi subito che arrugginire lentamente” (Neil Young)?
 La risposta di Edda fu: “Beh, il vecchio Neil oggi ha il triplo mento, le guance ribizze da avvinazzato e ha fatto un disco di merda. Però sempre meglio di me sarà”.
Non ricordo a quale disco si riferisse, ma credo che quella risposta potrebbe andare bene pure oggi anche se questa ultima fatica, dopo qualche ascolto, non suona proprio come un disco di merda, come peraltro si potrebbe pensare leggendo alcune recensioni sparse in rete che l’hanno già stroncato senza appello.
Cosa si può scrivere di nuovo su Neil Young e le sue compulsive uscite discografiche totalmente coerenti con la sua incoerente carriera discografica? Se dovessimo fermarci alla copertina, Edda avrebbe sicuramente ragione. La voglia di comprarlo non ti assale. Fortunatamente (??) io sono uno di quelli che del proprio idolo compra tutto a prescindere, merda o non merda. Un istant record di protesta come altri della sua discografia recente (LIVING WITH WAR, FORK IN THE ROAD, THE MONSANTO YEARS), registrato agli Shangri-La Studios di Rick Rubin in una sola settimana, per dare sfogo alle innumerevoli battaglie che sta combattendo. Anche se la primordiale 'Ohio’, canzone che diede via al tuttorimane unica e insuperabile. Un disco di pancia che sacrifica la bellezza per il messaggio. Ora sta a voi scegliere da che parte stare. Le dieci canzoni non fanno altro che rimarcare il forte impegno ambientalista che ha tenuto banco in tutte le recenti mosse con i Crazy Horse e con i Promise Of The Real: la battaglia-poi vinta- dei nativi americani contro l’oleodotto che minacciava le loro terre in North Dakota in 'Indian Givers'-da qui è partito tutto- la storia del contadino 'John Oaks', il mago dell'irrigazione che ha difeso il suo lavoro fino alla morte come ci narra la discorsiva 'John Oaks',  aggiungendo qualche altra stoccata alla politica, allo sfrenato consumismo, e pure qualche vetro rotto più intimo e personale (la folkie ‘Glass Accident’) . Un bollettino pieno di notizie e qualche buona speranza come canta nella title track: "continuerò a piantare semi finchè qualcosa è in crescita".
Nulla di nuovo quindi? No. Qualcosa di nuovo c'è: PEACE TRAIL è un disco totalmente acustico, scarno ed essenziale, ma incatalogabile, che suona quasi raffazzonato ad un primo ascolto ma diverso da qualunque cosa fatta prima, dove la base ritmica composta dalla batteria in grande evidenza del veterano Jim Keltner (splendido il suo lavoro percussivo e tribale lungo tutto il percorso) e dal basso di Paul Bushnell sembrano spesso fare da sottofondo alle incontenibili parole di Neil Young, cercando di inseguirlo, ma Young è un fiume in piena che va diritto per la sua strada, e quasi non si fa prendere. Passi jazzati ('Can’t Stop Workin', ‘Indian Givers’), chitarre elettriche che guidano 'Peace Trail' e che spuntano all’improvviso, l'andatura quasi reggae di 'Show Me', folk sbilenchi con un’armonica super satura e amplificata (‘Terrorist Suicide Hang Gliders’), momenti in cui Young sembra veramente avvinazzato in preda a vecchi fantasmi psichedelici (‘Texas Rangers’), vocoder come ai tempi di TRANS nella finale 'My New Robot' e a raddoppiare la voce in 'My Pledge'. Non manca quasi nulla. Nel bene e nel male.
Ecco perché Edda aveva ragione: comunque sia, Neil Young sempre meglio di me sarà. Anche quando butta giù un album in pochi giorni nello studio di registrazione di uno dei produttori più acclamati degli ultimi trent’anni senza badare alla perfezione (buona la prima, ottima la seconda!), con un giornale aperto ad ispirargli i testi o scovando notizie e personaggi che nessuno mette in prima pagina, due session man che lo seguono, e una copertina fatta in casa ma con i testi stampati in un gigantesco poster.
Uno dei pochi vecchi rocker a metterci ancora la faccia nelle battaglie in musica, con tutta la libertà compositiva che può giustamente permettersi. A volte zoppica ma rimane sempre in piedi. Un forte urlo politico e sociale con quella romantica ingenuità che non è mai mancata in cinquant' anni di carriera e che spesso fa la differenza.
Io lo amo già.
★ ★ ★ ★ ☆  

n.b. Maneggiare le mie parole con estrema cautela


RECENSIONE: NEIL YOUNG-A Treasure (2011)
RECENSIONE: NEIL YOUNG & CRAZY HORSE- Americana (2012)
RECENSIONE: NEIL YOUNG & CRAZY HORSE-Psychedelic Pill (2012)
RECENSIONE: NEIL YOUNG-Live At The Cellar Door (2013)
RECENSIONE: NEIL YOUNG-Storytone (2014)
NEIL YOUNG & CRAZY HORSE live @ Barolo, 21 Luglio 2014
RECENSIONE: NEIL YOUNG + PROMISE OF THE REAL-The Monsanto Years (2015)
RECENSIONE: NEIL YOUNG-Bluenote Cafè (2015)
RECENSIONE: NEIL YOUNG-Earth (2016)


lunedì 5 dicembre 2016

RECENSIONE: STONER TRAIN (Bannermen Of Lost Generation)

STONER TRAIN   Bannermen Of Lost Generation (2016)





Il nome potrebbe far pensare a una band proveniente dai deserti di Palm Spings arrivata fuori tempo massimo, diciamo con un ritardo di circa vent’anni, invece la pesante locomotiva proviene direttamente dalla fredda Mosca, forgiata nelle officine russe, e si trascina dietro già tre album e un paio di ep ma dal nome si capisce solo un 25% della loro proposta musicale. Attualmente a bordo ci sono solo due elementi ma bastano e avanzano per creare un micidiale cocktail di southern rock e orgoglio combattivo: la chitarra slide e la voce cavernosa sono di Serj Gdanian che domina in lungo e in largo durante le nove canzoni (per mezz'ora di musica), e la batteria è dell’italiano Ivan Mostacci, incontrato a Berlino ai tempi del terzo album e mai più uscito dalla formazione. Un disco cinico e dallo humor nero che non si prende mai troppo sul serio, nato liricamente prendendo spunto dal film cult Taxi Driver-così dicono loro-ma che musicalmente corre lungo le rotaie della vecchia America dove accanto all’assalto sonoro dell'iniziale title track trovano spazio, in abbondanza, chitarre acustiche, armonica, e banjo. La dark ballad ‘I Know The End’ valga per tutte. Prendete Zakk Wylde, gli Alabama Thunder Pussy, i Four Horsemen, Danzig, i Lynyrd Skynyrd, Hank Williams III, Scott H Biram, Johnny Cash qualche vecchio cantautore country blues, metteteli tutti insieme sopra un treno e sganciate il freno in discesa, quello che otterrete sono gli Stoner Train. Nulla di originale ma un guazzabuglio per palati forti, abbastanza intrigante per andare oltre il terzo ascolto.





venerdì 2 dicembre 2016

RECENSIONE: HOWE GELB (Future Standards)

 HOWE GELB    Future Standards (Fire Records/Goddfellas, 2016)
★ ★ ★ ★ ☆ 




C’è chi campa coverizzando antichi standard americani con la speranza di risollevarsi la carriera, HOWE GELB no: gli standard se li scrive e se li canta da solo, con la speranza che lo diventino in un prossimo futuro, cantati da altri. Un disco nato già vecchio lungo l’asse New York-Tucson-Amsterdam, che a prima vista potrebbe apparire anche molto pretenzioso, ma chi conosce Gelb sa che questo tipo di cose rientrano, da sempre, nelle sue corde di musicista, su disco ma soprattutto live quando gira da solo senza la sua creatura Giant Sand (a proposito: l’avventura continua oppure no?). Un disco mininale e jazzato, intimo, essenziale: pianoforte, basso e batteria accarezzata a colpi di spazzole, qualche raro intervento di chitarra e la voce di Lonna Kelley a duettare in più occasioni. Naturalmente ci pensa l’inimitabile voce di Gelb a portare a casa la partita. Potremmo imputargli la mancanza di un po’ di swing che faccia da rottura all’imperante omogeneità, ma sono solo quisquilie che affosserebbero l’intero progetto. Chi siamo noi per farlo? Potrebbe essere il perfetto disco natalizio, ma anche la perfetta colonna sonora per un soft porno, come qualcuno, a me molto vicino, ha suggerito. Ora scegliete voi se ascoltarlo con il naso appiccicato al freddo vetro della finestra guardando i primi fiocchi di neve scendere giù, oppure sotto le lenzuola in compagnia di chi amate di più. Sempre di sera con l’arrivo della notte, comunque. Gelb gradirebbe in entrambi i casi. Il suo essere già vecchio e polveroso lo fa apparire perfino più originale di tante altre uscite che si vantano di essere moderne.


martedì 29 novembre 2016

DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 25: GEORGE HARRISON (Living In THe Material World)

GEORGE HARRISON  Living In The Material World (1973)




LIVING IN THE MATERIAL WORLD ebbe una gestazione difficile e un ruolo importante, anche se spesso nascosto, all’interno della discografia di GEORGE HARRISON. Arrivare dopo un disco perfetto come ALL THINGS MUST PASS e dopo gli acclamati concerti FOR BANGLADESH dell'agosto 1971 a New York , organizzati insieme a Ravi Shankar per raccogliere fondi per i profughi di guerra del Bangladesh (da cui Harrison prenderà spunto per scrivere ‘The Day The World Gets ‘Round’ presente nel disco) non fu per nulla facile. Harrison arriva alla stesura del disco tra mille difficoltà: si era appena ripreso da un incidente automobilistico che lo tenne lontano dalle scene per alcuni mesi e dovette rinunciare all’ultimo momento alla presenza di Phil Spector in produzione, il produttore stava messo peggio di lui. Fece tutto da solo. Anche se ‘Try Some, Buy Some’ che inizialmente fu scritta per l'ex Ronettes Ronnie Spector è prodotta proprio da Phil Spector. L’unica. Premiato dal pubblico all’uscita (primo posto in USA) venne stroncato dalla critica dell’epoca che sembrò mal sopportare l’accentuata vena spirituale che aleggiava così pesantemente intorno alle undici canzoni, unita a un tono da predicatore che spesso andava sopra le righe (‘The Lord Loves The One’). Ma questo era Harrison e la sua slide alla fine vince, anche senza le nubi psichedeliche, create in studio da Spector, che sormontavano il precedente disco. Il titolo è ben rappresentato dalla grande foto interna che ritrae Harrison e i musicisti coinvolti in studio (Nicky Hopkins, Jim Horn, Klaus Voorman, Gary Wright, Jim Keltner e Ringo Starr) seduti nel lussuoso giardino di casa Harrison a mo’ di ultima cena. È il tema dominante di gran parte delle canzoni: quanto è difficile portare avanti una vita mistica di fronte ad un mondo materiale. Tra amore e spiritualità (esplicita è ‘Give Me Love’, quasi la sua ‘Imagine’: “dammi amore/dammi pace sulla terra/donami la luce e la vita/conservami libero dalla nascita/) spuntano anche riferimenti ai vecchi compagni. Paul McCartney e John Lennon sono citati nella title track (“John And Paul here in The Material World”), mentre in ‘Sue Me Sue Blues’ riprende cinicamente le beghe legali dopo lo scioglimento dei Beatles.
L’album più spirituale della carriera e forse l’ultimo degno di nota per molti anni a venire.
Curiosa la scritta che compare stampata nel retro copertina: “Jim Keltner Fan Club. For all information send a stamped undressed elephant to: 5112 Hollywood Boulevard, Hollywood, California”. Così il batterista Jim Keltner spiega quella bizzarra frase: “quando vidi la scritta chiesi a George, ma cosa vuol dire, cosa ti è venuto in mente? E lui mi rispose che se avesse dovuto fondare un fan club lo avrebbe fondato per qualcuno che ammirava sul serio. Gli piaceva scherzare sempre”. Inutile dirlo: a casa Keltner arrivò di tutto.
George Harrison morì esattamente quindici anni fa: il 29 Novembre 2001



lunedì 21 novembre 2016

DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 24: BADLANDS (Voodoo Highway)

BADLANDS  Voodoo Highway (Atlantic records, 1991)






Unite due prime donne di talento: l’axe hero Jake E.Lee, appena scaricato senza motivi dalla band di Ozzy Osbourne dopo aver registrato due dischi come BARK AT THE MOON e THE ULTIMATE SIN e Ray Gillen, un cantante dal timbro “plantiano” e avrete grande musica hard blues e tanti screzi nelle pagine finali del breve romanzo. Il secondo disco dei Badlands (nel 1999 ne uscì un terzo, postumo: DUSK), può essere annoverato come uno dei più fulgidi esempi di southern hard blues degli anni novanta, da tenere vicino alle migliori uscite del genere di quel periodo: Pride And Glory, Mother Station, Black Crowes, Gov’t Mule, Cry Of Love, Brother Cane, The Screamin’ Cheetah Wheelie. Pur durando il giro di un orologio, i BADLANDS riuscirono a piazzare due dischi di grande fattura. Uscito nel 1991, due anni dopo il più patinato e prodotto esordio-comunque ottimo-vedeva la band sporcare nettamente il sound di polvere e benzina, con una produzione più scarna ed essenziale, unendo idealmente l’hard rock blues britannico dei 70 tanto caro a band come Free, Bad Company, Whitesnake e Led Zeppelin al southern rock americano. Guidati dalla sei corde di Lee, che finalmente poteva esprimere il suo grande talento di bluesman, questo rimarrà, però, il disco di Ray Gillen, uno dei più talentuosi cantanti partoriti dagli anni '80 e purtroppo anche uno dei più sfortunati. Mancata, per motivi legali, l'occasione della vita: l'entrata nei scalcinati e instabili Black Sabbath di metà anni ottanta, quelli che si accingevano a registrare THE ETERNAL IDOL, con Tony Iommi e soci riuscì, nonostante tutto, a portare a termine alcuni concerti e registrare alcuni demo, recuperabili in rari bootleg. Con una voce paragonabile ai migliori vocalist hard blues, un incrocio tra Paul Rodgers a Robert Plant, Gillen ebbe con questo disco, inspiegabilmente sottovalutato e poco spinto dall’etichetta discografica, l'occasione di un riscatto di carriera. A più di vent’anni dalla sua morte possiamo dire che ci riuscì pienamente. La copertina del disco, raffigurante una solitaria casetta in legno, galleggiante in mezzo alle acque paludose del Mississippi tra corvi e coccodrilli, disegna bene, ma non completamente, la direzione musicale del disco. La super formazione completata da Greg Chaisson al basso e Jeff Martin alla batteria si lancia, fin dall'iniziale ‘The Last Time’ in un frenetico hard blues, con la chitarra di Lee sugli scudi e un organo a fare da tappeto alla voce imprendibile di Gillen. Pochi punti deboli in questo disco, costruito tra l’alternanza di pesanti riff e frequenti intermezzi acustici.


Da un lato il blues pesante di ‘Show Me The Way’, ‘Whiskey Dust’, della splendida ‘Silver Horses’ e di ‘3 Day Funk’ , un funk blues che non sfigurerebbe in nessun disco dei Black Crowes, dall’altro canzoni più metal oriented come ‘Shine On’, ‘Soul Stealer’ e ‘Heaven's Train’, fanno riaffiorare il passato di tutti i musicisti coinvolti. Se ‘Joe's Blues’ non è altro che una breve prova di abilità di E.Lee all'acustica, e ‘Voodoo Highway’ un blues acustico con Lee alla dobro, il finale è una pirotecnica vetrina per Gillen: la cover di James Taylor, ‘Fire And Rain’, resa naturalmente in chiave rock e ‘In A Dream’ cantata a cappella, tanto per dare una ulteriore prova della sua straordinaria versatilità vocale. VOODOO HIGHWAY è un piccolo gioiello in mezzo allo strapotere grunge di quegli anni. Poi si sa, quando due talenti come E.Lee e Gillen devono provare a convivere insieme sono previste scintille. E così fu scioglimento. E.Lee proseguirà la carriera lontano dalla grande ribalta, evidentemente poco adatta al suo carattere schivo per ritornare nel 2014 con un nuovo album solista, mentre il talento galoppante di Gillen fermerà la sua corsa a soli 34 anni, nel 1993, sconfitto dall’AIDS.

mercoledì 16 novembre 2016

DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 23: ERIC ANDERSEN (Blue River)

ERIC ANDERSEN  Blue River (1972)





Con i se e i ma non si ricostruiscono le storie. Ma se i nastri pronti e finiti, ma in copia unica, di STAGES, l’album che doveva uscire dopo questo, non si fossero persi per strada nel viaggio tra Nashville e New York, forse la carriera del folksinger nato a Pittsburgh avrebbe imboccato la strada di quel successo che invece non arrivò mai, se non circoscritto dentro quell’aura di culto che lo ha sempre avvolto e che spesso vale doppio. Questo il caso. Su STAGES l’etichetta Columbia puntò molto ma qualche dipendente distratto non era al corrente di tutto ciò (cose da ergastolo!), Andersen la lasciò immediatamente per accasarsi all’Arista, ma la frittata era ormai fatta: tre anni buttati al vento. STAGES uscì solo molti anni dopo, nel 1991, quando era troppo tardi, la magia dell’epoca svanita per sempre ma ancora in tempo per fare incetta di riconoscimenti. Così rimane BLUE RIVER, l’ottavo disco in carriera, il più famoso e celebrato per capire quanto Eric Andersen fu importante per una buona fetta di cantautori degli anni settanta. Le canzoni di protesta del Greenwich Village (‘Thirsty Boots’ la più famosa) vengono messe da parte per una maggiore ricerca interiore e meditativa, per liriche che cercano di tratteggiare la sfuggevolezza dell’amore. I trattti poetici e romantici delle sue canzoni, cantate con voce quasi sussurrata, trovano nella delicata produzione di Norbert Putman, nei morbidi arrangiamenti, nella voce di Joni Mitchell, ospite in ‘Blue River’ e in musicisti di prim’ordine come Dave Briggs, Eddie Hinton e David Bromberg tra gli altri, i giusti compagni di viaggio. Album che scorre puro e liscio tra intimismo e superbi tocchi di raffinatezza (le eteree ballate al pianoforte ‘Wind And Sand’ e ‘Round The Bend’) le belle chitarre di Andy Johnson e Bromberg (dobro) negli ariosi country ‘More Often Than Not’ e la più buia ‘Sheila’ (la mia preferita). Se BLUE RIVER è il totem della sua discografia, non mancano una manciata di buoni dischi in ogni decennio della carriera, comprese le ultime collaborazioni con Michele Gazich che rinsaldano il grande amore per l’Europa (in Norvegia piantò pure radici). Una carriera che ha preso il via al Greenwich Village a New York nei primi anni sessanta e continua ancora oggi. Un viaggio lungo e non ancora terminato. Eric Andersen ha visto morire troppo presto una buona parte della sua generazione (Phil Ochs, Tim Hardin, Fred Neil, Tim Buckley, Jim Croce) e oggi, a scapito di una carriera in seconda linea, può considerarsi un fortunato sopravvissuto. Quel ”Old Man Go To The River” che apriva la title track, oggi risuona ancora più vero e cristallino dentro le mie stanze.

venerdì 11 novembre 2016

DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 22:AMERICA (Silent Letter)

AMERICA-Silent Letter (EMI, Capitol Records, 1979)





Serata di pioggia. L’ennesima. Appoggio la puntina sul disco e inevitabilmente ritornano alla mente alcune serate degli anni ottanta passate ad ascoltare musica in sala, da solo, seduto nel divano con due grosse cuffie a coprirmi le orecchie, con un libro di scuola aperto ma presto abbandonato sul tavolo e lo stereo dell’epoca, un enorme Philips più alto di me, come fedele compagno di giochi. I dischi degli America erano già tanti in casa. Questa sera ho scelto SILENT LETTER (ai tempi presente solo in cassetta), un album di transizione che segnò un nuovo inizio nella carriera degli AMERICA. Dan Peek, dopo l’uscita del precedente HARBOR, lasciò il gruppo per seguire la fede, continuando la sua carriera nei circuiti minori della musica cristiana fino alla morte avvenuta nel 2011 . Dopo anni di incisioni per la Warner ci fu il passaggio alla Capitol records. A sottolineare questo nuovo passo di carriera, venne scelto, per la prima volta, un titolo senza la lettera H come iniziale. Il disco registrato nel Marzo/Aprile del 1979 vedeva però ancora George Martin come produttore (sette i dischi registrati insieme). Fu l’ultima volta. SILENT LETTER è un disco che paga dazio al periodo di transizione e ad una non chiara via musicale da seguire. “Fu un periodo di sconvolgimenti. L’abbandono di Dan, ci siamo accasati con la Capitol Records. Era un momento di transizione. La stessa industria musicale stava cambiando in quel momento. Eravamo alla fine degli anni ' 70 e agli albori degli ' 80. Il movimento New Wave era lì e noi eravamo tagliati fuori. Siamo passati attraverso quegli alti e bassi presenti in qualsiasi carriera.” Raccontò Dewey Bunnell nel 1998.
Da una parte c’è il tentativo di stare al passo con i tempi con canzoni di indirizzo pop più marcato (‘All Around’, ‘Foolin’, ‘No Fortune’), dall’altra la mano di Martin si faceva sentire ancora pesantemente nei pezzi orchestrali come ‘All My Life’ che diventerà l’unica vera hit del disco, ‘ One Morning’ e nella pianistica e personale ‘1960’ cantata da Gerry Beckley. Infine la voglia di suonare ancora alla vecchia maniera, inspessendo anche il sound con chitarre più rock rispetto al passato nella trascinante apertura ‘ Only Game In Town’ con tanto di fiati, in ‘All Night’ scritta da Dewey Bunnell e nella tesa e desertica ‘Tall Treasures’ che completavano un disco fin troppo vario e confuso ma per nulla malvagio da ascoltare. Ancora oggi. Il risultato finale fu un flop commerciale. Gli anni ottanta bussavano alle porte e gli America erano pronti per dare ancora un paio di zampate in classifica (‘Survival’, ‘You Can Do Magic’), seguendo una delle tante vie indicate da SILENT LETTER. Io iniziai a infoltire lo spazio sottostante lo stereo con dischi scelti da me, non più imposti dalla casa, ma per gli America lasciai uno spazio speciale. Cosa volete farci?

martedì 8 novembre 2016

RECENSIONE: TODD SNIDER (Eastside Bulldog)

TODD SNIDER  Eastside Bulldog (Aimless, 2016)
☆☆☆1/2




Se riuscite a ritagliarvi mezz’ora di svago e divertimento (scontati: 26 minuti per la precisione) durante le vostre frenetiche giornate lavorative, EASTSIDE BULLDOG il nuovo disco di Todd Snider potrebbe fare da buona colonna sonora. A qualche anno dall'ultimo album solista e dopo i due lavori più seri con il supergruppo Hard Working Americans, Snider riveste i panni stropicciati del suo alter ego, da prendere poco sul serio, Elmo Buzz, si chiude in studio con alcuni amici e registra 10 canzoni con lo stesso spirito con cui suonerebbe sopra al palco del peggior pub della città davanti a un pubblico distratto, poco esigente ma con il bicchiere sempre pronto per il brindisi. Una cosa alla Blues Brothers dietro a una rete, o come quando Neil Young si vestì di rosa e si impomatò i capelli e ci prese per il culo, per intenderci. Un pianoforte sgangherato, fiati, cori stonati che spuntano da dietro, e testi che raccontano di donne e motori, musicisti con pochi soldi e bevute, con l’aria di East Nashville che tira di lato e il fiato di Hank Williams Jr. che sbuffa dall’altro. Il gioco è fatto. Non cercate premi Nobel qua dentro, troverete solo una manciata di minuti di puro e alticcio divertimento rock’n’roll con ritmi swinganti annegati in un r&b alticcio. "It's songs about East Nashville, chicks, cars, fighting, partying and Bocephus and that’s it. No bullshit... just the good stuff." Firmato Elmo Buzz o Todd Snider, fate voi.





RECENSIONE: LUCINDA WILLIAMS-The Ghosts Of Highway 20 (2016)
RECENSIONE: PARKER MILLSAP-The Very Last Day (2016)
THE WHITE BUFFALO. Per la prima volta in Italia. Due date: 28 Luglio a Ravenna, 30 Luglio a Brescia
RECENSIONE: WILLIE NILE-World War Willie (2016)
RECENSIONE: ZAKK WYLDE-Book Of Shadows II (2016)
RECENSIONE: HAYES CARLL-Lovers And leavers (2016)
RECENSIONE: STURGILL SIMPSON-A Sailor’s Guide To Earth (2016)
RECENSIONE: MALCOLM HOLCOMBE-Another Black Hole (2016)
RECENSIONE: JOHN DOE-The Westerner (2016)
RECENSIONE: TOM GILLAM &THE KOZMIC MESSENGERS-Beautiful  Dream (2016)
RECENSIONE: MATT ANDERSEN-Honest Man (2016)
RECENSIONE: TONY JOE WHITE-Rain Crow (2016)
REPORT LIVE: GRAHAM NASH live@Teatro Sociale COMO, 3 Giugno 2016
RECENSIONE: IAN HUNTER-Fingers Crossed (2016)
RECENSIONE: GRANT-LEE PHILLIPS-The Narrows (2016)
RECENSIONE: CONOR OBERST-Ruminations (2016)
RECENSIONE: ALEJANDRO ESCOVEDO- Burn Something Beautiful (2016)


giovedì 3 novembre 2016

Il ritorno di LITTLE STEVEN. Tre dischi da ascoltare: Men Without Women (1982), Voice Of America (1984), Born Again Savage (1999)

Dopo l'unica data europea della reunion svoltasi a Londra il 29 Ottobre 2016, Little Steven e i Disciples Of Souls hanno annunciato un nuovo disco e un nuovo tour per il 2017. Ecco tre dischi da avere...

LITTLE STEVEN AND THE DISCIPLES OF SOUL   Men Without Women (1982)

Tra i tanti album mai usciti con la dicitura Bruce Springsteen in fronte, ma che a tutti gli effetti potrebbero rientrare nella sua discografia, il debutto di Little Steven con i Disciples Of Soul brilla particolarmente, unitamente ai dischi di GARY US BONDS del periodo (DEDICATION e ON THE LINE). In verità, anche se non accreditato ufficialmente per problemi con l’etichetta CBS, Springsteen appare nei cori di almeno tre canzoni: la trascinante ‘Angel Eyes’, ‘Until the Good is Gone’ e la title track ispirata dal libro di racconti di Ernest Hemingway. Così come accanto a Miami Steve Van Zandt-ma da ora chiamatemi pure Little Steven!-c’è buona parte della E STREET BAND: Max Weinberg alla batteria, Garry Tallent al basso, Danny Federici alle tastiere e Clarence Clemons ai cori. Insomma, manca solo Roy Bittan. Compaiono anche gli ex Young Rascals, Dino Danelli e Felix Cavaliere, Gary US Bonds e il bassista di colore con il taglio alla Mohawk John Beauvoir, allora nei Plasmatics della povera Wendy O.Williams, che in seguito formerà i mai troppo lodati Crown Of Thorns . L’album parte in quarta con ‘Lyin’ In A Bed Of Fire’ che riassume il mood dell’intero disco: un concentrato di chitarre garage rock (‘Under The Gun’) accompagnate dalla possente sezione fiati dei La Bamba’s Mambomen (formata da membri degli Asbury Jukes di Southside Johhny) che contornano il tutto con forti dosi di soul e R&B (‘Forever’) e testi che ruotano intorno all’amore, quello focoso e quello sbiadito (perdite). Una menzione particolare per la le armonie folkie di ‘Princess Of Little Italy’. L’unico neo di un disco quasi perfetto potrebbe essere la voce debole, ma comunque caratterizzante, di Miami Steve: queste canzoni con la personalità vocale di Springsteen volerebbero ancora più alte? Comunque sia, il già ricco The River si troverà, in un colpo solo, tante facciate della stessa medaglia, al bellissimo Dedication di Gary US Bonds il merito di offrirne altre due. Alcuni anni fa, in un post lasciato al proprio sito ufficiale, il grande amico Southside Johnny scrisse: “oggi in macchina ho ascoltato nuovamente MEN WITHOUT WOMEN e non riesco a credere che non sia diventato un successo enorme. Grandi canzoni, grandi arrangiamenti e una band killer, insieme alla voce più autentica e interessante che abbia mai sentito." Se Little Steven fino ad allora si era pregevolmente nascosto alla sinistra di Springsteen o dietro le quinte come autore e produttore di Southside Johnny e Gary Us Bonds, da qui in avanti cercherà un po’ di gloria personale, lasciando il capo nel momento del maggiore successo mondiale (BORN IN THE USA e rispettivo tour erano alle porte) ed esponendo idee politiche e lotte sociali a tutti fin dal successivo VOICE OF AMERICA (1984). Gloria culminata con la collettiva esperienza anti-apartheid denominata Sun City, datata 1985.




LITTLE STEVEN Voice Of America (1984)

 Musicalmente preferisco il debutto solista MEN WITHOUT WOMEN (1982) ancora legato al New Jersey sound, anche grazie alla schiera dei numerosi ospiti pescati dalla "famiglia", ma non si può negare a questo seguito, uscito nel 1984, un certo coraggio nelle convinte (anche se alcuni le leggeranno come ingenue) prese di posizione politiche e sociali che culmineranno con il mega evento collettivo anti-apartheid denominato Sun City, e messo in piedi nel 1985. LITTLE STEVEN abbandona la nave del capo dopo aver coprodotto il disco che cambierà per sempre la rotta di Springsteen, che nelle note di copertina di BORN IN THE USA gli augura “buon viaggio mio fratello Little Steven”. Little Steven replica con “ un grande grazie a Bruce Springsteen, senza i vent’anni d’amicizia questo disco non avrebbe visto la luce”. Ancora amici, comunque?
Little Steve racconterà: “avevo la sensazione che la nostra amicizia cominciasse a essere a rischio. E pensai che il modo migliore per salvaguardarla fosse andarmene. Sapevo che se fossi rimasto le nostre divergenze, che erano ancora piuttosto civili, lo sarebbero state progressivamente meno”.
Siamo nei pieni anni ottanta e qualcosa di plastificato inizia a farsi largo nei suoni dei suoi DISCIPLES OF SOULS (Jean Beauvoir, Dino Danelli, Monti Louis Ellison, Pee Wee Weber, Zoe Yanakis) che non compaiono più nel monicker in copertina. Quello che potrebbe essere un buon disco di garage rock puro e duro (bisognerà aspettare il sempre sottovalutato BORN AGAIN SAVAGE del 1999 per quello), viene limato e fatto rimbalzare dalla presenza di synth e tastiere, e da sconfinamenti che toccano perfino il reggae (‘Solidarity’) . A contare sono però i testi: dalla chiamata alla presa di coscienza a velocità punk di ‘Voice Of America’, all’esortazione a combattere senza paura (‘Fear’), alla denuncia della repressione che attanaglia alcuni stati del Sud America in ‘Los Desaparecidos’, al patriottismo convinto di ‘I Am A Patriot’ che l’amico Jackson Browne, unitamente alla title track, farà sue. I due daranno voce a Sun City e combatteranno insieme per un buon periodo.
Da segnalare, infine, la presenza di Gary Us Bonds nell’altro reggae ‘Among The Believers’, comunque lontano dalla perfezione di dischi come DEDICATION e ON THE LINE.


LITTLE STEVEN Born Again Savage (1999)

 "Questo è il disco che avrei voluto fare nel 1969... è un tributo ai pionieri dell'hard rock con i quali sono cresciuto... The Kinks, The Who, Yardbirds e i tre gruppi nati da loro: Cream, Jeff Beck group e Led Zeppelin...".
Basterebbero queste poche righe, scritte per presentare l’album, per avere un'idea del contenuto. Uscito nel 1999, ma frutto di anni di stesura, è praticamente il quinto album che chiude la serie dei suoi dischi politicizzati iniziata nei lontani anni ottanta in era “reganiana” (anche se il rapporto con le religioni-tutte- è qui protagonista): dallo stupendo Jersey Sound di ‘Man Without Women’ al culmine raggiunto con l’esperienza Sun City, Artist United Against Apartheid. Ma questo album qualcosa di diverso lo contiene veramente, è a tutti gli effetti un album di garage rock grezzo e di hard rock fumante ed intransigente che da Little Steven non ti aspetteresti più. Uscito fuori tempo massimo. Il sogno della sua vita da musicista si concretizza a più di trent'anni dall'inizio di carriera.
Formazione a tre con Little Steven alla voce (mai così incazzata) e chitarre (vere protagoniste del lavoro), Jason Bonham (figlio di cotanto padre) alla batteria e Adam Clayton (sì proprio quello che sta alla sinistra di Bono) al basso. Bastano i primi due brani per presentare un Little Steven che può finalmente farsi valere e far vedere a tutti quanto la chitarra la sappia suonare alla grande, senza dover sottostare a nessun “boss padrone”. ’Born Again Savage’ e ‘Camouflage of Righteousness’ sono dure rock songs con chitarre in grande spolvero e l’umore fumoso dell’ hard blues settantiano. ‘Guns, Drugs and Gasoline’ veloce e galoppante racchiude un coro che sembra uscito dalla London punk '77, così come ‘Organize’. ‘Face of God’, uno spoken rock, anticipa la stupenda e stratificata ‘Saint Francis’, con una grande e accorata prova vocale di Van Zandt: la migliore canzone del disco, senza dubbio.
Chiudono: la dilatata e psichedelica ‘Lust for Enlightenment’ e la rock oriented ‘Tongues of Angels’, che ricorda qualcosa dei migliori U2 degli anni ottanta.
L’album passò totalmente inosservato all’uscita, ed ora con un po’ di fortuna lo si può trovare impolverato nel banchetto degli usati. Qualche anno fa, Steven parlò di una rimasterizzazione del catalogo che avrebbe compreso anche quest'ultimo lavoro. Un ascolto lo merita.




lunedì 31 ottobre 2016

RECENSIONE: ALEJANDRO ESCOVEDO (Burn Something Beautiful)


ALEJANDRO ESCOVEDO  Burn Something Beautiful (Fantasy Records, 2016)  
☆☆☆☆☆


"I miei amici erano fuori a bere e credo che stessero facendo bene 
Volevo unirmi a loro, ma avevo paura di offuscare la loro luce
Così ho messo su un vecchio disco e ho ballato con il suo fantasma tutta la notte"
da 'Sunday Morning Feeling'



Dopo il trittico di uscite con la produzione di Tony Visconti e l'aiuto di Chuck Prophet (l’ultimo fu il più sperimentale e coraggioso BIG STATION del 2012), ALEJANDRO ESCOVEDO ritorna con un disco dal carattere forte e deciso come si dice per certi liquori invecchiati bene, dove le chitarre prendono spesso possesso della scena durante le tredici canzoni: ora più affilate, aspre e taglienti (‘Horizontal’ scava nel passato punk dei Nuns, ‘Luna De Miel’, 'Heartbeat Smile' è un buon compromesso pop rock) ora glitterate (‘Shave The Cat’) sulla scia della polvere di stelle seminata da Marc Bolan, ora pigre, sonnacchiose e desertiche (‘Redemption Blues’, ‘Johnny Volume’ sembra rievocare gli spiriti dell'amato Lou Reed), poi ancora acustiche (‘Suit Of Lights’, ‘Beauty And The Buzz’, la bella 'Farewell To The Good Times'), pure ciondolanti verso un sound che rimanda a Phil Spector (‘I Don’t Want To Play Guitar Anymore’). Questa volta a produrre e aiutare nella scrittura troviamo un inedito duo formato da PETER BUCK (ex-ma speriamo ancora per poco-chitarrista dei R.E.M.) e SCOTT McCAUGHEY (Minus 5), mentre allo studio Type Foundry a Portland, dietro agli strumenti è passata gente come il chitarrista Kurt Bloch (The Fastbacks), il batterista John Moen (the Decemberists), il sax di Steve Berlin (Los Lobos) e le cantanti Kelly Hogan e Corin Tucker. Un vero lavoro di squadra: “abbiamo scritto, arrangiato e suonato le canzoni insieme” scrive Escovedo nel libretto, portandosi alla pari di Buck e McCaughey.

Penso che Pete e Scott abbiano fatto un lavoro che mi ha portato fuori dalla mia comfort zone, ma era tutto nel campo di mio piacimento”, aggiunge in una recente intervista.
Mentre Peter Buck su remhq.com racconta: "Sono stato un fan della musica di Alejandro per oltre 30 anni, e registrare con lui è stato positivo come mi aspettavo. Credo che lui, Scott McCaughey ed io abbiamo davvero esteso il nostro vocabolario come scrittori e musicisti. Quello che è uscito è qualcosa di diverso rispetto a qualsiasi cosa che abbiamo fatto singolarmente in passato."
Escovedo raccoglie le parole dalla strada (nel disco tutte le sue influenze: dalle luci urbane al CBGB di New York al sole che illumina i deserti Texani) e canta di perdite, amori, volgendo pure lo sguardo più avanti verso un  futuro che prima o poi dovrà presentarsi, e lo fa dall’alto di una persona che in vita ne ha viste tante, superando mille ostacoli: la morte della moglie a cui dedicò i primi album solisti GRAVITY (1992) e 13 YEARS (1994),  la vittoria più importante sull'epatite C negli anni duemila e uscendo vivo dall'uragano che ha spazzato via la sua casa in California nel 2014. Ora si è trasferito a Dallas. Un altro capitolo importante nella vita di un autore mai fermo, sempre onesto, sanguigno e rispettato dai tanti colleghi. Uno dei suoi album migliori che conferma quanto l'ispirazione , in certi casi, può continuare a brillare anche superati i 65 anni.

 

 
 

 
 

venerdì 28 ottobre 2016

DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 21: NICOLETTE LARSON (Nicolette)

NICOLETTE LARSON  Nicolette (Warner Elektra Atlantic, 1978)





Se nel 1978 avessi avuto quattordici anni mi sarei innamorato perdutamente di Nicolette Larson. Tutto sommato è quello che avvenne dieci anni dopo con Edie Brickell. Ho sempre pensato che si assomigliassero, fisicamente. Riguardandole oggi, però, non è poi così vero. Quando la Larson, nativa del Montana, incise q...uesto primo disco solista, alle spalle ha già alcune importanti esperienze in studio come corista in California (le più importanti con Commander Cody e Jesse Colin Young), ma la vera svolta per la sua vita artistica arriva per pura coincidenza quando la già affermatissima Emmylou Harris non si rende disponibile per le registrazioni di AMERICAN STARS ‘N BARS (1977) di Neil Young. L’amica cantante Linda Ronstadt suggerisce a Young il nome dell’allora venticinquenne Larson. La Larson non si fece pregare e raggiunse lo studio preparatissima. Sono così della coppia Rondstadt-Larson (le “Saddlebags”) i tanti cori che possiamo sentire in ‘Old Country Waltz, ‘Saddle Up the Palomino’, ‘Bite the Bullet’ e altre. Passa un anno e la Larson si prende ancora più spazio all’interno di un disco del canadese: è quel COMES A TIME che vuole recuperare le atmosfere country del grande successo HARVEST. Nicolette Larson arriva a duettare nel blues ‘Motorcycle Mama’, lasciando il suo personale graffio. Ma sarà la sua versione del perfetto pop country ‘Lotta Love’ di Neil Young, che praticamente esce in contemporanea con la versione ufficiale contenuta in COMES A TIME, a farla conoscere al grande pubblico, arrivando a toccare le vette delle classifiche. NICOLETTE è un album estremamente vario, fatto di cover e due nuove canzoni tra cui la bella ‘Give A Little’, in grado di mettere in mostra le sorprendenti sfumature della sua voce: intorno al tanto soft rock (‘Rhumba Girl’) spiccano numeri R&B (‘You Send Me ‘ di Sam Cooke) e qualche country (‘Come Early Mornin’ di Bob McDill). Tanti e importanti anche i musicisti coinvolti: alcuni membri di Little Feat e Doobie Brothers, l’amica Linda Rodstadt e perfino l’astro nascente della sei corde Eddie Van Halen, chitarra in ‘Can’t Get A Way From You’.

Nicolette Larson proseguirà la sua carriera solista senza mai più raggiungere le fortune di ‘Lotta Love’, unitamente a quella di corista (la sua voce la possiamo trovare in tantissimi dischi west coast degli anni settanta ma non solo), sposerà il batterista Russ Kunkel da cui avrà una figlia, fino alla prematura scomparsa avvenuta a soli quarantacinque anni per le complicazioni di un edema cerebrale.
Ci sono pure due importanti apparizioni nella tv italiana:
-Nel 1978 una emozionata Larson è ospite a Domenica In, presentata da Corrado così: "Nicolette Larson è la più giovane di quella famiglia americana che comprende superstar come Neil Young e Linda Rondstadt, cioè quella famiglia americana che ha portato quel nuovo suono americano al crocevia tra il rock e la tradizione". Vabbè aggiungo io. Poi Corrado tirò fuori un metro e le misurò la lunghezza dei capelli: 103! Naturamente cantò 'Lotta Love'."
-Nel 1990 partecipò al Festival di Sanremo riproponendo la versione inglese (‘Me And My Father’) di ‘Io e Mio Padre’ di Grazia Di Michele, negli anni in cui al festival si decise di ritornare alla vecchia formula degli anni sessanta, quando ad ogni cantante italiano si accoppiava un interprete straniero.



DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #18: BOB DYLAN-Street Legal (1978)