BUDDY GUY Born To Play Guitar (RCA Records, 2015)
Quando Muddy Waters era sul letto di morte, quasi sconfitto dalla malattia, sembra che Buddy Guy lo chiamò informandolo che sarebbe corso al suo capezzale. Waters rispose senza esitare: ”non venire qui, è tutto a posto, l’importante è che tu tenga in vita il blues”. Il ragazzo lo ha preso in parola e oggi, che anche il maestro B.B.King non c’è più da un paio di mesi, a 79 anni è rimasto uno degli ultimi esponenti puri e originali di una schiera di musicisti pazzesca e irripetibile. A Waters dedica la chiusura del disco con l’esplicita ‘Come Back Muddy’, a King una straordinaria ‘Flesh & Bone’ con un lusso come Van Morrison alla voce, a se stesso e alla musica tutta la celebrativa title track. Dopo tanti anni, una buona fetta di blues è tutta qui, racchiusa in tre canzoni. Prodotto e scritto insieme a Tom Hambridge, BORN TO PLAY GUITAR si presenta più snello e scorrevole rispetto al precedente pur buono ma lungo e ambizioso RHYTM & BLUES. Meno ospiti ma di peso: Billy Gibbons (ZZ TOP) su ‘Wear You Out’, Joss Stone in ‘(Baby) You Got What It Takes’ e Kim Wilson dei The Fabulous Thunderbirds in un paio di pezzi. Il 30 Luglio, Buddy Guy ha compiuto gli anni-AUGURI!- ma il regalo più grande lo ha fatto a noi. Il blues continua a scorrere liscio nelle sue vene. Tra le uscite imperdibili dell'anno.
martedì 25 agosto 2015
giovedì 20 agosto 2015
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 3: THE NOTTING HILLBILLIES (Missing...Presumed Having A Good Time)
THE NOTTING HILLBILLIES-Missing…Presumed Having a Good Time (1990)
Quattro musicisti inglesi giocano a fare i cowboys, divertendosi e divertendo. Un set ben preparato: vestiti, luci, fondali con saloon in evidenza e chitarre dobro protagoniste. Traditionals country/blues e qualche originale con la chitarra di Mark Knopfler che inizia lentamente il distacco dalle grandi arene rock, ormai frequentate con i Dire Straits, per prepararsi all’imminente carriera solista alla ricerca della sua musica, tra folk, blues e country (bello anche ‘Neck And Neck’ in coppia con Chet Atkins che uscì sempre nel ‘90) che culminerà con ‘Privateering’, ottimo doppio album di studio (il suo migliore? Sì il migliore), e con l’ultimo ‘Tracker’, un po’ sottotono (sì sottotono a mio avviso). Sono seduti nel saloon anche il fido Guy Fletcher, Steve Phillips e Brendar Croker . Un disco che penso di aver consumato, prima in cassetta rigorosamente registrata da chi all’epoca ritenevo “vecchio”, poi originale quando finalmente lo trovai in qualche angolino dell’usato. Nulla di veramente nuovo in questo atto unico, ma va tutto giù che è un piacere.
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #1: FRANCESCO DE GREGORI-Titanic
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #2: THE HOUSEMARTINS-London 0 Hull 4
Quattro musicisti inglesi giocano a fare i cowboys, divertendosi e divertendo. Un set ben preparato: vestiti, luci, fondali con saloon in evidenza e chitarre dobro protagoniste. Traditionals country/blues e qualche originale con la chitarra di Mark Knopfler che inizia lentamente il distacco dalle grandi arene rock, ormai frequentate con i Dire Straits, per prepararsi all’imminente carriera solista alla ricerca della sua musica, tra folk, blues e country (bello anche ‘Neck And Neck’ in coppia con Chet Atkins che uscì sempre nel ‘90) che culminerà con ‘Privateering’, ottimo doppio album di studio (il suo migliore? Sì il migliore), e con l’ultimo ‘Tracker’, un po’ sottotono (sì sottotono a mio avviso). Sono seduti nel saloon anche il fido Guy Fletcher, Steve Phillips e Brendar Croker . Un disco che penso di aver consumato, prima in cassetta rigorosamente registrata da chi all’epoca ritenevo “vecchio”, poi originale quando finalmente lo trovai in qualche angolino dell’usato. Nulla di veramente nuovo in questo atto unico, ma va tutto giù che è un piacere.
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #1: FRANCESCO DE GREGORI-Titanic
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #2: THE HOUSEMARTINS-London 0 Hull 4
RECENSIONE:NEIL YOUNG + PROMISE OF THE REAL (The Monsanto Years)
NEIL YOUNG + PROMISE OF THE REAL
The Monsanto Years
(REPRISE RECORDS, 2015)
Canti di protesta
Se volete bene a Neil Young accetterete di buon grado anche questo nuovo disco, nato sì d’istinto, ma incentrato su tematiche care al canadese da più di quarant’anni, fin da quei versi “guarda Madre Natura in fuga” inclusi in After The Gold Rush del 1970, proseguite poi negli anni 80 con i concerti Farm Aid, messi in piedi con John Mellencamp e Willie Nelson in difesa degli agricoltori, e ribadite con forza anche durante l’ultimo tour con i Crazy Horse. L’attacco alla multinazionale agrochimica Monsanto, rea di mettere in commercio sementi OGM, è duro, liricamente ingenuo, ma non fa sconti. Anche se i dischi che ascolteremo fra un mese ritorneranno ad essere HARVEST, ON THE BEACH e RUST NEVER SLEEPS e questo sarà ricordato solamente quando dovremo riporlo al giusto posto all’interno della discografia, Neil Young merita, ancora una volta, totale rispetto. La prolificità di questi ultimi anni, anche nella sfera privata, non sempre è stata sinonimo di brillantezza artistica quanto invece di libertà e genuinità. Sulla scia dei suoi instant records più recenti, da LIVING WITH WAR che si scagliava contro la politica guerrafondaia di George W. Bush all’ambientalista FORK IN THE ROAD , THE MONSANTO YEARS colpisce duro musicalmente fin dai messaggi di speranza e amore dell’apertura A New Day For Love : “è un nuovo giorno per il pianeta , è un nuovo giorno per il sole”. Ok, poche novità: country garage/rock grezzo e puro fatto di chitarre, feedback infiniti (Big Box) e slogan travestiti da cori che sembrano già sentiti mille volte (People Want To Hear About Love), ma basta la libertà d’espressione e di movimento all’interno del music business (nella strafottente A Rock Star Bucks A Coffee Shop canta: “le madri vogliono sapere cosa mangiano i loro figli”) per fare dell’idealista Young e dei suoi dischi un esempio, ancora poco imitato, da seguire. La linea che lo divide dall’essere un predicatore rompipalle è spesso vicina, ma la forza del rock tiene tutto a debita distanza: linee e rompipalle veri (il miliardario Donald Trump l’ultimo della fila).
I figli di Willie Nelson, Lukas e Micah con i loro Promise Of The Real, accompagnano l’amico di papà come farebbero dei giovani cavalli pazzi alle prime armi con qualche pausa per tirare il fiato come nella sbilenca ballata country Wolf Moon che si riallaccia ad HARVEST MOON. Se volete bene a Neil Young già sapete che a parlare, nei suoi dischi, non è la voce dell’artista ma quella dell’uomo. E questo fa spesso la differenza quando la qualità non è più quella dei tempi migliori. Enzo Curelli 7 da Classic Rock #33 (Agosto 2015)
vedi anche
RECENSIONE: NEIL YOUNG & CRAZY HORSE-Psychedelic Pill (2012)
RECENSIONE: NEIL YOUNG-Live At The Cellar Door (2013)
RECENSIONE: NEIL YOUNG-Storytone (2014)
NEIL YOUNG & CRAZY HORSE live @ Barolo, 21 Luglio 2014
The Monsanto Years
(REPRISE RECORDS, 2015)
Canti di protesta
Se volete bene a Neil Young accetterete di buon grado anche questo nuovo disco, nato sì d’istinto, ma incentrato su tematiche care al canadese da più di quarant’anni, fin da quei versi “guarda Madre Natura in fuga” inclusi in After The Gold Rush del 1970, proseguite poi negli anni 80 con i concerti Farm Aid, messi in piedi con John Mellencamp e Willie Nelson in difesa degli agricoltori, e ribadite con forza anche durante l’ultimo tour con i Crazy Horse. L’attacco alla multinazionale agrochimica Monsanto, rea di mettere in commercio sementi OGM, è duro, liricamente ingenuo, ma non fa sconti. Anche se i dischi che ascolteremo fra un mese ritorneranno ad essere HARVEST, ON THE BEACH e RUST NEVER SLEEPS e questo sarà ricordato solamente quando dovremo riporlo al giusto posto all’interno della discografia, Neil Young merita, ancora una volta, totale rispetto. La prolificità di questi ultimi anni, anche nella sfera privata, non sempre è stata sinonimo di brillantezza artistica quanto invece di libertà e genuinità. Sulla scia dei suoi instant records più recenti, da LIVING WITH WAR che si scagliava contro la politica guerrafondaia di George W. Bush all’ambientalista FORK IN THE ROAD , THE MONSANTO YEARS colpisce duro musicalmente fin dai messaggi di speranza e amore dell’apertura A New Day For Love : “è un nuovo giorno per il pianeta , è un nuovo giorno per il sole”. Ok, poche novità: country garage/rock grezzo e puro fatto di chitarre, feedback infiniti (Big Box) e slogan travestiti da cori che sembrano già sentiti mille volte (People Want To Hear About Love), ma basta la libertà d’espressione e di movimento all’interno del music business (nella strafottente A Rock Star Bucks A Coffee Shop canta: “le madri vogliono sapere cosa mangiano i loro figli”) per fare dell’idealista Young e dei suoi dischi un esempio, ancora poco imitato, da seguire. La linea che lo divide dall’essere un predicatore rompipalle è spesso vicina, ma la forza del rock tiene tutto a debita distanza: linee e rompipalle veri (il miliardario Donald Trump l’ultimo della fila).
I figli di Willie Nelson, Lukas e Micah con i loro Promise Of The Real, accompagnano l’amico di papà come farebbero dei giovani cavalli pazzi alle prime armi con qualche pausa per tirare il fiato come nella sbilenca ballata country Wolf Moon che si riallaccia ad HARVEST MOON. Se volete bene a Neil Young già sapete che a parlare, nei suoi dischi, non è la voce dell’artista ma quella dell’uomo. E questo fa spesso la differenza quando la qualità non è più quella dei tempi migliori. Enzo Curelli 7 da Classic Rock #33 (Agosto 2015)
vedi anche
RECENSIONE: NEIL YOUNG & CRAZY HORSE-Psychedelic Pill (2012)
RECENSIONE: NEIL YOUNG-Live At The Cellar Door (2013)
RECENSIONE: NEIL YOUNG-Storytone (2014)
NEIL YOUNG & CRAZY HORSE live @ Barolo, 21 Luglio 2014
giovedì 13 agosto 2015
RECENSIONE: LANCE CANALES (The Blessing And The Curse)
LANCE CANALES The Blessing And The Curse (Music Road Records/IRD, 2015)
28 Gennaio 1948, un aereo cadde a Los Gatos Canyon: morirono quattro americani, i membri dell'equipaggio, che vennero tutti identificati immediatamente e ventotto braccianti messicani; di loro, invece, mai nessuno seppe nomi e cognomi, vennero segnalati solamente come deportati. Caso chiuso. Woody Guthrie ci scrisse una poesia, 'Plane Wreck At Los Gatos' , musicata in seguito da Martin Hoffman e conosciuta anche come 'The Deportee Song' , riproposta negli anni da numerosi cantautori americani, da Bob Dylan a Bruce Springsteen. Solamente nel 2010, lo scrittore messicano Tim Z. Hernandez, al lavoro per un libro, iniziò ad interessarsi della vicenda, arrivando, dopo lunghe ricerche, a capo del mistero riportando in superficie i nomi di tutti e ventotto i contadini periti nell'incidente che, finalmente, ebbero una lapide degna di tale nome. Lo stesso scrittore Tim Z.Hernandez recita l'elenco dei loro nomi mentre Lance Canales ricanta e suona quella canzone.
E basterebbe partire da questa versione di 'Deportee' di Woody Guthrie ( inizialmente uscita come singolo nel 2013) per capire chi è il songwriter californiano, originario di Fresno. Un disco intenso che sette canzoni prima parte cavalcando: 'California Or Bust' galoppa a ritmo di slide selvaggia mentre poco dopo 'Cold Dark Hole', un blues nero come la pece, ci presenta la voce scura e profonda di Canales, un po' Leonard Cohen, un po' Tom Waits e un po' quello che gli estimatori di Mark Lanegan vorrebbero sentire ancora dal loro idolo. Non cercatelo altrove quindi, lo troverete qua.
Un disco fatto di tante chitarre acustiche ora pigre e sonnacchiose (la bella 'Death Got No Mercy' in duetto con Eliza Gilkyson, la dolente 'Sing No More'), con qualche impennata elettrica frizzante e decisa; ballate tese, costruite su storie vissute in prima persona tra il duro lavoro nei campi di frutta e verdura a San Joaquin Valley ('Farmer') e le strade che portano verso tutti i confini, geografici ed umani, senza risparmiare attacchi politici che solamente chi ha le mani sporche di terra può permettersi di fare con dignità. Un folk blues ('Weary Feet Blues') suonato alla vecchia e antica maniera, scarno e diretto e una voce vissuta, credibile, orgogliosa delle proprie umili radici come lo sono state quelle dei più grandi storyteller americani: difficile non riconoscere le stesse strade percorse da Guthrie, Townes Van Zandt, Steve Earle e Tom Russell. Prodotto da Jimmy LaFave e distribuito dalla stessa etichetta, la Music Roads, di proprietà del cantautore texano che quest'anno è uscito con il buon THE NIGHT TRIBE. Il disco può contare sulla partecipazione di numerosi ospiti: dallo stesso LaFave, a Ray Boneville, da Joel Rafael a Eliza Gilkyson.
In questo Agosto di giornate dominate dall'ozio e dedicate a piccoli e piacevoli traguardi di giornata, raggiunti comunque con estrema calma, una copertina anonima e volutamente vintage si è fatta strada tra i tanti ascolti messi da parte nei mesi precedenti.
Una volta c'erano i famosi dischi per l'estate: ebbene, quest'anno, il mio è THE BLESSING AND THE CURSE (in uscita il 28 Agosto). Da ascoltare...anche dopo ferragosto naturalmente.
vedi anche
RECENSIONE: ELIZA GILKYSON-The Nocturne Diaries (2014)
RECENSIONE: STEVE EARLE-The Low Highway (2013)
RECENSIONE: THOM CHACON (2013)
RECENSIONE: RYAN BINGHAM-Fear And Saturday Night (2015)
28 Gennaio 1948, un aereo cadde a Los Gatos Canyon: morirono quattro americani, i membri dell'equipaggio, che vennero tutti identificati immediatamente e ventotto braccianti messicani; di loro, invece, mai nessuno seppe nomi e cognomi, vennero segnalati solamente come deportati. Caso chiuso. Woody Guthrie ci scrisse una poesia, 'Plane Wreck At Los Gatos' , musicata in seguito da Martin Hoffman e conosciuta anche come 'The Deportee Song' , riproposta negli anni da numerosi cantautori americani, da Bob Dylan a Bruce Springsteen. Solamente nel 2010, lo scrittore messicano Tim Z. Hernandez, al lavoro per un libro, iniziò ad interessarsi della vicenda, arrivando, dopo lunghe ricerche, a capo del mistero riportando in superficie i nomi di tutti e ventotto i contadini periti nell'incidente che, finalmente, ebbero una lapide degna di tale nome. Lo stesso scrittore Tim Z.Hernandez recita l'elenco dei loro nomi mentre Lance Canales ricanta e suona quella canzone.
E basterebbe partire da questa versione di 'Deportee' di Woody Guthrie ( inizialmente uscita come singolo nel 2013) per capire chi è il songwriter californiano, originario di Fresno. Un disco intenso che sette canzoni prima parte cavalcando: 'California Or Bust' galoppa a ritmo di slide selvaggia mentre poco dopo 'Cold Dark Hole', un blues nero come la pece, ci presenta la voce scura e profonda di Canales, un po' Leonard Cohen, un po' Tom Waits e un po' quello che gli estimatori di Mark Lanegan vorrebbero sentire ancora dal loro idolo. Non cercatelo altrove quindi, lo troverete qua.
Un disco fatto di tante chitarre acustiche ora pigre e sonnacchiose (la bella 'Death Got No Mercy' in duetto con Eliza Gilkyson, la dolente 'Sing No More'), con qualche impennata elettrica frizzante e decisa; ballate tese, costruite su storie vissute in prima persona tra il duro lavoro nei campi di frutta e verdura a San Joaquin Valley ('Farmer') e le strade che portano verso tutti i confini, geografici ed umani, senza risparmiare attacchi politici che solamente chi ha le mani sporche di terra può permettersi di fare con dignità. Un folk blues ('Weary Feet Blues') suonato alla vecchia e antica maniera, scarno e diretto e una voce vissuta, credibile, orgogliosa delle proprie umili radici come lo sono state quelle dei più grandi storyteller americani: difficile non riconoscere le stesse strade percorse da Guthrie, Townes Van Zandt, Steve Earle e Tom Russell. Prodotto da Jimmy LaFave e distribuito dalla stessa etichetta, la Music Roads, di proprietà del cantautore texano che quest'anno è uscito con il buon THE NIGHT TRIBE. Il disco può contare sulla partecipazione di numerosi ospiti: dallo stesso LaFave, a Ray Boneville, da Joel Rafael a Eliza Gilkyson.
In questo Agosto di giornate dominate dall'ozio e dedicate a piccoli e piacevoli traguardi di giornata, raggiunti comunque con estrema calma, una copertina anonima e volutamente vintage si è fatta strada tra i tanti ascolti messi da parte nei mesi precedenti.
Una volta c'erano i famosi dischi per l'estate: ebbene, quest'anno, il mio è THE BLESSING AND THE CURSE (in uscita il 28 Agosto). Da ascoltare...anche dopo ferragosto naturalmente.
vedi anche
RECENSIONE: ELIZA GILKYSON-The Nocturne Diaries (2014)
RECENSIONE: STEVE EARLE-The Low Highway (2013)
RECENSIONE: THOM CHACON (2013)
RECENSIONE: RYAN BINGHAM-Fear And Saturday Night (2015)
lunedì 10 agosto 2015
EDDA, SLICK STEVE & THE GANGSTERS, SEDDY MELLORY, PLAN DE FUGA live @ Clear Mountains Festival, Montichiari (BS) 7/8/9 Agosto 2015
venerdì 7 agosto 2015
RECENSIONE: JASON ISBELL (Something More Than Free)
Something More Than Free
(SOUTHEASTERN RECORDS, 2015)
Rinato per restare
L’aver militato come chitarrista e autore nei Drive-By Truckers per sei anni, i migliori del gruppo di Athens immediatamente seguenti all’ acclamato SOUTHERN ROCK OPERA del 2002, potrebbe garantirgli un posto nell’enciclopedia rock di questi vuoti anni duemila. Ma Jason Isbell ha sempre saputo mettersi in gioco con talento. Prima inventando i 400 Unit, poi da solo, scrivendo con il precedente SOUTHEASTERN una delle più toccanti pagine di autoanalisi lette negli ultimi tempi: un disco di country/folk, crudo ed essenziale che metteva in mostra dieci anni di cadute nelle tenebre degli abusi (alcolismo ma anche droghe) e la conseguente riabilitazione grazie a ricoveri e all’incontro salvifico con Amanda Shires, la donna diventata sua sposa e violinista, in risalto nel singolo 24 Frames. Questo secondo passo della rinascita è musicalmente più ambizioso, collettivo (il blues rock Palmetto Rose), e alleggerito nelle liriche: “è più celebrativo” come dice Isbell, e la futura paternità che sembra affrontata in Children Of Children ha influito nella stesura delle nuove undici canzoni, meno pungenti ma sempre di qualità. Enzo Curelli 7 da Classic Rock #33 (Agosto 2015)
martedì 4 agosto 2015
RECENSIONI: FRANCO GIORDANI (Incuintretimp) ME PEK E BARBA (Carta Canta)
FRANCO GIORDANI Incuintretimp (Block nota, 2015
ME PEK E BARBA Carta Canta (autoproduzione, 2015)
Non è un caso. INCUINTRETIMP di Franco Giordani e CANTA
CANTA dei Mé, Pék e Barba hanno tantissimi punti in comune. Sono due dischi,
usciti quest’anno, che viaggiano quasi a braccetto pur essendo completamente slegati
da qualsiasi logica di mercato che possa tentare di accomunarli: pensati,
costruiti e suonati da persone con la musica che batte nel cuore, gira nella
pancia ed esce dal cervello. Franco Giordani è un simpatico e talentuoso strumentista
friulano, lo conosco da qualche anno solamente via facebook ma questa è l’impressione-
sicuramente veritiera- con il folk che scorre nel sangue e con le scarpe ben
sporche della sua amata terra.
Franco Giordani (foto:Gabriele Moretti) |
In questo debutto solista ha messo tutto se stesso con
il prezioso aiuto di Luigi Maieron, poeta e cantautore carnico (cercate il suo
VINO TABACCO E CIELO del 2011) che lascia la firma su parecchi testi, sia in
dialetto (friulano e clautano) che in italiano (‘Gente Persa Per La Città’). E
poi c’è anche una piacevole parentesi inglese
con la finale rilettura di ‘The Old Triangle’ del drammaturgo e poeta irlandese
Brendan Behan.
I Mé, Pék e Barba, finalmente visti al recente Buscadero Day, sono una nutrita truppa
di sanguigni emiliani che ha lasciato un pezzetto di cuore in Irlanda, proprio come
fecero i primissimi vicini di casa MCR. Amano
scavare nel passato dei luoghi, delle persone, degli avvenimenti (per un classe
’73 come me, come non identificarsi in ‘Rossi Gol’?), amano far ballare (‘Niù
Folk’) e far pensare (‘Canto Barbaro’ ispirato da ‘Barbarico’ di G.L.Ferretti).
CARTA CANTA si spinge anche oltre: è un prezioso concept album con dodici
canzoni, anche qui dialetto e italiano si abbracciano, che traggono spunto da
altrettanti libri e autori. Partono da Trans Europa Express di Paolo Rumiz e arrivano
a Storia di Una Scatola Di sassi di Davide Persico. Strumenti della tradizione
(banjo, ghironda, flauto, violino) guidati dal capo banda Sandro Pezzarossa, con
la partecipazione di importanti ospiti
musicali tra cui spicca Marino Severini dei Gang che lascia la voce da bandito in ‘La Tigre D’Ogliastra’.Mé, Pék e Barba |
Infine, il legame che mi ha fatto accoppiare questi due dischi: Franco Giordani e i Me Pek e Barba sono buoni amici, si conoscono e hanno collaborato spesso insieme in passato, sia in studio che live. Non è un caso.
vedi anche:
RECENSIONE: ME PEK E BARBA-La Scatola Magica (2012)
RECENSIONE: LUIGI MAIERON-Vino, Tabacco e Cielo (2011)
lunedì 3 agosto 2015
domenica 26 luglio 2015
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 2: THE HOUSEMARTINS (London 0 Hull 4)
THE HOUSEMARTINS-London 0 Hull 4 (1986)
Hull batte Londra 4 a 0 fuori casa, e non ci sarà partita di ritorno. Hull è la piccola città dello Yorkshire (città natale pure degli Everything But The Girl e Mick Ronson, chitarrista di David Bowie, Lou Reed e Bob Dylan) dalla quale provengono quattro ragazzi vestiti come chierichetti in libera uscita seduti alla mensa dell’oratorio e sorpresi a bere spuma ma con il Manifesto di Marx nascosto dentro la cartella. Nel retro copertina si legge: “Take Jesus - Take Marx - Take Hope”. LONDON 0 HULL 4 è un esordio fulminante che resiste bene al tempo. Un disco di brit pop perfetto (attenzione! Provocazione gratuita: altro che Blur. Bleah!). Dodici potenziali singoli, frizzanti, urgenti e melodici ma carichi di rabbia e amarezza, che partono dalle melodie vocali, orecchiabili e pop del beat ’60 (‘Sheep’, ‘Happy Hour’), raccolgono per strada quel che resta delle chitarre rock dei contemporanei The Smiths (‘Anxious’), e ci appiccicano piccoli ma importanti adesivi di soul (‘Think For A Minute’, ‘Flag Day’) e gospel (‘Lean On Me’) proprio come fatto in quella cover di ‘Caravan Of Love’ di Isley-Jasper- Isley cantata a cappella, mai inserita in nessun album, che diventò però il loro marchio di riconoscimento e anche loro unico numero uno nelle classifiche di vendita. Gli Housemartins durarono solamente tre anni e tre dischi: seguiranno il secondo THE PEOPLE WHO GRINNED THEMSELVES TO DEATH (1987) e il terzo NOW THAT'S WHAT I CALL QUITE GOOD (1988), una raccolta con inediti, b-sides e singoli (qui troverete 'Caravan Of Love').
Poi i chierichetti crescono (ma mica tanto), chiudono il Manifesto di Marx e la Bibbia, salutano il parroco che li ha cresciuti e prendono ognuno la propria strada: Paul Heaton (voce) forma i Beautiful South insieme al batterista Dave Hemingway, Stan Cullimore (chitarra) si dedica alla TV , mentre Norman Cook (basso) si battezza una seconda volta con il nome Fatboy Slim e tenta la conquista del mondo. Amen. Dischi da isola deserta cresciuti nell’arido deserto (ma pieno di bei fiori) degli anni ottanta? Ci metto volentieri questo! Disco icona dei miei quattordici anni.
vedi anche
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 1: FRANCESCO DE GREGORI- Titanic (1982)
Hull batte Londra 4 a 0 fuori casa, e non ci sarà partita di ritorno. Hull è la piccola città dello Yorkshire (città natale pure degli Everything But The Girl e Mick Ronson, chitarrista di David Bowie, Lou Reed e Bob Dylan) dalla quale provengono quattro ragazzi vestiti come chierichetti in libera uscita seduti alla mensa dell’oratorio e sorpresi a bere spuma ma con il Manifesto di Marx nascosto dentro la cartella. Nel retro copertina si legge: “Take Jesus - Take Marx - Take Hope”. LONDON 0 HULL 4 è un esordio fulminante che resiste bene al tempo. Un disco di brit pop perfetto (attenzione! Provocazione gratuita: altro che Blur. Bleah!). Dodici potenziali singoli, frizzanti, urgenti e melodici ma carichi di rabbia e amarezza, che partono dalle melodie vocali, orecchiabili e pop del beat ’60 (‘Sheep’, ‘Happy Hour’), raccolgono per strada quel che resta delle chitarre rock dei contemporanei The Smiths (‘Anxious’), e ci appiccicano piccoli ma importanti adesivi di soul (‘Think For A Minute’, ‘Flag Day’) e gospel (‘Lean On Me’) proprio come fatto in quella cover di ‘Caravan Of Love’ di Isley-Jasper- Isley cantata a cappella, mai inserita in nessun album, che diventò però il loro marchio di riconoscimento e anche loro unico numero uno nelle classifiche di vendita. Gli Housemartins durarono solamente tre anni e tre dischi: seguiranno il secondo THE PEOPLE WHO GRINNED THEMSELVES TO DEATH (1987) e il terzo NOW THAT'S WHAT I CALL QUITE GOOD (1988), una raccolta con inediti, b-sides e singoli (qui troverete 'Caravan Of Love').
Poi i chierichetti crescono (ma mica tanto), chiudono il Manifesto di Marx e la Bibbia, salutano il parroco che li ha cresciuti e prendono ognuno la propria strada: Paul Heaton (voce) forma i Beautiful South insieme al batterista Dave Hemingway, Stan Cullimore (chitarra) si dedica alla TV , mentre Norman Cook (basso) si battezza una seconda volta con il nome Fatboy Slim e tenta la conquista del mondo. Amen. Dischi da isola deserta cresciuti nell’arido deserto (ma pieno di bei fiori) degli anni ottanta? Ci metto volentieri questo! Disco icona dei miei quattordici anni.
vedi anche
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 1: FRANCESCO DE GREGORI- Titanic (1982)
lunedì 20 luglio 2015
RECENSIONE: MANDOLIN ORANGE (Such Jubilee)
MANDOLIN ORANGE
Such Jubilee
(Iamsound Records, 2015)
Bluegrass per due
Johnny Cash e June Carter, Emmylou Harris e Gram Parsons , Gillian Welch e David Rawlings: quali e quante coppie hanno il merito di aver tenuto alto il nome dell’american music in tutti questi anni? I Mandolin Orange provano a tener testa ai grandi citati, fin dal loro debutto ‘Quiet Little Room’ uscito nel 2010. Forti dei numerosi consensi di pubblico e critica ottenuti dal precedente ‘This Side Of Jordan’ (2013), il duo della Carolina del Nord, formato da Emily Frantz e Andrew Marlin, ha trascorso questi ultimi due anni suonando ininterrottamente nei più famosi festival americani.
Ma quasi a voler sottolineare un distacco dal possibile aumento di fama, il quarto disco in carriera si priva di tutti gli orpelli inutili, facendosi bastare le buone armonie vocali e strumentali (violino, chitarre e mandolino) in dieci canzoni mid-tempo che viaggiano placidamente tra country e folk. L’uniformità della proposta, priva di reali affondi, può così trasformarsi in croce e delizia. (Enzo Curelli) da CLASSIX # 44 (Giugno/Luglio)
Bluegrass per due
Johnny Cash e June Carter, Emmylou Harris e Gram Parsons , Gillian Welch e David Rawlings: quali e quante coppie hanno il merito di aver tenuto alto il nome dell’american music in tutti questi anni? I Mandolin Orange provano a tener testa ai grandi citati, fin dal loro debutto ‘Quiet Little Room’ uscito nel 2010. Forti dei numerosi consensi di pubblico e critica ottenuti dal precedente ‘This Side Of Jordan’ (2013), il duo della Carolina del Nord, formato da Emily Frantz e Andrew Marlin, ha trascorso questi ultimi due anni suonando ininterrottamente nei più famosi festival americani.
Ma quasi a voler sottolineare un distacco dal possibile aumento di fama, il quarto disco in carriera si priva di tutti gli orpelli inutili, facendosi bastare le buone armonie vocali e strumentali (violino, chitarre e mandolino) in dieci canzoni mid-tempo che viaggiano placidamente tra country e folk. L’uniformità della proposta, priva di reali affondi, può così trasformarsi in croce e delizia. (Enzo Curelli) da CLASSIX # 44 (Giugno/Luglio)
lunedì 13 luglio 2015
BUSCADERO DAY Pusiano (CO), 11 Luglio 2015 (JAMES McMURTRY, DAVID CORLEY, CHRIS JAGGER, BOBO RONDELLI, BOCEPHUS KING...)
Il primo impatto con il parco comunale di Pusiano ha lo stesso effetto di un piatto che cade dalla credenza: sorpresa e rumore che passano in un attimo. E' tarda mattina quando il padrone di casa Andrea Parodi (organizzazione impeccabile) cazzia duramente un ambulante di vinili, reo d'aver piazzato il gazebo nel posto sbagliato. Viene chiamato in causa anche il sindaco, si alzano in aria parole ma tutto si sistemerà in breve tempo. Ad ognuno il proprio posto. Chi invece si trova a proprio agio in qualunque luogo venga messo è il canadese Bocephus King, vero prezzemolo della giornata. A lui l'onore di aprire la mia maratona musicale tra i due palchi allestiti al Buscadero Day di quest'anno. Non più piatti che cascano ma portate prelibate servite su piatti che brillano come l'argento, ma alla portata di tutti. Dategli una canzone e la farà sua, dategli una chitarra e vi intratterrà per ore. L'attacco con Jokerman di Dylan è subito delizia, Is Your Love In Vain da Street Legal, album che ama (amo) follemente è straordinaria. Yellow Submarine è un siparietto divertente e simpatico. Nel Bodo Acoustic Corner, ricavato sotto la tettoia a ridosso dei tavoli adibiti per pranzo e cena (ottimi prezzi!) ci si ripara dai raggi solari in una atmosfera intima e raccolta, si ritrovano amici e se ne conoscono di nuovi. Ci sono anche piacevoli sorprese: a fine set la giovanissima Alice Pisano (ne parlerò dopo) si unisce a Bocephus King per un altro omaggio a Dylan.
Il sole batte forte, invece, quando sul Main Stage sale Matt Waldon con la sua band per un set elettrico con le chitarre piazzate davanti a tutto che raggiungono il culmine nell'omaggio finale all'ultimo Tom Petty con American Plan B. Waldon presenta anche tre nuove canzoni che sembrano dare un indirizzo ben preciso al prossimo album. Vedremo.
Cerco l'ombra nel parco, trovo l'erba e mi ci sdraio, sento i concerti della Gabriele Scaratti Band e Salutumana da lì. La siesta pomeridiana con la musica in sottofondo è quasi rigenerante. Mi alzo per i Fireplaces di Caterino Washboard Riccardi, uno che ha trasformato i famosi quindici minuti di popolarità (ormai sapete tutti in quale palco è salito munito di washboard, vero?) in una buona opportunità per far girare la sua musica. Il gruppo, che per l'occasione è arricchito dalla chitarra di Anthony Basso (W.i.n.d.), è un ruspante trattore di campagna che ara i campi del rock'n'roll/folk/blues, sì rock'n'roll/folk/blues può andare: chitarre e chitarristi molto seventies, attitudine da bluegrass band di campagna e Caterino che dirige i suoi "caminetti" come un piccolo Boss del Brenta. La dedica del brano Shelter From The Storm (anche titolo del loro CD) ai poveri alluvionati vittime del recentissimo uragano che ha colpito il Veneto fa loro onore.
Quando sale sul palco la numerosa combriccola dei Me Pek e Barba, il sole ha allungato i suoi raggi ancora di più, occupando tutta l'area del pubblico. I parmensi suonano un Irish Folk contagioso dove antiche tradizioni, costumi popolari, attualità e letteratura si fondono bene insieme e l'ultimo album uscito Carta Canta (di cui parlerò presto) è una bella, curata ed ambiziosa sfida lanciata sul mercato.
Intanto nell'angolo acustico, Cesare Carugi, armato di sola chitarra, cuce il folk/rock americano al suo passaporto italiano come farebbero le buone massaie di una volta alle prese con dei pantaloni bucati sulle ginocchia. Ago e filo resistente che durerà almeno un'altra vita. Carugi presenta anche nuovi brani che usciranno nel prossimo disco (2016?), seguito del già ben accolto Pontchartrain (2013). Segue Alice Pisano, cantautrice che di anni ne ha solo venti, e di vita ne ha ancora molta davanti, ma è determinatissima: fa la spola tra Londra e la Toscana con la musica ben in testa. Sa quello che vuole, la sua musica preferita (l'EP di debutto si intitola Something Good) è quella giusta e con un po' di gavetta ben fatta potrà togliersi belle soddisfazioni. Intanto nella due giorni di concerti al Buscadero Day ha tanti spazi per farsi conoscere. A fine set, Bocephus King ricambia il favore e duetta con lei in Landslide dei Fleetwood Mac.
Lunghissimo il soundcheck per lo svedese Richard Lindgren accompagnato da un trio con tanto di sax. Le sue tastiere hanno poca voglia di suonare o semplicemente stanno soffrendo anche loro il caldo. Si perdono minuti. Il suo ultimo album Sundown On A Lemon Tree con titolo dedicato alla Liguria, il cappello da gondoliere veneziano e immediata citazione del prosecco bevuto a pranzo la dicono lunga sul carattere e sull' amore incondizionato per l'Italia. Lui sembra alticcio, ma la voce non da tutti e le canzoni arrangiate, stasera, in modo gentile e soffuso sono giuste per accompagnare il veloce pranzo della sera.
Tra i concerti più divertenti, ma non vi erano dubbi, c'è quello di Bobo Rondelli. Partenza in sordina e finale scatenato insieme al prezzemolo Bocephus King che pare appena uscito dal set di Jesus Christ Superstar. Un omaggio sgangherato al rock'n'roll a cui si uniscono i musicisti della Chris Jagger Atcha Band. Una jam divertente che conclude un concerto improvvisato ma quasi perfetto con tanto di apparizioni di principesse e polemica che pare quasi una messa in scena creata ad hoc: uno spettatore gradisce poco il linguaggio colorito del toscanaccio, ma evidentemente lo conosce solo poco. Rondelli ci sguazza.
Come sarà stata la vita di Chris Jagger? Almeno cinquant'anni li avrà passati a rispondere a domande sul fratello. A vederlo gigioneggiare sul palco con la sua Atcha Band sembra divertirsi un mondo mentre suona canzoni imbevute di cajun, folk inglese, country americano e rock'n'roll che a volte attaccano come fossero delle riuscite b-sides dei parenti stretti Stones. Un divertente aperitivo per il sopraggiungere della serata e una delle scalette meglio riuscite della giornata.
La prima grande attesa della serata è per il cantautore americano David Corley. Corley arriva dall'Indiana ed è un composto e onesto lavoratore del rock giunto al debutto Available Light-osannato dalla stampa straniera- in tarda età, dimostrazione che i treni possono passare anche in ritardo...ma passano. Ballate profonde e sporcate di polvere, narrate con quella voce roca che spesso chiama in causa il fantasma di Lou Reed. A mio avviso mancano ancora un tocco di personalità, maggiore versatilità di scrittura e perché no: la canzone che possa fare da traino. Ma il ragazzo (53 anni) è al debutto ed ha ancora tanta strada davanti a sé.
Alle 22, James McMurtry cala per la prima volta in Italia, in solitaria. I suoi piccoli romanzi americani tradotti in musica (è pur sempre figlio del premio Pulitzer Larry McMurtry) vivrebbero bene anche con le sole parole scritte su un foglio. Stasera manca l'impianto elettrico di una band per rendere il tutto più fruibile e scorrevole ma le sue storie escono ancora più forti per chi mastica bene l'inglese. Cappello calato in testa, sapienti dita sulla chitarra, piccoli occhiali, capelli ricci e lungo pizzetto bianchi, serio, onesto e concentrato così come abbiamo imparato a riconoscerlo negli ultimi anni. Lo sfondo è però lo stesso che campeggiava nel suo debutto Too Long In The Wasteland del 1989 che gli fu prodotto da John Mellencamp: un paesaggio terroso, spoglio e silenzioso, una lunga strada diritta senza fine e nessun segno di vita nelle vicinanze.
McMurtry ha appena rilasciato un disco, Complicated Game, il nono della sua carriera, con poche pecche e tanti alti, perfettamente in linea con tutta la sua carriera. Niente per cercare il facile consenso, ma tutto per proseguire l'eredità lasciata dai grandi cantautori texani dei '70, anche nel riconoscibile timbro vocale vibrato e parlato. Stasera è esattamente così: silenzioso, spoglio e diritto per la sua strada, e non si può non volergli bene.
vedi anche:
RECENSIONE: CESARE CARUGI- Pontchartrain (2013)
RECENSIONE & INTERVISTA: MATT WALDON-Learn To Love (2014)
RECENSIONE: ME PEK & BARBA-Mé, Pék e Barba 2003-2013 (2013)
James McMurtry |
Bocephus King |
Matt Waldon |
Cerco l'ombra nel parco, trovo l'erba e mi ci sdraio, sento i concerti della Gabriele Scaratti Band e Salutumana da lì. La siesta pomeridiana con la musica in sottofondo è quasi rigenerante. Mi alzo per i Fireplaces di Caterino Washboard Riccardi, uno che ha trasformato i famosi quindici minuti di popolarità (ormai sapete tutti in quale palco è salito munito di washboard, vero?) in una buona opportunità per far girare la sua musica. Il gruppo, che per l'occasione è arricchito dalla chitarra di Anthony Basso (W.i.n.d.), è un ruspante trattore di campagna che ara i campi del rock'n'roll/folk/blues, sì rock'n'roll/folk/blues può andare: chitarre e chitarristi molto seventies, attitudine da bluegrass band di campagna e Caterino che dirige i suoi "caminetti" come un piccolo Boss del Brenta. La dedica del brano Shelter From The Storm (anche titolo del loro CD) ai poveri alluvionati vittime del recentissimo uragano che ha colpito il Veneto fa loro onore.
The Fireplaces |
Me Pek e Barba |
Intanto nell'angolo acustico, Cesare Carugi, armato di sola chitarra, cuce il folk/rock americano al suo passaporto italiano come farebbero le buone massaie di una volta alle prese con dei pantaloni bucati sulle ginocchia. Ago e filo resistente che durerà almeno un'altra vita. Carugi presenta anche nuovi brani che usciranno nel prossimo disco (2016?), seguito del già ben accolto Pontchartrain (2013). Segue Alice Pisano, cantautrice che di anni ne ha solo venti, e di vita ne ha ancora molta davanti, ma è determinatissima: fa la spola tra Londra e la Toscana con la musica ben in testa. Sa quello che vuole, la sua musica preferita (l'EP di debutto si intitola Something Good) è quella giusta e con un po' di gavetta ben fatta potrà togliersi belle soddisfazioni. Intanto nella due giorni di concerti al Buscadero Day ha tanti spazi per farsi conoscere. A fine set, Bocephus King ricambia il favore e duetta con lei in Landslide dei Fleetwood Mac.
Cesare Carugi |
Alice Pisano |
Richard Lindgren |
Bobo Rondelli & Bocephus King |
Bobo Rondelli |
Chris Jagger |
David Corley |
David Corley |
James McMurtry |
McMurtry ha appena rilasciato un disco, Complicated Game, il nono della sua carriera, con poche pecche e tanti alti, perfettamente in linea con tutta la sua carriera. Niente per cercare il facile consenso, ma tutto per proseguire l'eredità lasciata dai grandi cantautori texani dei '70, anche nel riconoscibile timbro vocale vibrato e parlato. Stasera è esattamente così: silenzioso, spoglio e diritto per la sua strada, e non si può non volergli bene.
James McMurtry |
James McMurtry |
RECENSIONE: CESARE CARUGI- Pontchartrain (2013)
RECENSIONE & INTERVISTA: MATT WALDON-Learn To Love (2014)
RECENSIONE: ME PEK & BARBA-Mé, Pék e Barba 2003-2013 (2013)
giovedì 9 luglio 2015
RECENSIONE: EILEN JEWELL (Sundown Over Ghost Town)
EILEN JEWELL Sundown Over Ghost Town (Signature, 2015)
Se
siete soliti frequentare le strade della musica americana, nell’anno 2014
avrete sicuramente osservato un pesante truck
sfrecciare con disinvoltura tra gli altri veicoli che parevano fermi:
era Lucinda Williams con il suo perfetto Down Where The Spirit Meets The
Bone, più che un faro per molte cantautrici in erba. Eilen Jewell potrebbe essere un mini van, ben equipaggiato
per cercare di tenere testa a chi le sta
davanti, e l’età, seppur non più giovanissima, potrebbe giocare a favore
(classe 1979), anche se nel piedistallo degli artisti preferiti
campeggiano anche Bob Dylan, Loretta
Lynn (a cui dedicò un album nel 2010, Butcher Holler)e soprattutto Billie Holiday. Nativa di Boise nell’Idaho, a sette anni prende le prime lezioni di
pianoforte, a quattordici impara a suonare la chitarra come autodidatta,
facendosi le ossa suonando nelle sempre
affollate fiere contadine, poi spostandosi di città in città, da Santa Fe nel
New Mexico dove studia, passando per Los Angeles e Boston, città dove prende forma l’attuale band che la accompagna e tra le cui
fila milita il marito e batterista Jason Beek. La strada diventa sempre più
importante nella sua vita e fonte d’ispirazione per la scrittura “ogni giorno è un nuovo campo di battaglia,
una nuova avventura. Ci sono un sacco di sfide. È faticoso. Anche quando è
davvero divertente e bello, è comunque faticoso. Sono davvero innamorata della
strada. Sono inquieta, quando non sono sulla strada”. La versatilità di
scrittura è una buona arma usata a dovere “un
mix di blues, rockabilly, country, folk...tutte le cose americane con un po' di
jazz qua e là. È la classica musica americana, nel senso che è una miscela di
tutte le radici musicali”.
Sundown Over Ghost Town è il settimo album della sua carriera, un racconto personale ma quasi cinematografico nel suo incedere, nato durante il ritorno a Boise dopo un decennio di assenza “è un album molto autobiografico. Racconta più storie vere di tutti i miei altri dischi ”.
Sundown Over Ghost Town è il settimo album della sua carriera, un racconto personale ma quasi cinematografico nel suo incedere, nato durante il ritorno a Boise dopo un decennio di assenza “è un album molto autobiografico. Racconta più storie vere di tutti i miei altri dischi ”.
I tocchi lievi di My
Hometown accarezzano la tranquillità di casa in contrapposizione ai brutti
avvenimenti accaduti in una scuola
elementare di Newtown (un assassino fece
27 vittime) “non riuscivo a smettere di
pensare a tutti quei bambini innocenti e la grande perdita che stavano subendo
le loro famiglie, tutti a causa di insensato atto di violenza di un giovane
uomo. Allo stesso tempo, stavo realizzando quanto ero felice di essere a casa,
di quanta gentilezza mi circondava”.
Rio Grande è una western song ma nata in pieno inverno durante una nevicata e
impreziosita dalla tromba mariachi dell’ospite Jack Gardner, mentre Songbird che chiude l’album, è l’omaggio
folk alla nascita della figlia Mavis (come Mavis Staples), ultima gioia di una
vita ora tranquilla e una carriera in crescendo. (Enzo Curelli) da CLASSIX! #44 (Giugno/Luglio)
lunedì 6 luglio 2015
RECENSIONE: LORD HURON (Strange Trails)
LORD HURON
STRANGE TRAILS
(Iamsound Records, 2015)
Western dei tempi moderni
Quando Ben Schneider ha deciso di tramutare il suo progetto solista in una vera e propria band, aveva in mente un progetto ben preciso. Ora è tutto più chiaro. Gli indizi del precedente ’Lonesome Dreams’, uscito solo nel 2013 sono ampliati, smussati e pure arricchiti: l’incontro tra l’indie folk/rock (Fleet Foxes e My Morning Jacket, i riferimenti) e i temi western che impregnano le canzoni è un flusso continuo, adatto per quei viaggi interminabili che non prevedono una meta precisa. Viaggiare per il piacere di viaggiare: di giorno sotto il sole accecante, La Belle Fleur Sauvage è un treno che attraversa i grandi spazi come farebbe Johnny Cash sopra ad una vecchia locomotiva a vapore e se avesse una barba da neo folker, e di notte attraversando le tentatrici inquietudini e le asprezze del buio (The World Ender). Ancora in ombra rispetto ad altri compagni di viaggio contemporanei ma con tutte le carte in regola per meritare le stesse attenzioni. (Enzo Curelli) da CLASSIX! #44 (Giugno/Luglio)
Western dei tempi moderni
Quando Ben Schneider ha deciso di tramutare il suo progetto solista in una vera e propria band, aveva in mente un progetto ben preciso. Ora è tutto più chiaro. Gli indizi del precedente ’Lonesome Dreams’, uscito solo nel 2013 sono ampliati, smussati e pure arricchiti: l’incontro tra l’indie folk/rock (Fleet Foxes e My Morning Jacket, i riferimenti) e i temi western che impregnano le canzoni è un flusso continuo, adatto per quei viaggi interminabili che non prevedono una meta precisa. Viaggiare per il piacere di viaggiare: di giorno sotto il sole accecante, La Belle Fleur Sauvage è un treno che attraversa i grandi spazi come farebbe Johnny Cash sopra ad una vecchia locomotiva a vapore e se avesse una barba da neo folker, e di notte attraversando le tentatrici inquietudini e le asprezze del buio (The World Ender). Ancora in ombra rispetto ad altri compagni di viaggio contemporanei ma con tutte le carte in regola per meritare le stesse attenzioni. (Enzo Curelli) da CLASSIX! #44 (Giugno/Luglio)
Iscriviti a:
Post (Atom)