BLACK SABBATH 13 (Vertigo/Republic Records, 2013)
Se per valutare 13 dovessimo tornare indietro all'ultimo album in studio uscito con la sigla Black Sabbath stampata in copertina, il confuso Forbidden del 1995 con Tony Martin alla voce (e pure l'ospitata del rapper/rocker Ice-T), il giudizio non potrebbe che essere più che positivo. Il ritorno di Ozzy Osbourne alla voce su disco dopo 35 anni, lo stesso cantante che nella sua autobiografia, a fine libro, scrisse: "anche con gli altri Black Sabbath le cose filano lisce, sebbene ora sia sorta una controversia su chi detiene i diritti del nome...la mia posizione è che spettano a tutti indifferentemente...vedremo come andrà a finire..." e che, con la pesante complicità della moglie/manager/padrona Sharon, negò al povero R.J. Dio (R.I.P.) di accomiatarsi dal mondo terreno lasciando la sua firma su un disco a nome Black Sabbath che per l'occasione furono costretti, per problemi contrattuali, a reinventarsi sotto la sigla Heaven And Hell, è di per se notizia di rilievo, visto che da almeno quindici anni, dalla reunion live in formazione originale del 1998 (che comunque espresse due inediti pregevoli come Psycho Man e Selling My Soul contenuti nel live testimonianza Reunion), la telenovela tra i membri del gruppo sembrava infinita e non voler mai sbocciare in qualcosa di concreto, pur essendo chiaro che tutti i membri chiamati in causa avessero una voglia matta di suonare ancora insieme (almeno) per una volta.
Da quando il batterista originale Bill Ward uscì dalla porta principale, sbattendola-ancora una volta per "stupidi" problemi contrattuali- la reunion ha perso un po' di magia, immediatamente riconquistata dopo aver saputo del grave linfoma diagnosticato a Tony Iommi, che fortunatamente non gli ha impedito di portare a termine un lavoro pesante ma appagante alla chitarra ed imbarcarsi in tour. Notizia degli ultimi giorni danno per annullata l'unica data italiana prevista per il 5 Dicembre 2013, solo quella però: misteri tutti italici, come sempre.
13 è il disco che potrebbe chiudere definitivamente il capitolo Black Sabbath, sancendo la pace definitiva tra Osbourne ed i suoi vecchi compagni (rimane purtroppo l'ombra della defezione di Ward) ed il sentore lo si ha appena si giunge alla fine della quadrata e sulfurea Dear Father, ultima canzone del disco, quando un temporale e i rintocchi di campane riportano immediatamente all'inizio della storia, a quel debutto, a quei suoni che cambiarono la vita a più di un gruppo dal 1970 in avanti, con buona pace del povero Lester Bangs che li massacrò sulle pagine di Rolling Stone. La chiusura del cerchio è avvenuta, quarantatré anni dopo.
Reclutato il bravo Brad Wilk, batterista dei Rage Against The Machine-scelta curiosa, l'amico Vinny Appice non era disponibile?- con Rick Rubin in produzione e a lavorare, come in molti altri dischi, con l'orecchio da fan per cercare di ritrovare la primordiale essenza musicale del quartetto di Birmingham, 13 si eleva tra i migliori dischi del sabba nero usciti post 1978, andando a fare buona compagnia a Heaven and Hell(1980), il sempre sottovalutato Dehumanizer(1992) e The Devil You Know(2009), quest'ultimo uscito a nome Heaven & Hell, ma a tutti gli effetti Black Sabbath nel suono e nell'anima, in fondo, se lo fu il progetto solista di Iommi, Seventh Star(1986)...
Diverso il discorso quando 13 viene messo a confronto con la produzione seventies con Ozzy Osbourne alla voce. Pur ritenendo sbagliato a priori giudicare un disco targato 2013 paragonandolo a quelli usciti più di 40 anni fa, purtroppo l'operazione risulta inevitabile quando è la band stessa a creare alcuni doppioni-inutili e dannosi-che abbassano il voto ad un disco altrimenti ben riuscito e positivo. A voler inseguire il passato a tutti i costi, si incappa in una Planet Caravan numero due, quale risulta essere Zeitgeist, naturalmente privata del phatos malatamente cosmico/psichedelico dell'originale; in canzoni carta carbone come l'iniziale, pur buona, End of the Beginning che appena parte l'intro rallentato sai quando arriverà il cambio di tempo ed entrerà la voce di Ozzy, una Black Sabbath (la canzone) per gli anni 2000; oppure ad una pulizia di suono adottata da Rubin che rende poca giustizia alla chitarra di Tony Iommi. Insomma, si è osato poco e guardato più al mestiere, questo sì. Ma questi sono solo miei veniali capricci da fan. Ho trovato il disco estremamente riuscito nella sua globalità, sopportando pure alcune "ormai normali" cadute vocali di Ozzy Osbourne, molto vicine ai suoi ultimi dischi solisti-ma la sua vocalità sempre sul filo della stonatura è la sua forza inimitabile-, e la mancanza di quella sinistra e ossianica nube che avvolgeva i loro capolavori, dissolta inevitabilmente lungo gli anni.
Perché, a voler inseguire il passato capita anche: di imbattersi nella ritrovata vena blues di Damaged Soul, la mia preferita-cose che non si sentivano da tempo in un disco dei Sabbath- dove anche la voce di Ozzy, pur piena di effetti, è efficace e la chitarra di Iommi è libera di jammare e dialogare con un'armonica (che fa tanto The Wizard) nell'accelerato finale; di risentire il basso di Geezer Butler pulsare come ai vecchi tempi nei nove riusciti minuti di God Is Dead?, canzone che inizia lentamente ed arpeggiata per poi scuotersi ed arricchirsi di groove nel più veloce finale ("il sangue corre libero, la pioggia diventa rossa/dammi il vino, tu tieni il pane/l'eco delle voci nella mia testa/Dio è vivo o morto? Dio è morto?"); di sentire gli epici riff e i mille cambi d'umore di Age of Reason, e pensare che sarebbe stata perfetta per la voce di R.J.Dio; di scuotere la testa sotto al riff ossessivo e circolare di Loner; di ritrovare tracce di Hole In The Sky in Live Forever, la più diretta, corta e veloce del disco.
Se la storia dei Black Sabbath aveva bisogno di un degno disco per i titoli di coda-il già citato Forbidden non lo era- il piatto è servito. Non mi aspettavo nulla di più e mi accontento dei Black Sabbath che suonano come i Black Sabbath. Un "classico" come commiato è quello che ci voleva. Is this the end of beginning or the beginning of the end? Grazie di tutto. Voto 7
N.B. Nella Deluxe Edition, un secondo CD con 3 canzoni in più per un totale di 15 minuti: la moderna, riuscita e tiratissima Methademic, più vicina agli ultimi lavori solisti di Osbourne, la più "doomeggiante" Peace Of Mind e l'anarchia religiosa della dinamica Pariah .
vedi anche RECENSIONE: STATUS QUO-Bula Quo! (2013)
vedi anche RECENSIONE: QUEENS OF THE STONE AGE-...Like Clockwork (2013)
giovedì 13 giugno 2013
martedì 11 giugno 2013
RECENSIONE:WILLIE NILE (American Ride)
WILLIE NILE American Ride (Blue Rose Records, 2013)
La forza di Willie Nile è tutta raccolta tra il suo metro sessanta e settanta di altezza, un concentrato di nervi e tendini che a sessantacinque anni di età-appena compiuti- sono ancora tesi, vitali, scalpitanti, esplosivi, e chi lo ha visto almeno una volta sul palco, sa di cosa parlo. Un artista proiettato sempre verso il segno positivo dell'ottimismo con il cuore sanguinante, perennemente trafitto da una visione ancora romantica e salvifica della musica. Uno staordinario ed onesto entusiasmo, un'attitudine che molti giovani potrebbero solo invidiargli, mai superare o solo eguagliare, temprata da una carriera ad ostacoli che, se confrontata con la "faciloneria a buon mercato"del music business odierno, sembra appartenere alla preistoria, eppure gli anni ottanta non sembrano poi così lontani. Il piccolo cantautore di Buffalo si è ripreso con forza quel meritato posto che il rock'n'roll gli aveva già promesso fin dal suo strepitoso esordio del 1980, e che problemi legali, totalmente estranei alla "vera" musica, hanno cercato di insidiare fin da subito. Potrà sembrare paradossale ma la seconda parte di carriera, quella della sua vera rinascita artistica, inizia dopo il fatidico 11 Settembre 2001, una data spartiacque che per molti ha significato la fine, la chiusura di un cerchio, per lui, da lì, è iniziata una inarrestabile, meritata escalation. Il suo lento ritorno negli anni novanta, dopo il forzato esilio, prima con Place I Have Never Been (1991), poi con Beautiful Wreck Of The World (1999) di cui si ricorda la commovente dedica a Jeff Buckley in On The Road To Calvary, in seguito, dopo tanti altri anni di silenzio, l'impatto straordinario di Streets Of New York (2006), ritratto definitivo della città, con la ferite ancora aperte, che lo ha visto crescere umanamente e musicalmente, seguito dai successivi House Of A Thousand Guitars (2009) e The Innocent Ones (2010), a cui va aggiunta una carriera live letteralmente riesplosa e tanti attestati di stima da parte dei colleghi musicisti:" ho suonato più concerti in questi ultimi due anni che in tutta la carriera", dice.
Anche questo disco non è sfuggito, purtroppo, alle logiche contorte del mercato discografico, ma i tempi, fortunatamente, sono cambiati. Nile aveva queste dodici canzoni da far uscire, ma non un contratto che se ne prendesse cura; da prima si affida all'aiuto finanziario dei fan attraverso Pledgemusic, poi trova finalmente l'etichetta BlueRose Records ed il disco è ora qui, a girare con tutta la passione che straborda.
Una raccolta di canzoni rock senza tempo, con tutte le caratteristiche di quei vecchi dischi che abbiamo sempre amato, e che conserviamo gelosamente tra le cose più care e preziose, degno di stare accanto ad un The River, a Damn The Torpedoes, Infidels, a London Calling, ai suoi primi due (tutti titoli presi a caso, ma ci siamo capiti). American Ride fa la sua figura e il tempo aiuterà.
Un viaggio confortevole, brioso che esalta nei suoi momenti più spensierati e rock'n'roll, segnali di vita scagliati nell'apertura dal piglio punk, lanciata dopo il ramonesiano "one,two... one, two,three" di This Is Our Time; nel quadretto di ordinaria quotidianità lungo le famigliari strade della grande mela e ben dipinto in Life On Bleecker Street; nelle canzoni di fede -quella ironica, quella trovata, persa e ritrovata-nel rock'roll God Laughts scritta con il cantautore Eric Bazilian che fa il paio con la tesa epicità di If I Ever See The Light; nella cover di People Who Died dello scomparso poeta e musicista Jim Carroll suonata con l'urgenza punk e le chitarre elettriche davanti a tutto; o nell'incedere garage/punk anti-guerra di Holy War che potrebbe essere una outtake perduta del clashiano Sandinista!.
Un disco vario, American Ride. Che si pregia di ballate ad ampio respiro, leggere e romantiche come una carezza alla propria amata, quella che una volta era "troppo fredda" ed ora arde d'amore, She's Got My Heart "lei ha gli occhi di suo padre e il sorriso di sua madre/ma ha il mio cuore, sì ha il mio cuore"; o del country/folk dylaniano di American Ride, dal passo limpido e ben disteso, che sprizza e diffonde vita attraverso il pizzico di un banjo, puntando il dito su una cartina stradale degli States alla ricerca del viaggio salvifico che, partendo dalle strade della sua New York, tocca Menphis e Graceland, Nashville, costeggia il Delta del Mississippi e le coste Californiane, riposa di notte tra i deserti di Santa Fe, prosegue verso il Texas e San Francisco, si imbottisce di possente rock'n'roll, di melmoso blues e di raffinato jazz, si carica di sogni e sembra che non ti resti altro che saltare a bordo e vagabondare. "Come on ride ride ride with me baby come on". Scritta insieme a Mike Peters ex voce dei The Alarm, ora nei Big country. Già tra le mie canzoni dell'anno e da testare subito con il volante in mano.
Poi, la seconda metà del disco che lascia il segno dalla parte delle pure emozioni, percorrendo altre importanti strade musicali: il divertente rock swingato di Say Hey con i fiati e suonato con la tosta zampata rockabilly, il ballroom piano dello swing corale di Sunrise In New York, finendo con due prove cantautorali di valore assoluto come la profonda e struggente ballata per solo pianoforte e viola ( suonata da Suzanne Ornstein) di The Crossing, ed il folk di There's No Place Like Home che riporta ai padri putativi dei folksingers americani, Pete Seeger e Woody Guthrie, e che ha le ruote fumanti puntate verso la direzione del focolare, perché poi "potrai aver girato il mondo e fatto festa con i Rolling Stones" ma non c'è nessun posto come la propria casa.
Non vive più all'ombra di nessun paragone, avendo trovato la propria strada in quell'incrocio che unisce il folk del Greenwich Village con il punk metropolitano della sua amata New York di metà anni settanta ...da lì è partito e lì lo ritroviamo, con tanta vita vissuta nel bagaglio ma con la stessa urgenza comunicativa e la poetica urbana degli esordi.
Suonato con la stessa band che abbiamo imparato a conoscere e che lo accompagna in giro per il mondo e l'Europa, continente che lo ha adottato, da lui conquistato definitivamente con i tanti live: Johnny Pisano al basso, Matt Hogan alle chitarre e Alex Alexander alla batteria (più importanti ospiti come Steuart Smith e James Maddock).
L'annullamento del consueto tour estivo in Italia, una volta tanto, non è da prendere con egoistica rabbia, Nile con questo nuovo lavoro sta ottenendo grandi consensi in madrepatria e sta sfruttando al meglio le carte promozionali a sua disposizione, raccogliendo tutto il buono che gli sta arrivando. Tutto meritato.
vedi anche RECENSIONE: WILLIE NILE-The Innocent Ones (2010)
vedi anche RECENSIONE/Live: WILLIE NILE Asti Musica 14 Luglio 2010
vedi anche RECENSIONE: THE DEL-LORDS- Elvis Club (2013)
vedi anche RECENSIONE: STEVE EARLE-The Low Highway (2013)
vedi anche RECENSIONE: JASON ISBELL-Southeastern (2013)
La forza di Willie Nile è tutta raccolta tra il suo metro sessanta e settanta di altezza, un concentrato di nervi e tendini che a sessantacinque anni di età-appena compiuti- sono ancora tesi, vitali, scalpitanti, esplosivi, e chi lo ha visto almeno una volta sul palco, sa di cosa parlo. Un artista proiettato sempre verso il segno positivo dell'ottimismo con il cuore sanguinante, perennemente trafitto da una visione ancora romantica e salvifica della musica. Uno staordinario ed onesto entusiasmo, un'attitudine che molti giovani potrebbero solo invidiargli, mai superare o solo eguagliare, temprata da una carriera ad ostacoli che, se confrontata con la "faciloneria a buon mercato"del music business odierno, sembra appartenere alla preistoria, eppure gli anni ottanta non sembrano poi così lontani. Il piccolo cantautore di Buffalo si è ripreso con forza quel meritato posto che il rock'n'roll gli aveva già promesso fin dal suo strepitoso esordio del 1980, e che problemi legali, totalmente estranei alla "vera" musica, hanno cercato di insidiare fin da subito. Potrà sembrare paradossale ma la seconda parte di carriera, quella della sua vera rinascita artistica, inizia dopo il fatidico 11 Settembre 2001, una data spartiacque che per molti ha significato la fine, la chiusura di un cerchio, per lui, da lì, è iniziata una inarrestabile, meritata escalation. Il suo lento ritorno negli anni novanta, dopo il forzato esilio, prima con Place I Have Never Been (1991), poi con Beautiful Wreck Of The World (1999) di cui si ricorda la commovente dedica a Jeff Buckley in On The Road To Calvary, in seguito, dopo tanti altri anni di silenzio, l'impatto straordinario di Streets Of New York (2006), ritratto definitivo della città, con la ferite ancora aperte, che lo ha visto crescere umanamente e musicalmente, seguito dai successivi House Of A Thousand Guitars (2009) e The Innocent Ones (2010), a cui va aggiunta una carriera live letteralmente riesplosa e tanti attestati di stima da parte dei colleghi musicisti:" ho suonato più concerti in questi ultimi due anni che in tutta la carriera", dice.
Anche questo disco non è sfuggito, purtroppo, alle logiche contorte del mercato discografico, ma i tempi, fortunatamente, sono cambiati. Nile aveva queste dodici canzoni da far uscire, ma non un contratto che se ne prendesse cura; da prima si affida all'aiuto finanziario dei fan attraverso Pledgemusic, poi trova finalmente l'etichetta BlueRose Records ed il disco è ora qui, a girare con tutta la passione che straborda.
Una raccolta di canzoni rock senza tempo, con tutte le caratteristiche di quei vecchi dischi che abbiamo sempre amato, e che conserviamo gelosamente tra le cose più care e preziose, degno di stare accanto ad un The River, a Damn The Torpedoes, Infidels, a London Calling, ai suoi primi due (tutti titoli presi a caso, ma ci siamo capiti). American Ride fa la sua figura e il tempo aiuterà.
Un viaggio confortevole, brioso che esalta nei suoi momenti più spensierati e rock'n'roll, segnali di vita scagliati nell'apertura dal piglio punk, lanciata dopo il ramonesiano "one,two... one, two,three" di This Is Our Time; nel quadretto di ordinaria quotidianità lungo le famigliari strade della grande mela e ben dipinto in Life On Bleecker Street; nelle canzoni di fede -quella ironica, quella trovata, persa e ritrovata-nel rock'roll God Laughts scritta con il cantautore Eric Bazilian che fa il paio con la tesa epicità di If I Ever See The Light; nella cover di People Who Died dello scomparso poeta e musicista Jim Carroll suonata con l'urgenza punk e le chitarre elettriche davanti a tutto; o nell'incedere garage/punk anti-guerra di Holy War che potrebbe essere una outtake perduta del clashiano Sandinista!.
Un disco vario, American Ride. Che si pregia di ballate ad ampio respiro, leggere e romantiche come una carezza alla propria amata, quella che una volta era "troppo fredda" ed ora arde d'amore, She's Got My Heart "lei ha gli occhi di suo padre e il sorriso di sua madre/ma ha il mio cuore, sì ha il mio cuore"; o del country/folk dylaniano di American Ride, dal passo limpido e ben disteso, che sprizza e diffonde vita attraverso il pizzico di un banjo, puntando il dito su una cartina stradale degli States alla ricerca del viaggio salvifico che, partendo dalle strade della sua New York, tocca Menphis e Graceland, Nashville, costeggia il Delta del Mississippi e le coste Californiane, riposa di notte tra i deserti di Santa Fe, prosegue verso il Texas e San Francisco, si imbottisce di possente rock'n'roll, di melmoso blues e di raffinato jazz, si carica di sogni e sembra che non ti resti altro che saltare a bordo e vagabondare. "Come on ride ride ride with me baby come on". Scritta insieme a Mike Peters ex voce dei The Alarm, ora nei Big country. Già tra le mie canzoni dell'anno e da testare subito con il volante in mano.
Poi, la seconda metà del disco che lascia il segno dalla parte delle pure emozioni, percorrendo altre importanti strade musicali: il divertente rock swingato di Say Hey con i fiati e suonato con la tosta zampata rockabilly, il ballroom piano dello swing corale di Sunrise In New York, finendo con due prove cantautorali di valore assoluto come la profonda e struggente ballata per solo pianoforte e viola ( suonata da Suzanne Ornstein) di The Crossing, ed il folk di There's No Place Like Home che riporta ai padri putativi dei folksingers americani, Pete Seeger e Woody Guthrie, e che ha le ruote fumanti puntate verso la direzione del focolare, perché poi "potrai aver girato il mondo e fatto festa con i Rolling Stones" ma non c'è nessun posto come la propria casa.
Non vive più all'ombra di nessun paragone, avendo trovato la propria strada in quell'incrocio che unisce il folk del Greenwich Village con il punk metropolitano della sua amata New York di metà anni settanta ...da lì è partito e lì lo ritroviamo, con tanta vita vissuta nel bagaglio ma con la stessa urgenza comunicativa e la poetica urbana degli esordi.
Suonato con la stessa band che abbiamo imparato a conoscere e che lo accompagna in giro per il mondo e l'Europa, continente che lo ha adottato, da lui conquistato definitivamente con i tanti live: Johnny Pisano al basso, Matt Hogan alle chitarre e Alex Alexander alla batteria (più importanti ospiti come Steuart Smith e James Maddock).
L'annullamento del consueto tour estivo in Italia, una volta tanto, non è da prendere con egoistica rabbia, Nile con questo nuovo lavoro sta ottenendo grandi consensi in madrepatria e sta sfruttando al meglio le carte promozionali a sua disposizione, raccogliendo tutto il buono che gli sta arrivando. Tutto meritato.
vedi anche RECENSIONE: WILLIE NILE-The Innocent Ones (2010)
vedi anche RECENSIONE/Live: WILLIE NILE Asti Musica 14 Luglio 2010
vedi anche RECENSIONE: THE DEL-LORDS- Elvis Club (2013)
vedi anche RECENSIONE: STEVE EARLE-The Low Highway (2013)
vedi anche RECENSIONE: JASON ISBELL-Southeastern (2013)
sabato 8 giugno 2013
RECENSIONI:EXTREMA (The Seed Of Foolishness) AIRBOURNE(Black Dog Barking)
EXTREMA The Seed Of Foolishness ( Fuel Records, 2013)
Ricordo ancora che nel 1992 sguinzagliai mio padre, in giro per lavoro, lungo tutti i negozi musicali di Milano alla ricerca del loro fantomatico debutto Tension At The Seams. Non lo trovò mai (così mi disse) e me lo dovetti procurare "de sfroos" un po' in ritardo, scoprendo poi che uscì ufficialmente nel 1993. Già, sono passati vent'anni, papà è in pensione da un bel pezzo ed io sono ancora qui ad ascoltare una piccola istituzione del metal tricolore, perchè: per storia, coerenza, perseveranza, longevità e attitudine, l'enciclopedia del thrash metal italiano ha un posto importante tutto per loro. Poche balle. Un disco che punta il dito o meglio le dita medie contro le cospirazioni segrete che si spartiscono le fette di mondo (Between The Lines), la corruzione, i politici (The Politics, Again And Again), e lo fa usando lo stesso linguaggio musicale-ritrovato-di inizio carriera, perdendo solo la vena funk del debutto-scomparsa con la dipartita dello storico bassista Mattia Bigi-ma mantenendo inalterate le caratteristiche del secondo The Positive Pressure Of Injustice (1995), le stesse che avevano caratterizzato già i due precedenti dischi Set The World On Fire (2005) e Pound For Pound (2009). Una trilogia pressoché perfetta. Un monolite aggressivo in bilico tra old school thrash e anni '90, quelli di Pantera e Machine Head, che lascia poco respiro, a parte l'epicità della semi-ballad Bones e la conclusiva A Moment Of Truth che odora di southern rock. Perché, diciamocelo, l'unico disco poco riuscito in carriera rimane quel Better Mad Than Dead (2001) tanto moderno ai tempi quanto vecchio oggi, che inseguiva mode musicali risultate poi passeggere, e fortemente segnato da momenti di instabilità e scazzi interni, raddoppiati da tutte le difficoltà avute in carriera con le etichette discografiche e da una fetta di pubblico che (inspiegabilmente) mai li ha sopportati.
Ora la formazione sembra aver trovato il giusto assetto, guidata dai veterani GL Perotti, cantante versatile e a proprio agio sia tra il growl (Sick An Tired) che la melodia (Bones) e Tommy Massara alla chitarra spara riff e assoli-tanti e ben fatti in tutto il disco-, dalla batteria del sempre più incisivo Paolo Crimi e dall'ultimo arrivato in formazione, il bassista Gabri Giovanna. Una carriera quasi trentennale la loro, mantenendo intatta l'attitudine e la voglia di arrivare degli esordi ed una instancabile propensione a suonare sopra a tutti i palchi possibili, dai più piccoli ai grandi festival; il prossimo appuntamento sarà quello in apertura ai Motorhead. Questa è la loro forza ed elisir di lunga vita artistica.
AIRBOURNE Black Dog Barking (Roadrunner, 2013)
Giunti al traguardo del terzo disco, lo si può affermare senza più nessun dubbio: gli Airbourne sono questi, prendere o lasciare! Alla band australiana (di casa nel New Jersey) non importa andare oltre l'emulazione, che sfiora spesso il plagio (Live It Up) degli AC-DC targati Brian Johnson, quelli tutto muscoli e hard rock vitaminico degli anni '80/'90, ben sintetizzati nel loro ultimo vero masterpiece The Razors Edge, o degli altri conterranei, spesso dimenticati e più borderline Rose Tattoo. Il loro approccio è rimasto lo stesso del debutto Runnin'Wild (2007), poderoso, frizzante, anthemico (Ready To Rock) in pieno stile ottantiano, con la voce urlata e graffiante di Joel O'Keeffe a sovrastare il tutto. Salvo qualche ottima eccezione che potrebbe essere ripescata in futuro per rimpolpare la cartella "variazioni sul tema" come la metallosa Hungry. Con tutti gli aspetti positivi e negativi di un disco da cui sai già cosa aspettarti fin dalla prima rullata, ma sostanzialmente più piacevole rispetto al precedente No Guts.No Glory (2010).
Gli Airbourne possiedono sì quella sfrontatezza e carica giovanile che non troviamo più negli AC-DC degli ultimi stanchi lavori in studio (Black Ice non era comunque malaccio), ma purtroppo manca tutto quello "sporco" retro bagaglio blues che Angus Young e soci si trascinano dietro dagli anni settanta e che li hanno resi, sì imitabili, ma unici.
Per ora ci si diverte ancora, in fondo a loro basta questo e dal vivo sono una simpatica "pericolosa potenza" di divertimento rock'n'roll, ma non so quanto il gioco potrà ancora durare. In fondo, con gli australiani originali ancora in giro, perchè accontentarsi delle copie?
lunedì 3 giugno 2013
RECENSIONE/REPORT Live BRUCE SPRINGSTEEN & THE E STREET BAND Live@Stadio Euganeo, Padova, 31 Maggio 2013
Quando torni a casa parzialmente afono e hai un rantolo di voce degno di Tom Waits, quando hai tanto buon vino bianco, qualche spritz in corpo ma soprattutto quando hai una grazia ricevuta che fuoriesce scintillando dal taschino dei sogni musicali, il ricordo di almeno un paio di intense interpratazioni da brividi che ti porterai dietro per molto tempo e un nuovo idolo "casereccio"da idolatrare, hai tutta la certezza che durante la due giorni a Padova, che ti sei regalato con tante riserve iniziali, abbia funzionato tutto a meraviglia. E Bruce Springsteen disse, dice e dirà sempre: "la regola per me, come performer, è: non si può essere strepitosi una sera e così e così la sera dopo. Bisogna essere perfetti ogni volta che si entra in scena. Quando qualcuno compra un biglietto per un tuo concerto è la solita vecchia storia: è come se ti stringesse la mano. Per lui conta solo quella sera. Non gliene può fregare di meno che tu sarai strepitoso la sera dopo! Io questa cosa la prendo seriamente. Saliamo sul palco e mettiamo in scena una grande festa, fatta di risate, di mosse un po' sceme, di balli scatenati. Ma sotto questa superficie, c'è qualcosa di profondo: un patto implicito tra l'artista e il pubblico. E' una cosa di grande valore, ed è divertente e ti pagano un mucchio di soldi..." da Come un killer sotto il sole.
E dire, invece, che quest'anno mi ero ripromesso che avrei saltato l'avvenimento: poche motivazioni, poco entusiasmo, pochi soldi, un solo anno trascorso da San Siro 2012, nessuna novità in vista, show che si preannuncia-nella mia testa- sostanzialmente uguale a quello dell'anno precedente, stessa formazione allargata con fiati, percussioni e coristi in aggiunta alla vecchia E Street Band-ancora in piedi nonostante gli acciacchi e le defezioni umane (Max Weinberg rimane sempre strepitoso e una gioia da vedere nella sua tranquilla compostezza), nessuna nuova canzone da proporre, ma forse questo è l'unico motivo poco valido, visto che dall'inizio del Wrecking Ball Tour nel 2012 ad oggi, è riuscito a tirare fuori dalla sua discografia qualcosa come 200 canzoni. "Quasi un tour fotocopia degli ultimi fatti", mi ripetevo per autoconvincermi. C'ero quasi riuscito. "Quest'anno salto" l'ho ripetuto più volte, ero ad un passo dal mio intento quando... rileggo quello che ho riportato qua sopra e...mi ricredo, Springsteen mantiene sempre la parola e quei devoti che non si perdeno nemmeno un suo concerto lo sanno bene. Un patto con i fan, marchiato a fuoco e mai disatteso.
Eccomi qua, con il biglietto in una mano e il volante nell'altra, in partenza per una due giorni a Padova e dintorni, sfidando le previsioni meteorologiche che naturalmente prevedono pioggia e tu che non sai se piangere o gioire, vista l'epicità raggiunta dai concerti "bagnati", memore ancora di quel Milano 2003 che ad un certo punto non riuscivi più a filtrare l'acqua dalle lacrime. Dicono che si viva una sola volta, ma il problema è Springsteen. Visto una volta, non puoi farne più a meno, come una innocua droga pesante che ti rende la vita più leggera.
"Che album ci suonerà per intero questa sera?" , è la domanda che girava tra gli amici in macchina dopo aver capito che questo nuovo giro di tour, per promuovere nuovamente 'Wrecking Ball' e l'inutile raccolta uscita in concomitanza con i concerti europei, portava questa unica vera novità. Non in tutte le date, ma si sperava succedesse "qualcosa di speciale" in quella di Padova, visto che a Napoli, in piazza Plebiscito, ha fatto altre sorprese ma non quella, lasciando pure uno strascico di polemiche-assai incomprensibile-da parte del comune partenopeo (vergogna!). Il mio sogno di ascoltare tutto 'Darkness On The Edge Of Town' non si è avverato. L'anno scorso preso da mistiche visioni, dopo il concerto di San Siro a Milano, avevo quasi profetizzato la fine del mandato di Papa Ratzinger, auspicando l'ascensione di Springsteen al comando della Chiesa (Rock). Qualcosa, nell'anno in corso, dalle parti dello Stato Pontificio si è mosso e Papa Francesco non sarà Springsteen, ma è quanto di più anticonvenzionale si potesse avere. Ringraziamo ugualmente. Nella casa di Sant' Antonio, invece, chiedevo solo la grazia di un intero album eseguito in sequenza, anche perchè dopo tanti concerti visti, era veramente difficile chiedere qualcosa di nuovo. Ma giunti a metà concerto con la pioggia che iniziava a cadere e dopo aver visto Springsteen raccogliere un cartello che lo invitava ad eseguire Spare Parts (poi non suonata), nessuno si aspettava di vederlo annunciare, fermo sul microfono, che solo per Padova (pronunciata per tutta la serata con l'accento fatto cadere dove solo lui sa) avrebbe suonato tutto Born To Run. Solo allora ho capito che Sant'Antonio aveva interceduto per noi tutti.
Il pomeriggio era già iniziato nel migliore dei modi: alle 17 e 25, i megaschermi si accendono improvvisamente, un boato si alza tra chi attende pigramente sdraiato sul prato. Si vedono Claudio Trotta della Barley Arts e Bruce Springsteen, sembrano le immagini che documentano il loro arrivo allo stadio. Gli schermi si spengono. Tutto qua. Passano cinque minuti e Springsteen si materializza sul palco. Giubbotto di pelle e occhiali da sole, chitarra, armonica e due piccole perle acustiche (The Promised Land e Growin' Up) sparate a freddo sui fan ancora impegnati con panini, birra, bisogni fisiologici e pennica pre concerto. Sarà il preludio di una serata da ricordare e il suo "arrivederci a più tardi" sa tanto di vecchio amico che ti aspetta a casa sua per cena dopo aver consumato un veloce ma intenso aperitivo insieme a te.
Ore 20-45, come ci aveva lasciato nel pomeriggio, si ripresenta la sera, manca il giubbotto di pelle, sono rimaste una camicia ed una cravatta nera ben nascosta sotto. Ancora acustica, tutta la cruda intensità di The Ghost Of Tom Joad. Con l'entrata della E Street Band, ormai allargata a 15 elementi, la prima mezz'ora è già un vortice di buone emozioni rock: un grande piacere riascoltare la nostalgia resa epica in Long Walk Home da 'Magic', ancora di più Two Hearts e The Ties That Bind da 'The River', con quest'ultima pescata dall'ormai consueto rito dei "cartelli richiesta" insieme a due gioielli come Boom Boom di John Lee Hooker ed una Something In The Night che scalda definitivamente la serata. Con i brani di "Wrecking Ball" (se ne contano quattro, alla fine) che dal vivo acquisiscono sempre maggior forza e vigore ed una Spirit In The Night che eleva Jack Clemons sul piedistallo. Il capo continua a dare sempre più spazio al virgulto nipote, concedendogli tutta la ribalta che lo zio si prendeva ai suoi tempi.
Una parentesi a parte merita l'esecuzione integrale di Born To Run, il disco che fece dire a Springsteen queste parole: "Sono nato, invecchiato, e morto facendo questo disco". Se Tenth Avenue Freeze-Out è diventata definitivamente il momento per ricordare i vecchi amici Clarence Clemons e Danny Federici, almeno tre canzoni hanno svettato su tutte. Il rifugio degli ultimi cantato con forza in Backstreets, Meeting Across The River che trasuda passione, con la tromba che rincorre la voce di Bruce e l'intensità che avvolge lo stadio, creando una cappa di rapimento mistico che si disintegra nell'applauso finale e poi la saga metropolitana di Jungleland , un crescendo di emozioni che non provavo da molto tempo, con il pianoforte di Roy Bittan ad aprire e chiudere con in mezzo la voce di Springsteen che raggiunge i picchi emotivi massimi di tutto il concerto, con i silenzi complici a creare ulteriore magia. Dieci minuti intensi da impacchettare e portarsi via come ricordo. Potrebbe anche finire tutto qua e si andrebbe a casa felici e contenti.
Intanto nel prato con forza e vigore un gruppo rumoroso di ragazzi croati si impossessa delle transenne che dividono dal pit. Portano in dote uno striscione gigantesco e fastidioso per chi sta dietro ( "Bruce, Croatia is waitin a sunny day" dice ) e saranno i protagonisti-citati dallo stesso Springsteen- di Waiting On Sunny Day. Evidentemente dalle loro parti c'è ancora qualcosa di buio che necessita di luce calorosa che scaldi e illumini le zone d'ombra. Missione compiuta.
Ma non sono gli unici protagonisti del "popolo" che hanno animato il concerto. I fan sono sempre più parte integrante dello spettacolo e Bruce è alla continua ricerca del contatto umano, quasi un abbraccio paterno il suo, una voglia di calore e sicurezza, un bisogno d'affetto cercato e contraccambiato. Se il bambino durante la stessa Waiting On Sunny Day, la ragazza con chitarra a tracolla e il ballo cheek to cheek con la signora durante Dancing In The Dark sono ormai appuntamenti fissi e (purtroppo) ormai prevedibili, durante Pay Me My Money Down, eseguita in stile New Orleans big band, ecco salire sul palco mister Caterino "Groove" Riccardi che dal mattino, in compagnia della sua washboard metallica appesa al collo e i cucchiai in pugno, aspettava di essere notato per salire on stage. Con la sua band suona alcune canzoni della Seeger Sessions Band e saprebbe come comportarsi sopra a quel palco. Un sogno che si avvera quando Bruce lo indica e lo invita. I 40.000 dello Stadio Euganeo sembrano avere solo occhi per lui, il nuovo "local hero", anche quando metà band scende vicino al pit in un Mardi Gras di ombrellini colorati, lui ritorna sopra al palco a grattuggiare instancabilmente con i suoi cucchiai. Indimenticabile lo sguardo fisso, ammirato e compiaciuto di Springsteen sulle sue posate e sinceri gli attestati di stima e simpatia a fine esibizione. Caterino ha lasciato il suo cuore a mille in quei cinque minuti di notorietà, ma
ha rappresentato il sogno in carne, ossa (e cucchiai) di tutto lo stadio meglio di chiunque altro. La comunità di Facebook entra già in azione.
Si chiude dopo 3 ore, forse meno dei suoi elevati standard, ballando con Twist And Shout e la consapevolezza che saltare l'appuntamento con un concerto di Springsteen è sempre un azzardo da prendere in seria considerazione.
SET LIST/SCALETTA Padova, 31 Maggio 2013: The Promised Land/Growin' Up/The Ghost of Tom Joad/ Long Walk Home/My Love Will Not Let You Down/Two Hearts/Boom Boom/Something in the Night/The Ties That Bind/We Take Care of our Own/Wrecking Ball/Death to my Hometown/Spirit in the Night/Thunder Road/Tenth Avenue Freeze-Out/Night/Backstreets/Born To Run/She’s the One/Meeting Across the River/Jungleland/Shackled and Drawn/Waiting On A Sunny Day/The Rising/Badlands/Pay Me My Money Down/Born In The U.S.A./Dancing In The Dark/Twist And Shout
vedi anche: RECENSIONE/REPORT Live BRUCE SPRINGSTEEN Live@Stadio San Siro, Milano, 7 Giugno 2012
E dire, invece, che quest'anno mi ero ripromesso che avrei saltato l'avvenimento: poche motivazioni, poco entusiasmo, pochi soldi, un solo anno trascorso da San Siro 2012, nessuna novità in vista, show che si preannuncia-nella mia testa- sostanzialmente uguale a quello dell'anno precedente, stessa formazione allargata con fiati, percussioni e coristi in aggiunta alla vecchia E Street Band-ancora in piedi nonostante gli acciacchi e le defezioni umane (Max Weinberg rimane sempre strepitoso e una gioia da vedere nella sua tranquilla compostezza), nessuna nuova canzone da proporre, ma forse questo è l'unico motivo poco valido, visto che dall'inizio del Wrecking Ball Tour nel 2012 ad oggi, è riuscito a tirare fuori dalla sua discografia qualcosa come 200 canzoni. "Quasi un tour fotocopia degli ultimi fatti", mi ripetevo per autoconvincermi. C'ero quasi riuscito. "Quest'anno salto" l'ho ripetuto più volte, ero ad un passo dal mio intento quando... rileggo quello che ho riportato qua sopra e...mi ricredo, Springsteen mantiene sempre la parola e quei devoti che non si perdeno nemmeno un suo concerto lo sanno bene. Un patto con i fan, marchiato a fuoco e mai disatteso.
"Che album ci suonerà per intero questa sera?" , è la domanda che girava tra gli amici in macchina dopo aver capito che questo nuovo giro di tour, per promuovere nuovamente 'Wrecking Ball' e l'inutile raccolta uscita in concomitanza con i concerti europei, portava questa unica vera novità. Non in tutte le date, ma si sperava succedesse "qualcosa di speciale" in quella di Padova, visto che a Napoli, in piazza Plebiscito, ha fatto altre sorprese ma non quella, lasciando pure uno strascico di polemiche-assai incomprensibile-da parte del comune partenopeo (vergogna!). Il mio sogno di ascoltare tutto 'Darkness On The Edge Of Town' non si è avverato. L'anno scorso preso da mistiche visioni, dopo il concerto di San Siro a Milano, avevo quasi profetizzato la fine del mandato di Papa Ratzinger, auspicando l'ascensione di Springsteen al comando della Chiesa (Rock). Qualcosa, nell'anno in corso, dalle parti dello Stato Pontificio si è mosso e Papa Francesco non sarà Springsteen, ma è quanto di più anticonvenzionale si potesse avere. Ringraziamo ugualmente. Nella casa di Sant' Antonio, invece, chiedevo solo la grazia di un intero album eseguito in sequenza, anche perchè dopo tanti concerti visti, era veramente difficile chiedere qualcosa di nuovo. Ma giunti a metà concerto con la pioggia che iniziava a cadere e dopo aver visto Springsteen raccogliere un cartello che lo invitava ad eseguire Spare Parts (poi non suonata), nessuno si aspettava di vederlo annunciare, fermo sul microfono, che solo per Padova (pronunciata per tutta la serata con l'accento fatto cadere dove solo lui sa) avrebbe suonato tutto Born To Run. Solo allora ho capito che Sant'Antonio aveva interceduto per noi tutti.
Il pomeriggio era già iniziato nel migliore dei modi: alle 17 e 25, i megaschermi si accendono improvvisamente, un boato si alza tra chi attende pigramente sdraiato sul prato. Si vedono Claudio Trotta della Barley Arts e Bruce Springsteen, sembrano le immagini che documentano il loro arrivo allo stadio. Gli schermi si spengono. Tutto qua. Passano cinque minuti e Springsteen si materializza sul palco. Giubbotto di pelle e occhiali da sole, chitarra, armonica e due piccole perle acustiche (The Promised Land e Growin' Up) sparate a freddo sui fan ancora impegnati con panini, birra, bisogni fisiologici e pennica pre concerto. Sarà il preludio di una serata da ricordare e il suo "arrivederci a più tardi" sa tanto di vecchio amico che ti aspetta a casa sua per cena dopo aver consumato un veloce ma intenso aperitivo insieme a te.
Ore 20-45, come ci aveva lasciato nel pomeriggio, si ripresenta la sera, manca il giubbotto di pelle, sono rimaste una camicia ed una cravatta nera ben nascosta sotto. Ancora acustica, tutta la cruda intensità di The Ghost Of Tom Joad. Con l'entrata della E Street Band, ormai allargata a 15 elementi, la prima mezz'ora è già un vortice di buone emozioni rock: un grande piacere riascoltare la nostalgia resa epica in Long Walk Home da 'Magic', ancora di più Two Hearts e The Ties That Bind da 'The River', con quest'ultima pescata dall'ormai consueto rito dei "cartelli richiesta" insieme a due gioielli come Boom Boom di John Lee Hooker ed una Something In The Night che scalda definitivamente la serata. Con i brani di "Wrecking Ball" (se ne contano quattro, alla fine) che dal vivo acquisiscono sempre maggior forza e vigore ed una Spirit In The Night che eleva Jack Clemons sul piedistallo. Il capo continua a dare sempre più spazio al virgulto nipote, concedendogli tutta la ribalta che lo zio si prendeva ai suoi tempi.
Una parentesi a parte merita l'esecuzione integrale di Born To Run, il disco che fece dire a Springsteen queste parole: "Sono nato, invecchiato, e morto facendo questo disco". Se Tenth Avenue Freeze-Out è diventata definitivamente il momento per ricordare i vecchi amici Clarence Clemons e Danny Federici, almeno tre canzoni hanno svettato su tutte. Il rifugio degli ultimi cantato con forza in Backstreets, Meeting Across The River che trasuda passione, con la tromba che rincorre la voce di Bruce e l'intensità che avvolge lo stadio, creando una cappa di rapimento mistico che si disintegra nell'applauso finale e poi la saga metropolitana di Jungleland , un crescendo di emozioni che non provavo da molto tempo, con il pianoforte di Roy Bittan ad aprire e chiudere con in mezzo la voce di Springsteen che raggiunge i picchi emotivi massimi di tutto il concerto, con i silenzi complici a creare ulteriore magia. Dieci minuti intensi da impacchettare e portarsi via come ricordo. Potrebbe anche finire tutto qua e si andrebbe a casa felici e contenti.
Intanto nel prato con forza e vigore un gruppo rumoroso di ragazzi croati si impossessa delle transenne che dividono dal pit. Portano in dote uno striscione gigantesco e fastidioso per chi sta dietro ( "Bruce, Croatia is waitin a sunny day" dice ) e saranno i protagonisti-citati dallo stesso Springsteen- di Waiting On Sunny Day. Evidentemente dalle loro parti c'è ancora qualcosa di buio che necessita di luce calorosa che scaldi e illumini le zone d'ombra. Missione compiuta.
Ma non sono gli unici protagonisti del "popolo" che hanno animato il concerto. I fan sono sempre più parte integrante dello spettacolo e Bruce è alla continua ricerca del contatto umano, quasi un abbraccio paterno il suo, una voglia di calore e sicurezza, un bisogno d'affetto cercato e contraccambiato. Se il bambino durante la stessa Waiting On Sunny Day, la ragazza con chitarra a tracolla e il ballo cheek to cheek con la signora durante Dancing In The Dark sono ormai appuntamenti fissi e (purtroppo) ormai prevedibili, durante Pay Me My Money Down, eseguita in stile New Orleans big band, ecco salire sul palco mister Caterino "Groove" Riccardi che dal mattino, in compagnia della sua washboard metallica appesa al collo e i cucchiai in pugno, aspettava di essere notato per salire on stage. Con la sua band suona alcune canzoni della Seeger Sessions Band e saprebbe come comportarsi sopra a quel palco. Un sogno che si avvera quando Bruce lo indica e lo invita. I 40.000 dello Stadio Euganeo sembrano avere solo occhi per lui, il nuovo "local hero", anche quando metà band scende vicino al pit in un Mardi Gras di ombrellini colorati, lui ritorna sopra al palco a grattuggiare instancabilmente con i suoi cucchiai. Indimenticabile lo sguardo fisso, ammirato e compiaciuto di Springsteen sulle sue posate e sinceri gli attestati di stima e simpatia a fine esibizione. Caterino ha lasciato il suo cuore a mille in quei cinque minuti di notorietà, ma
ha rappresentato il sogno in carne, ossa (e cucchiai) di tutto lo stadio meglio di chiunque altro. La comunità di Facebook entra già in azione.
Si chiude dopo 3 ore, forse meno dei suoi elevati standard, ballando con Twist And Shout e la consapevolezza che saltare l'appuntamento con un concerto di Springsteen è sempre un azzardo da prendere in seria considerazione.
SET LIST/SCALETTA Padova, 31 Maggio 2013: The Promised Land/Growin' Up/The Ghost of Tom Joad/ Long Walk Home/My Love Will Not Let You Down/Two Hearts/Boom Boom/Something in the Night/The Ties That Bind/We Take Care of our Own/Wrecking Ball/Death to my Hometown/Spirit in the Night/Thunder Road/Tenth Avenue Freeze-Out/Night/Backstreets/Born To Run/She’s the One/Meeting Across the River/Jungleland/Shackled and Drawn/Waiting On A Sunny Day/The Rising/Badlands/Pay Me My Money Down/Born In The U.S.A./Dancing In The Dark/Twist And Shout
vedi anche: RECENSIONE/REPORT Live BRUCE SPRINGSTEEN Live@Stadio San Siro, Milano, 7 Giugno 2012
giovedì 30 maggio 2013
RECENSIONE:JJ GREY & MOFRO (This River)
JJ GREY & MOFRO This River ( Alligator Records, 2013)
Se foto e video fossero una rarità almeno quanto lo erano cinquant'anni fa, difficilmente scoprireste con facilità che dietro al nome di JJ Grey & Mofro si nasconde un bianchissimo artista di Jacksonville (Florida), in pista da almeno quindici anni con sette dischi già all'attivo ed una solidissima e proficua attività live, tanto il suono che esce dalle casse, sparato rigorosamente a mille, è carico di attitudine black, soul, R & B, funk alla James Brown, Earth Wind & Fire, Sly And The Family Stone ma contenente anche tracce del miglior Prince & The Revolution, sonorità incalzanti e contagiose che prendono forma però dalle solide e umide radici southern blues per poi impossessarsi, in pochi secondi, di psiche e fisico. Roba calda, umida, sudata che fa bene all' anima e che elettrizza il corpo. Sono qui a godere di una domenica di sole, innaffiata da bicchieri di birra, stordito e inebriato da luppolo e musica, con le gambe che scalciano e la strana sensazione che mi manchino solo due remi per affrontare senza paura alcuna le strette vie d'acqua che attraversano lagune e paludi. Provate a rimanere impassibili di fronte all'iniziale, viziosa e travolgente Your Lady, She's Lady: se ci riuscite, toccatevi immediatamente il polso, avete qualcosa d'importante che sta perdendo colpi dentro voi.
Il quarantaseienne JJ Grey naviga il grande fiume (trattasi del St.John's River che scorre vicino alle sue terre, il più lungo della Florida) con il favore delle pigre correnti e con gli spettri dei Muscle Shoals Studio seduti di fianco tanto le dieci tracce scivolano viziose e ammorbanti, scaldate dal calore dei fiati e con la sicurezza dettata da una infanzia trascorsa tra l'abbraccio di una tipica famiglia del sud tutta duro lavoro e preghiere, dalla forte connessione con i luoghi che ama-e mai ha abbandonato- e una coscenziosa visione dell'introspezione umana che si riversano sulla sua buona scrittura. Voce passionale e soul (Somebody Else, Write A Letter), roca all'occorrenza nei momenti più rock (Standing On The Edge, 99 Shades Of Crazy) e una band allargata che con il tempo ha trovato la sua connotazione attuale (Andrew Trube alle chitarre, Anthony Farrell al piano, Tod Smallie al basso, Anthony Cole alla batteria, Art Ed maiston e Dennis Marion ai fiati) che spinge al massimo nei travolgenti funk di Harp & Drums e nella appiccicosa ed evocativa Florabama ("riesco a sentire la brezza del Golfo del Messico/ci sarà una festa stasera a Florabama") e rallenta pigramente nelle ballate strappa budella come la biografica storia di emarginazione di The Ballad Of Larry Webb con un 'evocativa slide a ricamare melanconia o la finale, bellissima e cullante This River, totale dichiarazione d'amore verso i suoi luoghi, rifugi sicuri da tutto il mondo impazzito che ruota intorno ("cercando di dare un senso all'assurdità che chiamo vita/ perchè solo questo fiume mi da sicurezza/solo questo fiume può portarmi lontano").
Io, intanto, mi rifugio ancora per qualche minuto in questo disco.
vedi anche RECENSIONE: JOE LEWIS & THE HONEYBEARS-Scandalous (2011)
vedi anche RECENSIONE: W.I.N.D.-Temporary Happiness (2013)
vedi anche RECENSIONE: MARK LANEGAN & DUKE GARWOOD-Black Pudding (2013)
vedi anche RECENSIONE: JASON ISBELL-Southeastern (2013)
vedi anche RECENSIONE: TEDESCHI TRUCKS BAND-Made Up Mind (2013)
Se foto e video fossero una rarità almeno quanto lo erano cinquant'anni fa, difficilmente scoprireste con facilità che dietro al nome di JJ Grey & Mofro si nasconde un bianchissimo artista di Jacksonville (Florida), in pista da almeno quindici anni con sette dischi già all'attivo ed una solidissima e proficua attività live, tanto il suono che esce dalle casse, sparato rigorosamente a mille, è carico di attitudine black, soul, R & B, funk alla James Brown, Earth Wind & Fire, Sly And The Family Stone ma contenente anche tracce del miglior Prince & The Revolution, sonorità incalzanti e contagiose che prendono forma però dalle solide e umide radici southern blues per poi impossessarsi, in pochi secondi, di psiche e fisico. Roba calda, umida, sudata che fa bene all' anima e che elettrizza il corpo. Sono qui a godere di una domenica di sole, innaffiata da bicchieri di birra, stordito e inebriato da luppolo e musica, con le gambe che scalciano e la strana sensazione che mi manchino solo due remi per affrontare senza paura alcuna le strette vie d'acqua che attraversano lagune e paludi. Provate a rimanere impassibili di fronte all'iniziale, viziosa e travolgente Your Lady, She's Lady: se ci riuscite, toccatevi immediatamente il polso, avete qualcosa d'importante che sta perdendo colpi dentro voi.
Il quarantaseienne JJ Grey naviga il grande fiume (trattasi del St.John's River che scorre vicino alle sue terre, il più lungo della Florida) con il favore delle pigre correnti e con gli spettri dei Muscle Shoals Studio seduti di fianco tanto le dieci tracce scivolano viziose e ammorbanti, scaldate dal calore dei fiati e con la sicurezza dettata da una infanzia trascorsa tra l'abbraccio di una tipica famiglia del sud tutta duro lavoro e preghiere, dalla forte connessione con i luoghi che ama-e mai ha abbandonato- e una coscenziosa visione dell'introspezione umana che si riversano sulla sua buona scrittura. Voce passionale e soul (Somebody Else, Write A Letter), roca all'occorrenza nei momenti più rock (Standing On The Edge, 99 Shades Of Crazy) e una band allargata che con il tempo ha trovato la sua connotazione attuale (Andrew Trube alle chitarre, Anthony Farrell al piano, Tod Smallie al basso, Anthony Cole alla batteria, Art Ed maiston e Dennis Marion ai fiati) che spinge al massimo nei travolgenti funk di Harp & Drums e nella appiccicosa ed evocativa Florabama ("riesco a sentire la brezza del Golfo del Messico/ci sarà una festa stasera a Florabama") e rallenta pigramente nelle ballate strappa budella come la biografica storia di emarginazione di The Ballad Of Larry Webb con un 'evocativa slide a ricamare melanconia o la finale, bellissima e cullante This River, totale dichiarazione d'amore verso i suoi luoghi, rifugi sicuri da tutto il mondo impazzito che ruota intorno ("cercando di dare un senso all'assurdità che chiamo vita/ perchè solo questo fiume mi da sicurezza/solo questo fiume può portarmi lontano").
Io, intanto, mi rifugio ancora per qualche minuto in questo disco.
vedi anche RECENSIONE: JOE LEWIS & THE HONEYBEARS-Scandalous (2011)
vedi anche RECENSIONE: W.I.N.D.-Temporary Happiness (2013)
vedi anche RECENSIONE: MARK LANEGAN & DUKE GARWOOD-Black Pudding (2013)
vedi anche RECENSIONE: JASON ISBELL-Southeastern (2013)
vedi anche RECENSIONE: TEDESCHI TRUCKS BAND-Made Up Mind (2013)
lunedì 27 maggio 2013
COVER ART #5: AMERICA (Homecoming-1972)
artista: AMERICA
album: HOMECOMING
anno: 1972
fotografo: HENRY DILTZ
art director: GARY BURDEN
canzoni da ricordare: Ventura Highway, Don't Cross the River, Only in Your Heart
Dal divano in veranda di Crosby, Stills & Nash alla vetrata del Morrison Hotel dei Doors, passando per Jackson Browne e Eagles, la firma del fotografo americano (e musicista- suonò il banjo in questo album) Henry Diltz ha attraversato la California più viva ed ispirata degli anni settanta. La sua macchina fotografica ha immortalato il periodo d'oro della west coast music americana.
Il connubio tra il fotografo e il trio iniziò da questo album, passando attraverso i successivi Hat Trick (1973), Hearts (1975), Alibi (1980) e continua ancora oggi. Homecoming è un esempio riuscito di quanto un'immagine riesca a raccontare e spiegare l'immaginario artistico di una band più di tante parole, nascondendo, tra le pieghe della sua realizzazione, anche una beffarda ed ironica conclusione.
La cover di Homecoming vanta almeno due grandi primati: fu una delle copertine più costose che la Warner Bros dovette finanziare per un proprio artista, e fu una vera innovazione nel formato packaging del vinile, in quanto l'immagine copriva ben tre facciate intere di cartone. La sua realizzazione, sebbene non sembri a prima vista, non fu delle più semplici e mise a dura prova il gruppo.
Le cronache narrano di una nutrita comitiva in partenza alla ricerca dello scatto perfetto. Comitiva formata dai tre America (Dewey Bunnell, Gerry Beckley e Dan Peek) reduci dal buon debutto che includeva la loro maggiore hit A Horse With No Name, l'art designer (collaboratore di Diltz) Gary Burden, uno dei più grandi creatori di copertine degli anni settanta, conosciuto soprattutto per la sua collaborazione con Neil Young, ed il fotografo Henry Diltz, appunto. I cinque partirono da Los Angeles con una macchina presa a noleggio, percorsero tutta la costa per raggiungere Big Sur, regione della costa centrale della California, dove sequoie e cactus convivono felicemente ed il panorama che si può ammirare, percorrendo la Highway 1, è tra le cose più belle che si possano vedere negli USA. Vicino, sorge anche l'associazione/comunità Esalen-sorta nei primissimi anni '60, dal nome di una vecchia tribù indiana-, dove si può praticare meditazione, massaggi, yoga, tutto nel rispetto assoluto della natura (le case in legno sorgono a strapiombo sull'acqua dell'oceano) e totale immersione nella spiritualità.
Cinque giorni di viaggio che li portarono là dove il panorama offre la splendida visione dei monti rocciosi che calano a picco sull'oceano. Uno posto suggestivo e spettacolare che diventa magico durante certe ore del giorno e della notte, quando sole e luna si specchiano sull'oceano e il cielo si colora di mille sfumature. Servirono ben tre giorni insonni di pose e appostamenti per catturare lo scatto perfetto, ma mancava ancora qualcosa: una foto che completasse l'opera e che riuscisse a dare all'intero lavoro il particolare significato prefisso.
All'interno della copertina un altro scatto ritrae gli America immersi nella Redwood Forest, parco nazionale statunitense sempre in California, in mezzo alle sequoie più alte del mondo. Foto che voleva trasmettere un messaggio ecologico e celebrare la natura unitamente alla front cover, dove sulla destra si poteva anche notare -in lontananza- un solitario indiano a cavallo (ispirato dal logo della Brother Records, etichetta dei Beach boys) inerme davanti ai palazzi di una moderna città che si alzano persi nell'orizzonte.Anni dopo, nella sua autobiografia An American Band, uscita nel 2004, "il terzo America" Dan Peek (uscito dal gruppo nel 1977 e scomparso recentemente nel Luglio del 2011 all'età di sessant'anni ) raccontò di quanto il gruppo, solo successivamente, si accorse che il messaggio ecologista che le foto volevano far risaltare, contrastava e cozzava con l'alto numero di alberi che furono sradicati per stampare la "sontuosa" e famosa copertina a tre ante di Homecoming. Errori di gioventù. Anche se l'intenzione fu premiata con il successo di uno dei migliori album della band.
domenica 26 maggio 2013
RECENSIONE: WOLF PEOPLE (Fain)
WOLF PEOPLE Fain (Jagjaguwar, 2013)
I londinesi Wolf People hanno un rifugio sicuro, lontano dai vizi, rumori e tentazioni cittadine che amano abitare quando l'ispirazione chiama: è un vecchio casolare del diciassettesimo secolo sepolto tra le ragnatele di rami del bosco e il verde delle campagne che lo circondano, situato nel profondo Yorkshire in Galles. Come avvenuto per il buon debutto Steeple del 2010, anche il nuovo album Fain ha preso forma lì, dove i fantasmi dei grandi gruppi albionici del passato giacciono e ispirano mentre il tipico tempo piovoso britannico ti costringe a coabitare con l'umidità che penetra tra le vecchie mura di pietra, combattuta al tepore di un caminetto sempre acceso. Vista così è inevitabile che tornino alla mente dejà vu seventies animati da un folto gruppo di band come Jethro Tull, Traffic, Fairport Convention, Amazing Blondel, Pentangle, Trees, Wishbone Ash, ma non solo.
Tutto il buono del debutto e della positiva impressione che mi fecero in concerto quando passarono per Torino-due anni fa-a bordo del loro piccolo furgone bianco "da tour", sono confermati in canzoni a ventaglio, stratificate, che sanno aprirsi di volta in volta verso territori musicali sempre differenti senza seguire strade impostate e lasciando l'estro compositivo libero di spaziare tra i generi, creando delle piccole e cangianti suite: il folk-prog di All Returns, dove le foglie secche di un autunno inoltrato vengono innalzate dal vorticoso vento generato da squassanti inserti di chitarre fuzz, l'inizio acustico di Hesperus che si sviluppa in un lento progressive psichedelico per poi chiudersi tra i fuochi d'artificio delle chitarre che si scontrano come già insegnato a suo tempo dai Whishbone Ash e con gli assoli del bravo Joe Hollick ( completano la formazione il bassista Dan Davies e il batterista Tom Watt).
When The Fire Is Dead In The Grate prende forma invece dalla umida terra del blues bianco di Groundhogs, Cream e Peter Green ed è recitata dalla voce, che sembra arrivare da secoli lontani, del cantante e chitarrista Jack Sharp, amplificata da inserti di cori femminili, per progredire in una lunga coda psichedelica nel finale, fino ai momenti più hard e psichedelici (Athol, Thief) con le chitarre che si inspessiscono nella conclusiva NRR, toccando la pesantezza sabbathiana e guadagnandosi la palma del brano più pesante e diretto del disco, pur mantenendo l'imprevedibilità delle sei corde, libere di spaziare e viaggiare tra rallentamenti e ripartenze.
Su tutto il disco aleggia sempre e comunque una misteriosa (Answer) sospensione atemporale tra sogno ( Empty Vessels) e malinconica realtà, chiaro-scuri costruiti con meticolosa perizia strumentale atti a raggiungere sempre e comunque la crescente tensione e creare phatos.
Chi, a inizio anno, è impazzito per Coming Out The Fog degli Arbouretum potrà trovare piacere dalla proposta non convenzionale dei Wolf People, i loro continui cambi di atmosfera-anche se in rari punti sembrano parossistici e forzati, rischiando di avvolgersi su se stessi-tradiscono tutto il loro amore per un periodo musicale seguito senza mai cadere in banalizzazioni o ostentazione scenica ma con la giusta dose di umiltà che traspare in tutta la genuinità che potreste scoprire se avrete l'occasione di vederli anche dal vivo. Dei ragazzi disponibili, professionali e a modo. Certamente non delle rockstar, nemmeno indispensabili ma interessantissimi.
vedi anche RECENSIONE REPORT : WOLF PEOPLE Live Spazio 211, Torino 14 Maggio 2011
vedi anche RECENSIONE: ARBOURETUM-Coming Out The Fog (2013)
I londinesi Wolf People hanno un rifugio sicuro, lontano dai vizi, rumori e tentazioni cittadine che amano abitare quando l'ispirazione chiama: è un vecchio casolare del diciassettesimo secolo sepolto tra le ragnatele di rami del bosco e il verde delle campagne che lo circondano, situato nel profondo Yorkshire in Galles. Come avvenuto per il buon debutto Steeple del 2010, anche il nuovo album Fain ha preso forma lì, dove i fantasmi dei grandi gruppi albionici del passato giacciono e ispirano mentre il tipico tempo piovoso britannico ti costringe a coabitare con l'umidità che penetra tra le vecchie mura di pietra, combattuta al tepore di un caminetto sempre acceso. Vista così è inevitabile che tornino alla mente dejà vu seventies animati da un folto gruppo di band come Jethro Tull, Traffic, Fairport Convention, Amazing Blondel, Pentangle, Trees, Wishbone Ash, ma non solo.
Tutto il buono del debutto e della positiva impressione che mi fecero in concerto quando passarono per Torino-due anni fa-a bordo del loro piccolo furgone bianco "da tour", sono confermati in canzoni a ventaglio, stratificate, che sanno aprirsi di volta in volta verso territori musicali sempre differenti senza seguire strade impostate e lasciando l'estro compositivo libero di spaziare tra i generi, creando delle piccole e cangianti suite: il folk-prog di All Returns, dove le foglie secche di un autunno inoltrato vengono innalzate dal vorticoso vento generato da squassanti inserti di chitarre fuzz, l'inizio acustico di Hesperus che si sviluppa in un lento progressive psichedelico per poi chiudersi tra i fuochi d'artificio delle chitarre che si scontrano come già insegnato a suo tempo dai Whishbone Ash e con gli assoli del bravo Joe Hollick ( completano la formazione il bassista Dan Davies e il batterista Tom Watt).
When The Fire Is Dead In The Grate prende forma invece dalla umida terra del blues bianco di Groundhogs, Cream e Peter Green ed è recitata dalla voce, che sembra arrivare da secoli lontani, del cantante e chitarrista Jack Sharp, amplificata da inserti di cori femminili, per progredire in una lunga coda psichedelica nel finale, fino ai momenti più hard e psichedelici (Athol, Thief) con le chitarre che si inspessiscono nella conclusiva NRR, toccando la pesantezza sabbathiana e guadagnandosi la palma del brano più pesante e diretto del disco, pur mantenendo l'imprevedibilità delle sei corde, libere di spaziare e viaggiare tra rallentamenti e ripartenze.
Su tutto il disco aleggia sempre e comunque una misteriosa (Answer) sospensione atemporale tra sogno ( Empty Vessels) e malinconica realtà, chiaro-scuri costruiti con meticolosa perizia strumentale atti a raggiungere sempre e comunque la crescente tensione e creare phatos.
Chi, a inizio anno, è impazzito per Coming Out The Fog degli Arbouretum potrà trovare piacere dalla proposta non convenzionale dei Wolf People, i loro continui cambi di atmosfera-anche se in rari punti sembrano parossistici e forzati, rischiando di avvolgersi su se stessi-tradiscono tutto il loro amore per un periodo musicale seguito senza mai cadere in banalizzazioni o ostentazione scenica ma con la giusta dose di umiltà che traspare in tutta la genuinità che potreste scoprire se avrete l'occasione di vederli anche dal vivo. Dei ragazzi disponibili, professionali e a modo. Certamente non delle rockstar, nemmeno indispensabili ma interessantissimi.
vedi anche RECENSIONE REPORT : WOLF PEOPLE Live Spazio 211, Torino 14 Maggio 2011
vedi anche RECENSIONE: ARBOURETUM-Coming Out The Fog (2013)
lunedì 20 maggio 2013
RECENSIONE: THE DEL-LORDS (Elvis Club)
L'inaspettata e fresca sorpresa di questa primavera arriva da una band che aveva strumenti e amplificatori silenti, impilati in un angolo, ma evidentemente ben conservati in garage da ben ventitrè anni. Tanti ne sono passati dall'ultimo disco di studio Lovers Who Wander. I newyorchesi Del-Lords, guidati dall'ex The Dictators Scott Kempner, tra il 1982 e il 1990- tempi duri ma ugualmente prolifici per il rock classico- hanno rappresentato più di una speranza mai sbocciata concretamente (solo 4 i dischi pubblicati) ma riuscendo a guadagnare sul campo quell'aura da culto che vale più dell'effimera gloria commerciale, solo sfiorata. In fondo, la dimensione "intima da club" si sposa alla perfezione con la loro musica rovente di passione, sudata e pericolosa come i loro quartieri al calar del sole. In questi anni d'assenza nessuno dei componenti è stato veramente con le mani in mano, tanto che li ritroviamo in perfetta forma, con qualche ciuffo ribelle volato via per sempre e un po' di chili a far peso, ma musicalmente sempre là dove li lasciammo nel 1990. Oltre al songwriter Scott Kempner (chitarra e voce), impegnatissimo sia come solista, che accompagnando l'idolo di una vita Dion DiMucci o presenziando alle varie reunion dei vecchi proto-punkers The Dictators, ci sono gli originali componenti Frank Funaro (batteria) e Eric Ambel ( ex Joan Jett And Blackhearts e ora produttore, alla chitarra e voce). Unico assente a questa reunion, che ha preso forma concreta nel 2010 dopo alcune date live (e l'EP Under Construction), è Manny Caiati, sostituito da Michael DuClos (basso).
Varrebbe la pena partire dal fondo del disco per capire quanto il quartetto sia ancora in grado di infiammare anima, cuore e dita sulle corde: la cavalcante Southern Pacific è una di quelle misconosciute canzoni di Neil Young nascoste in dischi poco decifrabili e dimenticati in fretta (questa era nell'hard oriented Re-Ac-Tor del 1981) che i Del Lords fanno viaggiare come un treno senza freni. Da riscoprire, anche l'originale.
Sembra essere cambiato veramente poco nella loro proposta musicale e l'unico segno di modernità potrebbe essere il retro copertina che ne ritrae i faccioni dentro agli shermi luminosi dei loro smartphone. Le chitarre sferraglianti, tenute a bada solamente dalla saggezza del tempo, sono sempre in primo piano, ritornate per riprendersi la paternità di una scena varia, unica, genuina, irripetibile ma inspiegabilmente breve, condivisa con altri marchi di prima grandezza come Blasters, Del Fuegos, Green On Red, Dream Syndicate, Jason & The Scorchers, Replacements e fonte d'ispirazione per tutte le generazioni indie america
ne a venire fino ad arrivare ai successi odierni raccolti dai Gaslight Anthem. La ricetta è rimasta invariata: polvere di stelle rock'n'roll in puro '50 style (Damaged), blue collar rock impreziosito dall'armonica (Flying), garage rock proletario (When The Drugs Kick In), melodiche reminescenze ramonesiane da CBGB (Princess), tirati e chitarristici hard/blues urbani (Me And The Lord Blues, You Can Make A Mistake One Time), ancora fresche e credibili ripetizioni della formula country/rock dei CCWR nelle brillanti ballate acustiche (Letter- Unmailed, All Of My Life, Silverlake), i '60 della corale Everyday scritta insieme a Dion DiMucci , la pungente ironia a tutta slide del lesto country/boogie Chicks, Man!.
Il ritorno dei migliori esponenti dell'American Graffiti targato anni ottanta non poteva che intitolarsi-tra nostalgia e riverenza-Elvis Club, titolo preso in prestito da una prostituta che, ai tempi d'oro, quando li incrociava per strada soleva domiciliarli dentro a questa definizione per via delle loro chiome. Elvis Club, un club esclusivo di cui i newyorchesi possono vantare la tessera onoraria e che conserva intatto, al suo interno, tutto l'immaginario rock a stelle e striscie che abbiamo sempre amato e sognato. Le luci dei lampioni lungo la Bowery Street si sono riaccese per un'altra notte.
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sabato 18 maggio 2013
RECENSIONE:MARK LANEGAN & DUKE GARWOOD (Black Pudding)
MARK LANEGAN & DUKE GARWOOD Black Pudding (Ipecac Records, 2013)
Quando Mark Lanegan nutre stima incondizionata per qualche collega, non è così raro che questo "qualcuno" riesca ad incidere musica con lui. Il suo grande cuore, solo apparentemente chiuso a chiave, quasi impenetrabile, è invece sempre aperto e propositivo. A Duke Garwood, musicista e polistrumentisca londinese, sconosciuto ai più ma con quattro album all'attivo e tante buone collaborazioni nel carniere è riuscita l'impresa di registrarci anche un intero disco. "Uno dei miei artisti preferiti e una delle migliori esperienze di registrazione della mia vita." Non sono però le parole di Garwood rivolte all'indirizzo di Lanegan, ma-sorpresa-quelle di Lanegan che fa poco per nascondere il suo entusiasmo per il musicista che ha aperto numerose tappe dei suoi ultimi tour. Un incontro pianificato fin dal 2009 ma che ha visto la nascita concreta solo ora all'interno dei Pink Duck Studios di Burbank in California. Comunque, rimane ancora vero che anche chi nutre stima per la carismatica voce e talento dell'ex Screaming Trees molto probabilmente giochi carte false per ottenere una collaborazione, spesso ottenendola (buon ultimo, Moby). Sempre più difficile tenere il conto dei suoi contributi, meglio prepararsi al prossimo cameo presente nel disco di imminente uscita degli amici e compari Queens Of The Stone Age di Josh Homme.
Dopo l'ardito Blues Funeral, disco che ha spaccato in due critica e fan (a scanso di equivoci, è stato il mio disco dell'anno 2012), con Black Pudding gli esperimenti, almeno superficialmente, sembrano essere ridotti all'osso, ritrovando la greve voce del quarantottenne vocalist di Ellensburgh alle prese con spettrali folk/blues dai suoni scheletrici (Pentecostal, War Memorial), lenti (Death Rides A White Horse), liquidamente eterei (Driver), grevi (gli archi di Thank You) ma strumentalmente legati alla tradizione, a parte la batteria elettronica che accompagna i paesaggi desertici che si aprono in Mescalito e in Good Molly, l'unica canzone ad entrare in circolo fin dal primo ascolto grazie alla sua andatura up-tempo, funk e diretta con disordinati inserti di fiati a disturbare. La sensazione generale che si ha però, è che sia Garwood a condurre i giochi, dando per veritiera l'ammirazione di Lanegan. L'inglese apre e chiude il disco con due strumentali, le arpeggiate Black Pudding e Manchester Special-che un altruista Lanegan indica come le sue canzoni preferite dell'album-la sua chitarra fingerpicking, le atmosfere ortodosse del sitar, i profondi spazi minimali, algidi, desertici da notte fonda e ventosa, o orientaleggianti come in Sphinx, dove è racchiuso il mood di tutto il disco, con Lanegan a ricamare le parole delle sue liriche poetiche e fumose seguendo lo scarno mantra musicale costruito da Garwood, così come in Last Rung segue i glaciali tasti di un austero pianoforte, lasciando alle acustiche sperimentazioni del polistrumentista di impossessarsi dello spazio circostante.
Fino ad arrivare a Shade Of The Sun, con le tastiere messianiche di Alain Johannes a richiamare spettri e redenzione.
Unico appunto negativo per alcune canzoni sfumate troppo in fretta che danno l'impressione di frammentarietà e incompiutezza.
Il grande pregio del disco, che necessita di molti ascolti prima di entrare in vena e circolare pur sempre con passo meditativo e tormentato, sta tutto nella perfetta alchimia che i due musicisti sono riusciti a creare, alla ricerca di una sincera connesione d'intenti e intesa musicale a scapito di una bella produzione di facciata.
Un tunnel lungo, dolente e tenebroso. Se inizialmente incute timore nella sua impenetrabile oscurità, via via si fa misterioso, intrigante, fino ad intravedere l'uscita dove si stagliano le ombre pure e incontaminate dei due sfuggenti protagonisti. Ma ti assale la voglia di tornare all'entrata e riaffrontare i ricami in palude.
vedi anche RECENSIONE: MARK LANEGAN BAND-Blues Funeral (2012)
vedi anche RECENSIONE: MARK LANEGAN-Dark Mark Does Christmas 2012
vedi anche RECENSIONE: JASON ISBELL-Southeastern (2013)
Quando Mark Lanegan nutre stima incondizionata per qualche collega, non è così raro che questo "qualcuno" riesca ad incidere musica con lui. Il suo grande cuore, solo apparentemente chiuso a chiave, quasi impenetrabile, è invece sempre aperto e propositivo. A Duke Garwood, musicista e polistrumentisca londinese, sconosciuto ai più ma con quattro album all'attivo e tante buone collaborazioni nel carniere è riuscita l'impresa di registrarci anche un intero disco. "Uno dei miei artisti preferiti e una delle migliori esperienze di registrazione della mia vita." Non sono però le parole di Garwood rivolte all'indirizzo di Lanegan, ma-sorpresa-quelle di Lanegan che fa poco per nascondere il suo entusiasmo per il musicista che ha aperto numerose tappe dei suoi ultimi tour. Un incontro pianificato fin dal 2009 ma che ha visto la nascita concreta solo ora all'interno dei Pink Duck Studios di Burbank in California. Comunque, rimane ancora vero che anche chi nutre stima per la carismatica voce e talento dell'ex Screaming Trees molto probabilmente giochi carte false per ottenere una collaborazione, spesso ottenendola (buon ultimo, Moby). Sempre più difficile tenere il conto dei suoi contributi, meglio prepararsi al prossimo cameo presente nel disco di imminente uscita degli amici e compari Queens Of The Stone Age di Josh Homme.
Dopo l'ardito Blues Funeral, disco che ha spaccato in due critica e fan (a scanso di equivoci, è stato il mio disco dell'anno 2012), con Black Pudding gli esperimenti, almeno superficialmente, sembrano essere ridotti all'osso, ritrovando la greve voce del quarantottenne vocalist di Ellensburgh alle prese con spettrali folk/blues dai suoni scheletrici (Pentecostal, War Memorial), lenti (Death Rides A White Horse), liquidamente eterei (Driver), grevi (gli archi di Thank You) ma strumentalmente legati alla tradizione, a parte la batteria elettronica che accompagna i paesaggi desertici che si aprono in Mescalito e in Good Molly, l'unica canzone ad entrare in circolo fin dal primo ascolto grazie alla sua andatura up-tempo, funk e diretta con disordinati inserti di fiati a disturbare. La sensazione generale che si ha però, è che sia Garwood a condurre i giochi, dando per veritiera l'ammirazione di Lanegan. L'inglese apre e chiude il disco con due strumentali, le arpeggiate Black Pudding e Manchester Special-che un altruista Lanegan indica come le sue canzoni preferite dell'album-la sua chitarra fingerpicking, le atmosfere ortodosse del sitar, i profondi spazi minimali, algidi, desertici da notte fonda e ventosa, o orientaleggianti come in Sphinx, dove è racchiuso il mood di tutto il disco, con Lanegan a ricamare le parole delle sue liriche poetiche e fumose seguendo lo scarno mantra musicale costruito da Garwood, così come in Last Rung segue i glaciali tasti di un austero pianoforte, lasciando alle acustiche sperimentazioni del polistrumentista di impossessarsi dello spazio circostante.
Fino ad arrivare a Shade Of The Sun, con le tastiere messianiche di Alain Johannes a richiamare spettri e redenzione.
Unico appunto negativo per alcune canzoni sfumate troppo in fretta che danno l'impressione di frammentarietà e incompiutezza.
Il grande pregio del disco, che necessita di molti ascolti prima di entrare in vena e circolare pur sempre con passo meditativo e tormentato, sta tutto nella perfetta alchimia che i due musicisti sono riusciti a creare, alla ricerca di una sincera connesione d'intenti e intesa musicale a scapito di una bella produzione di facciata.
Un tunnel lungo, dolente e tenebroso. Se inizialmente incute timore nella sua impenetrabile oscurità, via via si fa misterioso, intrigante, fino ad intravedere l'uscita dove si stagliano le ombre pure e incontaminate dei due sfuggenti protagonisti. Ma ti assale la voglia di tornare all'entrata e riaffrontare i ricami in palude.
vedi anche RECENSIONE: MARK LANEGAN BAND-Blues Funeral (2012)
vedi anche RECENSIONE: MARK LANEGAN-Dark Mark Does Christmas 2012
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