mercoledì 14 novembre 2012

RECENSIONE:CHEAP WINE (Based On Lies )

CHEAP WINE  Based On Lies ( Cheap Wine Records, 2012)

Un limbo.La sottile linea di spazio vuoto che divide il baratro nero degli inferi dalla luce bianca della felicità. E' il territorio desolato in cui si muovono i protagonisti di Based On Lies, ultimo disco dei pesaresi Cheap Wine, il loro nono in carriera, che segue l'ultimo in studio Spirits (2009) e il pantagruelico live Stay Alive (2010). Un territorio che potremmo chiamare più semplicemente realtà, mentre quei protagonisti non vanno cercati nelle vite altrui e lontane, siamo semplicemente noi, come cantava qualcuno solo qualche anno fa. Convivere con la realtà è diventato difficile: c'è chi ci riesce, anche mettendo in campo insospettabile egoismo e bieca menzogna, chi trova la salvezza in qualcosa che spesso associamo alla futilità come il nostro amato rock'n'roll, e chi sprofonda, lasciandosi tentare da vampiri assetati di vite altrui pur di campare, da chi vuole l'omologazione imperante o più semplicemente affonda nella battaglia più crudele, quella della sopravvivenza tra simili ridotti allo sbando. Una lotta alla pari, dove vince il più forte. Un limbo in cui le speranze e i sogni di vita sembrano spesso sospesi, avvolti dalle nubi, ingabbiati in mezzo alle rovine di paesaggi desolanti. Fermi e impossibilitati nel muoversi come una pietra che dopo aver passato una vita a ricevere tanti calci, nessuno vuole più calciare. Sogni bloccati  in attesa di un riscatto.                          
Based On Lies può certamente essere considerato un concept, pur non seguendo una narrazione lineare e cronologica ma avendo una uniformità nei temi trattati dove i meticolosi testi di Marco Diamantini, curatissimi nei dettagli, svolgono un compito senza dubbio significativo, grazie a piccole costruzioni cinematografiche che permettono però alle parole di avere una vita propria, lontane dalla musica, anche solo leggendole con l'aiuto delle traduzioni riportate nel libretto, vivacemente illustrato da Serena Riglietti.
Ma visto che stiamo parlando di una rock band attiva da circa quindici anni, che si è costruita una carriera con grande sforzo, impegno e passione, quello che ci interessa è la visione d'insieme che ne è uscita, l'unione con la musica, ancora una volta di gran qualità ed efficace. Oltre alle liriche e la voce di Marco Diamantini, c'è la chitarra del fratello Michele Diamantini, tesa e ficcante nei momenti più rock, come nella maestosità di Vampire , una delle migliori tracce del disco nel suo evocare infiniti e impalpabili spazi, o nell'avanzare da "Crazy Horse" di To Face A New Day, con l'assolo finale che ci fa capire a che livelli è approdata la sua bravura.
Ci sono le tastiere e il pianoforte dell'ultimo entrato in formazione, Alessio Raffaelli, che si ritagliano un ruolo importante lungo tutto il disco, entrando subito in circolo fin dall'apertura Breakaway , una prova di squadra (completano la formazione: il batterista Alan Giannini ed il bassista Alessandro Grazioli) d'impatto, compatta ed incisiva alla Heartbreakers, nella leggerezza vellutata suonata in punta di dita trasmessa dalla swingante  Based On Lies, o nell'elegante grigiore malinconico disegnato da On The Way Back Home.  
Le atmosfere da antico west di frontiera che avvolgono The Big Blow, il vecchio rock garage dall'andamento beat di Lost Inside, l'apparente e ingannevole solarità di Lover's Grave  e il rock'n'roll di Give Me Tom Waits non sono che alcune sfumature che i Cheap Wine danno al loro rock eterno, perchè ormai privo di punti di riferimento e divenuto, col tempo, sempre più personale e riconoscibile, muovendosi ancora fieramente nell'underground indipendente del rock italiano.      
Il desolante folk finale di The Stone ci lascia ai nostri sogni, tracciando un quadro ancora dalle tinte grigio scure. Aspettando quel calcio che smuova e faccia rotolare nuovamente quella pietra dalla parte giusta. Oltre il limbo, verso la luce.
Based On lies è un disco a carburazione lenta, quasi cullante, che riesce a penetrare grazie alle improvvise scosse elettriche e alle liriche scure, a volte fin troppo pessimistiche, ma che sanno graffiare e toccare i "giusti" nervi scoperti.







domenica 11 novembre 2012

RECENSIONE:GARY MOORE(Legacy)

GARY MOORE  Legacy (2 CD, Music Club Deluxe, 2012)

Se dovesse capitarvi di far visita al piccolo e anonimo cimitero del villaggio poco distante da Brighton, dove è tumulata la salma del povero Gary Moore e non riuscire a trovare la sua lapide, non disperate, è solo il destino che continua a perseguitare il buon chitarrista di Belfast. Lo stato di abbandono in cui versa la sua tomba a nemmeno due anni dalla morte corrisponde un po' al dimenticatoio in cui la sua carriera è stata riposta negli ultimi anni di attività.
Un chitarrista che ha dovuto spesso lottare con la critica. Nonostante tutto, la sua influenza in tanti chitarristi delle ultime generazioni è palese e dichiarata, e la sua incendiaria Les Paul un segno indelebile lo ha lasciato: sia quando ha  preferito le cromature scintillanti, dure e pesanti dell'hard rock, sia quando ha iniziato la straordinaria e personale rilettura del blues, dove irruenza e brillantezza sposavano le atmosfere calde, romantiche e notturne delle anime perse, trovando i puristi del genere affacciati alla finestra con l'indice puntato.
In una intervista di qualche anno fa, rilasciata a Brian D. Holland per promuovere il suo disco Close As You Get, Gary Moore spiegò quel particolare momento della sua carriera in cui vi fu il passaggio dal rock al blues concretizzatosi con l'uscita di Still Got The Blues (1991). Un passaggio fondamentale che segnò gli ultimi vent'anni della sua carriera, e che, sul momento, destabilizzò anche molti suoi fan che iniziarono a chiedersi: "Qual'è il vero Gary Moore?". Quello che duetta con il malefico Ozzy Osbourne o quello che intreccia la chitarra con B.B. King? 
Il vero Gary Moore è quello che potete ascoltare in questa raccolta -non totalmente esaustiva in verità- che esce per la Music Club Deluxe: un musicista completo prima ancora che chitarrista, un lavoratore umile, silenzioso e instancabile della sei corde che seppe iniziare dal fuoco del blues, alimentato dalla sua grande passione per Peter Green dei Fleetwod Mac- che non mancò mai di citare durante la sua carriera- e Jimi Hendrix (fresco di uscita anche il CD/DVD "Blues For Jimi" concerto del 2007 in cui Moore omaggiò il maestro) , per poi passare gli anni settanta suonando partiture più complesse di jazz/prog e hard rock insieme a gruppi come Skid Row, Colosseum II e Thin Lizzy, fino ad arrivare a costruirsi una carriera solista partita con l'Hard Rock a tinte Heavy, per arrivare al ritorno a casa con il Blues che lo ha accompagnato fino alla prematura morte per arresto cardiaco (dannato alcol), avvenuta il 6 Febbraio del 2011 mentre si trovava in Spagna per alcuni concerti.
La raccolta comprende 2 CD per un totale di  32 canzoni, prendendo in considerazione la sua carriera dal 1980 fino al 1997, presumo per motivi di contratti discografici, lasciando così scoperti gli ultimi quindici anni di musica, in cui il suo ritorno al blues si rafforzò ulteriormente e gli ultimi due dischi Close As You Get e Bad For You Baby sono lì a testimoniarlo per chi ha voglia di riscoprirli. Ma anche gli estemporanei progetti BBM con Ginger Baker e Jack Bruce, sorta di nuova incarnazione dei Cream passato molto in sordina e il più moderno ma aprezzabile progetto denominato SCARS in compagnia del bassista Cass Lewis (Skunk Anansie) e del batterista Darrin Mooney, non trovano posto qui, ed è un peccato. 
Comunque una buona occasione per ripassare le tappe fondamentali di Gary Moore solista. Dai momenti più Hard e Heavy di dischi come Corridors Of Power-1982 ( Wishing Well, I Can't Wait Until Tomorrow, Rockin' Every night) e Victims Of The Future-1983 (Hold On To love,Empty Rooms, Shapes Of Things To Come), arrivando ai dischi della maturità di metà anni ottanta, Run For Cover-1985 (Out In The Fields, Military Man), After The War-1989 (After The War), il suo piccolo capolavoro di composizione Wild Frontier-1987 (Friday On My Mind, The Loner, Over The Hills And Far Away, Wild Frontier, Take A little Time, Thunder Rising) in cui tentò la commistione tra rock e le tradizioni musicali irlandesi fino ad arrivare alla nuova svolta Blues dei primi anni novanta, qui rappresentata dal botto commerciale di Still Got The Blues-1990Oh Pretty Woman, Still Got The Blues, Too Tired, Walking By Myself) e Afterhours-1992 (Ready For Love, Cold Day In Hell, Story Of The Blues, Separate Ways, Since I Met You Baby) e dal più sperimentale, moderno e meno riuscito Dark Days in Paradise -1997(Dark Days in Paradise, Burning In Our Hearts). La raccolta si ferma qui, non prima di aver ascoltato le numerose e prestigiose collaborazioni sparse nelle canzoni: con Albert Collins, BB King, Albert King e il fraterno amico Phil Lynott tra i tanti e alcuni estratti live come White Knuckles, Nuclear Attack, la monumentale e romantica Parisienne Walkways e la rara Beasts Of Burden, traccia strumentale del 1997.
Aspettando l'uscita di un box che racchiuda tutta la sua "sostanziosa"carriera, magari arricchito con qualche bel inedito, devo confessarvi che, da alcuni anni, vivevo l'attesa delle sue uscite in modo appassionato e quasi maniacale. Era diventata una piacevole abitudine, trasformatasi in rammarico quando mancai il suo ultimo concerto italiano a Milano nel 2010 all'interno del Milano Jazzin' Festival. Ho iniziato ad affezionarmi a Moore troppo tardi, però lui ci ha lasciato veramente troppo presto.

sabato 10 novembre 2012

RECENSIONE/LIVE Report: THERAPY? live@Rock'n'Roll Arena, Romagnano Sesia (NO) 9 Novembre 2012

Alla domanda: quale gruppo rappresenta al meglio la scena rock alternativa europea degli anni novanta? Non avrei dubbi, nel rispondere: Therapy?
Una band che, a parte un paio di stagioni trascorse con tutti gli onori e gli oneri della cronaca (il biennio 1994-1995), non ha mai raccolto tutto quello che avrebbe meritato in popolarità. Oggi, però, a differenza di tanti altri compagni di viaggio persi per le tortuose strade degli anni trascorsi o magari alle prese con improbabili reunion, sono ancora qui a girare per i palchi di tutto il mondo, anche piccoli come stasera, guidati dalla inseparabile coppia-unita saldamente da una vera e palpabile amicizia- formata da  Andy Cairns e Michael McKeegan, a proporre la loro carriera in musica che non si è mai fermata di fronte a nulla: più forti dei cambi di formazione (batteristi che vanno e vengono, formazione a tre che diventa a quattro e poi di nuovo trio), mode musicali passeggere, attentati e crisi economiche mondiali incluse. Una certezza, tanto che il punto interrogativo alla fine del loro nome andrebbe trasformato in esclamativo e sottolineato in neretto.
Uno di quei gruppi a cui ti affezioni in giovane età e che non molli più, seguendo fedelmente la loro bizzarra vena creativa che si contorce come una montagna russa senza mai fine. Una band che avrebbe potuto costruire una carriera su hits come Nowhere , Screamager o Stories e che invece ha proseguito a testa bassa, andando spesso incontro alla cieca critica che li dava per morti quando invece di continuare a sfornare singoli, si avventurarono in percorsi musicali più ostici e meno immediati, voltando lo sguardo a ritroso verso i loro esordi industrial/noise rumoristi, scatenando pure le ire delle loro case discografiche.
Benvenuti quindi nella Church Of Noise.
Una serata, aperta dai due gruppi italiani Eva's Milk e Malastrana, che si preannuncia lunga e calda in contrapposizione al tempo da lupi lasciato fuori dal sempre accogliente Rock'n'Roll Arena di Romagnano Sesia che con il passare dei minuti si affolla sempre più, di nostalgici degli anni '90 e da chi, finalmente, dopo tanti anni riesce a vederli.
Dopo un soundcheck che sembra non finire più ad opera di due simpaticissimi roadie, uno dei quali si scoprirà essere il "quarto Therapy?" impiegato alla seconda chitarra e cori, gli elegantissimi Therapy?, vestiti da gran galà serale o meglio da impiegati irlandesi in pausa pranzo al pub sottocasa con tanto di camicia bianca, abito scuro e cravatta, salgono sul palco, permettendosi di aprire il set con una cover: quella Isolation dei Joy Division, estrapolata dal loro imprescindibile ed inarrivabile album Toublegum (circa un milione di copie vendute nel mondo)  che rimarrà il più saccheggiato della serata insieme all'ultimo A Brief Crack Of Light, ben rappresentato dal vizioso singolo Living In The Shadow Of a Terrible Thing, dalla "pestona" e pesante Why Turbulance? e dal noise disordinato di The Buzzing.

Nonostante i 23 anni di carriera, poco sembra essere mutato nell'approccio dei nord irlandesi: il bassista Michael McKeegan rimane l'instancabile aizzatore di folla e saltellante molla umana durante le intere due ore di concerto, mentre Andy Cairns si prodiga a voce e chitarra ma soprattutto ad incitare il pubblico con la perdonabile storpiatura del nome del paese ospitante che da Romagnano, diventa il mantra infinito "Romagnana" e raccontando della partita di football disputatasi nel pomeriggio contro lo staff del locale e presumibilmente persa in malo modo, mentre il piccolo Neil Cooper dietro alla sua batteria batte i suoi colpi con potenza, precisione ed una certa eleganza. 
I Therapy? sanno districarsi all'interno del pianeta musica con grandissimo mestiere. 360 gradi girati in poco meno di due ore, avendo sempre qualcosa da dire insieme all'energia e la compattezza esecutiva, sia che lo facciano in modo scherzoso ed ironico o più seriamente come in Die Laughing dedicata a Kurt Cobain. La dimensione live è la più adatta per entrare, in poco tempo, dentro al loro mondo dove con cinica ed irriverente critica giudicano la società, le inquietudini esistenziali e sentimentali, mascherando le loro invettive anche dietro a canzoni dal forte accento melodico come Stories e Misery. Ma quello che stupisce di più è la loquacità, il buon umore, l' immutata voglia di divertirsi e far divertire, di giocare con la musica come ragazzini, come quando dentro ad una versione rockeggiante di Diane, cover degli Husker Du contenuta nel loro famosissimo e altro vendutissimo album Infernal Love(1995), ci infilano Hey Hey, My My di Neil Young. "Rock And Roll can never die" verrebbe da dire.
Ma il bello arriva nel tumultuoso finale. Il pubblico inizia ad agitarsi, le prime file tremano e ballano sotto i colpi della vecchia Nausea, della immancabile Screamager, di una "punkettona" Where Eagles Dare dei Misfits, non in scaletta e piazzata all'ultimo momento prima di quella Nowhere che qualcuno ha iniziato ad invocare da inizio concerto, beccandosi pure i rimbrotti di Cairns :"Hey, ne abbiamo tante altre prima!"
Tutto finito? Macchè. Prima, il sentito ringraziamento al pubblico, vera spina dorsale della band e poi ci regalano una terremotante Potato Junkie (con inserti di I Wanna Be Your Dog degli Stooges), ripescata dal loro vecchissimo EP Pleasure Death (1992) e ci contagiano il ritorno verso casa con i proverbiali versi:  "James Joyce is fucking my sister".
Il miglior augurio che potreste fare ad una band in erba? Di seguire l'esempio e la sincera attitudine dei Therapy!...con il punto esclamativo! Mi raccomando!
E se non ci credete ancora, leggete cosa disse Henry Rollins, non l'ultimo arrivato come il sottoscritto, presentando un loro DVD Live:
"Il mio primo incontro con i Therapy? fu nell'estate del 1994, girammo insieme a loro durante molti spettacoli in giro per l'America. Insieme ai membri della mia band diventammo subito fan della band e della loro musica...".
Quindi se ancora non li conoscete, rimediate. Da quel 1994 non sono poi cambiati di molto. Forse migliorati? Anzi, migliorati! 
SETLIST: Isolation/Turn/Living In The Shadow Of A Terrible Thing/Ghost Trio/Why Turbulance?/Teethgrinder/Die Laughing/Bad Mother/The Buzzing/Unbeliever/Misery/Exiles/Get Your Dead Hand Off My Shoulder/Before You,With You,After You/Stop It You're Killing Me/Stories/Diane (incl.Hey Hey, My My)/Little Tongues First/Sister/Nausea/Screamager/Where Eagles Dare/Nowhere/Potato Junkie (incl.I Wanna Be Your Dog)

venerdì 9 novembre 2012

RECENSIONE: RUSTED PEARLS & THE FANCY FREE(Roadsigns)

RUSTED PEARLS & THE FANCY FREE  Roadsigns  (EP,autoproduzione, 2012)

Il Friuli è da sempre una generosa e accogliente terra di confine, ma anche di tosti ed intraprendenti emigranti, che sa essere prodigo anche quando deve calare i suoi assi del rock. Non a caso da Udine arrivano i già affermati W.I.N.D. di Fabio Drusin, una delle migliori realtà hard/blues europee. 
I Rusted Pearls & The Fancy Free con il loro primo EP Roadsigns vogliono cavalcare l'identità esplorativa del popolo friulano e le strade musicali percorse dai già citati W.i.n.d.
Le sei canzoni guardano ad un altra terra di confine molto lontana: a quel sud degli States che negli anni settanta ci regalò il meglio di sè con il southern rock, riuscendo a fondere in modo perfetto  mondi musicali solo in apparenza distanti come blues, soul, rock e country.
Il gruppo che nasce a Udine dopo i progetti solisti di alcuni membri, passa ad una prima incarnazione a nome Skins, trovando solamente di recente l'assetto ideale. L'amore per il southern rock esce con prepotenza dalle prime due tracce Free e Roadsings and White Lines, dove le chitarre duellanti di Dario Snidaro (anche voce) e Andrea Mauro sono in grande evidenza ma estremamente caratterizzanti lungo tutto il disco, come la compatta base ritmica (Marco Fabro al basso e Massimo Mattiussi alla batteria). I Rusted Pearls riescono a mettere sul piatto tante altre influenze: dallo street/hard rock ottantiano in Rusted Pearls con una melodia accattivante e memorizzabile, al buon compromesso tra l'hard/rock del passato e la pesantezza moderna di Home con una bella accelerazione nel finale. Il tutto prodotto da Riccardo Asquini, che è riuscito a mantenere su disco il suono tosto e live che credo sia il vero punto di forza di questi ragazzi.
foto by Alice B.L. Durigatto
Ma c'è anche un'anima nascosta, più blues e soul, quando le chitarre smettono di ruggire ed i ritmi calano di intensità, come nella conclusiva Precious con le voce femminile di Sarah del Medico e l'hammond di Alberto Pezzetta che mi ha ricordato oltre ai Black Crowes di metà carriera, anche il bello e sempre dimenticato Native Tongue dei Poison, era Richie Kotzen, e una vena quasi cantautorale, frutto evidente delle passate esperienze in Chilly Girl, con il pianoforte a guidare ed una sorpresa (quasi) noise nel finale.
Un disco, che nei suoi soli 26 minuti di durata, mette molta carne al fuoco ma soprattutto vuole essere l'anticamera a qualcosa di più professionale che, ne sono sicuro, arriverà molto presto.










mercoledì 7 novembre 2012

RECENSIONE: JAMEY JOHNSON (Living For A Song-A Tribute To Hank Cochran)

JAMEY JOHNSON  Living For A Song-A Tribute To Hank Cochran  ( Mercury Records, 2012)

Quando il 15 Luglio del 2010, all'età di 74 anni, Hank Cochran passò a miglior vita dopo aver lottato contro un cancro al pancreas, solo poche ore prima, Jamey Johnson insieme a pochi altri amici vegliò sul suo letto di ospedale, cantando e suonando le sue canzoni, le stesse che dopo due anni decide di registrare e mettere su disco insieme ad una parata di stelle della country music americana.

Hank Cochran

Hank Cochran stesso, fu uno dei più grandi cantautori e songwriters americani di country music. Sopravvissuto ad una infanzia difficile, segnata da una precoce sfilza di malattie, dal divorzio dei genitori in giovanissima età e dall'esperienza dell'orfanotrofio che finirono per influenzare pesantemente le liriche delle sue future canzoni, spingendolo ad avvicinarsi anche alla fede. Poi, tanti piccoli e faticosi lavori fino ad incrociare la vita del suo omonimo e sfortunato collega Eddie Cochran. I due, pur non avendo nessuna relazione di parentela, formarono i Cochran Brothers che però ebbero vita brevissima; mentre Eddie cerca di contendere a Elvis lo scettro del rock'n'roll ma trovando la morte a soli 22 anni dopo un terribile incidente automobilistico, Hank aspetta il suo riscatto di vita che arriverà a 24 anni con il trasferimento a Nashville, iniziando a mettere a frutto tutti gli insegnamenti musicali appresi dallo zio, e scrivendo i primi successi country, che con il tempo diventeranno dei classici interpretati da Patsy Cline, Elvis Presley, George Strait, Ray Price, Merle Haggard e moltissimi altri, tanto da rendere impossibile il passaggio per Nashville senza incontrare il suo nome nei credits di qualche canzone."Quando inizi a parlare di songwriters, il suo nome è il primo che devi fare" dice Willie Nelson
Oggi è arrivato il tempo del sentito omaggio.
A pensarci è Jamey Johnson, trentasettenne cantautore country dell'Alabama con all'attivo altri quattro album, l'ultimo fu The Guitar song del 2010. Tra le nuove star del genere, Johnson è forse quello che maggiormente si avvicina al songwriting classico di Cochran, tanto che tra i due, pochi anni prima della morte, nacque una intensa e profonda amicizia fatta di rispetto reciproco che fu da preambolo a questo tributo. Johnson mantiene quell'aurea da vecchio e classico country che anima quasi tutte le canzoni, mettendo a disposizione la sua profonda e baritonale voce per i duetti presenti in quindici canzoni su sedici (Would These Arms Be in Your Way è l'unica cantata in solitaria). Passa così in rassegna tutta la carriera di Cochran da I Fall To Pieces del 1960, portata al successo da Patsy Cline, e qui cantata insieme a Merle Haggard, fino alla commovente esecuzione di Living For A Song del 2003 che riunisce insieme lo stesso Hank Cochran con Willie Nelson, Kris Kristofferson e Merle Haggard. Un poker di assi.
Tra le melodie sognanti di lap steel, archi e pianoforte, riscopriamo la famosa e cullante melodia di Make The World Go Away  insieme a Alison Krauss, Don't Touch Me con l'inconfondibile voce d'angelo di Emmylou Harris, la nostalgica She'll Be Back con Elvis Costello, fino al duetto con due stelle americane di prima grandezza come in Don't You Ever Get Tired Of Hurting Me con Willie Nelson e Love Makes A Fool Of Us All con Kris Kristofferson.
Ma anche up-tempo guidati dal violino come A Way To Survive  con Leon Russell e Vince Gill, ballroom song come I Don't do Windows con Ray Benson and Asleep At The Wheel, e southern rock più pimpanti e chitarristici come The Eagle con George Strait.
E ancora tanti altri ospiti come il vecchio amico Ray Price,  Bobby Bare, Lee Ann Womack e Ronnie Dunn.
Un disco caldo e rassicurante che trasuda sincera commozione e devozione, amplificata dal fatto che tutti i cantanti coinvolti, chi più chi meno, sono entrati in contatto direttamente con la musica di Hank Cochran. Un plauso quindi a Johnson che è riuscito a convogliare l'attenzione solamente sulle canzoni, nonostante il disco esca a suo nome e sia pieno di stars.
Nelle note conclusive del libretto, Suzi, l'ultima delle tante mogli di Cochran scrive:"Vorrei che Hank fosse ancora qui a vedere, non ci crederebbe, avrebbe pianto. Sarebbe felice. E' esattamente quello che Hank avrebbe fatto". Un buon modo per riscoprire un autore che già nel lontano 1974 a soli 39 anni entrò nella leggendaria Hall of Hame dei songwriters di Nashville.



domenica 4 novembre 2012

RECENSIONE: AEROSMITH (Music From Another Dimension!)

AEROSMITH  Music From Another Dimension! (Columbia Records, 2012)

La rovinosa caduta dal palco di Steven Tyler avvenuta nel South Dakota nel 2009 è quanto di più lontano si possa accostare all'immagine in bilico tra bravi ragazzi sbarbati e le cattive rock'n'roll star lungocrinite sospese in alto tra le nuvole, come apparvero nella copertina del loro disco d'esordio nel 1973. La parabola degli Aerosmith da Boston è però stata, a ben vedere, sempre costellata da picchi e rovinosi baratri umani e artistici. Le ultime poco incoraggianti istantanee di cronaca (vera) che arrivavano dall'universo Aerosmith erano pressochè simili, con Tyler sempre sfortunato protagonista: di un altra caduta, dalla doccia stavolta e vittima delle voci sulla sua estromissione dal gruppo, presto rientrate, nonchè chiacchierato giudice di un programma televisivo come American Idol, poco vicino all'icona di quello che qualche anno fa era considerato la metà di un duo soprannominato gemelli tossici.
"Non eravamo troppo ambiziosi quando abbiamo iniziato. Volevamo solo essere la più grande cosa che abbia mai camminato sul pianeta, la più grande rock'n'roll band di sempre.Volevamo solamente tutto" Steven Tyler.
Determinati lo sono sempre stati però: hanno avuto tutto, l'hanno perso, l'hanno riottenuto e non importa come. La loro ultima rinascita artistica è figlia della Mtv generation, anche se Just Push Play(2001) ha rappresentato il punto più basso e stanco della loro carriera artistica e fare di peggio sarebbe stato impossibile, mentre l'ultimo disco uscito, il bello Honkin' on Bobo, lasciava intravedere un riavvicinamento al blues grazie a belle e convincenti riproposizioni di classici del genere legati ai loro esordi. 
Music From Another Dimension era quindi un punto interrogativo che ha fluttuato nell'aria per ben otto anni. Il singolo Legendary Child, presentato in primavera cercava di dare una risposta. Un ritorno alle radici hard/blues dei '70 (anche il produttore Jack Douglas è stato riesumato da quegli anni)  che incoraggiava, trovando conferma solamente in minima parte durante l'ascolto di tutto il disco che rappresenta bensì una summa di tutta la loro carriera. Una raccolta di canzoni un po' sconclusionata e lunga (15 canzoni per un totale di 68 minuti) che purtroppo lascia trasparire ancora una stanchezza di fondo-chiamiamola così- alimentata dalla presenza massiccia (Tell Me, la poco incisiva What Could Have Been Love, la stucchevole Can't Stop Lovin' You in duetto con Carry Underwood, We All Fall Down, Closer, la bella, pianistica e conclusiva Another Last Goodbye) di quelle ballads che sanno diventare epiche se rappresentano l'eccezione nel mucchio ma che rischiano di affossare un disco rock quando costituiscono quasi la metà della tracklist, sopprattutto se poco ispirate e odoranti di routine. Insomma, Dream On, suonata pochi giorni fa per le vittime dell'uragano Sandy durante una trasmissione televisiva e Home Tonight rimangono uniche e l'easy listening che abbonda, rinsaldando la collaborazione con songwriters di eccezione come Desmond Child, Diane Warren e Marti Frederiksen non giova troppo ad un disco lanciato sul mercato con proclami che annunciavano un ritorno al passato.
E dire che il resto convince. Già l'inizio sembra veramente incoraggiante grazie ad una doppietta hard rock: Luv xxx con l'ospite Julian Lennon ai cori, e la stonesiana e soul Oh Yeah in cui la longeva band bostoniana (quarant'anni con la stessa identica formazione non è da tutti, escludendo qualche scaramuccia nei primi anni '80) dimostra ancora di saper graffiare se non proprio come ai tempi di Rocks, almeno come ai tempi della rinascita di Permanent Vacation (1987) e Pump(1989), con la chitarra di Joe Perry in bella mostra e la voce di Tyler ancora viva e sfacciata, nonostante tutto, e la prova da crooner nella ballad Another Last Goodbye lo dimostra. C'è perfino una Beautiful, che rivendica la paternità del genere crossover tra rock/rap a suo tempo tenuto a battesimo con quella Walk This Way entrata di diritto nella teca dei classiconi rock e un trascinante boogie nero come Out Go The Lights. 
Poi, alcune piacevoli gemme di rock'n'roll come la combattiva ed anarchica Street Fighter cantata da Perry (che nel frattempo ha fatto uscire il suo discreto disco omonimo nel 2005) con Johnny Depp che lascia il segno ai cori pure qui-impercettibile in verità-, dopo aver presenziato sull'ultimo disco di Patti Smith, o l'urgenza di Lover Alot con il basso incisivo di Tom Hamilton a guidare le danze, ma soprattutto nella miglior traccia del disco Street Jesus che sembra uscire direttamente dai loro capolavori Toys in The Attic e  Rocks con le chitarre di Joe Perry e Brad Whitford sugli scudi, libere di inseguirsi in veloci accelerazioni proprio come allora (Rats in the Cellar docet), o ancora il blues acido e chitarristico di Something.
Un disco che cerca di accontentare tutte le categorie dei loro fan, gli eterni nostalgici del periodo "Toxic Twins" con alcuni rimandi ben studiati e chi, i più giovani, ha conosciuto gli Aerosmith attraverso i video di Pink o I Don't Want To Miss A Thing. Io rimango un nostalgico ed ingenuo che ha creduto ancora una volta alle roboante campagna pubblicitaria che strombazzava il ritorno agli anni settanta. Un disco che riscatta l'ultimo Just Push Play ma che rimane ancora senz'anima e identità propria, continuando a ripetere quella formula da "greatest hits" che li accompagna da Get A Grip in avanti. Dopo Honkin' On Bobo credevo che il maturo blues si fosse rimpossessato di loro come in gioventù, invece fu un colpo improvviso e isolato di nostalgia. La stessa che ho io, ora. VOTO 6,5







venerdì 2 novembre 2012

RECENSIONE: DANKO JONES (Rock And Roll Is Black And Blue)

DANKO JONES  Rock And Roll Is Black And Blue ( Bad Taste Records, 2012)

Quel ragazzaccio di un Danko Jones non manca occasione per predicare il suo verbo da rocker marpione e sporcaccione come andava di moda una volta. Watt, sudore e "gnocca" (a volte con eccesso maniacale di machismo) sono ancora ingredienti basilari per divertirsi senza dare o chiedere troppo in più-Kiss docet. E Danko Jones lo sa bene. I suoi fan lo sanno bene, e non pretendono altro, ovviamente. I suoi primi dischi (Born A Lion-2002 rimane ancora il suo migliore) votati ad un hard/blues/garage/punk metropolitano che enfatizzava la lezione dei Jon Spencer Blues Explosion, hanno piano piano lasciato il posto alle chitarre sempre più veloci, pesanti e hard, svelando la vera natura e l'amore musicale di questo mulatto canadese di Toronto cresciuto con il chiodo di pelle nera appiccicato addosso, con il vecchio hard/heavy degli eighties nelle orecchie e i riff di Kiss, Thin Lizzy e AC/DC nelle corde della chitarra, ma anche un anfratto pop da "vizioso" tormentone-sempre ben presente- che lo rendono appetibile a chiunque mastichi rock a 360° e non pretende troppe "seghe mentali" da chi sale sopra al palco con una chitarra.
Nulla di nuovo per chi già mastica il rock ad alto testosterone del canadese, ma la solita ripetitiva ma piacente formula rock'n'roll che Danko Jones sa rielaborare a suo piacimento, caricando di sex appeal ogni singola parola cantata dei suoi testi diretti e allusivi. Un instancabile lavoratore del rock, tutto dischi, sudore e tour che in quindici anni è riuscito a guadagnarsi il rispetto dei grandi (dal povero R.J.Dio all'intramontabile Lemmy, passando da John Garcia dei Kyuss) senza usare "finte" scorciatoie.
Un trio che oltre a Danko Jones alla voce e chitarra "spara riff" e al fido bassista John Calabrese, vede l'entrata in formazione del batterista Atom Willard già con i Rocket From The Crypt. Una band che continua a caricare le canzoni di urgenza interpretativa sia quando escono i riff zeppeliniani di You Wear Me Down, quelli pesanti e circolari di Conceited, o quelli heavy e taglienti al limite del thrash metal/hardcore di The Masochist. 
Piace un po' meno-all'orecchio rock-quando si ammicca troppo alla melodia come in Type Of Girl, un banale esercizio alla Offspring che convince poco e sa tanto di furbizia, o come in Always Away, un pop/rock con riff alla Ac/Dc che potrà anche fare il botto radiofonico, ma che affoga in troppa melassa. Insomma ci piace di più quando pesta e fa il cattivone.
Da gran cerimoniere del rock'n'roll può permettersi di chiudere il disco cantando la sua messa profana: il sermone gospel che precede I Believed In God (concluso da una reprise di organo da chiesa), una canzone che è un tormentone già al primo ascolto, proprio come tradizione di Danko Jones, e che diventerà sicuramente un bel momento durante i suoi infuocati e bagnati live.
C'è anche il tempo per una bonus track: In Your Arms, un classic Dark/Heavy alla Glenn Danzig che lascia trasparire anche il suo lato viziosamente oscuro.  
Danko Jones rimane uno dei pochi rocker odierni ad aver ereditato la vecchia formula del divertimento messo in musica: irriverente, ironico, abrasivo e ancora tanto ma tanto motherfucker. Un vizio "duro" a morire.



mercoledì 31 ottobre 2012

RECENSIONE: LOWLANDS ( Beyond )

LOWLANDS   Beyond ( Gypsy Child Records, 2012)

"Hail Hail Rock'n'Roll" è l'inno che esce dalla seconda traccia Hail Hail. Una dichiarazione forte e che lascia pochi dubbi sul carattere battagliero e ruspante che Beyond, terzo disco ufficiale dei pavesi Lowlands, vuole prendere, confermato dall'iniziale Angel Visions, un terremotante e dissonante assalto punk and roll, non lontano dai Social Distortion di Mike Ness. Anche se poi, lungo i 39 minuti del disco, escono anche le vecchie radici della band a riportare le cose come le abbiamo conosciute prima, l'inizio è di quelli che non lascia indifferenti.
Questo 2012 sembra essere un anno importante per i Lowlands. Se le profezie Maya dovessero portarsi a compimento (via con gli scongiuri), la band di Edward Abbiati potrebbe vantarsi di aver raggiunto un livello assoluto con due strepitose uscite discografiche nel giro dell'ultimo anno solare a disposizione, senza troppi rimpianti, prima della imminente fine del mondo (avanti con gli scongiuri, per chi ci crede, ovviamente).
Anche se il tutto sa più di nuova ripartenza piuttosto che arrivo. Beyond è stato anticipato di pochi mesi da Better World Coming, un disco tributo, uscito a cento anni dalla nascita di Woody Guthrie, suonato con la compagnia di tanti amici (da Alex Cambise a Daniele Zanenga, passando da Nicola Crivelli dei Green Like July a Maurizio "Gnola"Glielmo già con Davide Van de Sfroos e molti altri ancora) e con il rispetto dovuto ad uno dei padri della folk music americana, senza tralasciare l'originalità e imponendo un pezzo del proprio trademark. Un disco che non ha mancato di suscitare ammrirazione fuori dai confini nazionali, dimostrando che il rock italiano quando ci si mette può competere ad armi pari con chiunque e meritarsi il rispetto internazionale.
Beyond ne è il giusto seguito, prodotto da Joey Huffman. Dieci canzoni originali che rafforzano il concetto, spingendo il limite musicale verso la continuazione di quel lavoro iniziato da Guthrie: c'è il rock'n'roll mainstream americano della già citata Hail Hail a metà strada tra Springsteen e Willie Nile, c'è l'irrequieta immediatezza di Lovers and Thieves che sembra ancora uscire da qualche disco del piccolo folletto di Buffalo, due canzoni impreziosite dall'armonica ospite di Richard Hunter. L'incedere impetuoso di Waltz in Time, guidata dal pulsante basso, dalle lap steel di Mike Brenner e dalla chitarra di Roberto Diana che taglia l'aria e ferisce a fondo. 
Da tutte queste chitarre, le liriche e la voce"graffiante" di Abbiati emergono ancora più vivacemente, mentre da canzoni più meditate e riflessive esce il carattere intimistico e da "deserto al buio" della sua scrittura: il country di Ashes, l'oscurità acustica e solitaria di Homeward Bound tra sogni e polverose strade di provincia, il suggestivo folk da falò di Fragile Man con il violino di Chiara Giacobbe (ex componente del gruppo) a ricamare la solitudine. Il crescendo da E-Street Band di Down On New Street, la natura incontaminata e il mistero della vita di Beyond, fino ad arrivare alla finale Keep On Flowing, dove traspare anche un filo di sole. 
Diverso dai precedenti The Last call(2008) e Gypsy Child(2010), come diversa è la formazione che ci ha lavorato. Questa volta al fianco di Abbiati, oltre a Francesco Bonfiglio e Roberto Diana, troviamo due vecchie conoscenze del rock italiano: due pionieri del rock americano "made in Italy" come  Robby Pellati alla batteria e Antonio Rigo Righetti al basso, insieme nei seminali The Rocking Chairs con Graziano Romani negli anni ottanta, insieme nella prima band di Ligabue, ed insieme oggi, a fornire la sezione ritmica ai nuovi Lowlands. Proprio al carattere internazionale dell'ultima incarnazione dei Rocking Chairs sembra volgersi questo nuovo corso della band di Abbiati. L'augurio è di seguirne le orme con un po' di fortuna in più e sfruttando al meglio le strade già aperte da questi pionieri. I numeri ci sono tutti ed i primi riscontri internazionali lo stanno già testimoniando.







venerdì 26 ottobre 2012

RECENSIONE: NEIL YOUNG & CRAZY HORSE (Psychedelic Pill)

NEIL YOUNG & CRAZY HORSE  Psychedelic Pill  (Reprise Records, 2012)

Non c'è nulla da fare. Ci sono incontri che sono frutto del destino, scritti per durare nel tempo, più forti dei lutti, delle sbandate artistiche, delle enfatuazioni passeggere, della vita stessa. Quello tra Neil Young e i Crazy Horse è uno di questi. Quando nel lontano 1969 i Crazy Horse, che si chiamavano ancora Rockets, incrociarono la vena creativa del giovane Neil Young e uscirono fuori i primi semi che costruirono una parte importante della loro intera carriera (a partire da Cowgirl in the sand, passando da Cinnamon Girl) nessuno poteva immaginare che quarantatré anni dopo, il mondo musicale fosse ancora lì ad aspettare con trepidante attesa una loro nuova collaborazione. I Crazy Horse sono sempre stati lì ad aspettare e Neil Young non ha mai nascosto il suo piacere nell'alzare i volumi per suonare con loro, tanto da lasciare, in passato, lusinghieri attestati di stima, definendoli i "Rolling Stones americani" e facendoli sempre primeggiare quando doveva confrontarli con le altre band della sua carriera, CSN in primis. Terminati gli ispirati anni settanta in bilico tra buchi neri e vena creativa ai massimi livelli, Billy Talbot, Ralph Molina e Frank"Poncho"Sampedro (l'ultimo arrivato in sostituzione dello scomparso Danny Whitten) hanno saputo aspettare gli esperimenti solitari del grande capo: partiti dai primi anni ottanta e passati attraverso il country plastificato e ordinario, l'amore per i synth, il rock'n'roll revival tutto rosa shocking e brillantina, il rhythm and blues, la reiterata voglia di rispolverare a più riprese i tempi andati, quelli gravitanti intorno ad Harvest(1972), e riuscendoci a metà, la voglia di confrontarsi con quei giovani gruppi (Pearl Jam in testa) che proprio da Young e i Crazy Horse si sentivano ispirati; ma i Crazy Horse hanno saputo tornare quando chiamati in causa, in modo convincente come in Ragged Glory(1990), ispirato e riflessivo in Sleep with Angels(1994), squassante in Broken Arrow(1996) e qualche volta anche in modo sommesso, poco convincente e deludente come in Life (1987).
Questo 2012 sarà ricordato, ancora una volta, come "l'anno del cavallo". L'aperitivo Americana, uscito solo pochi mesi fa, era, in verità, uno strambo ma riuscito antipasto. Un modo originale per riscaldare i motori e ricordare le proprie origini musicali perse nella tradizione, dopo diciotto anni di assenza, interrotti solamente dalle due ultime apparizioni live insieme, quella del 2004 e l'ultima nel febbraio di quest'anno, occasione in cui si sono gettate le basi per gli allora futuri impegni ora concretizzatosi e mantenuti: 2 dischi e nuovo tour iniziato ai primi di Ottobre negli States, con la speranza che tocchi anche l'Europa e perchè no, l'Italia.
Psychedelic Pill, con un titolo che sembra rimandare inevitabilmente ai periodi "stonati" di Tonight's The Night(1975), si presenta subito in modo sontuoso ed estremo, incutendo pure un po' di timore reverenziale: 2 CD (o 3 LP) con solamente otto tracce (più una bonus track) tra cui spiccano immediatamente all'occhio i 28 minuti di Driftin'Back e i 16 di Ramada Inn e Walk Like A Giant. Dentro, tutto quello che il connubio ci ha regalato negli anni: lunghe jam chitarristiche, assalti ruvidi, cavalcate, feedback, ma anche folk e nostalgiche melodie '50. Prodotto da John Hanlon e Mark Humphreys e registrato nello studio Audio Casablanca come il precedente Americana.
L'iniziale e lunga Driftin'Back sembra essere la traduzione in musica dell'autobiografia "Waging Heavy Peace"appena uscita in America, musicata su un mid-tempo che da folk si trasforma presto in rock ondivago, e che purtroppo ha l'unico difetto nella eccessiva e strabordante lunghezza. Un ostacolo che si lascia comunque superare anche se messo proprio lì, all'inizio, potrebbe indurre a malsane azioni di skip.
Born In Ontario è l'omaggio alla sua verde terra canadese, dipinto con leggerezza, ironia e armonia, cosa che ai Crazy Horse riesce anche bene. "You might see me down in Alabama/Or Baton Rouge down in Louisiana/I might make it up to Detroit City/Where people work hard and life is gritty/It don't really matter where I am/It's what I do, it's what I can/This old world has been good to me/So I try to give back and I want to be free/I was born in Ontario".
I sedici minuti sui sogni infranti della sua gioventù in Walk like A Giant sono pura carta vetrata corrosiva e pericolosa, ma maneggiata con cura e indirizzata, con tutto l'amore possibile, verso gli anni cinquanta nei cori doo-wop e incanalata verso la strada della spensieratezza con un fischiettio (umano) contagioso che si staglia in mezzo al grattugiare terremotante e i fischi (disumani) delle chitarre. Intanto passeggi e ti ritrovi a cantare:"Voglio camminare come un gigante sulla terra".
Il muro chitarristico di She's Always Dancing potrebbe diventare un nuovo classico se  Like A Hurricane non fosse già stata scritta qualche anno prima.
La title track Psychedelic Pill, con i suoi 3:26 minuti è la canzone più corta, straniante e disturbante, piena di effetti che pare uscita dai primi anni ottanta, da Re-Ac-Tor(1981) o da Trans(1982). Ripresa anche a fine disco in una versione Alternate Mix"You're never gonna see a tear in her eye/Never see her break a frown/She's lookin' for a good time". E scopri che una donna, a volte, può essere meglio di certe sostanze allucinogene, e viceversa.
Twisted Road è pura nostalgia messa in musica che rievoca i primi fremiti rock'n'roll che passavano le radio, la prima conoscenza con il diavolo musicale, la prima volta che la dylaniana Like A Rolling Stone entrò in circolo. Da allora, nulla fu più come prima, e non ci fu più una prima (vera) volta.
Ramada Inn sembra rappresentare fedelmente  la quintessenza del suono dei Crazy Horse: crudezza da buona alla prima, assoli e psichedelia chitarristica dilatata che si traducono in un chorus nostalgico-ma appassionato-sui rapporti di coppia che ti si stampa presto in testa "...and every morning comes the sun/ and they both rise into the day/ holding on to what they've done...". Tutto è inconfondibilmente da Neil Young e Crazy Horse. Difficile sbagliarsi. I signori continuano a divertirsi come fosse la prima prova in garage, incuranti se davanti a loro ci siano centinaia di Chevrolet parcheggiate e tirate a lucido o centinaia di rockers rumoreggianti e sfatti. In modo semplice, divertente, rumoroso, senza pensarci troppo come da sempre nella indole di Neil Young e con i testi che indagano nelle pieghe del suo passato e un po' nel suo presente altamente tecnologico ma rispettoso verso la natura.
Infine la dolcezza ipnotica di For The Love Of Man, canzone già conosciuta nei primissimi anni ottanta con il titolo di I Wonder Why, messa nei cassetti dei suoi archivi e qui rispolverata e tirata a lucido. Una delicata e sentita dedica al figlio Ben, nato con gravi disfunzioni cerebrali. "Let The Angels/Ring The Bells/In The Holy Hall/Let Them Hear/The Voice That Calls/For The love Of Man/Who Will Understand/It's Alright/But I Wonder Why" .
"Il Rock'n'Roll non può morire". Neil Young e il suo cavallo pazzo ce lo dissero già, più di trent'anni fa. Psychedelic Pill è qui a ribadirlo in modo epico, coraggioso, testardo, a suo modo ancora nuovo e stimolante, una sfida lanciata a 66 anni, che piaccia o meno. A me piace (ancora una volta).