lunedì 21 maggio 2012

RECENSIONE: UFO ( The Chrysalis Years-1980/1986 )

UFO The Chrysalis Years (1980-1986) (box 5 cd,Chrysalis/EMI, 2012)

Con The Chrysalis Years (1980-1986) si completa l'intera discografia degli Ufo con la nota casa discografica. Come avvenuto nella precedente raccolta, in 5 cd sono raggruppati i cinque album registrati tra il 1980 e il 1986, più numerose registrazioni live (tra cui BBC in Concert -4th February 1980), b-sides ed inediti mai apparsi prima su disco.
Certo, artisticamente, la parte migliore del gruppo riposa negli anni settanta, ma qualcosina di buono si può trovare anche in questa prima metà degli anni ottanta.
L'abbandono di Michael Schenker è un colpo durissimo da mandare giù che si materializza all'indomani del concerto tenuto a Palo Alto in California nel 1978. Il live Strangers in the Night che ne conseguì è ancora adesso tra i migliori live album rock di sempre e lasciava intravedere ancora una band in gran forma, pronta ad affrontare l'arrivo degli anni ottanta.
La scena musicale britannica è in gran fermento e anche un gruppo come gli UFO, tra gli ispiratori della nascente NWOBHM, deve mettersi in riga con i nuovi idoli : Iron Maiden, Saxon, Def Leppard, tutti gruppi che non negheranno mai la grande influenza che il gruppo di Mogg ebbe nella loro formazione musicale e che in quel preciso momento mostravano, però, una freschezza compositiva che metteranno a dura prova il songwriting degli UFO.
Reclutato l'ex Lone Star, Paul "Tonka" Chapman in sostituzione di Schenker, che nel frattempo ricompare per un brevissimo tempo negli Scorpions per formare successivamente il suo gruppo personale MSG e che ritroveremo insieme agli UFO nella reunion degli anni novanta, ma queste sono altre storie.
Il primo album post -Schenker è No Place To Run(1980)**1/2, prodotto dal celebre George Martin. Un disco che accanto a pesanti hard/heavy song come Lettin'Go, Money Money e la bella e conclusiva Anyday, apriva le porte al rock/blues con la cover di Mystery Train portata al successo da Elvis , alle più cadenzate e
rockeggianti Young Blood, non lontana da quanto prodotto dagli AC/DC all'epoca, alla title track No place to Run e a canzoni più melodiche come Gone In the Night, Take It Or Leave It, dove la voce di Phil Mogg si dimostrava ancora efficace ed ispirata e dimostrava un Chapman comunque in vena negli assoli. Il successo non arrivò e il disco passò inosservato al grande pubblico rapito dalla nascente nuova ondata di Metal britannico.
Passa un solo anno e gli UFO, che nel frattempo continuano una intensa attività live, registrano The Wild, The Willing and The Innocent (1981)****, album più centrato rispetto al precedente. Gran merito va forse al completo controllo che la band ebbe sul lavoro, producendosi il disco ed a un Paul Chapman, perfettamente integrato e coinvolto maggiormente nella stesura dei pezzi. Chains Chains e Long Gone aprono il disco in modo superbo, ritrovando quella ispirazione che sembrava persa con l'uscita di Schenker.
Long Gone, soprattutto, stupisce, anche grazie al suo finale sinfonico con una orchestra d'archi perfettamente integrata con il roccioso hard. Mid-tempo come la title track, il fascino oscuro e notturno di It's Killing Me, il pesante hard di Makin' Moves, la presenza del sax di Neil Carter in Lonely Heart e la ballad finale Profession Of Violence con Chapman che sale in cattedra con assoli pieni di blues, rendono l'album un concentrato di ottime canzoni, scritte in un periodo di ottima forma, che non avranno mai la meritata ribalta. Un album assolutamente da riscoprire.
Mechanix (1982)***, ricordato più per essere stato l'ultimo disco registrato prima che il bassista Pete Way, finito il tour di supporto, abbandonasse gli Ufo per fomare i Fastway insieme a "Fast"Eddie Clarke dei Motorhead e l'allora sconosciuto Dave King, futuro cantante dei Flogging Molly. Mechanix prosegue il discorso del precedente disco, aumentando i campi di esplorazione. Dal classico hard di apertura The
Writer
, si passa al rock'n'roll di Somethin'Else (cover di Eddie Cochran), ai cori west coast in stile Eagles di Back Into My Life, che ottenne giustamente un buon successo negli States. I vecchi fans rimasero disorientati. A rimettere tutto a posto ci pensano il feeling hard '70 di You'll Get Love, Feel It, Dreaming e Doing It All For You, il taglio fast e heavy di We Belong to the Night e la splendida ballad in odor di AOR Terri, con le tastiere di Neil Carter in primo piano, futura palestra per gli appena nati Europe.
Making Contact(1983)** può essere considerato insieme al suo successore, tra i punti più bassi toccati dalla formazione inglese. La febbre degli anni ottanta tocca anche i rocker come gli UFO. Le tastiere di Neil Carter si impossessano della scena e il nome del tastierista compare in quasi
tutti i credits delle canzoni. Diesel in the Dust offre ancora buoni spunti, When It's Time To Rock, The Way the Wild Wind Blows e All Over You cercano di colpire ancora a suon di hard rock, la finale Push, It's Love è veloce e incisiva. Ma i cori di Fool For Love sono imbarazzanti, e ballad come You and Me guidate dalle tastiere eccessivamente mielose. Molto meglio la b-side Everybody Knows.
In generale fu accolto tiepidamente , tanto da indurre gli UFO ad un temporaneo scioglimento, o meglio ad una dipartita di massa, con il solo Mogg a cercare di ricucire i pezzi e mantenere in vita il nome della band.
Nel frattempo gli UFO continuano la loro attività live e da segnalare è la temporanea presenza di Billy Sheenan al basso durante alcune date.
Difficile riconoscere gli UFO da un disco come Misdemeanor(1986)*, uscito a tre anni di distanza da Making Contact, ultimo registrato per la Chrysalis e a tutti gli effetti si potrebbe addebitare al solo Phil Mogg, rimasto l'unico componente originale a guida del gruppo.
Alla chitarra, poco incisiva e nascosta, troviamo Atomik Tommy M., al basso Paul Gray e alla batteria Jim Simpson. Le tastiere di Paul Raymond assumono il comando delle canzoni e poco si salva.
Il suono strizza l'occhio all'AOR melodico americano, lasciando veramente pochi ricordi. Uniche menzioni per le ballads The Only Ones e Wreckless.


vedi anche RECENSIONE: UFO-The Chrysalis Years (1973-1979)

venerdì 18 maggio 2012

RECENSIONE: DEAD FINGERS ( Dead Fingers)

DEAD FINGERS  Dead Fingers ( Big Legal Mess,Fat Possum Records , 2012)

Come si dice? Tra moglie e marito, non mettere il dito? Se poi la coppia è giovane e bella, io ci aggiungo brava, l'indice possiamo usarlo solamente per azionare il tasto play dell'autoradio sul cruscotto della macchina. I Dead Fingers (toh..."dita morte"-sembra che il nome derivi da un innocente giochetto per bambini, fatto con le mani-) ti accolgono in modo carezzevole e gentile in un parcheggio in quel di Birmingham-Alabama- e ti stupiscono con l'avanzare dei chilometri, quando salito in macchina, hai dato loro la confidenza necessaria per lasciarti guidare, con fiducia, per le strade del sud.
I Dead Fingers sono Taylor Hollingsworth, appena trentenne, già con alcuni dischi solisti alle spalle e conosciuto più per essere il chitarrista nel primo omonimo e bel disco solista di Conor Oberst (2008) e nel progetto, sempre di Conor Oberst con the Mystic Valley Band, culminato con l'abum-meno riuscito- Outher South (2009), e freschi di uscita con la raccolta di inediti One of my Kind; e sua moglie Kate Taylor Hollingsworth, sorella della cantante, poco più grande ma più conosciuta, Maria Taylor, per la quale Taylor (il marito) suonò e già apprezzata con i Bright Eyes e il duo Azure Ray. Kate, cantante e polistrumentista, è cresciuta in una famiglia di musicisti, normale per lei trovarsi a girare per casa e scontrarsi con batteristi e chitarristi. Uno di questi, un giorno, fu Taylor.
Taylor e Kate si conosco fin da ragazzini, ma ora che sono anche una coppia di fatto è stato quasi inevitabile unire le esperienze e le passioni musicali.
Sul palco, si presentano spesso da soli, oppure due chitarre più un batterista, con Kate che tiene il tempo battendo le mani sul lato della chitarra."Sul palco siamo in grado di cavarcela da soli. Solo noi due"
Detto così, sembrerebbe molto semplicistico, e dal vivo molto probabilmente lo sarà quando si presentano on stage come duo, ma su disco una nutrita schiera di ospiti collaborano e aiutano.
La prima cosa che colpisce appena partono le prime note di Closet Full of Bones, è l'armonia vocale tra i due: l'aggraziata voce di Kate che contrasta e si scontra con quella sgraziata, buffa e nasale di Taylor, non così lontana da una delle innumerevoli voci-scegliete a caso-di un giovane Bob Dylan.
I quaranta minuti di questo loro debutto hanno due marce ben distinte. La prima (metà del disco) viaggia su un tranquillo tappeto di folk/country music, crepuscolare ed intimista: il primo singolo Another Planet non così lontano dalle girandole acustiche degli scozzesi Vaselines, Hold on to guidata dalle lap steel, la riflessiva 4 Stone Coaches e il blues acustico di Ring Around Saturn. 
La seconda parte vira su altri territori: a partire da Please don't let me Go, psichedelica e inquietante in odor di '60 con tanto di arrangiamenti orchestrali ad opera di Jonathan Kirkscey; vira su blues/doo wop disossati e divertenti come Lost in mississippi con l'armonica di 'Uncle' Randy Wyatt e il wurlitzer di Macey Taylor Sr.; il  trascinante honky tonk rock'n'roll di Against the River con l'aggiunta dei fiati di Jeff Callaway e assoli di elettrica, con il puzzo di sud che si sente a distanza; il country trascinante di On my Way e il blues scarnificato, squassante ed elettrico per sola chitarra e battiti di Never be my Man, per finire come tutto era iniziato: sulle tranquille, acustiche e arpeggiate note di Wheels and Gasoline, lento ritorno a casa all'alba di un nuovo giorno.
In questo debutto dei Dead Fingers traspare tutto l'amore che il duo riversa per la musica americana "tutta". Scarno, divertente, a volte spettrale, senza nessun punto di riferimento ma assolutamente scorrevole, godibile e genuino. Una coppia talentuosa che vive di musica-si sente-lo si percepisce e lo si vive insieme a loro. Nessuna pretesa se non fare musica in modo affiatato, lontano dai grandi circuiti. Sperando sia solo l'inizio del loro viaggio di vita e musicale insieme. Aspetto il secondo giretto in loro compagnia.






mercoledì 16 maggio 2012

RECENSIONE: MOLLY HATCHET ( Regrinding The Axes )

MOLLY HATCHET Regrinding The Axes ( Universal Music, 2012)


Il corposissimo Regrinding the Axes aggiunge poco o nulla alla carriera dei veterani Molly Hatchet. Un buon antipasto per la prossima calata in Italia in compagnia dei "fratelli di Jacksonville" Lynyrd Skynyrd a Vigevano, il prossimo 13 Giugno. Trattasi, in gran parte, della riproposizione di Southern Rock Masters, disco uscito nel 2008, a cui sono state aggiunte tre bonus tracks e mischiato l'ordine delle canzoni.
15 covers rilette alla loro maniera che arrivano a due anni dall'ultimo disco "Justice", album che confermava la strada intrapresa dal 1996, con l'entrata in formazione del cantante Phil McCormack, che con la sua voce possente è stato il miglior sostituto di Danny Joe Brown e Jimmy Farrar ( a me non dispiaceva) trovato sulla piazza, per cancellare alcune cadute di tono degli anni ottanta (su tutti: i poco sopportabili Deed id Done-1984 e Lightning Strikes Twice-1989) .
Strada che Bobby Ingram (assurto a leader assoluto della band) ha voluto sempre più intrecciata con la pesantezza hard, sfiorando l'epicità metal, appesantendo sempre più le caratteristiche che distinguevano i Molly Hatchet dal resto delle formazioni southern rock, fin dal loro epico esordio del 1978.
Da alcuni anni, il ritorno di Dave Hlubek, chitarrista e tra i fondatori della band, nella formazione originale dal 1978 al 1985, ha riallacciato i ponti con la primissima line-up, ridando un po' di continuità alla loro storia.
C'è veramente un po' di tutto in questo album. Dagli omaggi all'epoca d'oro del southern rock con una lunghissima Free bird (già nella scaletta dei Molly Hatchet e registrata anche live in Double Trouble -1986, con la voce del compianto Danny Joe Brown, e canzone vittima di numerosissimi tentativi di emulazione da parte degli Hatchet) alla dolce e sognante Melissa degli Allman Brothers Band.
Il chitarrismo torrenziale di Leslie West e dei suoi Mountain nella epocale Mississippi Queen e quello altrettanto ruspante e blues nell'apertura affidata a Bad to the Bone di George Thorogood, e in Sharp Dressed Man degli ZZ Top. Tutto pane per le chitarre di Hlubek e Ingram.
Per non creare preferenze e scelte nell'eterna diatriba tra Rolling Stones e Beatles, i Molly Hatchet scelgono due brani per ogni band: poco riuscite Back in The U.S.S.R. e la pianistica Yesterday, meglio con Tumbling Dice e Wild Horses, più vicine alla loro attitudine.
Tra la poco fantasiosa scelta della solita Boys Are Back in Town dei Thin Lizzy (gli irlandesi hanno fatto molto altro e di meglio), c'è una lunghissima Layla (Derek and the Dominos) dal vivo, la rilassante Tequila Sunrise degli Eagles e le già conosciute, e loro, Dream I'll Never See e Get In the Game, registrate live.
Nulla di nuovo sotto il sole del sud, se non il pretesto di ascoltare una manciata di storiche canzoni reinterpretate con il vigore che alla band non è mai mancato in quasi quaranta anni di carriera.Un disco, giusto per completisti e fans devoti alla "tagliateste" Molly, ancora tantissimi ed irrudicibili soprattutto qui in Europa (Germania in primis).






domenica 13 maggio 2012

RECENSIONE/REPORT live: RATS live@Rock'N'Roll Arena, Romagnano Sesia (NO) 12 Maggio 2012

Lo spirito vero del Rock'n'Roll è anche quello che non ti fa fermare di fronte a nessun ostacolo ed impedimento. Quando hai programmato delle date live e ti ritrovi all'ultimo momento senza i principali protagonisti, si ha due opportunità: abbandonare e cancellare tutto, oppure mettere ugualmente in piedi un buon spettacolo, con onestà, sacrificio ed esperienza. I Rats che di cammini tortuosi, lungo i loro trent'anni di carriera, se ne intendono, stasera hanno dimostrato ancora una volta di saper fronteggiare le difficoltà in modo professionale ed autentico, costruendo uno spettacolo che ha messo al bando l'effetto nostalgia, sempre in agguato dopo una pausa di diciasette anni, ma soprattutto riuscendo a sostituire gli assenti in modo dignitoso ed indolore agli occhi (e orecchie) di chi stasera si è presentato al Rock'N'Roll Arena di Romagnano Sesia (NO).
Privi di due pezzi storici come il batterista Lor Lunati (per un contrattempo dell'ultima ora, non ben specificato) e il bassista Romi Ferretti, da anni domiciliato, per lavoro, a Miami (USA) e presente alla reunion quando può, la band di Wilko Zanni (unico membro originale e fondatore della band nel lontano 1979) e di Jonathan Gasparini, chitarrista e produttore ormai integrato nella band, ha affrontato il pubblico di Romagnano senza remore e timori  per presentare il fresco ep della loro rinascita, Metafisico Equivoco (Bagana records, 2012) uscito da pochissimo e che sancisce il loro ritorno definitivo dopo la tanto attesa reunion live del 2008. Ad aprire due  gruppi, i giovanissimi Encounter e i Sunset, che mi sono perso ed il nuovo progetto di Filippo Dallinferno, già chitarra dei The Fire e del progetto Rezophonic di cui a Settembre uscirà il debutto. Nel frattempo  testano i palchi live, attirando curiosità verso il disco di prossima uscita, lanciato dalla cover Caruso di Dalla e da una proposta musicale solida e compatta. Ne sentiremo parlare.
I Rats, band che dopo un inizio di carriera nel post-punk/New Wave (il loro primo lavoro C'est Disco(1981), rimane merce di culto ed introvabile, non chè un piccolo spaccato della fervida scena dark/rock italiana dei primissimi anni ottanta) trovarono la formula e la line-up vincente negli anni novanta, complici due album Indiani Padani(1992) e Belli e Dannati(1994) e alcuni singoli azzeccati (Fuori Tempo scritta da Ligabue e Chiara su tutte) che trainati dal grande movimento rock in lingua madre che scosse lo stivale in quegli anni- loro stessi furono degli apripista- ( Ritmo Tribale, Clan Destino, Graziano Romani, Timoria, Santo Niente, Movida, Karma, Negrita, i primissimi dischi di Ligabue, la nuova strada rock dei Litfiba, intrapresa da Pirata in avanti) diedero loro molta visibilità, anche all'estero, fino ad arrivare nel 1995, con La Vertigine del Mondo, album che cercò di incanalare il loro rock verso nuove strade, più mature e meno immediate ma che non venne recepito nel modo giusto dall'etichetta discografica e dal pubblico. Amarezza che portò ad uno split ma ad una amicizia che il tempo non ha scalfito, nonostante distanze e strade di vita diverse. 
Oggi, sono nuovamente qua, in forzata formazione rimaneggiata, con il bravo Lele Borghi, batterista che in due giorni si è imparato i pezzi, sostituendo più che degnamente Lor e l'essenziale contributo del giovanissimo e preparatissimo Pier Bernardi al basso.
Con un (poco) pubblico "diesel" inizialmente timoroso e silenzioso che ha consentito a Wilko di fare qualche battuta ironica e tanti inviti  ad essere più rumorosi e attivi. Inviti che saranno accolti durante la serata con il vecchio slogan-sempre attuale- "Meno orge e più barricate" estrapolato da Belli e Dannati che diviene il tormentone di sempre tra i fans della prima ora.
I Rats hanno dimostrato quanto il palco sia ancora la loro dimensione ideale: le chitarre di Gasparini e Wilko (pregevole anche la sua prova vocale) sono sempre protagoniste e la successione dei brani dimostra quanto la semplicità paga, nel costruire brani potenzialmente esplosivi ed immediati che le produzioni su disco hanno sempre smorzato. Tra alcuni brani essenziali e rock del loro ultimo lavoro: Metafisico equivoco, (Stai con me) fino alla fine,  la scaletta ha giustamente privilegiato le canzoni di "Indiani Padani"-un disco pop-rock, orecchiabile e quasi perfetto uscito al momento giusto- (Wally, Bella bambina, Dammi l'anima), il rock'n'roll dei nativi romagnoli della title track, le immancabili hits '90 di Fuoritempo e Chiara, canzoni che riportano il tempo indietro di vent'anni e che, all'epoca, diedero l'illusione del grande successo commerciale. E poi, tra qualche battutta sul più conosciuto abitante di Correggio, ancora musica con  Belli e Dannati, Dammi la mano, Io non ci sto, fino ad arrivare alla chiusura dell'anfetaminica e veloce Autogrill , manifesto di vita on the road con il chorus "...chissà se tu ce l'hai l'dea di cosa sia suonare rock n roll...", che non poteva suggellare in maniera migliore una serata di musica. Nessuna grande pretesa: semplicità, divertimento, rock'n'roll, tanto cuore e canzoni che per qualcuno hanno rappresentato molto e accompagnato, negli anni novanta, verso l'età adulta.

sabato 12 maggio 2012

RECENSIONE: ME PEK E BARBA (La Scatola Magica)

ME PEK E BARBA La Scatola Magica (autoproduzione, 2012)

Quando la sera del 20 Dicembre 2012, vi riunirete con gli amici ad aspettare la fine del mondo, vi do un consiglio per ingannare la grande attesa, in allegria. Basta poco. Affittate un grande casolare in campagna, metteteci un bel impianto stereo e aprite la Scatola Magica che i Mè Pèk e Barba hanno confezionato per voi, per affrontare e scongiurare il mistero che l'alba del 21 ci svelerà.
I parmensi (della bassa) sono attivi dal 2002 con altri tre introvabili dischi già alle spalle. Il loro è un folk, in parte dialettale, contaminato e vicino ai loro corregionali Modena City Ramblers, quelli meno impegnati e legati alle tradizioni della loro terra, ai Bandabardò, al primo Van De Sfroos da "balera", ma che sa essere estremamente personale dietro ad una formazione allargata a dieci elementi a cui si aggiungono importanti ospiti, guidati dal capobanda Sandro Pezzarossa e sotto la produzione di Gigi Cavalli Cocchi (che sicuramente si ricorderà dietro alla batteria dei Clan Destino di Ligabue e nei CSI, periodo Tabula Rasa Elettrificata).
Scatola Magica è un concept che attraverso quattordici canzoni vuole raccogliere altrettante storie, leggende di paese, vere ed inventate, legate ai misteri che circondano la vita umana: dai più buffi a quelli più terreni e millenari, dal più grande mistero che si cela dietro all'immensità della natura, al mistero che continuiamo a chiamiare amore.
Allora che si aprano le danze: con l'iniziale Voodoo Padano, un contagioso irish folk con aperture reggae, dove tra flauti, ghironde, mandolini e fisarmoniche si da voce agli emarginati che lottano contro la moderna cecità del "benessere a tutti i costi". Si danza in cerchio per scaldarsi dalle fredde notti padane in Polvere e brina, con la voce dell'ospite Alberto Morselli (primo cantante dei MCR), pensando al mattino che seguirà con il contagioso country di Mi piacerebbe svegliarmi...
La Scatola Magica è una marcetta/filastrocca che ricorda le canzoni del mai troppo lodato cantastorie lombardo Francesco Magni (qualcuno si ricorda di lui? Partecipò pure ad un Sanremo 1980); la ciondolante Turnarà la fùmèra, con il trombone di Valentino Spaggiari, cantata in dialetto, è un'ode alla nebbia, compagna divenuta fedele per chi abita in certi luoghi; mentre il tango ed il ritmo in crescendo di Buona fede e nella finale e dialettale La Fèn dal mond ci tolgono le ultime forze.
Dopo tanto ballare, è bello mettersi seduti intorno ad un fuoco, aprire una bella bottiglia di vino rosso ed ascoltare il comico/attore Stefano"Vito" Bicocchi ( indimenticabile a "Lupo Solitario")  che ci parla dell'amore (Che Cos'è l'amore); rivivere il nostro passato(Il Treno del '900); stringersi e tremare davanti all'imminente arrivo di un temporale(Striament); ascoltare la bella voce di Michela Ollari in La Madgona dal Casal che ci narra la solitaria e vera vita di una donna dai grandi poteri traumaturgici emarginata dal mondo, musicata con il prezioso aiuto -anche al mandolino- di Franco Giordani (già nella band di Luigi Maieron). 
Ricongiungersi con la propria terra, ascoltando le storie caserecce di Tacabanda e Orsanti e Al mè paes, dedicata al piccolo paese di Roccabianca, in provincia di Parma. 
Intanto l'orologio segna le 00 e 01 del 21 Dicembre 2012. Nulla sembra cambiato e qualcuno ha gettato il coperchio della scatola magica. Si può continuare fino a mattina e a quanto pare i Me Pek e Barba dal vivo promettono di fare le ore piccole, tra ironia, surrealismo, qualche verità scomoda e il concreto attaccamento alle radici della loro terra. Segnate tutto sul calendario:http://www.mepekebarba.it/ 

ME PEK E BARBA sono: Sandro Pezzarossa(voce e chitarra acustica),Nicola Bolsi(voce,batteria,percussioni), Federico Romano(fisarmonica),Davide Tonna(banjo,bouzouki), Federico Buffagni(flauti), Stefano Risolo(chitarre), Simone Bernardelli(basso), Filippo Chieli(viola, violino) Roberto Guerreschi(suoni, luci),Domenico Didonna(ghironda). 

mercoledì 9 maggio 2012

RECENSIONE: WILLIE NELSON ( Heroes )

WILLIE NELSON  Heroes (Legacy Records, 2012)

"Willie Nelson è un americano vero.Uno dei più grandi artisti del mondo. Ha scritto alcune delle migliori canzoni di sempre, classici che canta con la sua inconfondibile voce soul, originale ed unica." Kris Kristofferson.

Grazie a icone viventi e (ancora) super attive come Willie Nelson, le più antiche radici della musica americana continuano a sopravvivere e attecchiscono sulle nuove generazioni. La  fenomenale esplosione dell'alt-country avvenuta in questi ultimi anni ne è testimonianza viva e pulsante. La voglia di riscoprire le proprie tradizioni, forse un po' per moda, forse, mi auspico, alla ricerca di un patriottismo che questi anni spingono a recuperare e preservare. I vecchi lo fanno da tempo, i giovani iniziano ora. Bene.
Willie Nelson festeggia le settantanove candeline e il ritorno alla vecchia Columbia (ora Legacy Sony music) con un album, a pochi mesi dal precedente Remember Me Vol.1, che sa ripercorrere a bordo di una macchina temporale sempre elegante, lucida, calda e raffinata, come d'abitudine, il passato, il presente e un po' di futuro. Come quei forti Whiskey invecchiati, da sorseggiare senza fretta, gustandone il gusto e il calore che si espande nel corpo, come la sua voce inconfondibile che il tempo non sembra proprio considerarlo. A testimonianza, la sua interminabile discografia e una prolificità su disco e live ineusauribile. Se cercate il caldo rassicurante della vostra casa e del fedele liquore preferito: questo disco ve lo promette, con qualche piacevole sorpresina.
Sulla scia delle American Recordings dell'amico Cash, Heroes mette in fila quattordici canzoni tra vecchi traditionals pre-1950, degli anni trenta e quaranta, nuove composizioni firmate con il figlio Lukas Nelson, ospite fisso  nei duetti insieme a tanti altri artisti, e curiose e ben riuscite cover di gruppi delle ultime generazioni (dai già "veterani" Pearl Jam, agli impensabili Coldplay). Senza dimenticare che Nelson, ai nuovi musicisti, ha sempre dato fiducia e stima, ottenendo eguali feedback, non ultimo, il bel disco Songbird con Ryan Adams e che le contaminazioni musicali non gli hanno fatto mai paura, a scapito dei mugugni dei tradizionalisti della country music.
Le sfumature che Nelson ha portato al genere country (omaggiato recentemente nel disco dal titolo esplicito Country Music) sono tutte presenti: tra le eleganti note jazzate di Cold War With You ( datata 1949), in compagnia di Ray Price, ottantasei anni sul groppone e il merito di lanciare, a suo tempo, l'allora giovanissimo Nelson, del brioso jazz di Home in San Antone (1943) e My Window Faces the South(1937) sempre con Lukas, vicine al bel connubio con Wynton Marsalis di pochi anni fa; il country più tradizionale e crepuscolare di A Horse Called Music insieme al vecchio compagno di suonate Merle Haggard, la piacevole e nuova Every Time He Drinks He Thinks Of Her scritta dal figlio; lenti valzer country come That's All There is To This Song, Hero con Billy Joe Shaver, e Come On Back Jesus , intinta di gospel spirituale e famigliare con la presenza contemporanea dei due figli Lukas e Micah Nelson; alla rockeggiante ballad The Sound of Your money , trascinanti up-tempo- honk tonk come Roll Me Up (stesso nome della band che lo accompagna) in compagnia di Kris Kristofferson, Jamey Johnson e l'inusuale e azzardata presenza (comunque non fa danni) di Snoop Dogg, già sperimentata qualche anno fa in un precedente disco. A Nelson è sempre piaciuto rischiare: vi ricordate il duetto To all the Girls I've Loved Before con Julio Iglesias negli anni ottanta? 
Fino ad arrivare a tempi più recenti con il lento incedere Soul/Blues, puntellato dall'organo di Come On Up To The House a firma Tom Waits con Sheryl Crowe a duettare. A sorprendere, perchè così lontane-a prima vista- dalll'universo di Nelson, sono Just Breathe, ballad dei Pearl Jam , inserita nel loro ultimo (ad oggi) disco in studio Back Spacer(2009) e la bellissima The Scientist dei Coldplay, registrata per buone cause benefiche, così spoglia e tirata a nuovo, facendola completamente sua e che, certamente, divverrà un suo nuovo classico.
Heroes è un disco vario (come tanti incisi da Nelson) che unisce il piacere, a volte imprevedibile, del viaggio -sempre On the road again- compresa qualche piacevole e nuova deviazione, al rifugio e calore rassicurante e affidabile che solamente vecchi eroi come lui riescono ancora ad infondere. Nulla di nuovo sotto il sole del Texas che però continua a splendere radioso. Non è poco.




martedì 8 maggio 2012

INTERVISTA a DAVE ARCARI


Nobody's Fool è il suo quarto album solista. Un disco che raccoglie vecchie canzoni risuonate con lo stile e l'impeto di oggi. Il bluesman scozzese Dave Arcari (il cognome svela le lontane origini), è un personaggio vero, profondo, impegnato e schietto come le sue canzoni. Ha appena terminato un tour che purtroppo non ha toccato il nostro paese. Instancabile, ha già registrato  parecchie canzoni che finiranno sul  prossimo disco. A lui la parola...

Ciao Dave! Tre parole per descrivere la tua musica agli ascoltatori italiani?
 "Fucked up blues";-)
Mi è piaciuto molto il tuo nuovo album "Nobody's Fool". Si può considerare una sorta di  greatest hits "alternativo"? Come è nato?
 Inizialmente la Dixiefrog voleva far uscire nuovamente il mio secondo album Got Me elettric ... Ma io ho pensato, invece, che sarebbe stato meglio rilasciare una compilation dei miei primi tre album e alla fine si è deciso, insieme, che fosse una buona idea. Mi piaceva l'idea di registrare nuovamente  alcune canzoni e vedere come si erano evolute dalla loro prima  incisione ...
...e perchè metà dell'album è stato registrato in Finlandia?
Ho tenuto alcuni concerti programmati in Finlandia e il marito del mio agente in Finlandia, Juuso, suonò il contrabbasso con me. Abbiamo suonato delle divertenti jam insieme nel passato. Poi, Honey, un noto batterista finlandese ha iniziato a presenziare a tutti i miei concerti fin dalla mia prima data, in più il suo stile mi piace molto ... così ho pensato che poteva essere divertente provare a registrare alcune nuove versioni delle canzoni che la Dixiefrog voleva, insieme a loro. Abbiamo registrato nove brani e tre di loro sono finiti sull' album. Ho registrato anche un paio di nuove canzoni da solo e alcune covers per l'album, nel mio studio vicino a Loch Lomond in Scozia .
Attualmente, sono appena tornato dal  tour europeo che comprendeva alcuni grandi spettacoli in Finlandia e mentre ero lì ci siamo messi insieme a registrare altre 13 canzoni!
Come è stato lavorare con Paul Savage (batterista dei Delgados e produttore)? Come vi siete conosciuti?
Ho registrato due album con Paul (Got Me electric e Devil's Left Hand), ai Chem19 Studios appena fuori Glasgow. E 'un tecnico fantastico ed è diventato un grande amico ... così quando abbiamo avuto bisogno di mixare le nuove canzoni per l'album della Dixiefrog è stato naturale lavorare con lui. Ha suonato anche una gran parte di batteria su Dragonfly, che inizialmente appariva sul mio album Devil's Left Hand ... con uno stile leggermente diverso da quello che ha con  i Delgados!
Il tuo cognome è italiano. Hai origini italiane?
Sì, i genitori di mio padre erano italiani - originari di Picinisco! (Abruzzo)
Parlami della tua band Radiotones. Suoni ancora con loro?
I Radiotones esistono ancora ... ma facciamo solo uno o due spettacoli ogni anno. Gli altri componenti sono tutti occupati con i loro lavori e le proprie famiglie. Quando abbiamo iniziato non avevamo altre intenzioni diverse dal divertirci ... ma poi la band è diventata piuttosto popolare. Come risultato c'è stata la possibilità di fare tour in molti posti - però, piuttosto che scioglierci ho deciso di tentare la carriera da solista, l'ho fatto ... e questo è quello che è successo!
Hai avuto l'opportunità di suonare con grandi artisti:  tra cui Steve Earle e Seasick Steve. Che esperienze sono state? Che tipo è Seasick Steve? Mi piace molto Steve!
Yeah man, ho avuto la fortuna di suonare con un sacco di grandi artisti che ammiro ... Steve Earle e Seasick Steve sono due di questi e sono grandi persone. Seasick Steve è entusiasmante ma con i piedi per terra, vero e grande sostenitore della musica ... un ragazzo molto, molto positivo e carino. Steve Earle è un altro bravo ragazzo ... molto amichevole e solidale.
Suoni sia concerti da solo che con la band. Quali sono le maggiori differenze e cosa possiamo aspettarci dai tuoi concerti?
Anche se le canzoni sono le stesse, quando suono da solo ci sono un sacco di libertà in più, non ho preoccupazioni, anche perchè so che posso cambiare le cose al volo ... quando suono con la band è più difficile tenere bene il tempo! Lo spettacolo attuale ha anche altre differenze: da solo posso correre come un pazzo, ma quando sto condividendo il palco con altri musicisti devo ricordarmi  che anche loro hanno bisogno del proprio spazio e visibilità, così devo darmi una calmata.
Il tuo blues è istintivo, onesto e semplice, ma è influenzato da molti altri stili musicali. Quanto la musica scozzese ha contaminato la tua musica? Quali sono i tuoi primi ricordi musicali e da cosa sei stato influenzato? ( su Baby, Let Me Follow You Down ... sembri il primo Dylan! )
 Mi piace farla semplice ... non voglio pensare troppo alle cose tecniche ... Preferisco lasciar scorrere il feeling. Il mondo non ha bisogno di qualcuno che suoni covers o di qualcosa che suoni come tutte le altre cose - Credo che il mio stile sia influenzato dai generi di musica che ascolto di più:  trash country, punk, rockabilly. Amo il rock'n'roll anni '50. Una delle prime canzoni che ricordo è Johnny Cash che canta 25 minutes to go ... e molte cose sono iniziate proprio da lì. Quando ho ottenuto la mia prima chitarra acustica - all'età di 19 anni, circa - ascoltavo Bob Dylan ... specialmente il primo Dylan. Ora non lo ascolto più tanto, ma mi piaciono molto i suoi dischi e il suo suono.
 Quanto è difficile avere il controllo totale sulla tua musica ( la Buzz Records è la tua etichetta personale). Una scelta personale o obbligata? Come sta andando? 
Per un musicista come me, che vive di musica, è molto importante avere il controllo e il copyright della propria musica e delle registrazioni ... quindi col senno di poi, aprire la mia etichetta ed imparare a lavorare nell'industria discografica è stata una scelta molto positiva. Se non avessi la mia etichetta dubito che sarei in grado di guadagnarmi da vivere con la musica, oggi. Non è difficile, ma a volte sarebbe bello avere a disposizione i soldi che le etichette più grandi possono spendere dietro ad un progetto. L'accordo di licenza con la  Dixiefrog si è trasformata in una grande collaborazione e credo che stiamo lavorando molto bene insieme.
Da dove nasce il tuo stile chitarristico?
Non sono mai stato molto bravo  nell' "apprendimento" ... e, ad essere onesti, non mi interessa copiare altre persone, così ho fatto le cose a modo mio. All'inizio è stata dura, ma ora sono davvero contento che sia andata così, perché penso che mi abbia aiutato a sviluppare uno stile abbastanza unico.
Ti ricordi il primo disco che hai comprato con i primi soldi che hai avuto?...e l'ultimo? 
Il primo fu  una raccolta di Johnny Cash - un doppio album ... dopo aver ascoltato 25 minutes to go, a sette anni, a casa di amici. L'album che ho comprato però, non  aveva quella canzone, ma conteneva un sacco di canzoni dell'era Sun, canzoni che sono state molto influenti. Sono molto fortunato che un sacco di case discografiche e artisti mi spediscano della musica - anche se non so bene il perchè - ma l'ultimo disco che ho comprato l'ho scaricato da iTunes: Cedell Davis 'The Horror of it All' ... Ora sto ascoltando il nuovo di  Scott H Biram ...
Quali sono i tuoi programmi futuri? Stai già scrivendo nuove canzoni?
Ho registrato 13 brani a Helsinki lo scorso mese tra cui alcuni nuovi di zecca che ho appena scritto e due melodie per banjo! Ho un altro paio di idee da registrare, poi vedremo quello che viene - c'è una etichetta finlandese interessata a pubblicare tutto o in parte in un album, anche la Dixiefrog è interessata al materiale. Mi piacerebbe vedere una bella collaborazione tra tutti, anche con la Buzz ... far uscire tutto in formati diversi: CD, vinili, download in differenti nazioni. Qualcosa del genere, insomma. 
Ti auguro molta fortuna e spero di vederti presto in Italia. Quando?
Grazie! Divertente, ho suonato in Francia, Belgio, Olanda, Germania, Svizzera, Finlandia, Estonia, Polonia, Repubblica Ceca, Canada, Irlanda e, naturalmente, tutto il Regno Unito ... ma non l'Italia! Spero di visitarla e suonarci presto!
Un caloroso e sincero ringraziamento a Dave per la disponibilità mostrata. 


vedi anche RECENSIONE: DAVE ARCARI-Nobody's Fool (2012)


vedi anche RECENSIONE: DAVE ARCARI & the HELLSINKI HELLRAISERS-Whisky In My Blood (2013)



sabato 5 maggio 2012

RECENSIONE: JACK WHITE ( Blunderbuss )

JACK WHITE  Blunderbuss (  Third Man Records, 2012)

Devo ammetterlo: la stella di Jack White, per me, ha iniziato a risplendere dopo l'affossamento dei suoi White Stripes. Prima vedevo l'astro brillare ad intermittenza, con il buon Jack che mi sembrava più un eroe da fumetti, o un personaggio cinematografico impersonato dal trasformista Johnny Depp. Non che ora i suoi look non andrebbero bene per le sceneggiature dei film di Tim Burton, anzi. Stella schiavizzata dentro ad una formula "a due" che imprigionava il suo talento. Ai White Stripes ho sempre preferito i suoi progetti collaterali: The Raconteurs (ottimo il loro Consolers of the Lonely-2008), The Dead Wheater e i suoi preziosi ripescaggi vintage da produttore: Loretta Lynn e l'ultimo divertente The Party Ain't Over(2011) con Wanda Jackson. Il mio disco preferito dei White Stripes è sempre stato l'ultimo Icky Trump che qualcosa in comune con Blunderbuss sembra averlo.
 Jack White è una star, relativamente giovane, che sta cercando di preservare le radici della musica americana: aiutandola, diffondendola, mettendoci la faccia e cercando di portare, alle orecchie dei  più giovani, generi musicali che difficilmente troverebbero l'esposizione mediatica che la sua figura riesce a dare. White sta al roots "americana" come Dave Grohl sta al Metal (vi ricordate del progetto Probot?). La loro sembra quasi una missione, spesso criticata, che direi riuscita in tutti e due i casi. White ci aggiunge anche -oltre a tanti soldi- un negozio di dischi, fabbriche per stampare vinili e una etichetta discografica (Third Man) a suo nome. Soldi investiti per l'amore in musica a 360°.
 Per la prima volta, nessun gruppo a cui badare ma la libertà di sfogare la fervida fantasia compositiva: "un album che non avrei potuto pubblicare prima di oggi. Ho evitato di pubblicare dischi a mio nome per molto tempo, ma ho l’impressione che queste canzoni possano essere presentate solo a mio nome. Sono state scritte da zero e non hanno avuto nulla a che fare con altro che non sia il mio modo di esprimermi, i miei colori e la mia tela...".
Le tredici canzoni di Blunderbuss hanno il volto scuro, decadente, gotico e sono quanto di più omogeneo White abbia prodotto in carriera. Rappresentazione moderna della parte più scura e nascosta della sua visione di Nashville, città dove vive da alcuni anni e che ha ispirato gran parte delle composizioni, dove i rapporti umani e le tragedie amorose giocano un gran ruolo nei testi.
La sua torrenziale chitarra elettrica si sente poco rispetto a quanto ci aveva abituato ( Sixteen Saltines e Freedom at 21 ) e compare qua e là con acidi e taglienti incursioni ed assoli dentro a canzoni piene di tutte quelle sfumature sacrificate in anni di striscie bianche. Perchè, sarà anche il suo disco solista, ma solo, Jack White non lo è mai. Circondato da una nutrita schiera di musicisti, molti nativi di Nashville, tante donne tra cui spicca la batterista Carla Azar (bizzarro sarà il suo nuovo tour che comprenderà due spettacoli in uno: la prima parte accompagnato dalla band maschile, nella seconda, dalla band femminile) e tanti strumenti vintage registrati con le tecniche più moderne del suo studio di registrazione personale. 
Se I'm Shakin', unica canzone non sua, ma cover di Rudolph Toombs, sembra riprendere il divertente lavoro di riscoperta fatto con Wanda Jackson, tutto il  disco viaggia su un tappeto di tastiere e pianoforti: il lento walzer country con la pedal steel di Fats Kaplin in Blunderbuss; gli iniziali alti e bassi di Missing Pieces guidata dal piano Rhodes; il folk anomalo con clarinetto e wurlitzer di Love Interruption in coppia con la ghanese Ruby Amanfu alla voce; l'oscurità classicheggiante del pianoforte di Brooke Waggoner (gran protagonista in gran parte del disco) in Hypocritical Kiss; una Weep Themselves to Sleep dove il british rock degli Who incontra le paludi americane e Thrash Tongue Talker come un Elton John in visita agli Stones in esilio a Parigi. E poi ancora gli  inserti quasi rappati dentro alle chitarre che rimpolpano Freedom at 21; il bagno nel Mississippi di I Guess I Should Go To Sleep che sa di antichi canti neri, la psichedeliche visioni pop '60 di On and On and On e la bizzarra conclusione con i violini e l'assolo di chitarra di Take Me with You when You Go che con Hip (Eponymous)Poor Boy rivelano ancora tutto l'amore per i Led Zeppelin "unplugged", con il piano di Waggoner e il banjo di Kaplin ancora in primo piano.
Lontano dall'essere il disco salvifico che molti hanno dipinto, Blunderbuss è però una buona biografia dell'animo (oscuro e variegato) musicale di Jack White, per anni nascosto dietro a riff di chitarra elettrica ed ora libero di volare come uccello rapace e curioso sopra alla musica tutta. Disco che cresce con gli ascolti.





vedi anche RECENSIONE: WANDA JACKSON-The Party Ain't Over (2011)

mercoledì 2 maggio 2012

RECENSIONE: EBO TAYLOR ( Appia Kwa Bridge )

EBO TAYLOR Appia Kwa Bridge ( Strut , 2012)

Basterebbe iniziare l'ascolto dall'ultima canzone Barrima, per entrare a contatto con l'anima di Ebo Taylor e da lì proseguire in discesa, scoprendo gli accecanti colori delle sue composizioni. Barrima è acustica, solo voce e chitarra. Una canzone che entra in profondità dopo pochi secondi. Dedica accorata alla defunta moglie che il chitarrista/cantautore ghanese, classe 1936, interpreta con commovente trasporto, registrandola in presa diretta, da buona alla prima.
Ebo Taylor, dopo essere uscito allo scoperto al mondo discografico occidentale con il precedente Love and Death (2010), seguito dalla compilation retrospettiva Life Stories (2011) , si rifà vivo a soli due anni di distanza, mantenendo le caratteristiche che ne hanno fatto un personaggio leggendario e di culto della musica High life/Afrobeat africana. Ebo Taylor ebbe la grande fortuna di incontrare Fela Kuti in Inghilterra nei primissimi anni sessanta. Dalla collaborazione con il grande innovatore dell'afrobeat trasse grande profitto, trasportando le grandi contaminazioni nel suo Ghana, dove tornò in veste di autore, musicista e produttore, avendo modo di sperimentare e creare nuovi suoni che ne hanno fatto uno dei più grandi musicisti africani di sempre.
La sua sembra essere un'uscita allo scoperto per rivendicare una paternità verso alcuni suoni Afrobeat che dopo le cure Eno/Byrne degli anni ottanta sono ritornate di gran moda, in questi ultimi anni, nella musica pop/rock occidentale.
Appia Kwa Bridge registrato a Berlino, contiene otto canzoni di cui sei appositamente registrare per il disco e due già conosciute. Il groove costante e instancabile delle sue canzoni, suonate, come nel precedente disco, con l'aiuto dell'Afrobeat Academy di Berlino (un ensemble di giovanissimi musicisti tra le migliori afro-funk band del mondo), è una riuscitissima mistura tra highlife, afrobeat, blues/soul, jazz, fusion e funk dove anche il rock ha modo di accedere. Fiati, percussioni, tastiere e chitarre sono mulinelli che trasportano come un unica onda travolgente, interrotta solamente dalla forza interpretativa acustica di Yaa Aponsah, vero e proprio inno highlife ghanese degli anni venti, riletto da Ebo Taylor con grande ardore e dalla finale Barrima di cui ho già detto.
Tutto il resto è altamente trasportante: la title track, che prende il nome dal piccolo ponte di Saltpond, nella Cape Coast, località dove Ebo è cresciuto , impone all'attenzione il grande lavoro di chitarra; i sette minuti dell'iniziale Ayesama,  grido di guerra della popolazione Fante; l'eleganza di Abonsam, dove dietro al titolo si nasconde il "diavolo" in ghanese, responsabile del male nel mondo ed esempio da non seguire; le tastiere ed il basso funky che guidano  Kruman Dey ed il ritmo di  Assomdwee con il bel assolo di chitarra e le percussioni dell'ospite Tony Allen, batterista nigeriano che suonò con Fela Kuti. Tutte canzoni piene di energia e spiritualità, dove la creatività di un settantaseienne incontra la solida freschezza di una band (Afrobeat Academy) che rispettosamente lo accompagna e lo proietta nel mondo moderno.Viaggio intenso tra l'Africa e New Orleans. Da provare e seguire nelle tappe europee del suo tour a Maggio, che purtroppo non toccherà l'Italia.

vedi anche RECENSIONE: VICTOR DEME- Deli
vedi anche RECENSIONE: TINARIWEN-Tassili

sabato 28 aprile 2012

RECENSIONE: EUROPE ( Bag Of Bones )

EUROPE Bag Of Bones ( earMusic/EDEL, 2012)

Con Bag Of Bones, gli svedesi Europe confermano quanto il loro ritorno nel 2004 ( a tredici anni dallo scioglimento), con il sorprendente Start From The Dark, non fu il classico fuoco di paglia di una reunion estemporanea, ma una dichiarazione e dimostrazione di grande carattere artistico, crescita ed il primo mattoncino verso un nuovo futuro ed una seconda parte di carriera che sta raggiungendo e superando la longevità della prima. Togliersi di dosso certi stereotipi che giravano negli anni ottanta e che li hanno accompagnati per lunghi anni, non è stata impresa facile, ma alla fine, bisogna darne atto: ci sono riusciti, eccome. E qui, devo aprire una parentesi per tutti quelli che ancora adesso (mi)si chiedono con quel sorriso malizioso: ma esistono ancora? Quelli di The Final Countdown? La risposta è sì, e sono dannatamente e diversamente meglio di allora. Il ritorno di John Norum, uno che ebbe il coraggio di lasciare il gruppo nel momento di maggior successo, immediatamente dopo The Final Countdown, per percorrere la sua strada di musicista lontano dalla ribalta, ha spostato la loro musica verso quell'hard-heavy/blues suonato con  quella freschezza moderna (non modaiola) che li rende, ad oggi, tra i migliori gruppi del genere e della loro generazione. Tanto da presupporre che la lunga pausa abbia portato solamente giovamenti e benefici.
Bag Of Bones, prodotto dal sudafricano Kevin Shirley ( Rush, Joe Bonamassa, Black Country Communion, Journey, Iron Maiden, Black Crowes, tra i tanti...), per il sottoscritto è nettamente migliore del già ottimo suo predecessore Last Look At Eden(2009), e può tranquillamente considerarsi tra i migliori lavori in carriera degli svedesi (anche se continuo ad adorare il sempre dimenticato Prisoners in Paradise-1991).
L'ispirazione bluesy e sporca della chitarra di Norum ( spesso sottovalutato,ma autore di ottimi dischi solisti) e i suoi numerosi ed ispirati assoli, sparsi lungo tutto il disco, sono la marcia in più degli Europe di oggi. Lo si prova subito, ascoltando la veloce opener Riches to Rags; nel primo singolo Not Supposed to Sing the Blues con il  testo autobiografico e dichiarativo di Tempest, e la presenza di tutte le sfumature musicali che potete trovare nella band odierna; nella stupenda title track dove la gradita presenza dell'ospite Joe Bonamassa alla slide guitar fa la differenza, il masterpiece del disco che ondeggia tra le parti lente ed acustiche e le esplosioni elettriche. Mai come in questo disco gli Europe costruiscono canzoni complesse e stratificate. Le tastiere di Mic Michaeli si ritagliano i propri spazi come in Firebox, roccioso hard '70, non lontano da quanto proposto dalla superband Black Country Communion, con quel sapore orientale dato dal sitar nell'intermezzo centrale, che sa tanto di Led Zeppelin, così come potrebbero ricordare Plant e Page, i due minuti dell'acustica ed unplugged Drink and A Smile, buon lascito della bella esperienza fatta con il tour e conseguente disco Almost Unplugged(2008).
Joey Tempest è sempre stato un signor cantante, cresciuto e devoto agli anni settanta di UFO, Whitesnake, Thin Lizzy e Led Zeppelin ma che non ha avuto paura ad intraprendere nuove strade legate al folk/rock americano, durante la pausa della band. Esperienza servita per far uscire nuovi timbri dalla sua voce. Ascoltare Drink and  A Smile e My Woman My Friend
Tra i pesanti riff di Mercy You Mercy Me in stile Black Label Society, dove Norum non nasconde tutta la sua ammirazione, dichiarata, per il chitarrismo di Zakk Wylde, hard/southern rocciosi (Doghouse) con la sezione ritmica sempre all'altezza guidata da Ian Haugland alla batteria e  John Leven al basso, e canzoni dirette come Demon Head, spuntano il breve intermezzo sinfonico guidato dall'hammond di Requiem, l'oscura e pianistica My Woman My Friend e  la finale ballad Bring It All Home, l'episodio più melodico e gigione del disco, ma costruita con grande classe (nell'edizione giapponese da notare la presenza di una bonus track, l'incalzante e hard Beautiful Disaster ).
Gli Europe con Bag Of Bones si avvicinano ancor di più al calore dell'hard/ blues settantiano (bella ed esemplificativa la cover), che è sempre stato nelle loro corde di musicisti, ma che solo ora sta uscendo in modo naturale e stupefacente. Mai così vicini alle radici degli anni '70, rivisti in chiave moderna e personale da cinque musicisti che si stanno riprendendo la loro rivincita sulla critica, senza rinnegare completamente il loro passato ma soprattutto senza portare in giro pacchiani e pesanti ricordi dei tempi andati, come molte formazioni coetanee tendono a fare. Nulla da buttare in Bag Of Bones.
Ascoltate e, per piacere, toglietevi quel sorrisetto quando sentite nominare il loro nome. Loro sono cresciuti e maturati. Voi?
 

vedi anche RECENSIONE: BLACK COUNTRY COMMUNION-2

giovedì 26 aprile 2012

RECENSIONE: TRAMPLED BY TURTLES ( Stars And Satellites )

TRAMPLED BY TURTLES Stars And Satellites ( Banjodad Records, 2012)

Quando il buon Neil Young vuole suonare rock pesante e veloce, depone violini, banjo e mandolini, chiama a raccolta i suoi Crazy Horse, attacca i jacks delle chitarre elettriche e parte. Ora immaginate una band che di posare i propri strumenti della tradizione non ci pensa nemmeno sotto tortura. I Trampled By Turtles suonano veloci e diretti, evocativi e country, usando i medesimi strumenti musicali, seppur il nuovo Stars and Satellites smorza i toni, rallenta i ritmi, diventando il loro disco più introspettivo, maturo e personale.
Nati nel 2003 a Duluth nel Minnesota, Stars And Satellites è il sesto disco e succede a Palomino, uscito nel 2010, lavoro che li ha spinti verso un crescendo di successi in patria, stazionando per 52 settimane nella top 10 delle classifiche dedicate al genere bluegrass.
Ma il loro è un alt-bluegrass che sa essere fast and furios (qualcuno è riuscito ad appiccicarci sopra il terminne thrash grass), frutto delle passate esperienze nel punk dei membri della band, ma anche più tradizionale, quando a prevalere sono le immagini evocative e i ritmi lenti come proposto in questa nuova raccolta di undici canzoni. I Trumpled By Turtles cercano altre strade.
Registrato nella loro terra, quasi in presa diretta, in una casa immersa nel verde denominata Soleil Pines sulle rive del Lake Superior, il disco risente di tutta la rilassatezza accumulata in un posto lontano dagli stress, cercato e voluto appositamente. I risultati si sentono immediatamente dall'iniziale e notturna Midnight on the Interstate, così lontana dall'urgenza espressiva della nervosa Wait So Long che apriva il precedente disco e dal primo singolo Alone, desolata ed evocativa, che si impenna solamente nel finale. Così come in High Water che cerca nelle ombre la sua anima, condotta benissimo dal cantante, chitarrista e principale songwriter Dave Simonett. Widower's Heart, il folk di Keys To Paradise, il lentissimo walzer della finale e "younghiana" The Calm and The Crying Wind, Beautiful con la grevità del suo violoncello, giocano tutte dalla parte della meditazione, con liriche che si interrogano, in prevalenza, sul passare del tempo e su come, molto spesso, sia bello apprezzare la vita nelle sue semplicità naturali e quotidiane. Riflessioni di chi sta crescendo.
Chi rivuole la velocità dei dischi passati dovrà accontentarsi di Sorry, la strumentale Don't Look Down guidata dal banjo di Dave Caroll e dal violino suonato da Ryan Young (completano la formazione: Tim Saxhaug al basso e Erik Berry al mandolino), Walt Whitman che è una country song corale che aumenta di velocità con il violino ancora protagonista e in fuga, così come la velocità da treno in corsa dell' altra strumentale Risk che piacerà molto ai vecchi fans della band, con il complicato intreccio tra violino, banjo e mandolino lanciati e spediti. Ecco, se c'è una caratteristica che differenzia i Trumpled By Turtles dai tanti gruppi giovani che si stanno imponendo in questo genere (Mumford and Sons, Avett Brothers...), gli arrangiamenti e le splendide armonie sono un grande punto a favore.
Disco da grandi spazi, panorami stellati, guida lenta, meditativa e rilassata con l'imprevisto delle fast songs che potrebbero indurrre a schiacciare il pedale dell'acceleratore in modo improvviso e nei momenti meno opportuni.