martedì 17 aprile 2012
RECENSIONE/REPORT live: TINARIWEN live@Hiroshima Mon Amour, Torino 14 Aprile 2012
La pioggia incessante su Torino è acqua preziosa (Aman Iman...acqua è vita, dicono loro) che innaffia la rossa sabbia del deserto che stasera si è depositata dentro all' Hiroshima Mon Amour, facendo crescere germogli di assoluta leggerezza e voglia di lasciarsi trascinare dal groove continuo che i Tinariwen sanno tenere lungo tutta la durata del concerto. Ma è anche lacrima che scende, pensando alla situazione che il Mali, loro terra d'origine, sta vivendo in queste ultime settimane. L'inasprirsi della tensione interna (notizia così lontana dai nostri telegiornali) ha indotto il leader della band Ibrahim Ag Alhabib a lasciare il tour e ritornare in patria per difendere l'indipendenza della propria famiglia e dei nomadi Tuareg (trattati con disprezzo). Questo per ribadire e rinforzare, per chi fosse ancora scettico, la nomea di "gruppo di guerriglieri" che si portano dietro da circa trent'anni. La musica è la loro arma, ma quando c'è il richiamo patriottico, le armi diventano altre e più pericolose.
La sua assenza è stata però indolore e nessuno stasera si è accorto di nulla, in quanto i Tinariwen sono una band assolutamente democratica, dove ogni membro sa ritagliarsi il proprio spazio alla voce e alternandosi a chitarra e basso, sostenuti dalle percussioni, motore primitivo e folkloristico, in mezzo alla strumentazione elettrica (questa sera si presentano in formazione a cinque).
Ad aprire, i torinesi Cletus, che in mezz'ora di tempo a disposizione, portano la temperatura ai gradi adatti ad un gruppo come i Tinariwen. Il loro minimalismo sonoro, assolutamente strumentale, tra loop elettronici e i ritmi incalzanti intrecciati da basso e chitarra elettrica, con i fiammeggianti battiti tenuti da batteria e percussioni raccoglie applausi e consensi meritati.
I Tinariwen salgono sul palco, recenti vincitori di un Grammy Award nella categoria World Music ottenuto dal loro ultimo disco Tassili(2011), uno dei dischi più freschi ed interessanti dell'anno trascorso; un disco acustico e primitivo, un ritorno alle lontane origini, ma poco indicativo di quello che il gruppo sa sprigionare on stage. Se Tassili era una lenta danza all'ombra di oasi sahariane, in compagnia di falò e tazze di tea, lo spettacolo live sa riportare la musica a quel blues elettrico ed ipnotico che dopo un inizio in cui artisti e pubblico si studiano a vicenda, dopo una manciata di brani conquista definitivamente.
Poco importa se i loro testi parlano di rivolte ed indipendenza o solamente dei loro luoghi d'origine. Lo stato di trance che si impossessa del pubblico è palpabile con l'avanzare del concerto. Rapiti dagli scenografici vestiti della loro terra, dalle danze contagiose del simpatico Alhassane Ag Touhami e da una sbalorditiva tecnica strumentale che travolge durante i ritmi più sostenuti e ammaglia durante gli atmosferici momenti più lenti. Il tutto nella essenzialità di un vero blues, primordiale ed incontaminato, che nasce dalla pancia e allarga il cuore.
Amidinin, Arawan, Assuf Af Assuf, Chatma, Tamadrit n Sahara, Imazaran Nadagh, A Dunya sono solo titoli di difficile pronuncia per noi occidentali ( Tamasheq, è la loro lingua), un pò meno per la numerosa schiera di fans africani presenti alla serata. Festanti e rumorosi, gli unici a riuscire a comunicare con gli artisti e strappare sorrisi che escono da sotto i loro Tagelmust. Una serata di grande contaminazione musicale ma soprattutto culturale.
Comunicativi come non mi aspettavo.Groove ed impatto che non conoscono cedimenti, in grado di aprire sconfinati spazi, dove danza e impegno creano intensità ipnotica e poco contenibile. Suoni al limite della perfezione e voci che quando si uniscono provocano brividi micidiali.
Una iniezione di pura vitalità. Se vi dico che è stato uno dei concerti più veri, spirituali e completi a cui ho assistito negli ultimi anni, qualcuno mi crede?
anche su Impattosonoro.it
SETLIST:Amidinin/A Dunya/Issekad/El Ghalem/Toumast/Djere Djere/Kunten Telay/Kel Tinawen/Imazaran/Tamatent Tilay/Assoul/Assouf Ag Assouf/Tiwiyen/Chatma/Tamadrit/Arawan/Assastan Nakam/Mafel Nedress/Achry TBone
vedi anche: TINARIWEN-Tassili(2011)
lunedì 16 aprile 2012
RECENSIONE: ENZO AVITABILE ( Black Tarantella )
ENZO AVITABILE Black Tarantella ( CNI Music, 2012)
Il giusto coronamento ad una carriera impeccabile sotto il profilo della ricerca musicale arriva con Black Tarantella, un disco dove undici grandi musicisti di livello mondiale dialogano con il cantautore/polistrumentista napoletano Enzo Avitabile, dando voce alla forte comunicatività che l'artista ha sempre portato avanti durante la sua carriera, guadagnandosi quel rispetto internazionale che qui in Italia è ancora di nicchia (che gran peccato). Il nome di David Crosby potrebbe bastare per tutti. Il duetto con il musicista americano, simbolo della west coast californiana '70, uno che ha cantato Oh Yes I Can prima di tutti-anche prima che si trasformasse nel plurale Yes We Can-e che, forse, di apparizioni salvifiche in momenti difficili della vita se ne intende; in E ‘a maronn’ accumparett’ in Africa ci racconta della singolare speranza di assistere all'apparizione della Madonna a Soweto. Rapace e significativa. Ma non è il solo momento magico di questo album.
Un disco il cui termine universale è appagante e arricchente, e dove il genere black tarantella si scosta dal significato puramente musicale, per inglobare situazioni più terrene, con la quotidianità protagonista: dando voce, attraverso le tante lingue presenti, ai popoli di tutto il mondo accomunati dalle difficoltà di tirare a campare (nel bello e sostanzioso libretto, i testi in italiano, napoletano-of course- ed inglese).
Enzo Avitabile ama la musica allo stesso modo con cui ama la parte più debole ed indifesa del mondo, riuscendo ad unire le due cose in maniera perfetta come pochi riescono a fare. I ritmi funk, il folklore, il blues, le radici "dei sud" di tutto il mondo si incrociano con le storie di immigrazione, d'immedesimazione tra uomo e natura, di fede religiosa, di lenti ed antichi misteri africani come dei veloci e frenetici battiti metropolitani e occidentali. La tradizione che incontra il moderno, dove il dialetto modenese di Francesco Guccini nel folk di Gerardo nuvola 'e Povere (tra immigrazione e morti bianche) convive con il diluvio hip hop di parole partenopee dei Co'Sang in Mai Cchiù, con gli amici Bottari di Portico a percuotere i loro inusuali strumenti della tradizione; il folk di Suon' 'a Pastell (canto contro tutti i sopprusi ai danni dei bambini) con l'anima irlandese di Bob Geldof, che lascia il cammino alla voce penetrante di Raiz nella taranta "dub" di Aizamm' na mana. Nulla sembra forzato, ma appare tutto naturale come sempre dovrebbe essere.
Avitabile e Pino Daniele (entrambi classe 1957, con pochi giorni di differenza) si ri-incontrano dopo tanti anni e ne esce fuori la bella E' ancora Tiempo che apre il disco splendidamente, rinnovando il sodalizio tra i due e ricordandoci il gran musicista e chitarrista che si cela dietro a Pino Daniele. Mentre l'incontro con Franco Battiato, un altro che con la contaminazione ci è sempre andato a nozze, genera No é No, canto anti-mafia/omertà con il dialetto siciliano che si confonde con il napoletano, e genera un solo grido liberatorio.
Tutto il disco è una girandola di suoni, strumenti, emozioni, colori e voci: la travolgente Nun è giusto con l'algerino Idir; il bellissimo testo, amaro e poetico di Elì Elì con Enrique e Soleà Morente; la vecchia Mane e Mane, riletta in compagnia di Daby Tourè; i testi sentiti ed espliciti di A nnomme 'e Dio e Nun Vulimm' 'a luna.
Fino ad arrivare al treno di Soul Express(vecchio successo di Avitabile, datato 1986) diretto ad alta velocità verso quel futuro dei migliori mondi possibili, in compagnia di un violino del "maestro"Mauro Pagani e Toumani Diabatè.
Black Tarantella è un disco vivo, pulsante, ispirato e blues come ne escono pochi in Italia. Enzo Avitabile riesce a raccogliere i linguaggi musicali del mondo indirizzandoli verso la sua unicità di musicista, rendendoli universali.
vedi anche:RECENSIONE/REPORT live- TINARIWEN live@Hiroshima Mon Amour, Torino 14 Aprile 2012
Il giusto coronamento ad una carriera impeccabile sotto il profilo della ricerca musicale arriva con Black Tarantella, un disco dove undici grandi musicisti di livello mondiale dialogano con il cantautore/polistrumentista napoletano Enzo Avitabile, dando voce alla forte comunicatività che l'artista ha sempre portato avanti durante la sua carriera, guadagnandosi quel rispetto internazionale che qui in Italia è ancora di nicchia (che gran peccato). Il nome di David Crosby potrebbe bastare per tutti. Il duetto con il musicista americano, simbolo della west coast californiana '70, uno che ha cantato Oh Yes I Can prima di tutti-anche prima che si trasformasse nel plurale Yes We Can-e che, forse, di apparizioni salvifiche in momenti difficili della vita se ne intende; in E ‘a maronn’ accumparett’ in Africa ci racconta della singolare speranza di assistere all'apparizione della Madonna a Soweto. Rapace e significativa. Ma non è il solo momento magico di questo album.
Un disco il cui termine universale è appagante e arricchente, e dove il genere black tarantella si scosta dal significato puramente musicale, per inglobare situazioni più terrene, con la quotidianità protagonista: dando voce, attraverso le tante lingue presenti, ai popoli di tutto il mondo accomunati dalle difficoltà di tirare a campare (nel bello e sostanzioso libretto, i testi in italiano, napoletano-of course- ed inglese).
Enzo Avitabile ama la musica allo stesso modo con cui ama la parte più debole ed indifesa del mondo, riuscendo ad unire le due cose in maniera perfetta come pochi riescono a fare. I ritmi funk, il folklore, il blues, le radici "dei sud" di tutto il mondo si incrociano con le storie di immigrazione, d'immedesimazione tra uomo e natura, di fede religiosa, di lenti ed antichi misteri africani come dei veloci e frenetici battiti metropolitani e occidentali. La tradizione che incontra il moderno, dove il dialetto modenese di Francesco Guccini nel folk di Gerardo nuvola 'e Povere (tra immigrazione e morti bianche) convive con il diluvio hip hop di parole partenopee dei Co'Sang in Mai Cchiù, con gli amici Bottari di Portico a percuotere i loro inusuali strumenti della tradizione; il folk di Suon' 'a Pastell (canto contro tutti i sopprusi ai danni dei bambini) con l'anima irlandese di Bob Geldof, che lascia il cammino alla voce penetrante di Raiz nella taranta "dub" di Aizamm' na mana. Nulla sembra forzato, ma appare tutto naturale come sempre dovrebbe essere.
Avitabile e Pino Daniele (entrambi classe 1957, con pochi giorni di differenza) si ri-incontrano dopo tanti anni e ne esce fuori la bella E' ancora Tiempo che apre il disco splendidamente, rinnovando il sodalizio tra i due e ricordandoci il gran musicista e chitarrista che si cela dietro a Pino Daniele. Mentre l'incontro con Franco Battiato, un altro che con la contaminazione ci è sempre andato a nozze, genera No é No, canto anti-mafia/omertà con il dialetto siciliano che si confonde con il napoletano, e genera un solo grido liberatorio.
Tutto il disco è una girandola di suoni, strumenti, emozioni, colori e voci: la travolgente Nun è giusto con l'algerino Idir; il bellissimo testo, amaro e poetico di Elì Elì con Enrique e Soleà Morente; la vecchia Mane e Mane, riletta in compagnia di Daby Tourè; i testi sentiti ed espliciti di A nnomme 'e Dio e Nun Vulimm' 'a luna.
Fino ad arrivare al treno di Soul Express(vecchio successo di Avitabile, datato 1986) diretto ad alta velocità verso quel futuro dei migliori mondi possibili, in compagnia di un violino del "maestro"Mauro Pagani e Toumani Diabatè.
Black Tarantella è un disco vivo, pulsante, ispirato e blues come ne escono pochi in Italia. Enzo Avitabile riesce a raccogliere i linguaggi musicali del mondo indirizzandoli verso la sua unicità di musicista, rendendoli universali.
vedi anche:RECENSIONE/REPORT live- TINARIWEN live@Hiroshima Mon Amour, Torino 14 Aprile 2012
domenica 15 aprile 2012
RECORD STORE DAY 2012, INTERVISTA A PAOLO CAMPANA,regista di "VINYLMANIA"
Le dita che corrono veloci in preda ad un raptus impulsivo, scartabellano centinaia di vinili nel volgere di pochi secondi. Lo sguardo attento e concentrato nel cogliere i particolari, i colori e i monicker delle copertine e nello stesso tempo vigile a controllare altri avventori e le loro scelte ( No, quello no, lo dovevo prendere io...). Il naso solleticato da quel particolare aroma di cartone mischiato ad inchiostro e plastica che sale ogni qualvolta rilasciamo un disco per afferrarne un altro. Tutti i nostri sensi sono impegnati e racchiusi in una semplice azione ripetutta chissà quante volte e in quanti luoghi sparsi per il mondo.
Questa semplice azione che sembra sepolta nei ricordi dei più nostalgici, rivive ancora nelle vite degli appasionati meno arrendevoli, di chi continua a frequentare "fiere del vinile" e i sopravvissuti negozi di dischi.
Da alcuni anni (cinque per la precisione),come si fa per le cose più belle, importanti, preziose ed in via di estinzione, il 21 Aprile 2012 si celebra, in tutto il mondo, il Record Store Day. Giornata dedicata a tutti i negozi che ancora sfidano il mercato musicale anteponendo la passione prima di tutto.
Negozianti, artisti e fans uniti per un giorno in difesa della buona musica. Negozi aperti, edizioni limitate e create appositamente per la manifestazione ed eventi live animeranno la giornata in ogni angolo del mondo.
Quest'anno anche l'Italia avrà il suo momento di gloria. Il film/documentario del regista torinese Paolo Campana: "VINYLMANIA-Quando la vita scorre a 33 giri al minuto", è stato scelto come pellicola ufficiale della manifestazione.
Ne parliamo direttamente con lui.
INTERVISTA a PAOLO CAMPANA
Come ha preso forma l'idea di girare il film e come è arrivato a rappresentare il Record Store Day 2012?
L’idea di Vinylmania è nata più di dieci anni fa, diciamo in tempi non sospetti ed è stato un work in progress. Allora si parlava del vinile come di un fenomeno di nicchia, si pensava che di lì a poco sarebbe sparito... e quindi nessuno credeva nel progetto. Per anni ho girato con la mia telecamera tra negozi di dischi, mercatini e DJ set per documentare la realtà che mi circondava. All’epoca facevo il DJ quasi a tempo pieno e nel documentare la realtà che frequentavo volevo capire di più su una passione che stava per me diventando mania vera e propria. La mia domanda iniziale è stata “ma cos’è che ci tiene così ancorati a questo formato?”.
L’aumento imprevisto delle vendite e l’attualità del fenomeno ha dato poi ragione a quest’idea e finalmente nel 2008 alcune televisioni, tra cui ZDF/ARTE, che producono documentari creativi, si sono finalmente interessate al progetto. Così insieme con la torinese Stefilm che da tempo sosteneva questa ricerca è partita la produzione vera e propria. Con Edoardo Fracchia, il produttore, abbiamo cominciato a lavorare alla preparazione del film, iniziata nell’estate del 2009 e terminata tra riprese in giro per il mondo, montaggio e post-produzione nel 2011. Esisteva già da tempo uno script che poi ha avuto diverse stesure mantenendo un’idea di base che consisteva in una mia indagine personale intorno al mondo del vinile, una sorta di viaggio nel “groove”, dentro il microsolco, una sorta di “road movie”. La parte di vissuto autobiografico ha preso forma più compiuta durante il montaggio e fa da traino ad una storia costellata d’incontri con artisti, musicisti, DJ, ingegneri del suono, collezionisti o semplici appassionati. Partendo dall’idea di sondare soprattutto la febbre del collezionismo, il progetto ha virato verso un’altra forma, ovvero l’intenzione d’indagare tutte le possibili declinazioni di questa passione, da chi ha lavorato con i dischi facendo copertine, studiandone il suono, a chi è musicista o ne è stato folgorato come semplice amante della musica o ha passato una vita ad archiviare dischi.
Per quanto riguarda il RSD sono molto fiero che Vinylmania sia stato selezionato come film ufficiale del 2012. Ho sempre desiderato fare qualcosa in questa direzione. Il rapporto con RSD esiste da oltre un anno e dopo un lungo scambio di mail abbiamo finalmente attirato il loro interesse, abbiamo mandato il film appena finito quest’estate... e semplicemente è piaciuto! Il fatto poi che quest’anno l’ambasciatore sia Iggy Pop mi entusiasma ancora di più.
Per girare Vinylmania hai impiegato dieci anni. Un periodo lungo per la velocità con cui è cambiata la fruizione musicale in questi ultimi anni. Girando il film ti sei accorto di questi cambiamenti intorno a te? Ci sono state difficoltà? Aiuti insperati?
E’ stato un periodo di gestazione relativamente lungo in cui molte cose sono successe tra cui la rivoluzione su internet con il downloading selvaggio di musica: MP3, l’avvento di Itunes, ecc...
E’ paradossale che proprio in un momento di grande libertà come questo sia ricominciata una massiccia vendita di dischi riportando sul mercato le stesse major che in parte sembravano aver abbandonato questo formato. L’elemento inaspettato di questo fenomeno di ripresa sono i più giovani. Nuove generazioni di teenagers, nati in epoca digitale, hanno cominciato ad interessarsi al vinile.
Forse saranno loro i collezionisti del futuro? La verità è che il vinile non è mai andato via... è semplicemente ritornato di grande attualità e l’industria della musica se n’è accorta e l’ha rilanciato, forse per far fronte a quella che nel film viene definita da Eddie Piller, storico DJ e produttore dell’etichetta Acid Jazz, “la truffa del digitale”.
La gente cerca qualcos’altro dentro la musica, ha bisogno di qualcosa da toccare, di un oggetto concreto, di un suono più naturale ed il vinile incarna quest’idea. Questa sorta di nuovo “rinascimento” dei dischi, come dicevo, ha aiutato tantissimo il progetto prima dal punto di vista produttivo ed ora distributivo.
Fare un documentario, soprattutto in Italia, è un percorso ad ostacoli. Questo significa principalmente avere difficoltà dal punto di vista economico. Ci sono state però anche tante sorprese che hanno reso questa sorta di missione molto eccitante. A parte il sostegno del RSD durante l’arco delle riprese, il film ha avuto la partecipazione e il supporto di artisti che stimo molto tra cui Philippe Cohen Solal dei Gotan Projectt, Winston Smith, artista conosciuto soprattutto per le copertine dei Dead Kennedys o Sanju Chiba, costruttore del Laser Turntable. Persone che hanno creduto e credono tutt’ora fortemente nel film tanto da sostenerne la promozione stessa. Winston Smith ad esempio ha creato per noi la copertina del DVD e il poster del film con il suo stile graffiante.
Un’altro grande aiuto è arrivato dalla rete, dai nostri fan di facebook in gran parte, quando abbiamo organizzato la campagna di raccolta fondi per poter produrre il DVD di Vinylmania edizione speciale. Quasi 400 sostenitori ci hanno aiutato su Kickstarter a raccogliere la somma di 37.000 dollari. E’ stata un’esperienza bellissima, 45 giorni d’intensa campagna in rete a stretto contatto con appassionati di musica, collezionisti o semplici amanti dei documentari...
Andando in giro per il mondo hai potuto testare la sopravvivenza dei piccoli negozi musicali. C'è ancora qualche isola felice in giro per il mondo?Isole felici ne ho trovate un po’ ovunque nel mio viaggio: a parte i grandi shop resistenti come Spacehall a Berlino, Rough Trade a Londra o Amoeba a San Francisco, ci sono i piccoli negozi, sempre a San Francisco, con sotterranei interminabili
e corridoi di Lp che si perdono nell’oscurità, interi isolati pieni di sorprendenti negozi a Shibuya a Tokyo, gli “Antiquariat” di Praga, botteghe in cui tra vecchie cianfrusaglie e reliquie “ortodosse” spuntano titoli imprevedibili, la fiera di Novegro a Milano, una delle più grandi in Europa o semplicemente i “vide grenier”, mercatini delle pulci dei paesini che ho visitato nel sud della Francia dove si possono scovare rarità di ogni tipo... Un’altra isola felice è l’ARC, l’Archive of Contemporary Music di New York dove sono custoditi più di 2.000.000 di dischi e dove si può consultare l’introvabile. Il direttore, dell’ARC, Bob George, circa due volte l’anno organizza una piccola fiera al suo interno dove vende i doppioni...
Tu sei di Torino. Recentemente ho letto il divertente libro "L'ultimo disco dei Mohicani"(raccolta di folli aneddoti intorno ad un negozio di dischi) di un altro torinese: Maurizio Blatto. Nella tua città i piccoli negozi di dischi come sopravvivono e reagiscono ai grandi media-stores ed a internet?Reagiscono come penso tutti i piccoli negozi di musica sparsi per il pianeta... creando un rapporto stretto con il cliente, specializzandosi in generi e sottogeneri particolari e ricercati, fungendo da punto d’incontro per gli amanti della musica, distribuendo flyers e riviste... recensendo direttamente i dischi in vendita, insomma fungendo da veri e propri aggregatori utilizzando la creatività. Questi negozi sono luoghi unici rispetto ai grandi media-store che di vinile hanno solo qualche ristampa. Fondamentalmente anche a Torino per me vale quello che diceva Nick Hornby nel suo libro Alta Fedeltà: “I negozi dischi non possono salvarti la vita, ma possono dartene una migliore”, si perché in questi non solo si comprano e si ascoltano dischi ma si ferma un po’ il tempo e ci si trova una dimensione differente fatta anche di incontri bizzarri.
Il libro di Maurizio, che conosco da anni, e il cui negozio frequento di tanto in tanto, non fa altro che raccontare una splendida variegata galleria umana. Insomma se cerchi qualcosa di non anonimo ed inconsueto basta entrare in un qualunque negozio di dischi... qui più che fuori qualcosa d’interessante di sicuro succede.
Intervistando gli artisti, qual'è la corrente di pensiero più frequente riguardo i files digitali? Molti li odiano, altri li trovano indispensabili. C'è qualche musicista che ti ha colpito più di altri?In realtà non vedo i file digitali come il diavolo, possono essere utili per scoprire nuova musica prima di cercarla in vinile, per scambiare al volo esperienze. Il digitale personalmente è semplicemente un modo per ricognizzare la musica, le nuove uscite, i dischi introvabili... diciamo che potrebbe essere un’anticamera del vinile. Scopri un brano? Un artista? Bene, vuoi approfondire? Con il vinile crei un rapporto più profondo e ravvicinato con la musica registrata e l’opera contenuta, un rapporto più impegnativo ma anche più gratificante dal punto di vista dell’esperienza. E le esperienze di ognuno che s’intersecano sono le più diverse. Da un lato ci sono puristi come Eddie Piller, Key Kobayashi o i The Karminsky Experience, DJ e accaniti collezionisti presenti nel film, che suonano vinile al 100%, poi c’è DJ Kentaro, che utilizza sia vinili veri che quelli virtuali di Serato per scratchare. All’altro estremo, Richie Hawtin (presente con un intervista nei bonus del DVD), votato completamente agli usi più avanguardistici del digitale che però non ha rinnegato le proprie origini. Secondo Hawtin il vinile è fondamentale perché ci fa immergere meglio nella musica presente permettendoci di comprenderne le radici.
Il tuo film verrà visto e proiettato in tutto il mondo. Quest'anno ambasciatore del Record Store Day sarà Iggy Pop. Cosa speri possa dire
immediatamente dopo la visione del tuo film?Spero innanzi tutto che lo veda... e che possa apprezzarne soprattutto l’ironia. Iggy è parte di quell’universo musicale in cui sono cresciuto negli anni’80... fondamentale
Il lento ritorno in auge dei vinili spesso lo associo, metaforicamente, ad un richiamo e voglia di lentezza in un mondo assurdamente frenetico. La sacra liturgia dietro all'ascolto dei vinili richiede molto tempo. Qual'è stato, secondo te, il nemico numero uno del vinile? La nostra generazione ha conosciuto tutti i supporti musicali:il vinile appunto, la musicasetta (addirittura la vetusta "super 8"), il compact disc, l'mp3. Dove risiede la magia del vinile?
Indubbiamente il nemico numero uno del vinile, dopo la cassetta, è stato il cd. Le major hanno spacciato il digitale all’epoca come qualcosa di irrinunciabile... ma era semplicemente un altro modo per cercare di resuscitare i profitti di un industria, quella musicale, già da anni agonizzante. La qualità del CD è buona si, ma si tratta di un suono non conformato sul nostro orecchio che è e rimane analogico così come il suono registrato nei microsolchi di un vinile. Per le Major produrre e vendere CD dava più ricavi rispetto ai dischi. Ora però la batosta gli è tornata indietro... prima con il downloading gratuito ed ora con il crollo del mercato dei CD. Non bisogna dimenticare che un disco in vinile non è “fotocopiabile” ed ha più senso la convivenza vinile-MP3 che quella vinile-CD.
La cassetta Stereo8 non è mai stata un pericolo, anzi era limitante tanto da essere poi soppiantata dalla classica Cassetta Basf, anch’essa però molto limitata per la qualità. Si tratta di formati storici, su cui ora si sono raccolte comunità di afficionados e dietro cui c’è un fenomeno di nostalgia vero e proprio, vedi i leggendari mixtape, e a cui stanno dedicando diversi documentari. Ma, nulla a che vedere con il vinile, i dischi hanno qualcosa che va oltre la nostalgia, il suono e la copertina.
La magia del vinile sta in qualcosa di più evocativo. Vedo i dischi come piccole macchine del tempo in grado di farci viaggiare non solo nella nostra memoria personale ma nella memoria musicale collettiva. Sono sicuro che sia questa qualità impalpabile ad attrarre inconsciamente gran parte dei più giovani. Essi stessi hanno bisogno di sentirsi parte di qualcosa di tangibile, qualcosa che li riconnetta con una certa forma di pensiero che sta sparendo. Quella spirale scura del groove che gira sul piatto ha il potere di portarti lontano verso altri mondi e universi paralleli altrimenti insondabili.
Hai una situazione ideale per ascoltare musica? Quella in cui la musica occupa totalmente i tuoi pensieri e ti stacca completamente dal mondo?Fondamentalmente l’ascolto di un disco richiede dedizione e tempo ma è anche un passatempo piacevole. Lo si può fare mentre si cucina, e magari si sorseggia un bicchiere di buon vino... Adoro questa pratica... come anche quella di passare una bella serata in compagnia con il sottofondo frusciante di un disco... dimenticarmi di girare la facciata perché succede qualcosa di imprevisto... Per citare ancora Nick Hornby: “L'amore è una metafora della musica stessa”.
Vinile vuol dire anche arte visiva.
-Ti ricordi la prima copertina che hai visto?
Ricordo quella che mi rimase più impressa... the Robots dei Kraftwerk, avevo 12 anni, li avevo visti in tv e mi avevano colpito molto: loro quattro, camicia rossa, cravatta nera... manichini futuristi di se stessi...
-La più bella copertina che possiedi nella tua collezione?Adoro le copertine coloratissime degli anni ’50 di lounge exotica americana, soprattutto quelle di Martin Denny, Les Baxter o Yma Sumac ma sono anche molto legato a certe copertine degli anni ’80 come quelle create da Peter Saville o Winston Smith, ospiti del film.
-La più brutta?Non c’è limite al peggio... non ho mai capito la cover del primo album degli A Certain Ratio... non è esteticamente confortante e i colori mi fanno un effetto strano, ma non è la più brutta che al momento ricordi... Forse le ultime dei Simple Minds? O certa roba Italo disco degli ’80... musica che per altro adoro!
Come sarà distribuito il DVD e cosa potremo trovarci? Hai mai pensato a cosa potrebbe pensare un ragazzino, adolescente di oggi, davanti alle immagini della tua pellicola?Il film ha riscosso un grande successo al International Film Festival di Goteborg ed ora sta circolando in diversi festival e rassegne. Tra i principali appuntamenti nelle sale ad aprile Vinylmania sarà presentato al Chicago International Music Festival, avremo una prima a Torino al Cinema Massimo il 18 aprile, il 20 a Parigi, il 22 saremo ospiti dell’Istituto Italiano di Cultura a Stoccolma. A maggio al Planete Doc Review a Varsavia, alla fiera di Vinilmania di Novegro a Milano e al Ox di Oxford ed tante richieste stanno arrivando da tutto il mondo per i prossimi mesi. Gran parte di ciò grazie al nostro distributore internazionale Deckert Distribution.
Il DVD avrà una prima diffusione direttamente dal produttore che invierà le primissime copie direttamente a casa di coloro che ci hanno sostenuto su Kickstarter, per poi essere ufficialmente distribuito a partire dal 21 aprile, data del Record Store Day. Quest’operazione in Francia partirà da Parigi, allo scoccare della mezzanotte tra 20 e il 21, dopo che avremo presentato il film in una serata organizzata dal Record Store Day e dal nostro distributore d’oltralpe.
Vinylmania special edition sarà distribuito inoltre in Inghilterra, Spagna, Olanda, Belgio, Germania... e speriamo di chiudere con altri distributori tra cui gli USA, il Giappone e il Brasile. In Italia il film è distribuito da Cinecittà Luce in versione digipack bianca con un mini poster all’interno e alcuni dei bonus dell’edizione speciale. L’artwork in copertina curata da Winston Smith è in pratica lo stesso anche per la Special Edition che consta di un doppio dvd con libretto interno, quasi 100 minuti di bonus tra clip di backstage ed interviste con altri personaggi non presenti nel film. Tra loro figurano Richie Hawtin, Klaus Fluoride (Dead kennedys, bassista), V.Vale (publisher Re/Search) ed una divertente escursione a LuxuriaMusic, web Radio di Los Angeles, unica per la sua programmazione a base di vinile. C’è anche una piccola “ghost track” ma sta a voi scoprirla se vi procurate questa versione.
Spero di aver fatto un film trasgenerazionale e il fatto che gli organizzatori del RSD vogliano mostrarlo in molti college americani forse non è un caso. Spero che, chi lo vede , ne esca con la voglia di riscoprire o scoprire che cos’è un disco. Ricordo che durante la scrittura del film più volte con il produttore Edoardo Fracchia, si parlava del desiderio di far venire al pubblico la voglia di entrare in un negozio di dischi! Questa era l’emozione finale a cui volevamo volevamo arrivare... Far venire l’acquolina in bocca. Se questo film ha un cuore la gente saprà sentirlo pulsare!
Che vinile comprerai il 21 Aprile 2012 (giornata del Record Store Day)?Spero di poter visitare qualche negozio di dischi a Parigi, dove presenteremo il film la sera del 20 aprile. Penso a “Raw Power” di Iggy and the Stooges, vista l’attinenza. Mi piacerebbe trovare però l’edizione originale ad un prezzo accessibile, chissà...
A questo punto, non vi rimane altro che correre nel negozio di dischi più vicino a casa vostra (ci sono, ci sono ancora: ci vuole solo un po' di voglia e passione nel trovarli), richiedere il DVD del film di Paolo Campana e comprare l'edizione limitata in vinile che il vostro artista preferito vi ha preparato. Il consiglio non ha date di scadenza, naturalmente.
Un caloroso grazie a Paolo per la sua disponibilità.
sabato 14 aprile 2012
martedì 10 aprile 2012
RECENSIONE: MICHAEL KIWANUKA ( Home Again)
MICHAEL KIWANUKA Home Again (Polydor, 2012)
(S)Fortuna vuole che il primo ascolto di questo album avvenga nel primo giorno di sole dopo una settimana di pioggia intensa e quasi purificatrice prima della santissima Pasqua. Le canzoni del giovanissimo Michael Kiwanuka si sarebbero trovate a proprio agio dentro ad abitacoli con tergicristalli in azione, ombrelli aperti in lontanza e mansarde pronte ad accogliere l'imbrunire con la pioggia incessante a bussare per tutta la notte. Michael Kiwanuka è l'ossimoro perfetto di questi anni duemila. Un "vecchio" ventiquatrenne che grazie ai potenti mezzi mass-mediatici (no, qui i talent show non centrano nulla) diventa fenomeno di massa, almeno in Gran Bretagna, dove la BBC lo ha già insignito del prestigioso BBC Sound, che negli ultimi anni non ha sbagliato un colpo. "Volevo avere il lussureggiante suono e la strumentazione che si sentono nei vecchi dischi: suoni caldi e tranquilli . Tanto da far calare l'ascoltatore in questo piccolo mondo, che è ricco di vibrazioni, suoni e colori." Kiwanuka ci riesce perfettamente. Quando parte Tell Me A Tale, con con quei fiati jazzati, difficile immaginare che sul cd (la deluxe edition contiene 2 cd, sul secondo , altre cinque canzoni "Ethan Johns Session") ci sia impressa la data 2012, tanto i suoni, la voce riportano ai tempi "verdi" di Otis Redding, Bill Withers, Marvin Gaye, ma anche il Van Morrison di Astral Weeks e perchè no, il sempre dimenticato John Martin. Kiwanuka, lo si capisce vedendelo e ascoltandolo, è un personaggio vero e genuino. Come vera sembra essere la parabola che lo ha portato alla musica: genitori nativi dell'Uganda, lui nato e cresciuto nel quartiere di Muswell Hill a Londra, dove mamma e papà si sono trasferiti per sfuggire al violento e sanguinario regime imposto da Amin Dada. Lì dove gli si è aperto un mondo, dopo il folgorante ascolto di Bob Dylan, Jimy Hendrix e poi Otis Redding. Scoperte in musica che nella sua adolescenza è stata totalmente assente per un lungo periodo. Poi lo studio della chitarra, i primi concerti accompagnando altri artisti fino a trovare se stesso e le sue confessioni di spirito, mature e sincere: 3 folgoranti EP e Home again, appunto. Home Again, è anche il singolo che ha conquistato mezzo mondo, un folk-soul, vicino anche a Ben Harper, che sa arrivare al primo ascolto e restarci. Registrato negli studi "vintage", ma assolutamente all'avanguardia di Paul Butler ( cantante e polistrumentista dei britannici The Bees), nell'isola di Wight, il disco è un caleidoscopio dove la voce sofferta e soul è protagonista assoluta di testi molto profondi e personali, soppererendo alla poca originalità d'insieme, nelle più essenziali e notturne I'm Getting Ready, nel lento incedere di Rest con la voce che scava in profondità e nel finale blues di Worry Walks Beside Me. La voce è più nascosta dentro alle fughe orchestali e quasi psichedeliche di I'll Get Along, alla swingante e spazzolata Bones, che comunue rimangono canzoni suonate in punta di piedi e mai eccessive e strabordanti a parte I Won't Lie con i suoi cori gospel e tutto il resto. Un equlibrio, a volte, fin troppo perfetto. Il secondo disco (presente nella Limited Edition) contiene cinque brani registrati da e con il produttore Ethan Johns: They say I'm Doing Just Fine, Now I'm Seeing, Ode to you e versioni alternative di I'll Get Along e I Won't Lie. Canzoni rielaborate in modo più essenziale e diretto, prive di troppi orpelli. Forse qui, il Kiwanuka perfetto? Quello live che si potrà ammirare nell'unica data italiana il 20 Aprile ai Magazzini Generali di Milano.(REPORT/LIVE). La retromania ha colpito nuovamente. Ma non vi è futuro senza un solido passato. Home Again è un debutto importante e sincero, ma che naturalmente cela qualche difetto, legato a quella "perfezione" di produzione, ad una pulizia forse eccessiva che rischia di imbrigliare il talento e mettere in secondo piano la voce del giovane Michael Kiwanuka. Una voce che ha bisogno di farsi sentire forte, rivendicando il raggiungimento della propria indipendenza e maturità. Un trampolino di lancio ed un hype da sfruttare al massimo, senza perdersi dentro ai devastanti meccanismi dello show-business. Dan Auerbach dei Black Keys-che sembra saperla lunga, non sbagliando un colpo ultimamente-, non ha perso tempo, tanto che i due hanno già registrato qualcosa insieme, Lasan, b-side che potrete trovare nel primo singolo estratto dall'album: I'm Gettin' Ready. Ora che ha ritrovato la sua "casa", uscire e correre incontro a qualche rischio potrebbe essere interessante. Guardate gli occhi di Kiwanuka e otterrete tutte le risposte sul suo futuro.
vedi anche RECENSIONE REPORT/live: MICHAEL KIWANUKA live@Magazzini Generali, Milano 21 Aprile 2012
(S)Fortuna vuole che il primo ascolto di questo album avvenga nel primo giorno di sole dopo una settimana di pioggia intensa e quasi purificatrice prima della santissima Pasqua. Le canzoni del giovanissimo Michael Kiwanuka si sarebbero trovate a proprio agio dentro ad abitacoli con tergicristalli in azione, ombrelli aperti in lontanza e mansarde pronte ad accogliere l'imbrunire con la pioggia incessante a bussare per tutta la notte. Michael Kiwanuka è l'ossimoro perfetto di questi anni duemila. Un "vecchio" ventiquatrenne che grazie ai potenti mezzi mass-mediatici (no, qui i talent show non centrano nulla) diventa fenomeno di massa, almeno in Gran Bretagna, dove la BBC lo ha già insignito del prestigioso BBC Sound, che negli ultimi anni non ha sbagliato un colpo. "Volevo avere il lussureggiante suono e la strumentazione che si sentono nei vecchi dischi: suoni caldi e tranquilli . Tanto da far calare l'ascoltatore in questo piccolo mondo, che è ricco di vibrazioni, suoni e colori." Kiwanuka ci riesce perfettamente. Quando parte Tell Me A Tale, con con quei fiati jazzati, difficile immaginare che sul cd (la deluxe edition contiene 2 cd, sul secondo , altre cinque canzoni "Ethan Johns Session") ci sia impressa la data 2012, tanto i suoni, la voce riportano ai tempi "verdi" di Otis Redding, Bill Withers, Marvin Gaye, ma anche il Van Morrison di Astral Weeks e perchè no, il sempre dimenticato John Martin. Kiwanuka, lo si capisce vedendelo e ascoltandolo, è un personaggio vero e genuino. Come vera sembra essere la parabola che lo ha portato alla musica: genitori nativi dell'Uganda, lui nato e cresciuto nel quartiere di Muswell Hill a Londra, dove mamma e papà si sono trasferiti per sfuggire al violento e sanguinario regime imposto da Amin Dada. Lì dove gli si è aperto un mondo, dopo il folgorante ascolto di Bob Dylan, Jimy Hendrix e poi Otis Redding. Scoperte in musica che nella sua adolescenza è stata totalmente assente per un lungo periodo. Poi lo studio della chitarra, i primi concerti accompagnando altri artisti fino a trovare se stesso e le sue confessioni di spirito, mature e sincere: 3 folgoranti EP e Home again, appunto. Home Again, è anche il singolo che ha conquistato mezzo mondo, un folk-soul, vicino anche a Ben Harper, che sa arrivare al primo ascolto e restarci. Registrato negli studi "vintage", ma assolutamente all'avanguardia di Paul Butler ( cantante e polistrumentista dei britannici The Bees), nell'isola di Wight, il disco è un caleidoscopio dove la voce sofferta e soul è protagonista assoluta di testi molto profondi e personali, soppererendo alla poca originalità d'insieme, nelle più essenziali e notturne I'm Getting Ready, nel lento incedere di Rest con la voce che scava in profondità e nel finale blues di Worry Walks Beside Me. La voce è più nascosta dentro alle fughe orchestali e quasi psichedeliche di I'll Get Along, alla swingante e spazzolata Bones, che comunue rimangono canzoni suonate in punta di piedi e mai eccessive e strabordanti a parte I Won't Lie con i suoi cori gospel e tutto il resto. Un equlibrio, a volte, fin troppo perfetto. Il secondo disco (presente nella Limited Edition) contiene cinque brani registrati da e con il produttore Ethan Johns: They say I'm Doing Just Fine, Now I'm Seeing, Ode to you e versioni alternative di I'll Get Along e I Won't Lie. Canzoni rielaborate in modo più essenziale e diretto, prive di troppi orpelli. Forse qui, il Kiwanuka perfetto? Quello live che si potrà ammirare nell'unica data italiana il 20 Aprile ai Magazzini Generali di Milano.(REPORT/LIVE). La retromania ha colpito nuovamente. Ma non vi è futuro senza un solido passato. Home Again è un debutto importante e sincero, ma che naturalmente cela qualche difetto, legato a quella "perfezione" di produzione, ad una pulizia forse eccessiva che rischia di imbrigliare il talento e mettere in secondo piano la voce del giovane Michael Kiwanuka. Una voce che ha bisogno di farsi sentire forte, rivendicando il raggiungimento della propria indipendenza e maturità. Un trampolino di lancio ed un hype da sfruttare al massimo, senza perdersi dentro ai devastanti meccanismi dello show-business. Dan Auerbach dei Black Keys-che sembra saperla lunga, non sbagliando un colpo ultimamente-, non ha perso tempo, tanto che i due hanno già registrato qualcosa insieme, Lasan, b-side che potrete trovare nel primo singolo estratto dall'album: I'm Gettin' Ready. Ora che ha ritrovato la sua "casa", uscire e correre incontro a qualche rischio potrebbe essere interessante. Guardate gli occhi di Kiwanuka e otterrete tutte le risposte sul suo futuro.
vedi anche RECENSIONE REPORT/live: MICHAEL KIWANUKA live@Magazzini Generali, Milano 21 Aprile 2012
venerdì 6 aprile 2012
RECENSIONE: VERONICA SBERGIA & MAX DE BERNARDI ( Old Stories For Modern Times )
VERONICA SBERGIA & MAX DE BERNARDI Old Stories For Modern Times ( Totally Unnecessary Records, 2012)
Le vecchie e belle storie non passano mai di moda, anche se riproposte a quasi un secolo di distanza. Queste storie diventano incredibilmente meravigliose se arrivano da molto lontano anche geograficamente, e se a raccontarcele sono due musicisti lombardi.
Questo disco possiede quel fascino che solo quei dischi impolverati e malandati custodiscono sotto ai fastidiosi fruscii e alla puntina che salta proprio lì, dove sai già che salterà. Rumori che conosci a memoria, mappa di righe su PVC, a cui ogni tanto se ne aggiunge qualcuna di nuova, ma che con i ripetuti ascolti diventano fedeli compagni e sinonimo di calore nostalgico. Ecco, questo è un disco da ascoltare in vinile, consumandolo, anche se l'intento nobile del duo è esattamente l'opposto: diffondere vecchie storie di musica popolare-rurale al mondo moderno, pazienza se verranno usati anche gli invisibili files per essere propagate (sconsigliato ,ovviamente).
Veronica Sbergia e Max De Bernardi avevano già fatto il botto con i loro Red Wine Serenaders (con all'attivo già tre lavori: Aint’ nothing in ramblin -2007 ,Veronica & the Red Wine Serenaders-2009 e D.O.C. -2011), questa volta però si superano mettendosi in coppia, compiendo un lavoro di ricerca certosino, divertente ed appagante: recuperare 15 vecchie storie americane, risalenti al periodo 1910-1939, antecedente alla seconda guerra mondiale (solamente Some Of These Days di Sophie Tucker è datata 1910), soffiarci via la polvere da sopra e riproporle con l'aiuto di strumenti originali ed antichi, registrazione rigorosamente analogica e mono (produzione ad opera del duo , insieme ad Alessandro Zoccarato) ed una schiera di "importanti amici " in aiuto.
Ne è uscito un disco divertente e frizzante. Veronica Sbergia con la sua voce emana sex appeal in canzoni come il blues Press my Button(ring my bell) di Lil Johnson, anno 1936, con i suoi doppi sensi civettuoli (...Where to put that thing...), e in Sweet Papa (mama's getting Mad) .
Non da meno quando a cantare è Max De Bernardi (gran chitarrista, alle prese anche con mandolino e ukulele) in Cigarettes Blues, con la chitarra slide resofonica dell'ospite "professor" Bob Brozman che trama nel blues (datato 1936) di Bo Carter sopra ai versi equivoci che strappano ancora un sorriso malizioso dopo quasi un secolo,"...my cigarette ain't too big...", oppure nel descrivere così bene le ragazze "facilotte" che popolano Beedle Um Bum, canzone dei The Hokum Boys del 1928, che rappresenta così bene un genere di canzoni (Hokum appunto) tanto in voga nel pre-war blues di quegli anni.
Bello anche il contrasto tra le due voci in Keep your Hands Off Her (di Big Bill Broonzy-1935), quella maschia, decisa e consumata di Max e il controcanto sensuale e leggero di Veronica e nel duetto di Gonna lay down my Oold guitar.
The Last Kind words di Geeshie Wiley, con il suo giro di chitarra ipnotico e la voce di Veronica ci catapultano in piena era Delta-blues, anno 1930. Una preghiera sulla crudeltà della guerra che riesce ancora ad emozionare e ad essere incredibilmente evocativa. La mia preferita.
Tutto è prezioso in questo disco, dalla strumentazione usata: la mitica armonica del sessantaduenne Sugar Blue, ospite in Viper Mad e nella conclusiva countryeggiante Charming Betsy, ai vari washboard, mandolini, kazoo, ukulele, contrabbasso; ai generi musicali toccati, "genitori" della musica odierna: ragtime, country, blues, folk, bluegrass, early jazz; alle storie che emanano i sapori, a volte amari, a volte gioiosi, di pezzi di vita vissuti dalle fasce più deboli e povere che cantavano queste canzoni in mezzo a campi di cotone, sulle paludose rive del Mississippi, che descrivono situazioni piccanti dentro a bordelli malfamati, che raccontano dei duri anni della grande depressione americana, che venivano portate in giro nei Medicine Shows o anche quando descrivono , solamente, l'amore più vero.
Un pò tutto come oggi: si balla, ci si dispera, si piange, si amoreggia e si mette sul piatto Old Stories for Modern Times, aspettando il salto della puntina.
vedi anche: WILLIAM ELLIOTH WHITMORE-Field Songs
Le vecchie e belle storie non passano mai di moda, anche se riproposte a quasi un secolo di distanza. Queste storie diventano incredibilmente meravigliose se arrivano da molto lontano anche geograficamente, e se a raccontarcele sono due musicisti lombardi.
Questo disco possiede quel fascino che solo quei dischi impolverati e malandati custodiscono sotto ai fastidiosi fruscii e alla puntina che salta proprio lì, dove sai già che salterà. Rumori che conosci a memoria, mappa di righe su PVC, a cui ogni tanto se ne aggiunge qualcuna di nuova, ma che con i ripetuti ascolti diventano fedeli compagni e sinonimo di calore nostalgico. Ecco, questo è un disco da ascoltare in vinile, consumandolo, anche se l'intento nobile del duo è esattamente l'opposto: diffondere vecchie storie di musica popolare-rurale al mondo moderno, pazienza se verranno usati anche gli invisibili files per essere propagate (sconsigliato ,ovviamente).
Veronica Sbergia e Max De Bernardi avevano già fatto il botto con i loro Red Wine Serenaders (con all'attivo già tre lavori: Aint’ nothing in ramblin -2007 ,Veronica & the Red Wine Serenaders-2009 e D.O.C. -2011), questa volta però si superano mettendosi in coppia, compiendo un lavoro di ricerca certosino, divertente ed appagante: recuperare 15 vecchie storie americane, risalenti al periodo 1910-1939, antecedente alla seconda guerra mondiale (solamente Some Of These Days di Sophie Tucker è datata 1910), soffiarci via la polvere da sopra e riproporle con l'aiuto di strumenti originali ed antichi, registrazione rigorosamente analogica e mono (produzione ad opera del duo , insieme ad Alessandro Zoccarato) ed una schiera di "importanti amici " in aiuto.
Ne è uscito un disco divertente e frizzante. Veronica Sbergia con la sua voce emana sex appeal in canzoni come il blues Press my Button(ring my bell) di Lil Johnson, anno 1936, con i suoi doppi sensi civettuoli (...Where to put that thing...), e in Sweet Papa (mama's getting Mad) .
Non da meno quando a cantare è Max De Bernardi (gran chitarrista, alle prese anche con mandolino e ukulele) in Cigarettes Blues, con la chitarra slide resofonica dell'ospite "professor" Bob Brozman che trama nel blues (datato 1936) di Bo Carter sopra ai versi equivoci che strappano ancora un sorriso malizioso dopo quasi un secolo,"...my cigarette ain't too big...", oppure nel descrivere così bene le ragazze "facilotte" che popolano Beedle Um Bum, canzone dei The Hokum Boys del 1928, che rappresenta così bene un genere di canzoni (Hokum appunto) tanto in voga nel pre-war blues di quegli anni.
Bello anche il contrasto tra le due voci in Keep your Hands Off Her (di Big Bill Broonzy-1935), quella maschia, decisa e consumata di Max e il controcanto sensuale e leggero di Veronica e nel duetto di Gonna lay down my Oold guitar.
The Last Kind words di Geeshie Wiley, con il suo giro di chitarra ipnotico e la voce di Veronica ci catapultano in piena era Delta-blues, anno 1930. Una preghiera sulla crudeltà della guerra che riesce ancora ad emozionare e ad essere incredibilmente evocativa. La mia preferita.
Tutto è prezioso in questo disco, dalla strumentazione usata: la mitica armonica del sessantaduenne Sugar Blue, ospite in Viper Mad e nella conclusiva countryeggiante Charming Betsy, ai vari washboard, mandolini, kazoo, ukulele, contrabbasso; ai generi musicali toccati, "genitori" della musica odierna: ragtime, country, blues, folk, bluegrass, early jazz; alle storie che emanano i sapori, a volte amari, a volte gioiosi, di pezzi di vita vissuti dalle fasce più deboli e povere che cantavano queste canzoni in mezzo a campi di cotone, sulle paludose rive del Mississippi, che descrivono situazioni piccanti dentro a bordelli malfamati, che raccontano dei duri anni della grande depressione americana, che venivano portate in giro nei Medicine Shows o anche quando descrivono , solamente, l'amore più vero.
Un pò tutto come oggi: si balla, ci si dispera, si piange, si amoreggia e si mette sul piatto Old Stories for Modern Times, aspettando il salto della puntina.
vedi anche: WILLIAM ELLIOTH WHITMORE-Field Songs
giovedì 5 aprile 2012
RECENSIONE: MEAT LOAF (Hell in a Handbasket)
MEAT LOAF Hell In A Handbasket (Sony Music, 2012)
Se la carriera di Meat Loaf fosse terminata dopo l'uscita di Bat Out Of Hell , nessuno avrebbe recriminato nulla. In fondo, sia lui che noi siamo rimasti schiavi a vita di quel disco. I tentativi(alcuni ben riusciti, altri decisamente no) di riportare quel dannato pipistrello fuori dai cancelli dell'inferno non si contano più.
Carriera vissuta all'ombra del capolavoro (e dell'alter ego Jim Steinman) con due sequel fortemente voluti: il primo all'altezza , il secondo evitabile, qualche hit centrata (I'd do Anything for Love ) e un maldestro tentativo di tornare alla rock opera con l'ultimo Hang Cool Teddy Bear(2010) . Nulla che potesse avvicinarsi a quel disco e questo, ve lo anticipo subito, si accoda agli altri.
Mai così prolifico come in questi anni (già si parla di un prossimo disco natalizio), dopo un annunciato ritiro (subito smentito) e altri problemi di salute, il nuovo inferno di Meat Loaf è popolato da tanti teschi. Quelli della sua mente di fronte al mondo. Si è liberato di tutti i pesanti pesi che lo affondavano nella spasmodica creazione di un altro musical ingombrante e si è gettato sulla composizione di canzoni personali ("la registrazione più personale che io abbia mai fatto. E’ il primo disco scritto su cosa penso della vita che vivo e delle cose che stanno accadendo in questi giorni”) , dirette, fortemente influenzate dal soul e dal southern rock, donando al disco una propria impronta (pur con l'ausilio di tanti autori), e con qualche caduta di tono, evitabile.
Se All Of Me è una degna apertura che anticipa il pulsante e corale southern soul di The Giving Tree, con Live Or Die, Meat Loaf picchia giù duro con un hard southern rock moderno con il violino di Caitlin Evanson che si ritaglia i propri spazi, ripetendosi con l'urgenza inconsueta e destabilizzante del pesante rock'n'roll punk di Party Of One, che nella sua impetuosità nasconde un testo amaro di vita vissuta.
La band che suona nel disco (in Australia, uscito ad Ottobre 2011) e che lo accompagna in tour , si chiama The Neverland Express è guidata dal chitarrista e produttore Paul Crook e si fa ben apprezzare per compattezza, promettendo spettacolo sui palchi live.
Inevitabile l'amarcord quando compare la brava Patti Russo. I due duettano insieme in una bella versione di California Dreamin' dei Mamas and Papas, impreziosita dall'assolo di sax di David Luther e in Our love & Our Souls. Quasi a ricordare i duetti con Ellen Foley del primissimo disco o la fortunata Dead Ringer For Love insieme a Cher. Questo è il Meat Loaf perfetto, quasi sublime nell'interpretazione della ballad pianistica Forty Days, dove la drammaticità della sua voce esce prepotente nel crescendo della canzone e nelle finali Blue Sky e la radiofonica/pop Fall From Grace.
Quando Meat Loaf vuole strafare sembra combinare dei piccoli disastri, pur nel lodevole intento. Blue Sky/Mad Mad World/The Good God is a Woman and She Don't Like Ugly è una piccola suite in tre atti con una parte centrale hard e possente e il finale affidato al rap, fuori tempo massimo, di Chuck D (Public Enemy), stessa sorte per Stand in the Storm, un southern rock alla Lynyrd Skynyrd che i tre ospiti presenti, mettendoci del loro, finiscono per rovinare: il cantante country Trace Adkins, il rapper Lil Joh e Mark McGrath, cantante dei Sugar Ray. Un frullato con troppi ingredienti.
In fondo, il buon Meat Loaf potrà continuare a far dischi da qui all'eternità (inferno?), ma quando ripenso a lui, rivedo sempre il paffuto ragazzone sudato con il fazzoletto in bocca del 1977 e il mio primo compcat disc acquistato nel passare dai vinili al laser: erano i primi anni novanta ma il cd era sempre quel Bat Out of Hell del 1977.
Se la carriera di Meat Loaf fosse terminata dopo l'uscita di Bat Out Of Hell , nessuno avrebbe recriminato nulla. In fondo, sia lui che noi siamo rimasti schiavi a vita di quel disco. I tentativi(alcuni ben riusciti, altri decisamente no) di riportare quel dannato pipistrello fuori dai cancelli dell'inferno non si contano più.
Carriera vissuta all'ombra del capolavoro (e dell'alter ego Jim Steinman) con due sequel fortemente voluti: il primo all'altezza , il secondo evitabile, qualche hit centrata (I'd do Anything for Love ) e un maldestro tentativo di tornare alla rock opera con l'ultimo Hang Cool Teddy Bear(2010) . Nulla che potesse avvicinarsi a quel disco e questo, ve lo anticipo subito, si accoda agli altri.
Mai così prolifico come in questi anni (già si parla di un prossimo disco natalizio), dopo un annunciato ritiro (subito smentito) e altri problemi di salute, il nuovo inferno di Meat Loaf è popolato da tanti teschi. Quelli della sua mente di fronte al mondo. Si è liberato di tutti i pesanti pesi che lo affondavano nella spasmodica creazione di un altro musical ingombrante e si è gettato sulla composizione di canzoni personali ("la registrazione più personale che io abbia mai fatto. E’ il primo disco scritto su cosa penso della vita che vivo e delle cose che stanno accadendo in questi giorni”) , dirette, fortemente influenzate dal soul e dal southern rock, donando al disco una propria impronta (pur con l'ausilio di tanti autori), e con qualche caduta di tono, evitabile.
Se All Of Me è una degna apertura che anticipa il pulsante e corale southern soul di The Giving Tree, con Live Or Die, Meat Loaf picchia giù duro con un hard southern rock moderno con il violino di Caitlin Evanson che si ritaglia i propri spazi, ripetendosi con l'urgenza inconsueta e destabilizzante del pesante rock'n'roll punk di Party Of One, che nella sua impetuosità nasconde un testo amaro di vita vissuta.
La band che suona nel disco (in Australia, uscito ad Ottobre 2011) e che lo accompagna in tour , si chiama The Neverland Express è guidata dal chitarrista e produttore Paul Crook e si fa ben apprezzare per compattezza, promettendo spettacolo sui palchi live.
Inevitabile l'amarcord quando compare la brava Patti Russo. I due duettano insieme in una bella versione di California Dreamin' dei Mamas and Papas, impreziosita dall'assolo di sax di David Luther e in Our love & Our Souls. Quasi a ricordare i duetti con Ellen Foley del primissimo disco o la fortunata Dead Ringer For Love insieme a Cher. Questo è il Meat Loaf perfetto, quasi sublime nell'interpretazione della ballad pianistica Forty Days, dove la drammaticità della sua voce esce prepotente nel crescendo della canzone e nelle finali Blue Sky e la radiofonica/pop Fall From Grace.
Quando Meat Loaf vuole strafare sembra combinare dei piccoli disastri, pur nel lodevole intento. Blue Sky/Mad Mad World/The Good God is a Woman and She Don't Like Ugly è una piccola suite in tre atti con una parte centrale hard e possente e il finale affidato al rap, fuori tempo massimo, di Chuck D (Public Enemy), stessa sorte per Stand in the Storm, un southern rock alla Lynyrd Skynyrd che i tre ospiti presenti, mettendoci del loro, finiscono per rovinare: il cantante country Trace Adkins, il rapper Lil Joh e Mark McGrath, cantante dei Sugar Ray. Un frullato con troppi ingredienti.
In fondo, il buon Meat Loaf potrà continuare a far dischi da qui all'eternità (inferno?), ma quando ripenso a lui, rivedo sempre il paffuto ragazzone sudato con il fazzoletto in bocca del 1977 e il mio primo compcat disc acquistato nel passare dai vinili al laser: erano i primi anni novanta ma il cd era sempre quel Bat Out of Hell del 1977.
lunedì 2 aprile 2012
RECENSIONE: RAY WYLIE HUBBARD ( The Grifter's Hymnal )
RAY WYLIE HUBBARD The Grifter's Hymnal (Bordello records, 2012)
Ray Wylie Hubbard è un poeta ubriaco-ma assolutamente lucido- che insegue ancora i propri sogni (citando la sua Drunken Poet's Dream del precedente disco, cantata e scritta anche dal suo più credibile erede Hayes Carll ). Hubbard ha mantenuto quell'aura da puro e reale che il tempo non è riuscito a cancellare ma ad amplificare ancora di più. Dopo il suo ritorno negli anni novanta, non ha più smesso di comporre musica e Grifter's Hymnal, seppur sia solo il quindicesimo disco in quarant'anni di carriera, è fresco e tagliente come sempre, proseguendo e rinforzando il già buono e precedente A.Enlighttenment.B.Endaerkenment (Hint:There is no C)(2010).
Le sue canzoni puzzano ancora di alcool e sabbia di deserto texano, evocano serpenti striscianti e tentatori intorno alle punte di stivali pitonati e bottigliette di medicinali abbandonate davanti a vecchie chiese battiste; corrono su quelle autostrade che portano diritte all'inferno dove il blues incrocia il country da fuorilegge e la sua voce roca e consumata legge il sermone in modo credibile e affabulatore proprio come i truffatori di cui ci racconta: gente che si guadagna da vivere sfruttando le nostre debolezze. Lì in mezzo, tra il bene e il male, c'è Hubbard che ci indica quale strada prendere e non sempre è quella che ti aspetti.
Nessun pelo sulla lingua in New Year's Eve At the Gates of Hell un talkin' blues con tante citazioni eccellenti(anche Neil Young con i suoi Crazy Horse), nella biografica e cinematografica Mother Blues, tra bordelli di quart'ordine e spogliarelliste, dove con fare da consumato Johnny Cash ci racconta anche della sua famiglia. Famiglia ben presente nella sua vita artistica: la moglie Judy fa da manager ed il giovane figlio Lucas con la sua chitarra si ritaglia sempre più spazio nella musica di papà.
Hubbard marchia le canzoni con i suoi ululati in honky tonky trascinanti e chitarristici come South of The river con il piano suonato da Ian McLagan, rievocando gli stones più maledetti, blues scollacciati (Train Yard), si schiarisce la voce e da vecchio saggio ci parla del suo modo di prendere la vita nella spassosa Coochy Coochy in compagnia di Ringo Starr (autore della canzone , b-side nel suo vecchio Beaucoups Of Blues-1970) ai controcori e percussioni (sostiuendo per una canzone il batterista titolare Rick Richards), replicata da
Henhouse, spavalda danza honky tonky con il diavolo sottobraccio e dal tambureggiante inizio di disco affidato alla breve Coricidin Bottle.
Efficace, pungente ed ironico in Lazarus, tra slide ubriache e clap-hands, profondo e cinico in Red Badge Of Courage. Visioni e punti di vista puri e personali della sua America e dei suoi abitanti, gli stessi in cerca di redenzione che Hubbard,vestito da sceriffo/predicatore operante in ghost town da antico west, ricerca in Moss and Flowers e Count My Blessings, conscio che tanto alla fine bisogna rendere conto di tutto a Dio (Ask God).
vedi anche: DAVE ARCARI-Nobody's Fool
vedi anche: SHOOTER JENNINGS-Family Man
vedi anche: LUCERO-Women & Work
Ray Wylie Hubbard è un poeta ubriaco-ma assolutamente lucido- che insegue ancora i propri sogni (citando la sua Drunken Poet's Dream del precedente disco, cantata e scritta anche dal suo più credibile erede Hayes Carll ). Hubbard ha mantenuto quell'aura da puro e reale che il tempo non è riuscito a cancellare ma ad amplificare ancora di più. Dopo il suo ritorno negli anni novanta, non ha più smesso di comporre musica e Grifter's Hymnal, seppur sia solo il quindicesimo disco in quarant'anni di carriera, è fresco e tagliente come sempre, proseguendo e rinforzando il già buono e precedente A.Enlighttenment.B.Endaerkenment (Hint:There is no C)(2010).
Le sue canzoni puzzano ancora di alcool e sabbia di deserto texano, evocano serpenti striscianti e tentatori intorno alle punte di stivali pitonati e bottigliette di medicinali abbandonate davanti a vecchie chiese battiste; corrono su quelle autostrade che portano diritte all'inferno dove il blues incrocia il country da fuorilegge e la sua voce roca e consumata legge il sermone in modo credibile e affabulatore proprio come i truffatori di cui ci racconta: gente che si guadagna da vivere sfruttando le nostre debolezze. Lì in mezzo, tra il bene e il male, c'è Hubbard che ci indica quale strada prendere e non sempre è quella che ti aspetti.
Nessun pelo sulla lingua in New Year's Eve At the Gates of Hell un talkin' blues con tante citazioni eccellenti(anche Neil Young con i suoi Crazy Horse), nella biografica e cinematografica Mother Blues, tra bordelli di quart'ordine e spogliarelliste, dove con fare da consumato Johnny Cash ci racconta anche della sua famiglia. Famiglia ben presente nella sua vita artistica: la moglie Judy fa da manager ed il giovane figlio Lucas con la sua chitarra si ritaglia sempre più spazio nella musica di papà.
Hubbard marchia le canzoni con i suoi ululati in honky tonky trascinanti e chitarristici come South of The river con il piano suonato da Ian McLagan, rievocando gli stones più maledetti, blues scollacciati (Train Yard), si schiarisce la voce e da vecchio saggio ci parla del suo modo di prendere la vita nella spassosa Coochy Coochy in compagnia di Ringo Starr (autore della canzone , b-side nel suo vecchio Beaucoups Of Blues-1970) ai controcori e percussioni (sostiuendo per una canzone il batterista titolare Rick Richards), replicata da
Henhouse, spavalda danza honky tonky con il diavolo sottobraccio e dal tambureggiante inizio di disco affidato alla breve Coricidin Bottle.
Efficace, pungente ed ironico in Lazarus, tra slide ubriache e clap-hands, profondo e cinico in Red Badge Of Courage. Visioni e punti di vista puri e personali della sua America e dei suoi abitanti, gli stessi in cerca di redenzione che Hubbard,vestito da sceriffo/predicatore operante in ghost town da antico west, ricerca in Moss and Flowers e Count My Blessings, conscio che tanto alla fine bisogna rendere conto di tutto a Dio (Ask God).
vedi anche: DAVE ARCARI-Nobody's Fool
vedi anche: SHOOTER JENNINGS-Family Man
vedi anche: LUCERO-Women & Work
venerdì 30 marzo 2012
RECENSIONE: DAVE ARCARI (Nobody's Fool)
DAVE ARCARI Nobody's Fool ( DIXIEFROG Records-licensed from BUZZ, 2012)
A garantire per lui ci pensa Seasick Steve: "Dave suona come se avesse la pelle sottosopra e quando lo ascolto anche la mia pelle fa lo stesso. Quel ragazzo sanguina per voi. E' un musicista profondo ed un vero soul man".
Dave Arcari ringrazia, facendosi crescere una lunga barba somigliante a quella del buon vecchio Steve e attirandosi le classiche simpatie da "primo sguardo".
Nobody's Fool è il quarto album solista (Come With Me-2007, Got Me Electric-2009, Devil’s Left Hand-2010) del bluesman scozzese, già nei Radiotones e si appresta a diventare l'album del riconoscimento internazionale anche per via di alcune importanti collaborazioni e per il metodo con cui è stato compilato, quasi fosse un greatest hits della sua carriera.
Registrato tra Glasgow in Scozia e Helsinki in Finlandia ma assolutamente radicato negli States, tanto il blues del chitarrista è semplice, viscerale, reale e legato alla tradizione del Delta, anche se il folk della sua terra natia è spesso presente e fa qualche incursione come nella triste McPherson's Lament, folk traditional scozzese , ripreso e riarrangiato per sola voce, chitarra e violino (suonato dallo scozzese Jamie Wilson), oppure nell'altro traditional folk Loch Lomond.
Nobody's Fool si compone di cinque canzoni nuove e otto riprese dai suoi precedenti dischi, tra autografe e covers, e riregistrate per l'occasione anche in presenza di una full-band tutta scandinava e sotto la produzione del connazionale Paul Savage, batterista dei The Delgados, che partecipa anche, suonando il proprio strumento nella finale, percussiva, aggressiva e straniante Dragonfly, con Arcari impegnato con la singolare Diddley Bow.
Un personaggio istintivo e passionale,impossibile rimanere impassibili davanti al suo capellaccio calato sugli occhi, alla slide impazzita, alla voce cavernosa e graffiante e alla sua carica fieramente indipendente che trova nei live show pieno sfogo. Provate ad ascoltare il classico di Robert Johnson, Walkin' Blues suonato full-band con Jauso Haapasalo al basso e Honey Aaltonen alla batteria, è trascinante quanto e come lo è Hot Muscle Jazz prepotente blues per sola voce luciferina e chitarra, come un Tom waits "ghignante" affogato nel mare della slide dobro.
Per Dave Arcari fa poca differenza, passare dal suo blues cattivo, incisivo ed in crescendo di Troubled Mind, suonato con la band e l'armonica di Jim Harcus, ad un traditional folk come Baby, Let Me Follow, suonata in solitaria come fosse il primo Dylan al Greenwich Village; o passare da un altro traditional come See That My Grave per sola voce e banjo a Nobody's Fool e Blue Train intrise nel Rockabilly/Country come l'iniziale Devil's Left Hand è intrisa nel blues con il cartello "anima venduta al diavolo" inchiodato con chiodi arruginiti e maledetti.
Arcari rientra in quella ristretta schiera di personaggi anticonvenzionali e dinamici a cui basta una grande personalità, una chitarra ed una voce graffiante per conquistare. Proprio come Seasick Steve: pochi orpelli e la filosofia della semplicità. Lasciatelo sanguinare.
INTERVISTA A DAVE ARCARI
vedi anche RECENSIONE: DAVE ARCARI and the HELLSINKI HELLRAISERS-Whisky In My Blood (2013)
vedi anche:SEASICK STEVE-You can't teach an old dog new tricks
A garantire per lui ci pensa Seasick Steve: "Dave suona come se avesse la pelle sottosopra e quando lo ascolto anche la mia pelle fa lo stesso. Quel ragazzo sanguina per voi. E' un musicista profondo ed un vero soul man".
Dave Arcari ringrazia, facendosi crescere una lunga barba somigliante a quella del buon vecchio Steve e attirandosi le classiche simpatie da "primo sguardo".
Nobody's Fool è il quarto album solista (Come With Me-2007, Got Me Electric-2009, Devil’s Left Hand-2010) del bluesman scozzese, già nei Radiotones e si appresta a diventare l'album del riconoscimento internazionale anche per via di alcune importanti collaborazioni e per il metodo con cui è stato compilato, quasi fosse un greatest hits della sua carriera.
Registrato tra Glasgow in Scozia e Helsinki in Finlandia ma assolutamente radicato negli States, tanto il blues del chitarrista è semplice, viscerale, reale e legato alla tradizione del Delta, anche se il folk della sua terra natia è spesso presente e fa qualche incursione come nella triste McPherson's Lament, folk traditional scozzese , ripreso e riarrangiato per sola voce, chitarra e violino (suonato dallo scozzese Jamie Wilson), oppure nell'altro traditional folk Loch Lomond.
Nobody's Fool si compone di cinque canzoni nuove e otto riprese dai suoi precedenti dischi, tra autografe e covers, e riregistrate per l'occasione anche in presenza di una full-band tutta scandinava e sotto la produzione del connazionale Paul Savage, batterista dei The Delgados, che partecipa anche, suonando il proprio strumento nella finale, percussiva, aggressiva e straniante Dragonfly, con Arcari impegnato con la singolare Diddley Bow.
Un personaggio istintivo e passionale,impossibile rimanere impassibili davanti al suo capellaccio calato sugli occhi, alla slide impazzita, alla voce cavernosa e graffiante e alla sua carica fieramente indipendente che trova nei live show pieno sfogo. Provate ad ascoltare il classico di Robert Johnson, Walkin' Blues suonato full-band con Jauso Haapasalo al basso e Honey Aaltonen alla batteria, è trascinante quanto e come lo è Hot Muscle Jazz prepotente blues per sola voce luciferina e chitarra, come un Tom waits "ghignante" affogato nel mare della slide dobro.
Per Dave Arcari fa poca differenza, passare dal suo blues cattivo, incisivo ed in crescendo di Troubled Mind, suonato con la band e l'armonica di Jim Harcus, ad un traditional folk come Baby, Let Me Follow, suonata in solitaria come fosse il primo Dylan al Greenwich Village; o passare da un altro traditional come See That My Grave per sola voce e banjo a Nobody's Fool e Blue Train intrise nel Rockabilly/Country come l'iniziale Devil's Left Hand è intrisa nel blues con il cartello "anima venduta al diavolo" inchiodato con chiodi arruginiti e maledetti.
Arcari rientra in quella ristretta schiera di personaggi anticonvenzionali e dinamici a cui basta una grande personalità, una chitarra ed una voce graffiante per conquistare. Proprio come Seasick Steve: pochi orpelli e la filosofia della semplicità. Lasciatelo sanguinare.
INTERVISTA A DAVE ARCARI
vedi anche RECENSIONE: DAVE ARCARI and the HELLSINKI HELLRAISERS-Whisky In My Blood (2013)
vedi anche:SEASICK STEVE-You can't teach an old dog new tricks
mercoledì 28 marzo 2012
RECENSIONE: PAUL WELLER (Sonik Kicks)
PAUL WELLER Sonik Kicks ( Island, 2012)
La classe (non) è acqua. Difficile contenere ondate alte, cariche e tempestose. Acqua che si propaga impetuosa, quasi avesse la voglia di esplorare ogni anfratto asciutto sulla sua strada. Paul Weller è uno tsunami di "classe", di idee e di quella voglia di non fermarsi mai davanti a nulla e nessun ostacolo.
Dopo 22 Dreams(2008) e Wake Up The Nation(2010), continua a dar libero sfogo alla sua creatività senza imbrigliarla dentro schemi, suoni o generi. Sonik Kicks continua l'opera dei due precedenti dischi e ancora una volta sorprende, alzando ancora di più il tiro della sperimentazione. Uno come lui, insignito dell'onore/onere di padre di tante famiglie (Mod Revival e Brit Pop), potrebbe starsene tranquillo con il suo più che abbondante repertorio di successi, ed osservare i propri figli crescere e litigare (in questo disco ci sono proprio tutti: da quelli di sangue-ho perso il conto dei suoi figli- a quelli putativi in ambito "artistico") ma Paul Weller è acqua, incontenibile e pure fresca. Fresco come suonava il suo post-punk elegante con The Jam, prima di porre loro fine all'apice del successo, fresco come il soul/jazz pop di classe dei primissimi Style Council prima che cadessero vittima di loro stessi e come lo è ora a 53 anni, con la zazzera bianca e impeccabile doppiopetto di ordinaza.
Sempre deciso nelle sue sorprendenti scelte artistiche, Weller sembra divertirsi ancora una volta.
Riprende il discorso da Whatever Next e Up The Dosage del precedente disco: l'apertura Green è un rumoroso battito psichedelico che si nutre di Kraut Rock, loop e synth. Un caos ordinato quasi stordente se vi immaginate dentro ad una discoteca di Berlino in pieni anni settanta con le luci simili a quelle che lo ritraggono in copertina che vi scaldano ed accecano, in coppia con il volume altissimo che vi rende sordi. Il tutto è ripreso anche nelle chitarre mimetizzate che compaiono qua e là in Around the Lake e Kling I Klang, marcia impetuosa tra Clash, il Bowie berlinese e uno spettacolo circense a cui la strumentale Sleep of the Serene, tra archi e rumori, fa da chiusura e da introduzione per By the Waters, dove ancora gli archi di Sean O'Hagan diventano protagonisti di una dolce ballata pop che cattura e conquista.
Anche Sonik Kicks è un concentrato di canzoni che non seguono una logica, disomogeneo a ben ascoltare, nel passare da un umore ad un altro. A tratti difficile da seguire come lo erano stati i due precedenti, ma con almeno un poker di canzoni di alto livello e con una vena sperimentale che riesce ad unire il tutto, facendomelo preferire ai due ultimi dischi. Capita così di passare da il Dub jazzato ed ipnotico della particolare,lunga ed inusuale Study in Blue cantata con la giovane moglie Hannah Andrews, ai venti secondi di noise di Twilight che introducono Drifters un meltin pot musicale ipnotico e circolare che include, tra le tante cose, anche una chitarra flamencata; la psichedelia di When your Garden's Overgrown e Paperchase con le sue melodie mediorientali e la disamina sui lati più oscuri che si celano nel successo, fino ai bilanci sull'età che avanza in That Dangerous Age con quel mood che ricorda vagamente i Doors di Hello,I Love You.
Si parlava di figli, eccoli: quelli di sangue nei cameo della finale e soul Be Happy Children, con piccole parti per la figlia Leah ed il piccolissimio Mac; e poi i figli "musicali" nel brit pop di The attic con Noel Gallagher(Oasis) all'inusuale basso e in Dragonfly con Graham Coxon(Blur) al piano hammond a rinverdire il passaggio di consegne che avvenne con l'album "capolavoro"Stanley Road nel 1995 .
Paul Weller conferma l'unicità della sua scrittura. Chi potrebbe passare dalle acque tempestose dall'elettronica postmoderna e della psichedelia, alle acque calme e confidenziali del soul fino ad inserire le voci di moglie e figli in contesti easy listening"zuccherosi", risultando credibile e mai pacchiano? L'impressione è quella di un disco in cui Weller mette alla prova (ancora una volta) la sua scrittura. Il suo lato di esplorazione sembra non conoscere confini, cadendo in alcuni casi in una certa aureferenzialità che potrebbe risultare indigesta e poco appetibile ad un ascolto sommariamente distratto, per poi conquistare nel volgere degli ascolti.
Uno dei dischi più appariscenti della sua ultratrentennale carriera. Una volta si diceva: Only for fans. Se non lo siete ancora, diventatelo ora, Sonik Kicks diventerà anche vostro.
Appuntamento live a Vigevano il 12 Luglio 2012.
vedi anche RECENSIONE: DEPECHE MODE-Delta Machine (2013)
La classe (non) è acqua. Difficile contenere ondate alte, cariche e tempestose. Acqua che si propaga impetuosa, quasi avesse la voglia di esplorare ogni anfratto asciutto sulla sua strada. Paul Weller è uno tsunami di "classe", di idee e di quella voglia di non fermarsi mai davanti a nulla e nessun ostacolo.
Dopo 22 Dreams(2008) e Wake Up The Nation(2010), continua a dar libero sfogo alla sua creatività senza imbrigliarla dentro schemi, suoni o generi. Sonik Kicks continua l'opera dei due precedenti dischi e ancora una volta sorprende, alzando ancora di più il tiro della sperimentazione. Uno come lui, insignito dell'onore/onere di padre di tante famiglie (Mod Revival e Brit Pop), potrebbe starsene tranquillo con il suo più che abbondante repertorio di successi, ed osservare i propri figli crescere e litigare (in questo disco ci sono proprio tutti: da quelli di sangue-ho perso il conto dei suoi figli- a quelli putativi in ambito "artistico") ma Paul Weller è acqua, incontenibile e pure fresca. Fresco come suonava il suo post-punk elegante con The Jam, prima di porre loro fine all'apice del successo, fresco come il soul/jazz pop di classe dei primissimi Style Council prima che cadessero vittima di loro stessi e come lo è ora a 53 anni, con la zazzera bianca e impeccabile doppiopetto di ordinaza.
Sempre deciso nelle sue sorprendenti scelte artistiche, Weller sembra divertirsi ancora una volta.
Riprende il discorso da Whatever Next e Up The Dosage del precedente disco: l'apertura Green è un rumoroso battito psichedelico che si nutre di Kraut Rock, loop e synth. Un caos ordinato quasi stordente se vi immaginate dentro ad una discoteca di Berlino in pieni anni settanta con le luci simili a quelle che lo ritraggono in copertina che vi scaldano ed accecano, in coppia con il volume altissimo che vi rende sordi. Il tutto è ripreso anche nelle chitarre mimetizzate che compaiono qua e là in Around the Lake e Kling I Klang, marcia impetuosa tra Clash, il Bowie berlinese e uno spettacolo circense a cui la strumentale Sleep of the Serene, tra archi e rumori, fa da chiusura e da introduzione per By the Waters, dove ancora gli archi di Sean O'Hagan diventano protagonisti di una dolce ballata pop che cattura e conquista.
Anche Sonik Kicks è un concentrato di canzoni che non seguono una logica, disomogeneo a ben ascoltare, nel passare da un umore ad un altro. A tratti difficile da seguire come lo erano stati i due precedenti, ma con almeno un poker di canzoni di alto livello e con una vena sperimentale che riesce ad unire il tutto, facendomelo preferire ai due ultimi dischi. Capita così di passare da il Dub jazzato ed ipnotico della particolare,lunga ed inusuale Study in Blue cantata con la giovane moglie Hannah Andrews, ai venti secondi di noise di Twilight che introducono Drifters un meltin pot musicale ipnotico e circolare che include, tra le tante cose, anche una chitarra flamencata; la psichedelia di When your Garden's Overgrown e Paperchase con le sue melodie mediorientali e la disamina sui lati più oscuri che si celano nel successo, fino ai bilanci sull'età che avanza in That Dangerous Age con quel mood che ricorda vagamente i Doors di Hello,I Love You.
Si parlava di figli, eccoli: quelli di sangue nei cameo della finale e soul Be Happy Children, con piccole parti per la figlia Leah ed il piccolissimio Mac; e poi i figli "musicali" nel brit pop di The attic con Noel Gallagher(Oasis) all'inusuale basso e in Dragonfly con Graham Coxon(Blur) al piano hammond a rinverdire il passaggio di consegne che avvenne con l'album "capolavoro"Stanley Road nel 1995 .
Paul Weller conferma l'unicità della sua scrittura. Chi potrebbe passare dalle acque tempestose dall'elettronica postmoderna e della psichedelia, alle acque calme e confidenziali del soul fino ad inserire le voci di moglie e figli in contesti easy listening"zuccherosi", risultando credibile e mai pacchiano? L'impressione è quella di un disco in cui Weller mette alla prova (ancora una volta) la sua scrittura. Il suo lato di esplorazione sembra non conoscere confini, cadendo in alcuni casi in una certa aureferenzialità che potrebbe risultare indigesta e poco appetibile ad un ascolto sommariamente distratto, per poi conquistare nel volgere degli ascolti.
Uno dei dischi più appariscenti della sua ultratrentennale carriera. Una volta si diceva: Only for fans. Se non lo siete ancora, diventatelo ora, Sonik Kicks diventerà anche vostro.
Appuntamento live a Vigevano il 12 Luglio 2012.
vedi anche RECENSIONE: DEPECHE MODE-Delta Machine (2013)
lunedì 26 marzo 2012
RECENSIONE: MIAMI & THE GROOVERS ( Good Things )
MIAMI & THE GROOVERS Good Things ( Autoprod., 2012)
Che differenza passa tra i pensieri di un turista italiano seduto al tavolo dell'Amy Omlette House sulla Ocean Blv nel New Jersey in pieno inverno davanti alle onde dell'oceano atlantico ed una ruota panoramica ferma e stanca che riposa sullo sfondo, ed un turista americano seduto nel bar deserto di una Rimini invernale davanti ad un cappuccino italiano fumante ed un'insegna "bagnino" incollata dietro ad uno sdraio a riposo forzato fino al mese di Giugno? Ascoltando il terzo lavoro dei riminesi Miami & The Groovers (dopo Dirty Roads-2005 e Merry go round-2008), guidati da Lorenzo Semprini (voce e chitarra), quei pensieri diventano globali e metaforicamente tolgono un po' di chilometri alla distanza che separa i due luoghi fisici. Di differenze non ce ne sono proprio. La dura pioggia scende giù per tutti, americani e romagnoli.
Undici canzoni (più due brevi intro) che raccontano i sogni di chi non ha smesso di guardare lontano. Oltre mare ed oceani c'è ancora la luce della speranza, nonostante i tempi bui sembrano raccontarci ed imporre il contrario.
Good Things parla di quelle cose buone che ci fanno ancora battere il cuore: sia che escano da rock'n'roll trascinanti come Burning Ground, con i suoi riff garage, proto-punk delle chitarre di Beppe Ardito ed un testo dove il viaggio diventa fuga e droga salvifica, On A Night Train (che musicalmente ricorda tanto i '70 di Lou Reed quanto l'America pruriginosa che piaceva alla prima Gianna Nannini), The Last R'n'R Band, inno alla vita on the road dei musicisti, in bilico tra il vecchio Bob Seger "da arena rock" ed il nuovo rock del New Jersey dei Gaslight Anthem, o l'iniziale singolo Good Things, personale e punto su cui partire per scrivere il futuro.
Oppure ci sono i cuori che battono ancora per un amore nella ballad Before your Eyes, nell'amore per la propria terra e i suoi abitanti in Audrey Hepburn's Smile e nella romantica lettera di Postcards, suggestiva ballad pianistica introdotta da Israel Nash Gripka che recita i versi di "You can't go back home.
La bella Walkin' All Alone, con l'ospite Riccardo Maffoni alla voce, come se i migliori REM fossero ancora tra di noi e aggiungessero un violino (suonato da Heather Horton), il trascinante beat-blues alla Bo Diddley di Under Control che diventa la loro personale She's the One, le immagini western e da viaggio su highways di Cold in my Bones. Nella finale We're Still Alive c'è anche il tempo di urlare e lasciare un segno di vita, sulle allegre note di un irish -combat folk in stile Flogging Molly.
I Miami & The Groovers rilasciano un disco vario e fresco che su una strada tributa ed omaggia i propri miti musicali (tutti quelli citati e molti altri), ma su un'altra immediatamente parallela sa creare un proprio percorso personale, schietto e sincero, da seguire come esempio per tutte quelle bands che non vogliono continuare a passare la loro vita a coverizzare i grandi dentro i pubs di provincia ma sognano di calcare quei palchi oltreoceano che i Miami & the Grovvers sono già riusciti a calpestare, suonando fianco a fianco ai loro (nostri) idoli. Non solo premio di tanti sacrifici ma vero punto di partenza per il domani.
Ecco che quelle due strade parallele diventano una strada sola, il mare adriatico e l'oceano atlantico diventano un'unica distesa d'acqua. La musica unisce tutto. Mica poco.
vedi anche: CESARE CARUGI-Here's to the Road
vedi anche: CIRCO FANTASMA-Playing with the Ghosts
vedi anche: VOLCANO HEAT-Vive le Rock!
Che differenza passa tra i pensieri di un turista italiano seduto al tavolo dell'Amy Omlette House sulla Ocean Blv nel New Jersey in pieno inverno davanti alle onde dell'oceano atlantico ed una ruota panoramica ferma e stanca che riposa sullo sfondo, ed un turista americano seduto nel bar deserto di una Rimini invernale davanti ad un cappuccino italiano fumante ed un'insegna "bagnino" incollata dietro ad uno sdraio a riposo forzato fino al mese di Giugno? Ascoltando il terzo lavoro dei riminesi Miami & The Groovers (dopo Dirty Roads-2005 e Merry go round-2008), guidati da Lorenzo Semprini (voce e chitarra), quei pensieri diventano globali e metaforicamente tolgono un po' di chilometri alla distanza che separa i due luoghi fisici. Di differenze non ce ne sono proprio. La dura pioggia scende giù per tutti, americani e romagnoli.
Undici canzoni (più due brevi intro) che raccontano i sogni di chi non ha smesso di guardare lontano. Oltre mare ed oceani c'è ancora la luce della speranza, nonostante i tempi bui sembrano raccontarci ed imporre il contrario.
Good Things parla di quelle cose buone che ci fanno ancora battere il cuore: sia che escano da rock'n'roll trascinanti come Burning Ground, con i suoi riff garage, proto-punk delle chitarre di Beppe Ardito ed un testo dove il viaggio diventa fuga e droga salvifica, On A Night Train (che musicalmente ricorda tanto i '70 di Lou Reed quanto l'America pruriginosa che piaceva alla prima Gianna Nannini), The Last R'n'R Band, inno alla vita on the road dei musicisti, in bilico tra il vecchio Bob Seger "da arena rock" ed il nuovo rock del New Jersey dei Gaslight Anthem, o l'iniziale singolo Good Things, personale e punto su cui partire per scrivere il futuro.
Oppure ci sono i cuori che battono ancora per un amore nella ballad Before your Eyes, nell'amore per la propria terra e i suoi abitanti in Audrey Hepburn's Smile e nella romantica lettera di Postcards, suggestiva ballad pianistica introdotta da Israel Nash Gripka che recita i versi di "You can't go back home.
La bella Walkin' All Alone, con l'ospite Riccardo Maffoni alla voce, come se i migliori REM fossero ancora tra di noi e aggiungessero un violino (suonato da Heather Horton), il trascinante beat-blues alla Bo Diddley di Under Control che diventa la loro personale She's the One, le immagini western e da viaggio su highways di Cold in my Bones. Nella finale We're Still Alive c'è anche il tempo di urlare e lasciare un segno di vita, sulle allegre note di un irish -combat folk in stile Flogging Molly.
I Miami & The Groovers rilasciano un disco vario e fresco che su una strada tributa ed omaggia i propri miti musicali (tutti quelli citati e molti altri), ma su un'altra immediatamente parallela sa creare un proprio percorso personale, schietto e sincero, da seguire come esempio per tutte quelle bands che non vogliono continuare a passare la loro vita a coverizzare i grandi dentro i pubs di provincia ma sognano di calcare quei palchi oltreoceano che i Miami & the Grovvers sono già riusciti a calpestare, suonando fianco a fianco ai loro (nostri) idoli. Non solo premio di tanti sacrifici ma vero punto di partenza per il domani.
Ecco che quelle due strade parallele diventano una strada sola, il mare adriatico e l'oceano atlantico diventano un'unica distesa d'acqua. La musica unisce tutto. Mica poco.
vedi anche: CESARE CARUGI-Here's to the Road
vedi anche: CIRCO FANTASMA-Playing with the Ghosts
vedi anche: VOLCANO HEAT-Vive le Rock!
venerdì 23 marzo 2012
RECENSIONE: VOLCANO HEAT ( Vive le Rock! )
VOLCANO HEAT Vive le Rock! ( Go Down Records, 2011)
In mezzo a tanti gufi e mammasantissima a cui piace celebrare la morte del rock con funerali inventati e creati ad hoc per far nascere discussioni, utili come la neve in città con l'arrivo della primavera, finalmente qualcuno che fieramente si lascia scappare un grido universale: Vive le Rock!, senza la paura di apparire vetusto o retorico.
La copertina filosovietica, le scritte in stile locandina e lo stesso titolo lasciano poco trasparire sulla provenienza geografica di quel grido.
The Volcano Heat sono italiani e con il loro primo lavoro, dopo due ep di rodaggio (And the Light Goes Out-2008, Surrender/Live at the Blocco A-2009), hanno tutto il diritto di gridare forte e chiaro il genere che suonano. Sì, perchè trovare etichette è veramente difficile. Tante sono le fonti a cui i veneziani si ispirano per comporre le undici tracce di Vive le Rock!. Un disco che riesce a scorrere piacevole e veloce senza cedimenti nei suoi soli 35 minuti di durata, omaggiando in maniera viscerale il rock più sanguigno e diretto.
Pur uscendo per La GoDown Recods, etichetta a "tutto Stoner rock", in Vive le Rock! convivono in pefretta sintonia: il dark/street rock di Shake your head che potrebbe ricordare i vecchi The Cult o i migliori D.A.D., mentre Restless omaggia uno dei gruppi preferiti dal trio veneto, i mai troppo lodati Warrior Soul di Kory Clarke; il punk contaminato di rock'n'roll dei Clash in Today, che riesuma anche le vecchie strade battute dai marchigiani Gang negli anni ottanta, ma anche la ricca e florida scena rock'n'roll scandinava degli anni novanta; l'urgenza rock'n'roll/stoner di These Days un crocevia perfetto tra Danko Jones e i Queens of the Stone Age.
White Rays White Heat che omaggia nel titolo i Velvet Underground e la cover "appesantita" di Come Togheter (Beatles) possiedono il dono di far battere il piede e agitare la testa, rimandando alla più florida ed ispirata stagione del rock.
Ci sono le chitarre garage di Luca Picchetti che non disdegnano di ripercorrere le strade del vecchio hard/blues degli anni settanta, quanto il proto-punk della scena di Detroit (Sky e Secrets), con l'apporto di Gene al basso e
Andrea Vianello alla batteria, sulla scia dei migliori power trio dell'epoca con quella vena melodica sempre presente a far da collante.
I Remember, suona come suonerebbero i Doors senza l'hammond nell'anno 2012 e la finale e breve Everything is Right suona come suonerebbero i Doors con l'hammond nel 1968.
Canzoni che sopra ad un palco, libere da alcune pulizie di produzione, potrebbero( con il condizionale perchè non li ho mai visti live, ma sono sicuro che è così) far riesumare vecchi e antichi fantasmi. Quelli che non fanno più paura, che conosci, che magari hai già sentito mille volte, a cui sei affezionato ma che ti fanno gridare ancora: viva il rock! Perchè in fondo cosa pretendiamo ancora da quella parola di quattro lettere? Possiamo solo ineggiarne e benedirne l'esistenza.
vedi anche: The PEAWEES-Leave it Behind
In mezzo a tanti gufi e mammasantissima a cui piace celebrare la morte del rock con funerali inventati e creati ad hoc per far nascere discussioni, utili come la neve in città con l'arrivo della primavera, finalmente qualcuno che fieramente si lascia scappare un grido universale: Vive le Rock!, senza la paura di apparire vetusto o retorico.
La copertina filosovietica, le scritte in stile locandina e lo stesso titolo lasciano poco trasparire sulla provenienza geografica di quel grido.
The Volcano Heat sono italiani e con il loro primo lavoro, dopo due ep di rodaggio (And the Light Goes Out-2008, Surrender/Live at the Blocco A-2009), hanno tutto il diritto di gridare forte e chiaro il genere che suonano. Sì, perchè trovare etichette è veramente difficile. Tante sono le fonti a cui i veneziani si ispirano per comporre le undici tracce di Vive le Rock!. Un disco che riesce a scorrere piacevole e veloce senza cedimenti nei suoi soli 35 minuti di durata, omaggiando in maniera viscerale il rock più sanguigno e diretto.
Pur uscendo per La GoDown Recods, etichetta a "tutto Stoner rock", in Vive le Rock! convivono in pefretta sintonia: il dark/street rock di Shake your head che potrebbe ricordare i vecchi The Cult o i migliori D.A.D., mentre Restless omaggia uno dei gruppi preferiti dal trio veneto, i mai troppo lodati Warrior Soul di Kory Clarke; il punk contaminato di rock'n'roll dei Clash in Today, che riesuma anche le vecchie strade battute dai marchigiani Gang negli anni ottanta, ma anche la ricca e florida scena rock'n'roll scandinava degli anni novanta; l'urgenza rock'n'roll/stoner di These Days un crocevia perfetto tra Danko Jones e i Queens of the Stone Age.
White Rays White Heat che omaggia nel titolo i Velvet Underground e la cover "appesantita" di Come Togheter (Beatles) possiedono il dono di far battere il piede e agitare la testa, rimandando alla più florida ed ispirata stagione del rock.
Ci sono le chitarre garage di Luca Picchetti che non disdegnano di ripercorrere le strade del vecchio hard/blues degli anni settanta, quanto il proto-punk della scena di Detroit (Sky e Secrets), con l'apporto di Gene al basso e
Andrea Vianello alla batteria, sulla scia dei migliori power trio dell'epoca con quella vena melodica sempre presente a far da collante.
I Remember, suona come suonerebbero i Doors senza l'hammond nell'anno 2012 e la finale e breve Everything is Right suona come suonerebbero i Doors con l'hammond nel 1968.
Canzoni che sopra ad un palco, libere da alcune pulizie di produzione, potrebbero( con il condizionale perchè non li ho mai visti live, ma sono sicuro che è così) far riesumare vecchi e antichi fantasmi. Quelli che non fanno più paura, che conosci, che magari hai già sentito mille volte, a cui sei affezionato ma che ti fanno gridare ancora: viva il rock! Perchè in fondo cosa pretendiamo ancora da quella parola di quattro lettere? Possiamo solo ineggiarne e benedirne l'esistenza.
vedi anche: The PEAWEES-Leave it Behind
mercoledì 21 marzo 2012
RECENSIONE/LIVE Report: RICHIE KOTZEN+Porn Queen Live@Rock'n'Roll Arena ,Romagnano Sesia(NO) 20 Marzo 2012
Si può uscire dal concerto di uno de più grandi chitarristi viventi ed essere stati impressionati oltre che dalle sue mani sulla Fender,anche dalla sua voce? Con Richie Kotzen sì.
Lontanissimi i tempi delle grandi arene e dei fans giapponesi urlanti(nonostante mantenga un seguito da culto in Asia e SudAmerica), Richie Kotzen ha compiuto una scelta artistica e di vita degna di rispetto e di grande coraggio. Astro nascente della chitarra a soli ventitre anni, dopo già tre dischi solisti incisi, entra nei glam-streeter Poison, imponendo la sua personalità e rivestendo di blues un gran bel disco come Native Tongue (1993)(vi ricordate del singolo Stand?), facendo compiere alla band dellla Pennsylvania un notevole passo artistico e di qualità. Purtroppo per motivi di gossip e malelingue ( per informazioni,chiedere al batterista Rikky Rockett) il sodalizio dura pochissimo.
Nemmeno il tempo di prendersi i meritati elogi che Kotzen si ributta nella carriera solista, salvo essere ripescato dai "milionari" Mr.Big, orfani momentanei di Paul Gilbert che approfitteranno della sua chitarra. Con loro incide due album (Get Over It-1999 e Actual Size-2001) per poi decidere di continuare a coltivare con cura il proprio orticello; liberandosi di certi stereotipi legati ai guitar heroes per diventare un musicista/cantautore a tutto tondo, che lo ha visto poliedricamente impegnato in svariati stili musicali: dal jazz(collaborando con Stanley Clarke e Lenny White), alla fusion(in collaborazione con Greg Howe), dall'hard rock al pop fino ad abbracciare in toto il calore del blues venato di soul/funk, arricchito dalle molteplici sfumature della sua vocalità straordinaria. Proprio la voce fa la differenza tra un qualsiasi guitar-hero e Richie Kotzen (anche buon batterista e pianista).
Al Rock'n'Roll Arena di Romagnano Sesia(NO) presenta il suo nuovo album 24 Hours, uscito nell'autunno del 2011, ultimo di una sterminata discografia (senza contare le collaborazioni).
Ad aprire la serata ci pensano i lussemburghesi Porn Queen, gruppo dalla cosmopolita line up, composta da due lussemburghesi e due brasiliani, che sta seguendo Kotzen in giro per l'Europa. All'attivo hanno il solo ep Devil's way uscito nel 2011. Il loro è un hard rock potente, tanto legato ai settanta, quanto al lato più pesante del grunge. Addicted, la finale Pick Pocket e la cover "appesantita" di Paperback Writer dei Beatles conquistano e convincono nella loro semplicità.
In questa ultima data del suo tour europeo (la sera prima era a Trieste) Richie Kotzen si presenta sul palco accompagnato dal solido e bravo bassista Dylan Wilson e dal'essenziale batterista Mike Bennett, catalizzando subito gli sguardi grazie al look da "bello e maledetto" ed una presenza scenica perfetta (per gli occhi rapiti delle donne presenti).
La scaletta è incentrata sull'ultima produzione, quella più legata al suo personale amalgama di blues/funk e soul. Il suo best-seller Into the Black del 2006, insieme all'ultimo disco 24 Hours sono i più saccheggiati.
Quello che stupisce maggiormente è l'estrema concentrazione di Kotzen (cantare e suonare in modo eccelso non è assolutamente facile), che a volte va a discapito del puro contatto con il pubblico che comunque rimane entusiasta, apprezzando oltre l'indubbia tecnica chitarristica , che con il tempo ha acquistato quel feeling blues (senza dimenticare lo shredding di inizio carriera) che lo distanzia dalla vetrina di mera dimostrazione di bravura che non gli appartiene, lasciando ad altri pose e atteggiamenti da rockstar. Kotzen si fa trasportare emotivamente, sinonimo di quanto creda alle strade musicali su cui sta viaggiando.
Le sue mani corrono veloci sulle sue Fender dall'iniziale Bad Situation fino alla finale Go Faster, unico ma aprezzatissimo encore, pescata insieme a Fooled Again dal quel straordinario album che fu Return Of The Mother Head's Family reunion(2007), uno dei miei preferiti della sua discografia.
In mezzo c'è tutto il suo repertorio fatto di velocità (24 Hours), funk (Help Me), ballads incantatrici ( My Angel e Livin' in Bliss) e la straordinaria vocalità calda e soul dimostrata in Love is Blind. Inutile dire che tutte le canzoni acquistano vigore rispetto alle versioni su disco.
E poi l'hard/blues di You can't save me, nella jam finale di Fooled Again(qui il pubblico è finalmente protagonista) e del pezzo strumentale dove a mettersi in mostra è la sua band, fino ad arrivare al gran finale con la tiratissima Go Faster, preceduta da un bel intro.
All'uscita di scena, il pubblico non numerosissimo ma rumoroso (qualcuno ha anche affrontato un lungo viaggio da Bari pur di vedere il proprio idolo) cerca di rassegnarsi alla fine ed abituarsi nello distogliere lo sguardo, fisso per un'ora e mezza, da quel catalizzatore di nome Richie Kotzen. Soddisfatto chi cercava la tecnica, chi il calore e chi, semplicemente,una serata di buona musica. Gran personaggio, come pochi, e gran concerto.
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