venerdì 16 dicembre 2016

NEIL YOUNG: gli ANNI 2000




SILVER &GOLD (2000)

 Neil Young entra nel nuovo millennio a passi morbidi con un disco di ballate acustiche che pare un seguito di HARVEST MOON, uscito ormai otto anni prima. Prodotto da Ben Keith (Jack Nitzsche si rifiuterà di produrlo dopo aver ascoltato alcuni brani), le dieci canzoni indagano perlopiù sull’aspetto intimo e famigliare (‘Daddy Went Walkin’), sull’amore (‘Razor Love’), con qualche nostalgico sguardo al passato musicale (‘Buffalo Springfield Again’). Uscirà dopo LOOKING FORWARD, il tanto atteso ma deludente ritorno di CSN&Y, a cui Young regalerà alcune buone tracce: ‘Slowpoke’ che doveva finire qui.


ARE YOU PASSIONATE? (2002)
 Il disco nasce sotto l’ombra tragica e nera dell’undici settembre (2001) e proprio da un episodio accaduto all’interno di uno degli aerei dirottati (il Flight 43) prende forma quella ‘Let’s Roll’, il cui testo mal interpretato farà tanto discutere. Le canzoni registrate prevalentemente con Booker T. & The MG’s veleggiano su un R&B mai troppo incisivo ma piacevole, seguendo le orme del più riuscito THIS NOTE’S FOR YOU. ‘Goin’ Home’, registrata con i Crazy Horse è l’unica canzone a smarcarsi nettamente dal mood imperante.

GREENDALE (2003)
 Uno degli album più ambiziosi di tutta la carriera di Young che questa volta si inventa una città fantastica, completa di cartina, personaggi, istituzioni e comparse, che diventa metafora della politica e della società americana. Un attacco diretto e beffardo che diventerà anche un film. I testi vengono però narrati su un tappeto rock blues, in generale, poco entusiasmante, ma diretto e sincero.







PRAIRE WIND (2005)
 Il disco nasce dopo i problemi di salute causati da un delicato intervento per un aneurisma celebrale che per poco rischia di essergli fatale dopo una ricaduta post operazione. Young si rimette a tempo record e finisce questo album già programmato. “ La cosa migliore sarebbe stata fare musica, così prenotammo uno studio a Nashville. Cominciai a scrivere un nuovo album. Sentivo che mi avrebbe tenuto occupato fino a quando sarei entrato in ospedale”. Un disco dai testi personali, drammatici e intimi, spalmati su un piacevole country rock senza grandi picchi ma anche senza cadute di tono. Un disco salvifico e di mestiere.

LIVING WITH WAR (2006)
 Che Neil Young si sia ripreso alla grande lo dimostra questo istant record barricadero registrato con rabbia in pochissimo tempo insieme ad una band essenziale composta solamente dal batterista Chad Cromwell, il bassista Rick Rosas e dalla tromba di Tommy Bray che compare qua e là, a cui però si aggiungono i sontuosi cori di circa cento elementi. Un hard rock folk potente e diretto, stemperato solamente dagli onnipresenti, a volte invadenti, cori. Lo spunto per tutto ciò arriva dopo la dichiarazione di guerra al Medio Oriente da parte di Bush, che verrà maltrattato in lungo e in largo (‘Let’s Impeach The President’ guida la fila). “Forse era il gruppo di canzoni palesemente più esagerate che avessi mai scritto, ma abbiamo fatto quello che andava fatto, dunque non mi pento”.


CHROME DREAMS II (2007)
 Riprendendo il titolo, e non solo, di uno dei tanti album registrati e mai usciti (il vero CHROME DREAMS sarebbe dovuto uscire nel 1977), è una raccolta di canzoni apparentemente poco omogenea (canzoni nuove e vecchie ripescate), dove si passa dal country di ‘Beautiful Bluebird’ al rock di ‘Spirit Road’, che invece pare funzionare molto bene, pur ruotando intorno alle due lunghissime ‘Ordinary People’ (diciotto minuti) e ‘No Hidden Path’ (quattordici).





FORK IN THE ROAD (2008)
 Altro disco di pancia. "Fork In The Road" esce a sorpresa anticipato da alcuni strani video postati sul suo sito Myspace. Canzoni elettriche come la tiletrack, la canzone di apertura ‘When worlds collide’, ‘Johnny Magic’, ‘Hit the Road’. Canzoni dalle chitarre metalliche (‘Fuel line’) , blues (‘Get behind the wheel’), country come la splendida ‘Light a Candle’. Tutte pero' con un denominatore in comune: i testi. Neil Young prendendo spunto dalla storia della Lincvolt Continental inizia a lavorare ad un personale progetto dedicato alle care automobili: costruire una centrale elettrica che possa fornire energia alternativa al funzionamento delle auto. "Scrivevo ed eseguivo un sacco di canzoni sulla Lincvolt e sull'argomento delle auto alimentate a elettricità. L'album Fork In The Road fu pubblicato nel 2009. Un sacco di gente s'incazzò perchè avevo fatto un album su questo argomento e ricevetti delle pessime recensioni, ma era ciò che avevo in testa e so che posso essere ossessivo. essere ossessivo non è poi così male per la creatività".


LE NOISE (2010)
Le Noise va ascoltato di notte, quando il buio si impossessa della vista e rimaniamo solitari con i nostri dubbi e pensieri. Ci voleva la mano di un produttore di grido come Daniel Lanois per dare, ancora una volta, una sterzata alla carriera di Young. Questo sarà un disco che verrà ricordato alla pari dei suoi migliori lavori. Così credo. Neil Young da solo e la sua chitarra, acustica ed elettrica. Tutti qua gli ingredienti su cui Lanois ha lavorato. Registrato nella casa del produttore, questo è un disco chitarristico al cento per cento, tutto ciò che si sente è stato prodotto dalla chitarra di Young: riverberi, note basse, rumori ed effetti che costruiscono canzoni su cui si stagliano i testi di Young. Canzoni per buona parte nate acustiche e trasformate in elettriche, un esperimento che ha dato buoni frutti. Le otto canzoni di Le noise saranno accompagnate da altrettanti video , in bianco e nero e suggestivi , girati dal regista Adam Vollick e che sembrano rappresentare alla meglio le canzoni in immagini. “Lo chiamai Le Noise, per Dan. Era uno scherzo in franco-canadese, un modo molto inglese per pronunciare Lanois”.


AMERICANA (2012)
 Non pago di sguazzare in mezzo a nastri e bobine delle sue composizioni archiviate nel fantomatico museo personale che è il suo Broken Arrow Ranch, Young ha pensato di dare una spolverata anche agli archivi del musichiere della tradizione americana, lui nato a Toronto in Canada. Per dare più sale ad un'altra delle sue bizzarre idee, ha richiamato in studio i Crazy Horse al completo, cosa che non accadeva dall'incisione di Broken Arrow(1996). Neil Young come un ragazzino alle prime armi si butta brutalmente su standard della musica americana con spietata irruenza (‘Oh Susanna’, ‘Clementine’, ‘Jesus Charlot’), avvicinandosi in alcuni frangenti all'intemperanza di Ragged Glory (1990) e continuando a portare avanti la sua idea di catturare l'immediato e darlo in pasto a tutti.


PSYCHEDELIC PILL (2012)
 Dopo l’aperitivo AMERICANA, arriva Psychedelic Pill, con un titolo che sembra rimandare inevitabilmente ai periodi "stonati" di Tonight's The Night(1975), si presenta subito in modo sontuoso ed estremo, incutendo pure un po' di timore reverenziale: 2 CD (o 3 LP) con solamente otto tracce (più una bonus track) tra cui spiccano immediatamente all'occhio i 28 minuti di ‘Driftin'Back’ e i 16 di ‘Ramada In’n e ‘Walk Like A Giant’. Dentro, tutto quello che il connubio con i Crazy Horse ci ha regalato negli anni: lunghe jam chitarristiche, assalti ruvidi, cavalcate, feedback, ma anche folk e nostalgiche melodie '50. Prodotto da John Hanlon e Mark Humphreys e registrato nello studio Audio Casablanca come il precedente Americana. A proposito di Crazy Horse: “Facendo i nuovi album Americana e Psychedelic Pill, ho scoperto che con l’andare del tempo questa potenza cosmica non solo è diminuita ma è cresciuta”.


A LETTER HOME (2014)
 L’intento sembrava pure nobile e originale: registrare canzoni come si faceva nel dopoguerra per mandare messaggi ai famigliari, proprio come fa Neil Young in apertura del disco. “Hey Mamma, il mio amico Jack ha questa scatola dalla quale si può parlare!”. Jack White fornisce la sua cabina sforna 45 giri al Third Man Records Store. Neil Young ci mette chitarra acustica e un repertorio di cover che potrebbe pure essere interessante se il suono non fosse così scadente e quasi inascoltabile. Dylan, Springsteen, Phil Ochs, Willie Nelson. Tim Hardin tra i prescelti. Ma visto che lo scopo era proprio quello: l’esperimento si può dire riuscito.


STORYTONE (2014)
 C’è l'amore per le automobili, ben rappresentato dall'acquerello in copertina e nei disegni che illustreranno la seconda parte di biografia Special Deluxe: A Memoir of Life & Cars, c'è la continua ricerca del posto ideale dove poter vivere serenamente, luogo che nella sua testa esiste già ed è dipinto di ecologico verde; c'è il tormentato amore che dopo 36 anni di matrimonio con Pegi Young ha imboccato la strada che porta verso una nuova fiamma, l'attrice Daryl Hannah che condivide con lui l'impegno ambientalista; c'è la voglia di mettersi continuamente alla prova come artista. Altro doppio come Psychedelic Pill (dieci canzoni acustiche e dieci canzoni, le stesse, risuonate con l'orchestra) altro ambizioso progetto ma interessantissimo per poter saggiarne lo stato della vena creativa (buona) e vedere lo sviluppo delle canzoni, dieci buone canzoni.


THE MONSANTO YEARS (2015)
 Se volete bene a Neil Young accetterete di buon grado anche questo disco, nato sì d’istinto, ma incentrato su tematiche care al canadese da più di quarant’anni, fin da quei versi “guarda Madre Natura in fuga” inclusi in After The Gold Rush del 1970, proseguite poi negli anni 80 con i concerti Farm Aid, messi in piedi con John Mellencamp e Willie Nelson in difesa degli agricoltori, e ribadite con forza anche durante l’ultimo tour con i Crazy Horse. L’attacco alla multinazionale agrochimica Monsanto, rea di mettere in commercio sementi OGM, è duro, liricamente ingenuo, ma non fa sconti. I figli di Willie Nelson, Lukas e Micah con i loro Promise Of The Real, accompagnano l’amico di papà come farebbero dei giovani cavalli pazzi alle prime armi con qualche pausa per tirare il fiato come nella sbilenca ballata country ‘Wolf Moon’ che si riallaccia ad HARVEST MOON.

 PEACE TRAIL (2016)
Un istant record di protesta come altri della sua discografia recente (LIVING WITH WAR, FORK IN THE ROAD, THE MONSANTO YEARS), registrato agli Shangri-La Studios di Rick Rubin in una sola settimana, per dare sfogo alle innumerevoli battaglie che sta combattendo. Un disco di pancia che sacrifica la bellezza per il messaggio. Ora sta a voi scegliere da che parte stare. Le dieci canzoni non fanno altro che rimarcare il forte impegno ambientalista che ha tenuto banco in tutte le recenti mosse con i Crazy Horse e con i Promise Of The Real: la battaglia-poi vinta- dei nativi americani contro l’oleodotto che minacciava le loro terre in North Dakota in 'Indian Givers'-da qui è partito tutto- la storia del contadino 'John Oaks', il mago dell'irrigazione che ha difeso il suo lavoro fino alla morte come ci narra la discorsiva 'John Oaks', aggiungendo qualche altra stoccata alla politica, allo sfrenato consumismo, e pure qualche vetro rotto più intimo e personale (la folkie ‘Glass Accident’) . Un bollettino pieno di notizie e qualche buona speranza come canta nella title track: "continuerò a piantare semi finchè qualcosa è in crescita". Nulla di nuovo quindi? No. Qualcosa di nuovo c'è: PEACE TRAIL è un disco totalmente acustico, scarno ed essenziale, ma incatalogabile, che suona quasi raffazzonato ad un primo ascolto ma diverso da qualunque cosa fatta prima, dove la base ritmica composta dalla batteria in grande evidenza del veterano Jim Keltner (splendido il suo lavoro percussivo e tribale lungo tutto il percorso) e dal basso di Paul Bushnell sembrano spesso fare da sottofondo alle incontenibili parole di Neil Young, cercando di inseguirlo, ma Young è un fiume in piena che va diritto per la sua strada, e quasi non si fa prendere.

vedi anche:
RECENSIONE: NEIL YOUNG-A Treasure (2011)
RECENSIONE: NEIL YOUNG & CRAZY HORSE- Americana (2012)
RECENSIONE: NEIL YOUNG & CRAZY HORSE-Psychedelic Pill (2012)
RECENSIONE: NEIL YOUNG-Live At The Cellar Door (2013)
RECENSIONE: NEIL YOUNG-Storytone (2014)
NEIL YOUNG & CRAZY HORSE live @ Barolo, 21 Luglio 2014
RECENSIONE: NEIL YOUNG + PROMISE OF THE REAL-The Monsanto Years (2015)
RECENSIONE: NEIL YOUNG-Bluenote Cafè (2015)
RECENSIONE: NEIL YOUNG+PROMISE OF THE REAL-Earth (2016)
RECENSIONE: NEIL YOUNG-Peace Trail (2016)


giovedì 15 dicembre 2016

DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 26: DAVID CROSBY GRAHAM NASH (Wind On The Water)

DAVID CROSBY GRAHAM NASH  Wind On The Water (1975)




Il tour 2016 di Graham Nash che ha toccato Como, ha rimesso in moto le pale eoliche che trasformano il vento della West Coast in energia vitale per il mio corpo. Naturale, quindi, ritirare fuori questo disco. Ho sempre avuto l’impressione, però, che i dischi del duo Crosby/Nash siano stati dimenticati in fretta, o comunque sottovalutati con il passare del tempo. Ma non fu proprio così: WIND ON THE WATER, il secondo disco uscito nel 1975 dopo il debutto in coppia del 1972, fu premiato da buone vendite all’uscita, arrivando al sesto posto nelle classifiche americane. Un punto fermo degli anni settanta dei nostri, dove Crosby e Nash portano al culmine compositivo la loro intesa musicale, lavorando in perfetta armonia, vivendo e scrivendo insieme in un bungalow a Chateau Marmont appena fuori Sunset Blv, West Hollywood, proprio dove venne trovato il corpo senza vita di John Belushi qualche anno dopo. Dalla perfetta combinazione delle voci, alle parti musicali mai così varie tra country, folk, blues e qualche fuga psichedelica, fino ai temi trattati: autobiografici (l’apertura ‘Carry Me’ scritta da Crosby), ecologisti (‘Wind On Water’ scritta da Nash e anticipata da ‘The Last Whale…A Critical Mass’, un canto a cappella di Crosby), nazionalisti (‘Cowboy Of Dreams’), mentre ‘Take The Money And Run’ che dice tutto nel titolo si rivela una pesante accusa verso chi organizzò il famoso tour reunion di CSN &Y dell’anno prima, prese di posizione sociali (‘Fieldworker’ si schierava a favore degli agricoltori sfruttati di Santa Cruz), ai rapporti umani (‘Mama Lion’ è ancora per Joni Mitchell, un amore che Nash fatica a dimenticare). “Realizzare l’album WIND ON THE WATER fu un piacere dall’inizio alla fine. Fu uno dei nostri lavori migliori. David era in eccellente forma da seduta di incisione e la band era composta da professionisti esperti…” racconta Nash. Già, vi parteciparono tra gli altri: Carole King, Jackson Browne, James Taylor, Levon Helm e i Jitters, la band che li accompagnò in quel periodo. Soffia vento soffia…


domenica 11 dicembre 2016

VOTA IL DISCO 2016

                                                          

                                                         VOTA IL DISCO 2016

Vuoi giocare al gioco da "musicofilo" più abusato, amato e odiato di fine anno? La famigerata classifica dei dischi? Anche quest'anno il mio blog ci riprova, dopo il trionfo di Lucinda Williams  nel 2014 e Warren Haynes dell'anno scorso. E' tutto molto semplice: guarda alla destra dello schermo mentre sei nel mio blog (versione web), in qualunque pagina o post, troverai un elenco di dischi (sono stati scelti da me, e rappresentano un campione dei miei ascolti, se proprio non trovi il "tuo disco dell'anno"-ed è molto probabile, lo spazio è quello che è, il tempo meno ancora, i gusti sono molto personali- puoi lasciarlo scritto nei commenti di questo post), spunta il disco (o i dischi, si possono mettere più preferenze) e clicca sul tasto "voto". Fatto? Bene. Ti stanno sul cazzo queste inutili classifiche di fine anno? Bene. Hai tempo fino al 28/12/2015 per cambiare idea. Poi tutto sarà finito, ancora una volta, giuro! Buon voto, buone feste in anticipo!

DISCHI LETTORI 2014
DISCHI LETTORI 2015

venerdì 9 dicembre 2016

RECENSIONE: NEIL YOUNG (Peace Trail)

NEIL YOUNG   Peace Trail (Reprise Records, 2016)




Un disco di pancia che sacrifica la bellezza per il messaggio. Ora sta a voi scegliere da che parte stare. 


Qualche anno fa, in occasione dell' uscita del suo disco Odio I Vivi, feci una breve intervista via internet a Edda (l'ex cantante dei milanesi Ritmo Tribale), in conclusione gli buttai giù qualche botta e risposta tra cui: se ti dico “Meglio bruciarsi subito che arrugginire lentamente” (Neil Young)?
 La risposta di Edda fu: “Beh, il vecchio Neil oggi ha il triplo mento, le guance ribizze da avvinazzato e ha fatto un disco di merda. Però sempre meglio di me sarà”.
Non ricordo a quale disco si riferisse, ma credo che quella risposta potrebbe andare bene pure oggi anche se questa ultima fatica, dopo qualche ascolto, non suona proprio come un disco di merda, come peraltro si potrebbe pensare leggendo alcune recensioni sparse in rete che l’hanno già stroncato senza appello.
Cosa si può scrivere di nuovo su Neil Young e le sue compulsive uscite discografiche totalmente coerenti con la sua incoerente carriera discografica? Se dovessimo fermarci alla copertina, Edda avrebbe sicuramente ragione. La voglia di comprarlo non ti assale. Fortunatamente (??) io sono uno di quelli che del proprio idolo compra tutto a prescindere, merda o non merda. Un istant record di protesta come altri della sua discografia recente (LIVING WITH WAR, FORK IN THE ROAD, THE MONSANTO YEARS), registrato agli Shangri-La Studios di Rick Rubin in una sola settimana, per dare sfogo alle innumerevoli battaglie che sta combattendo. Anche se la primordiale 'Ohio’, canzone che diede via al tuttorimane unica e insuperabile. Un disco di pancia che sacrifica la bellezza per il messaggio. Ora sta a voi scegliere da che parte stare. Le dieci canzoni non fanno altro che rimarcare il forte impegno ambientalista che ha tenuto banco in tutte le recenti mosse con i Crazy Horse e con i Promise Of The Real: la battaglia-poi vinta- dei nativi americani contro l’oleodotto che minacciava le loro terre in North Dakota in 'Indian Givers'-da qui è partito tutto- la storia del contadino 'John Oaks', il mago dell'irrigazione che ha difeso il suo lavoro fino alla morte come ci narra la discorsiva 'John Oaks',  aggiungendo qualche altra stoccata alla politica, allo sfrenato consumismo, e pure qualche vetro rotto più intimo e personale (la folkie ‘Glass Accident’) . Un bollettino pieno di notizie e qualche buona speranza come canta nella title track: "continuerò a piantare semi finchè qualcosa è in crescita".
Nulla di nuovo quindi? No. Qualcosa di nuovo c'è: PEACE TRAIL è un disco totalmente acustico, scarno ed essenziale, ma incatalogabile, che suona quasi raffazzonato ad un primo ascolto ma diverso da qualunque cosa fatta prima, dove la base ritmica composta dalla batteria in grande evidenza del veterano Jim Keltner (splendido il suo lavoro percussivo e tribale lungo tutto il percorso) e dal basso di Paul Bushnell sembrano spesso fare da sottofondo alle incontenibili parole di Neil Young, cercando di inseguirlo, ma Young è un fiume in piena che va diritto per la sua strada, e quasi non si fa prendere. Passi jazzati ('Can’t Stop Workin', ‘Indian Givers’), chitarre elettriche che guidano 'Peace Trail' e che spuntano all’improvviso, l'andatura quasi reggae di 'Show Me', folk sbilenchi con un’armonica super satura e amplificata (‘Terrorist Suicide Hang Gliders’), momenti in cui Young sembra veramente avvinazzato in preda a vecchi fantasmi psichedelici (‘Texas Rangers’), vocoder come ai tempi di TRANS nella finale 'My New Robot' e a raddoppiare la voce in 'My Pledge'. Non manca quasi nulla. Nel bene e nel male.
Ecco perché Edda aveva ragione: comunque sia, Neil Young sempre meglio di me sarà. Anche quando butta giù un album in pochi giorni nello studio di registrazione di uno dei produttori più acclamati degli ultimi trent’anni senza badare alla perfezione (buona la prima, ottima la seconda!), con un giornale aperto ad ispirargli i testi o scovando notizie e personaggi che nessuno mette in prima pagina, due session man che lo seguono, e una copertina fatta in casa ma con i testi stampati in un gigantesco poster.
Uno dei pochi vecchi rocker a metterci ancora la faccia nelle battaglie in musica, con tutta la libertà compositiva che può giustamente permettersi. A volte zoppica ma rimane sempre in piedi. Un forte urlo politico e sociale con quella romantica ingenuità che non è mai mancata in cinquant' anni di carriera e che spesso fa la differenza.
Io lo amo già.
★ ★ ★ ★ ☆  

n.b. Maneggiare le mie parole con estrema cautela


RECENSIONE: NEIL YOUNG-A Treasure (2011)
RECENSIONE: NEIL YOUNG & CRAZY HORSE- Americana (2012)
RECENSIONE: NEIL YOUNG & CRAZY HORSE-Psychedelic Pill (2012)
RECENSIONE: NEIL YOUNG-Live At The Cellar Door (2013)
RECENSIONE: NEIL YOUNG-Storytone (2014)
NEIL YOUNG & CRAZY HORSE live @ Barolo, 21 Luglio 2014
RECENSIONE: NEIL YOUNG + PROMISE OF THE REAL-The Monsanto Years (2015)
RECENSIONE: NEIL YOUNG-Bluenote Cafè (2015)
RECENSIONE: NEIL YOUNG-Earth (2016)


lunedì 5 dicembre 2016

RECENSIONE: STONER TRAIN (Bannermen Of Lost Generation)

STONER TRAIN   Bannermen Of Lost Generation (2016)





Il nome potrebbe far pensare a una band proveniente dai deserti di Palm Spings arrivata fuori tempo massimo, diciamo con un ritardo di circa vent’anni, invece la pesante locomotiva proviene direttamente dalla fredda Mosca, forgiata nelle officine russe, e si trascina dietro già tre album e un paio di ep ma dal nome si capisce solo un 25% della loro proposta musicale. Attualmente a bordo ci sono solo due elementi ma bastano e avanzano per creare un micidiale cocktail di southern rock e orgoglio combattivo: la chitarra slide e la voce cavernosa sono di Serj Gdanian che domina in lungo e in largo durante le nove canzoni (per mezz'ora di musica), e la batteria è dell’italiano Ivan Mostacci, incontrato a Berlino ai tempi del terzo album e mai più uscito dalla formazione. Un disco cinico e dallo humor nero che non si prende mai troppo sul serio, nato liricamente prendendo spunto dal film cult Taxi Driver-così dicono loro-ma che musicalmente corre lungo le rotaie della vecchia America dove accanto all’assalto sonoro dell'iniziale title track trovano spazio, in abbondanza, chitarre acustiche, armonica, e banjo. La dark ballad ‘I Know The End’ valga per tutte. Prendete Zakk Wylde, gli Alabama Thunder Pussy, i Four Horsemen, Danzig, i Lynyrd Skynyrd, Hank Williams III, Scott H Biram, Johnny Cash qualche vecchio cantautore country blues, metteteli tutti insieme sopra un treno e sganciate il freno in discesa, quello che otterrete sono gli Stoner Train. Nulla di originale ma un guazzabuglio per palati forti, abbastanza intrigante per andare oltre il terzo ascolto.





venerdì 2 dicembre 2016

RECENSIONE: HOWE GELB (Future Standards)

 HOWE GELB    Future Standards (Fire Records/Goddfellas, 2016)
★ ★ ★ ★ ☆ 




C’è chi campa coverizzando antichi standard americani con la speranza di risollevarsi la carriera, HOWE GELB no: gli standard se li scrive e se li canta da solo, con la speranza che lo diventino in un prossimo futuro, cantati da altri. Un disco nato già vecchio lungo l’asse New York-Tucson-Amsterdam, che a prima vista potrebbe apparire anche molto pretenzioso, ma chi conosce Gelb sa che questo tipo di cose rientrano, da sempre, nelle sue corde di musicista, su disco ma soprattutto live quando gira da solo senza la sua creatura Giant Sand (a proposito: l’avventura continua oppure no?). Un disco mininale e jazzato, intimo, essenziale: pianoforte, basso e batteria accarezzata a colpi di spazzole, qualche raro intervento di chitarra e la voce di Lonna Kelley a duettare in più occasioni. Naturalmente ci pensa l’inimitabile voce di Gelb a portare a casa la partita. Potremmo imputargli la mancanza di un po’ di swing che faccia da rottura all’imperante omogeneità, ma sono solo quisquilie che affosserebbero l’intero progetto. Chi siamo noi per farlo? Potrebbe essere il perfetto disco natalizio, ma anche la perfetta colonna sonora per un soft porno, come qualcuno, a me molto vicino, ha suggerito. Ora scegliete voi se ascoltarlo con il naso appiccicato al freddo vetro della finestra guardando i primi fiocchi di neve scendere giù, oppure sotto le lenzuola in compagnia di chi amate di più. Sempre di sera con l’arrivo della notte, comunque. Gelb gradirebbe in entrambi i casi. Il suo essere già vecchio e polveroso lo fa apparire perfino più originale di tante altre uscite che si vantano di essere moderne.


martedì 29 novembre 2016

DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 25: GEORGE HARRISON (Living In THe Material World)

GEORGE HARRISON  Living In The Material World (1973)




LIVING IN THE MATERIAL WORLD ebbe una gestazione difficile e un ruolo importante, anche se spesso nascosto, all’interno della discografia di GEORGE HARRISON. Arrivare dopo un disco perfetto come ALL THINGS MUST PASS e dopo gli acclamati concerti FOR BANGLADESH dell'agosto 1971 a New York , organizzati insieme a Ravi Shankar per raccogliere fondi per i profughi di guerra del Bangladesh (da cui Harrison prenderà spunto per scrivere ‘The Day The World Gets ‘Round’ presente nel disco) non fu per nulla facile. Harrison arriva alla stesura del disco tra mille difficoltà: si era appena ripreso da un incidente automobilistico che lo tenne lontano dalle scene per alcuni mesi e dovette rinunciare all’ultimo momento alla presenza di Phil Spector in produzione, il produttore stava messo peggio di lui. Fece tutto da solo. Anche se ‘Try Some, Buy Some’ che inizialmente fu scritta per l'ex Ronettes Ronnie Spector è prodotta proprio da Phil Spector. L’unica. Premiato dal pubblico all’uscita (primo posto in USA) venne stroncato dalla critica dell’epoca che sembrò mal sopportare l’accentuata vena spirituale che aleggiava così pesantemente intorno alle undici canzoni, unita a un tono da predicatore che spesso andava sopra le righe (‘The Lord Loves The One’). Ma questo era Harrison e la sua slide alla fine vince, anche senza le nubi psichedeliche, create in studio da Spector, che sormontavano il precedente disco. Il titolo è ben rappresentato dalla grande foto interna che ritrae Harrison e i musicisti coinvolti in studio (Nicky Hopkins, Jim Horn, Klaus Voorman, Gary Wright, Jim Keltner e Ringo Starr) seduti nel lussuoso giardino di casa Harrison a mo’ di ultima cena. È il tema dominante di gran parte delle canzoni: quanto è difficile portare avanti una vita mistica di fronte ad un mondo materiale. Tra amore e spiritualità (esplicita è ‘Give Me Love’, quasi la sua ‘Imagine’: “dammi amore/dammi pace sulla terra/donami la luce e la vita/conservami libero dalla nascita/) spuntano anche riferimenti ai vecchi compagni. Paul McCartney e John Lennon sono citati nella title track (“John And Paul here in The Material World”), mentre in ‘Sue Me Sue Blues’ riprende cinicamente le beghe legali dopo lo scioglimento dei Beatles.
L’album più spirituale della carriera e forse l’ultimo degno di nota per molti anni a venire.
Curiosa la scritta che compare stampata nel retro copertina: “Jim Keltner Fan Club. For all information send a stamped undressed elephant to: 5112 Hollywood Boulevard, Hollywood, California”. Così il batterista Jim Keltner spiega quella bizzarra frase: “quando vidi la scritta chiesi a George, ma cosa vuol dire, cosa ti è venuto in mente? E lui mi rispose che se avesse dovuto fondare un fan club lo avrebbe fondato per qualcuno che ammirava sul serio. Gli piaceva scherzare sempre”. Inutile dirlo: a casa Keltner arrivò di tutto.
George Harrison morì esattamente quindici anni fa: il 29 Novembre 2001



lunedì 21 novembre 2016

DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 24: BADLANDS (Voodoo Highway)

BADLANDS  Voodoo Highway (Atlantic records, 1991)






Unite due prime donne di talento: l’axe hero Jake E.Lee, appena scaricato senza motivi dalla band di Ozzy Osbourne dopo aver registrato due dischi come BARK AT THE MOON e THE ULTIMATE SIN e Ray Gillen, un cantante dal timbro “plantiano” e avrete grande musica hard blues e tanti screzi nelle pagine finali del breve romanzo. Il secondo disco dei Badlands (nel 1999 ne uscì un terzo, postumo: DUSK), può essere annoverato come uno dei più fulgidi esempi di southern hard blues degli anni novanta, da tenere vicino alle migliori uscite del genere di quel periodo: Pride And Glory, Mother Station, Black Crowes, Gov’t Mule, Cry Of Love, Brother Cane, The Screamin’ Cheetah Wheelie. Pur durando il giro di un orologio, i BADLANDS riuscirono a piazzare due dischi di grande fattura. Uscito nel 1991, due anni dopo il più patinato e prodotto esordio-comunque ottimo-vedeva la band sporcare nettamente il sound di polvere e benzina, con una produzione più scarna ed essenziale, unendo idealmente l’hard rock blues britannico dei 70 tanto caro a band come Free, Bad Company, Whitesnake e Led Zeppelin al southern rock americano. Guidati dalla sei corde di Lee, che finalmente poteva esprimere il suo grande talento di bluesman, questo rimarrà, però, il disco di Ray Gillen, uno dei più talentuosi cantanti partoriti dagli anni '80 e purtroppo anche uno dei più sfortunati. Mancata, per motivi legali, l'occasione della vita: l'entrata nei scalcinati e instabili Black Sabbath di metà anni ottanta, quelli che si accingevano a registrare THE ETERNAL IDOL, con Tony Iommi e soci riuscì, nonostante tutto, a portare a termine alcuni concerti e registrare alcuni demo, recuperabili in rari bootleg. Con una voce paragonabile ai migliori vocalist hard blues, un incrocio tra Paul Rodgers a Robert Plant, Gillen ebbe con questo disco, inspiegabilmente sottovalutato e poco spinto dall’etichetta discografica, l'occasione di un riscatto di carriera. A più di vent’anni dalla sua morte possiamo dire che ci riuscì pienamente. La copertina del disco, raffigurante una solitaria casetta in legno, galleggiante in mezzo alle acque paludose del Mississippi tra corvi e coccodrilli, disegna bene, ma non completamente, la direzione musicale del disco. La super formazione completata da Greg Chaisson al basso e Jeff Martin alla batteria si lancia, fin dall'iniziale ‘The Last Time’ in un frenetico hard blues, con la chitarra di Lee sugli scudi e un organo a fare da tappeto alla voce imprendibile di Gillen. Pochi punti deboli in questo disco, costruito tra l’alternanza di pesanti riff e frequenti intermezzi acustici.


Da un lato il blues pesante di ‘Show Me The Way’, ‘Whiskey Dust’, della splendida ‘Silver Horses’ e di ‘3 Day Funk’ , un funk blues che non sfigurerebbe in nessun disco dei Black Crowes, dall’altro canzoni più metal oriented come ‘Shine On’, ‘Soul Stealer’ e ‘Heaven's Train’, fanno riaffiorare il passato di tutti i musicisti coinvolti. Se ‘Joe's Blues’ non è altro che una breve prova di abilità di E.Lee all'acustica, e ‘Voodoo Highway’ un blues acustico con Lee alla dobro, il finale è una pirotecnica vetrina per Gillen: la cover di James Taylor, ‘Fire And Rain’, resa naturalmente in chiave rock e ‘In A Dream’ cantata a cappella, tanto per dare una ulteriore prova della sua straordinaria versatilità vocale. VOODOO HIGHWAY è un piccolo gioiello in mezzo allo strapotere grunge di quegli anni. Poi si sa, quando due talenti come E.Lee e Gillen devono provare a convivere insieme sono previste scintille. E così fu scioglimento. E.Lee proseguirà la carriera lontano dalla grande ribalta, evidentemente poco adatta al suo carattere schivo per ritornare nel 2014 con un nuovo album solista, mentre il talento galoppante di Gillen fermerà la sua corsa a soli 34 anni, nel 1993, sconfitto dall’AIDS.

mercoledì 16 novembre 2016

DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 23: ERIC ANDERSEN (Blue River)

ERIC ANDERSEN  Blue River (1972)





Con i se e i ma non si ricostruiscono le storie. Ma se i nastri pronti e finiti, ma in copia unica, di STAGES, l’album che doveva uscire dopo questo, non si fossero persi per strada nel viaggio tra Nashville e New York, forse la carriera del folksinger nato a Pittsburgh avrebbe imboccato la strada di quel successo che invece non arrivò mai, se non circoscritto dentro quell’aura di culto che lo ha sempre avvolto e che spesso vale doppio. Questo il caso. Su STAGES l’etichetta Columbia puntò molto ma qualche dipendente distratto non era al corrente di tutto ciò (cose da ergastolo!), Andersen la lasciò immediatamente per accasarsi all’Arista, ma la frittata era ormai fatta: tre anni buttati al vento. STAGES uscì solo molti anni dopo, nel 1991, quando era troppo tardi, la magia dell’epoca svanita per sempre ma ancora in tempo per fare incetta di riconoscimenti. Così rimane BLUE RIVER, l’ottavo disco in carriera, il più famoso e celebrato per capire quanto Eric Andersen fu importante per una buona fetta di cantautori degli anni settanta. Le canzoni di protesta del Greenwich Village (‘Thirsty Boots’ la più famosa) vengono messe da parte per una maggiore ricerca interiore e meditativa, per liriche che cercano di tratteggiare la sfuggevolezza dell’amore. I trattti poetici e romantici delle sue canzoni, cantate con voce quasi sussurrata, trovano nella delicata produzione di Norbert Putman, nei morbidi arrangiamenti, nella voce di Joni Mitchell, ospite in ‘Blue River’ e in musicisti di prim’ordine come Dave Briggs, Eddie Hinton e David Bromberg tra gli altri, i giusti compagni di viaggio. Album che scorre puro e liscio tra intimismo e superbi tocchi di raffinatezza (le eteree ballate al pianoforte ‘Wind And Sand’ e ‘Round The Bend’) le belle chitarre di Andy Johnson e Bromberg (dobro) negli ariosi country ‘More Often Than Not’ e la più buia ‘Sheila’ (la mia preferita). Se BLUE RIVER è il totem della sua discografia, non mancano una manciata di buoni dischi in ogni decennio della carriera, comprese le ultime collaborazioni con Michele Gazich che rinsaldano il grande amore per l’Europa (in Norvegia piantò pure radici). Una carriera che ha preso il via al Greenwich Village a New York nei primi anni sessanta e continua ancora oggi. Un viaggio lungo e non ancora terminato. Eric Andersen ha visto morire troppo presto una buona parte della sua generazione (Phil Ochs, Tim Hardin, Fred Neil, Tim Buckley, Jim Croce) e oggi, a scapito di una carriera in seconda linea, può considerarsi un fortunato sopravvissuto. Quel ”Old Man Go To The River” che apriva la title track, oggi risuona ancora più vero e cristallino dentro le mie stanze.

venerdì 11 novembre 2016

DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 22:AMERICA (Silent Letter)

AMERICA-Silent Letter (EMI, Capitol Records, 1979)





Serata di pioggia. L’ennesima. Appoggio la puntina sul disco e inevitabilmente ritornano alla mente alcune serate degli anni ottanta passate ad ascoltare musica in sala, da solo, seduto nel divano con due grosse cuffie a coprirmi le orecchie, con un libro di scuola aperto ma presto abbandonato sul tavolo e lo stereo dell’epoca, un enorme Philips più alto di me, come fedele compagno di giochi. I dischi degli America erano già tanti in casa. Questa sera ho scelto SILENT LETTER (ai tempi presente solo in cassetta), un album di transizione che segnò un nuovo inizio nella carriera degli AMERICA. Dan Peek, dopo l’uscita del precedente HARBOR, lasciò il gruppo per seguire la fede, continuando la sua carriera nei circuiti minori della musica cristiana fino alla morte avvenuta nel 2011 . Dopo anni di incisioni per la Warner ci fu il passaggio alla Capitol records. A sottolineare questo nuovo passo di carriera, venne scelto, per la prima volta, un titolo senza la lettera H come iniziale. Il disco registrato nel Marzo/Aprile del 1979 vedeva però ancora George Martin come produttore (sette i dischi registrati insieme). Fu l’ultima volta. SILENT LETTER è un disco che paga dazio al periodo di transizione e ad una non chiara via musicale da seguire. “Fu un periodo di sconvolgimenti. L’abbandono di Dan, ci siamo accasati con la Capitol Records. Era un momento di transizione. La stessa industria musicale stava cambiando in quel momento. Eravamo alla fine degli anni ' 70 e agli albori degli ' 80. Il movimento New Wave era lì e noi eravamo tagliati fuori. Siamo passati attraverso quegli alti e bassi presenti in qualsiasi carriera.” Raccontò Dewey Bunnell nel 1998.
Da una parte c’è il tentativo di stare al passo con i tempi con canzoni di indirizzo pop più marcato (‘All Around’, ‘Foolin’, ‘No Fortune’), dall’altra la mano di Martin si faceva sentire ancora pesantemente nei pezzi orchestrali come ‘All My Life’ che diventerà l’unica vera hit del disco, ‘ One Morning’ e nella pianistica e personale ‘1960’ cantata da Gerry Beckley. Infine la voglia di suonare ancora alla vecchia maniera, inspessendo anche il sound con chitarre più rock rispetto al passato nella trascinante apertura ‘ Only Game In Town’ con tanto di fiati, in ‘All Night’ scritta da Dewey Bunnell e nella tesa e desertica ‘Tall Treasures’ che completavano un disco fin troppo vario e confuso ma per nulla malvagio da ascoltare. Ancora oggi. Il risultato finale fu un flop commerciale. Gli anni ottanta bussavano alle porte e gli America erano pronti per dare ancora un paio di zampate in classifica (‘Survival’, ‘You Can Do Magic’), seguendo una delle tante vie indicate da SILENT LETTER. Io iniziai a infoltire lo spazio sottostante lo stereo con dischi scelti da me, non più imposti dalla casa, ma per gli America lasciai uno spazio speciale. Cosa volete farci?

martedì 8 novembre 2016

RECENSIONE: TODD SNIDER (Eastside Bulldog)

TODD SNIDER  Eastside Bulldog (Aimless, 2016)
☆☆☆1/2




Se riuscite a ritagliarvi mezz’ora di svago e divertimento (scontati: 26 minuti per la precisione) durante le vostre frenetiche giornate lavorative, EASTSIDE BULLDOG il nuovo disco di Todd Snider potrebbe fare da buona colonna sonora. A qualche anno dall'ultimo album solista e dopo i due lavori più seri con il supergruppo Hard Working Americans, Snider riveste i panni stropicciati del suo alter ego, da prendere poco sul serio, Elmo Buzz, si chiude in studio con alcuni amici e registra 10 canzoni con lo stesso spirito con cui suonerebbe sopra al palco del peggior pub della città davanti a un pubblico distratto, poco esigente ma con il bicchiere sempre pronto per il brindisi. Una cosa alla Blues Brothers dietro a una rete, o come quando Neil Young si vestì di rosa e si impomatò i capelli e ci prese per il culo, per intenderci. Un pianoforte sgangherato, fiati, cori stonati che spuntano da dietro, e testi che raccontano di donne e motori, musicisti con pochi soldi e bevute, con l’aria di East Nashville che tira di lato e il fiato di Hank Williams Jr. che sbuffa dall’altro. Il gioco è fatto. Non cercate premi Nobel qua dentro, troverete solo una manciata di minuti di puro e alticcio divertimento rock’n’roll con ritmi swinganti annegati in un r&b alticcio. "It's songs about East Nashville, chicks, cars, fighting, partying and Bocephus and that’s it. No bullshit... just the good stuff." Firmato Elmo Buzz o Todd Snider, fate voi.





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THE WHITE BUFFALO. Per la prima volta in Italia. Due date: 28 Luglio a Ravenna, 30 Luglio a Brescia
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