Bus Stop / King Midas In Reverse / Marrakesh Express / I Used To Be A king / Immigration Man / Sleep Song / This Path Tonight / Myself At Last / Wind On Water / Wasted On The Way / Simple Man / Taken At All / House Of Broken Dreams / Mississippi Burning / Back Home / Golden Days / Cathedral / Our House / Chicago / Blackbird / Teach Your Children
TONY JOE WHITE Rain Crow (Swamp/Yep Records, 2016)
Insomma, la voce non è più quella nera, nerissima e baritonale dei tempi migliori, allenata ascoltando Lighting Hopkins, del trittico perfetto: BLACK AND WHITE (1968), …CONTINUED (1969) e TONY JOE (1970), ora è più secca e profonda che mai, anche se resta la miglior voce per raccontare certe storie, che siano oscure o più commoventi, come quelle che animano ‘The Bad Wind’ popolata da pistole, infimi bar e tradimenti o ‘The Middle Of Nowhere’ scritta insieme a Billy Bob Thornton che narra la vera vicenda di un amico trentenne affetto dalla sindrome di Down, desideroso di salire sullo scuolabus che vede passare tutti i giorni davanti a casa. Il suo volto in copertina inquieta pure un po’, metà Crocodile Dundee metà Freddy Krueger, ma TONY JOE WHITE, 73 anni a Luglio, si conferma il re indiscusso dello swamp rock, ora che John Fogerty sembra più interessato a cover e duetti e il compianto J.J. Cale ha raggiunto per sempre la sua Cajun Moon, lassù da qualche parte.
Il nuovo album (l’ultimo fu HOODOO nel 2013) registrato nel suo studio di registrazione in Tennessee con il figlio Jody in produzione, l’aiuto della moglie Leann per alcuni testi, e i soli Steve Forrest e Bryan Owings al basso e batteria (più Tyson Rogers alle tastiere), si addentra come sempre tra le pieghe calde e umide del profondo Sud degli States, tra i suoi antenati Cherokee, tra donne dai poteri magici (‘Hoochie Woman’), riti propiziatori che riportano la memoria alla fattoria di suo padre dove è cresciuto (‘Rain Crow’), storie di ordinaria follia e di grandi misteri nascosti tra le paludi e la luna della sua terra nativa, la Louisiana. Suono secco, grezzo, spontaneo e diretto con l’ inconfondibile chitarra “whomper stomper” (così autodefinì la sua tecnica) e l’armonica, si viaggia a ritmi spesso lenti dalla cadenza quasi tribale (‘Conjure Child’), mentre qualche volta si accelera (’The Opening Of The Box’), ma raramente. Nessun altro sa raccontare ancora queste storie così bene (‘Tell Me ASwamp Story’). Tony Joe White continua a fare bene quello che sa fare meglio. Meglio di chiunque altro.
MATT ANDERSENHonest Man (True North Records/IRD, 2016)
Questo no, questo no. Questo! La copertina mi suggerisce un sì. Disco perfetto per un sabato mattina con il sole già alto e curioso di entrare dalle finestre. Matt Andersen è un omone canadese, grande e grosso con una voce avvolgente, rassicurante e che arriva. HONEST MAN è l'ottavo disco della sua carriera, registrato a New York insieme al produttore Commissioner Gordon (Amy Winehouse, Josh Stone). Le precedenti uscite fecero incetta di nomination nelle classifiche di fine anno e questo sembra essere ancora più immediato dei precedenti cercando la strada del mainstream ma con una certa classe che di certo non gli rovinerà la reputazione costruita in passato.
Un disco che si apre con una traccia solare (ah, ok è mattina) che mi ricorda Jack Johnson. Mi spaventa, ma poi le restanti nove canzoni (tra il personale e qualche stoccata politica) si prendono per mano una buona mezz'ora della giornata trascinandola in un fedele cassetto stracolmo di ballate soul, R&B di casa Motown Stax, e southern blues con i fiati che spesso vincono sui numerosi ma non invadenti loop moderni inseriti dal produttore, che vorrebbero portare tutto verso le strade del pop, ma fortunatamente non ci riescono ancora del tutto. Insomma, nonostante tutto, rimane ancora un uomo onesto. Nel finale compare pure un flauto jazzy e lui sembra vestire e riempire bene i larghi vestiti del vecchio, compianto Joe Cocker. Non un capolavoro ma un onesto ascolto per passare i migliori momenti di una giornata.
WARRIOR SOULDrugs, God and The New Republic (1991)
Un bel pugno all’America. Ancora oggi. Uno dei gruppi più impegnati, attivisti, ribelli e temuti dei primissimi anni 90 in America. Nati a Detroit ma di stanza a New York, guidati dal loro guru Kory Clarke, artista poeticamente colto, visionario, influente e sciamanico che amava spesso ergersi a capo dei “perdenti” per i perdenti. Uno che voleva aprire gli occhi alla gente imbambolata davanti all’utopia del sogno americano e preparare all'imminente apocalisse. Un visionario ma con le radici ben bagnate nella terra. Musicalmente caricati a salve da un misto micidiale di acido post-punk, New Wave e alternative metal d’assalto, nervoso, con non rari momenti di psichedelia. Questo è il loro secondo disco, di un punto inferiore allo strepitoso debutto dell’anno prima (LAST DECADE DEATH CENTURY) ma ugualmente pericoloso pur avendo l’innata capacità di creare anche buoni inni come ‘Jump For Joy’ e ‘The Wasteland’.
Presenti anche ‘Interzone’ dei Joy Division che apre il disco e la strepitosa chiamata alla rivoluzione della finale ‘Children Of The Winter’.
Troppo pericolosamente schierati e politicizzati per diventare quello che diventeranno Pearl Jam o Nirvana con NEVERMIND (per citare due gruppi a caso esplosi in quell’anno). La loro carica “sociale” andrà via via affievolendosi a favore di un più innocuo cyberpunk/glam/street che si trasporterà nella successiva trasformazione di Clarke negli Spage Age Playboys. Clarke, dopo una breve parentesi nei fumosi Trouble, porta ancora in giro la sua prima creatura. Che però rimarrà, per tutti quelli che l’hanno vissuta in prima persona, sempre e solo una “cult band” da amare per sempre, anche se i loro testi, paradossalmente, sembrano più attuali se catapultati nell'oggi. Il signor Trump è avvertito!
"Rock Show": questo il mantra pronunciato all'infinito dalla cantante Lisa Kekaula durante tutta la durata del concerto, tra una canzone e l'altra, anche prima e dopo i bis. Poche altre parole durante la serata perché i Bellrays hanno badato al sodo con uno spettacolo diretto e urgente, senza soste o troppi salamelecchi di sorta, e il pubblico della Latteria Molloy, non numerosissimo ma partecipe, attento e competente, ha gradito ugualmente.
I californiani BELLRAYS hanno venticinque anni di carriera sulle spalle e un fresco EP di cover (COVERS appunto, dove rileggono The Seeds, Led Zeppelin, Stevie Wonder, Black Sabbath e Cheap Trick) da presentare dopo una lunga assenza discografica di sei anni e alcuni cambi di formazione alla sezione ritmica (Justin Andres al basso e Stefan Litrownik alla batteria). Guidati dalla potente voce dalla spiccata timbrica soul blues e dalla carismatica presenza scenica di Lisa Kekaula (con l'inconfondibile capigliatura afro e un lontano passato jazz) e dalla chitarra sferragliante del marito Bob Vennum, occhiali da nerd e attitudine punk che gli permette di farsi un giretto in mezzo al pubblico durante un assolo, il loro è il matrimonio perfetto tra due vicoli musicali che portano entrambi verso la vecchia Detroit: da una parte la Motown Records, il R&B, il soul, dall’altra il proto punk selvaggio e iconoclasta di Stooges e MC 5. A proposito di Mc 5 è d'obbligo segnalare la presenza dell'ospite Wayne Kramer nell'ultimo Ep appena uscito.
Le due strade ad un certo punto si uniscono ed escono fuori loro: un micidiale concentrato di sudore rock’n’roll che cattura l'attenzione con la sola forza della musica. Aprono con quella che sembra la loro maggiore hit al momento, quella Black Lightning, title track del loro ultimo album uscito nel 2011(il più setacciato: Closer Your Eyes, Power To Burn, e il R&B di The Way tra le altre in scaletta) e proseguono senza sosta fino alla coinvolgente jam finale insieme agli australiani Dallas Frasca, compagni di tour che hanno aperto alla grande la serata. In mezzo c'è naturalmente spazio per alcune cover rilette a loro modo tra cui spiccano Dream Police (Cheap Trick), la più scontata WholeLotta Love (Led Zeppelin) e Never Say Die (Black Sabbath).
Inutile dirvi che se vi capitano a tiro è d'obbligo partecipare al loro "Rock Show", perché di questo si tratta: solo sano e energico rock'n'roll difficile da addomesticare. Quello che si avvicina di più a quello che chiedo ora ad un concerto rock, fortunatamente così lontano da quei mega eventi da rockstar miliardarie che non mi divertono più. Tutto a misura d'uomo: sangue, sudore e nessuna lacrima.
TOM GILLAM &THE KOZMIC MESSENGERSBeautiful Dream (Blue Rose/IRD)
Una vita da mediano (di spinta) Tom Gillam è uno dei tanti onesti lavoratori del rock americano. Uno partito dal New Jersey per arrivare ad Austin e che ha sempre lavorato duro di chitarre e parole. Uno che, mentre tiene in piedi un super gruppo come gli US Rails, prosegue una carriera solista già ben avviata da circa vent’anni, trovando pure il tempo di reclutare nuovi musicisti per la band che lo accompagna nella nuova avventura tra le infinite lande del rock a stelle e strisce. Non si fa mancare nulla e quello che fa sa di onesto. Tocca il southern rock nella iniziale ‘Tell Me What You Want’ e in ‘Flying Blind’, paga dazio a Tom Petty e i suoi Heartbreakers in ‘Just Don’t Feel Like Love’ dove un Hammond B-3 imperversa e comanda, e recupera la vecchia west coast dei settanta con un tributo agli Eagles più rock di ‘Good Day In Hell’, canzone contenuta nel lontano ‘On The Border’ , che oggi suona anche come un dovuto omaggio al suo autore Glenn Frey, recentemente scomparso. (Enzo Curelli)
da CLASSIX #47 (Maggio/Giugno)
A proposito di Guns N’ Roses…
Quel borioso di Axl Rose non lo ammetterà mai nemmeno sotto tortura, Slash ci ha provato in mille modi diversi e cento cantanti possibili (Snakepit, Velvet Revolver…) ma il miglior disco solista di un ex gunners rimane (secondo me) il debutto del buon IZZY STRADLIN. Uscito dalla band prima di tutti (se non è intuito questo), anche se in fondo non trovò mai veramente i suoi spazi là dentro pur comparendo nei credits di molte canzoni, Izzy mise su i Ju Ju Hounds composti da Jimmy Ashhurst (ora Buckcherry) al basso, Charlie Quintana degli Havalinas alla batteria e Rick Richards dei Georgia Satellites alla seconda chitarra (mica comparse da poco) e confezionò un disco perfetto per inquadrare l’anima più sleaze e stradaiola della sua ex band, tenendosi il più lontano possibile dagli eccessi hard/metal. Un pizzico di punk spruzzato di hammond (la rivisitazione di ‘Pressure Drop’ di Toots And The Maytals, ‘Bucket O’ Trouble’) e tanto sano rock’n’roll pescato a piene mani dal glam sudicio di NY Dolls e Johnny Thunders e dai migliori Stones di strada targati ‘70. Tutto come dovrebbe suonare un buon disco solista di Keith Richards. E proprio i Rolling Stones marcano gran parte delle canzoni, grazie alle presenze di chitarra e voce di Ronnie Wood in ‘Take a look At The Guy’, vecchia canzone dello stesso Wood annata 1974, e il “sesto stones degli anni settanta” Nicky Hopkins al piano nella ballata gospel ‘Come On Now Inside’ che chiude il disco. Aggiungete l’hammond di Ian McLagan che impazza in gran parte dei pezzi, Craig Ross, il riccioluto chitarrista di Lenny Kravitz e il produttore Eddie Ashworth e avrete quaranta minuti di godibilissimo rock blues, suonato con ardore, passione e senza troppe menate da rockstar. ‘Somebody Knockin’, ‘Shuffle It All’ e ‘Time GoneBy’ sono alcuni titoli.
Quindi cari Guns N’Roses, per il sottoscritto: una reunion senza Izzy Stradlin non è una reunion vera. Pensateci.
[comprai questo CD all'uscita, era contenuto dentro a quegli involucri di cartone grandi due volte la confezione del Cd stesso. C’era un problema non da poco, però. Dovetti aspettare un paio di mesi prima di ascoltarlo: non avevo ancora con me un lettore di compact disc! Rimasi stoicamente fedele a cassette e vinili fino all'ultimo. Deduco, quindi, che questo sia uno dei primi album in versione CD che entrarono in casa.]
JOHN DOEThe Westerner (Cool Rock Records/Thirty Tigers, 2016)
La polvere aspra alzata dai Calexico durante il recente concerto al Teatro Creberg di Bergamo è stata, seppur piacevole e solleticante, inferiore alle attese, superata dai fumi dolci e speziati dei sigari cubani che aleggiavano in teatro con molta più consistenza. A riportare il tutto ai livelli ottimali sembra pensarci il nuovo disco di John Doe, una carriera solista spezzettata ma che ha ormai doppiato (in anni) quella dei seminali X. Questo nono disco arriva a cinque anni dal precedente ma ne conferma lo status di songwriter di altissimo livello. Il disco è stato registrato a Tucson negli studi di HoweGelb (Giant Sand) e proprio durante i primi giorni di registrazione è avvenuto l’episodio che ha influito sensibilmente sul percorso musicale e concettuale del disco: la morte dell’amico scrittore, sceneggiatore e regista Michael Blake, conosciuto per essere l’autore del romanzo Balla Coi Lupi, da cui fu tratto il film. “Il primo giorno che sono arrivato a Tucson, ho trascorso un po’ di tempo con Michael che era in cura in ospedale. Tre ore più tardi, appena abbiamo iniziato la registrazione, ho ricevuto una telefonata che mi diceva che era passato a miglior vita. Averlo visto un’ultima volta è stato un regalo e l'intensità che ho messo su questo disco non l’ho mai sperimentata prima, in nessuna sessione di registrazione.” Racconta Doe nel suo sito ufficiale. L’amicizia con Blake fa da filo conduttore a canzoni che viaggiano placide sotto il sole, perse tra i grandi spazi del deserto dell’Arizona, con lo sguardo rivolto indietro ai nativi americani, il pensiero verso la libertà (la metafora dei treni nell’iniziale singolo’ Get On Board’) e la morte, e con lo spirito dei Doors che fa capolino in più occasioni, un ascolto comune di Doe e Blake da cui viene presa in prestito perfino la copertina disegnata da Shepard Fairey e Aaron Huey, già usata per un’uscita targata Doors in occasione del Record Store Day 2014.
Suoni desertici e psichedelia (‘Alone In Arizona’), intense ballate che si trascinano lente sulla sabbia, lasciando impronte tra il folk (‘Sweet Reward’, la pianistica ‘A Little Help’, ‘The Other Shoe’) e il western (‘Sunlight’) con non rari passi di danza rock: decise incursioni nel garage ( ‘Drink Of Water’ e ‘Go Baby Go’ con l’ospite Debbie Harry alla voce) e nel mantra blues doorsiano (‘My Darling, Blue Skies’). Un disco che sembra andare oltre la musica, perfettamente in bilico tra border ballads e scatti elettrici (la finale ‘Rising Sun’), per avvicinarsi sensibilmente all’anima. Il bel ritorno di Grant-Lee Phillips con THE NARROWS, sembra avere già un gemello: THE WESTERNER. Bellissimo e…consigliatissimo.
MALCOLM HOLCOMBE-Another Black Hole (Proper/ IRD, 2016)
Sotto troverete alcune righe scritte per la rubrica Cantastorie di Classix!, in presentazione del precedente disco THE RCA SESSIONS, una raccolta di suoi pezzi risuonati per l’occasione. Parole sempre valide. Quello che vedete in questa foto, invece, è il freschissimo album uscito a Febbraio, a soli sei mesi dal precedente. Holcombe prosegue il buon periodo di tormentata creatività con altre dieci canzoni che lo confermano uno dei songwriter americani più veri, aspri, puri e genuini degli ultimi anni. La voce strisciante, burbera che raschia e pare sempre ferita e sanguinante dice, ancora una volta, tutto. Registrato a Nashville con la sua ormai rodata band (Jared Tyler, Ken Coomer, Dave Roe) e con l’aiuto di un pezzo da novanta come Tony Joe White alla chitarra elettrica, prosegue sulle strade folk country blues tracciate con tanta fatica in questi anni, aggiungendo un tocco soul dato dai cori di Drea Merritt eaccenni swamp portati in dote da Tony Joe White, meritando il titolo di album più completo e vario della sua carriera. Storie di vita (dura) penetranti, presenze a volte spettrali, saggezza guadagnata sul campo con pochi calci nel culo, e redenzione ('Heidelberg Blues'), si incontrano in ogni angolo del disco, tra le pieghe, le rughe e i silenzi. Canzoni blues dal taglio elettrico come la title track e 'Papermill Man', il folk di‘ 'To Get By' , 'September’ e il country ('Someone Missing') disegnano i tratti amari di un album come sempre troppo sincero per essere vero e troppo ostico per trovare la via del facile successo. Ma ne sono sicuro: a lui sta bene così.
Se c’è un cantautore che impersona al meglio il titolo e il sottotitolo di questa rubrica (Cantastorie), è Malcolm Holcombe. Prima di raccontarvi chi è, però, soffermatevi per un attimo su una sua foto, guardate poi un video qualunque caricato in rete ma a volume spento: scrutate i lineamenti del viso, gli occhi sgranati e inquieti che fissano il pubblico, seguite le rughe della sua faccia, le smorfie, la saliva che cola dagli angoli della sua bocca quando canta con più fervore, osservate le mani nodose che afferrano la chitarra e la percuotono, i piedi che battono il tempo sul pavimento.
Ecco, credo potrebbe bastare come presentazione. Ora alzate il volume e ascoltate i silenzi e le esplosioni delle sue canzoni. Malcolm Holcombe la sa lunga sulla vita, nonostante una carriera decollata soltanto in prossimità dei quarant'anni: con la sola voce potrebbe mangiarsi in un boccone metà di tutti quei cantautori che spuntano come funghi oggigiorno. Holcombe ha la scorza dura di chi ha sceso le verdi colline delle Blue Ridge Mountains in North Carolina per cercare più fortuna in città (Nashville), trovando spesso più disagi che bellezza (l'alcolismo è stata una piaga dura da sconfiggere, la depressione pure) ma le tante verità che ha raccolto riesce a raccontarle con la rara naturalezza dei puri. Sopravvissuto all'illusione del successo promesso ma mai arrivato concretamente (un contratto con la Geffen Records ed un album mai uscito nel 1996), Holcombe ha sia l'onestà che la sapienza concesse a pochi, la capacità di non costruire arsenali davanti alla voce che potrebbe bastarsi da sola: una chitarra fingerpicking, belle chitarre dobro, un banjo, un violino costruiscono dolenti ballate folk/country nella struttura, ma blues giù fino al profondo dell'anima. Tanto scure e amare quanto raggianti e speranzose. Se ancora avete dei dubbi, l’ultimo dei tanti album usciti vi verrà in soccorso: THE RCA SESSIONS che contiene sia un CD che un DVD, ripercorre la sua carriera attraverso sedici canzoni risuonate live, estrapolate dai dieci album composti dal 1994 ad oggi. Se volete scavare nel passato cercate le sue tracce anche in A HUNDRED LIES (1999) e TO DRINK THE RAIN (2011), i suoi due lavori migliori. E se ancora non siete convinti, ascoltate chi la musica la mastica bene. Steve Earle disse di lui: “Malcolm Holcombe è il miglior cantautore che abbia mai fatto uscire dal mio studio di registrazione”.Dave Roe, invece, il leggendario bassista dell'ultima band di Johnny Cash, i Tennessee Three, non perde occasione per suonare con lui: "Malcolm è l'unico artista per cui combatto per essere presente durante le sue registrazioni".
Queste le date del suo imminente tour italiano 2016: 28/4 VEROLANUOVA (BS) - Parco Nocivelli 29/4 TALMASSONS (UD) - Mondelli Stable 30/4 PARMA -Mentana 104 1/5 VIGNOLA (MO) - Stones Cafe 2/5 TORINO - Folk Club 3/5 CANTU' (CO) - 1e35 Circa
CHEAP TRICK Bang Zoom Crazy...Hello (Big Machine Records, 2016)
Con l'uscita del batterista Bun E. Carlos si interrompe quella spiritosa dualità interna che li ha sempre caratterizzati: da una parte i belli da prima pagina (Robin Zander, Tom Petersson), dall'altra i brutti con la sostanza (Carlos e l'eterno nerd Rick Nielsen). Ma i fan lo rivorrebbero già a casa. In questo 2016, però, hanno guadagnato la rock'n' roll Hall Of Fame e la voglia di rimanere in pista con un nuovo disco (a sette anni dall'ultimo THE LATEST) che cambia poco le carte in tavola della loro carriera: l'hard rock spianato dal pop rimane il miglior ingrediente delle canzoni, con meno freschezza rispetto al passato ma con ancora tanto mestiere. Perché cambiare? Chitarre e assoli in canzoni dal tiro hard street ('Heart on The Line', 'Roll Me'), cori come fossero gli anni 60 ('No Directipn Home', ''The Sun Never Sets'), qualche puntata nella new wave più leggera degli eighties ('When I Wake Up Tomorrow') e nel glam di scuola T Rex ('Blood Red Lips'). Per il resto solo divertimento da ascoltare in buona compagnia. Party band per eccellenza, ancora oggi a quarantadue anni dalla nascita. Aperitivo in spensieratezza salvato anche se non usciranno hit da tramandare ai prossimi anni di carriera i ai concerti in programma. Dimenticavo: c'è pure una cover di Dobie Gray, conosciuta anche nella versione di Bryan Ferry ('In The Crowd') e il sostituto di Carlos è stato allevato in casa (il figlio del chitarrista Nielsen).