sabato 25 febbraio 2012
RECENSIONE/REPORTAGE live: D-A-D Live@GLAM ATTAKK -Rock n Roll Arena-Romagnano Sesia(NO),24/02/2012
Volete diventare ricchi e famosi come i Guns n'Roses?"No, sicuramente no. E' un successo troppo stressante quello;devono essere persone davvero molto forti per non scoppiare, circondati come sono da tanto nervosismo e tante chiacchiere.Vorrei, però, riuscire a raggiungere il loro livello economico:avremmo, in questo modo, la possibilità di suonare in tutto il mondo e raggiungere tutti i nostri fans". Così parlò Jesper Binzer (Cantante e chitarrista dei D-A-D) in una vecchia intervista rilasciata ad HM nel 1992Vent'anni dopo, i danesi D-A-D, famosi e ricchi non lo sono mai diventati, ma un piccolo e importante particolare li rende assolutamente superiori all'attuale baraccone messo in piedi da Axl e comparse al seguito (loro sì, sono effetivamente scoppiati vent'anni fa...): l'onestà, l'attitudine e la coesione tra i membri a trent'anni dalla formazione della band è rimasta invariata(particolare non da poco per un gruppo di nicchia).
Anche se la fama nazionalpopolare che li accompagna in patria non corrisponde al titolo da cult band in giro per il mondo, i D-A-D. sono, ancora oggi, un gruppo con un seguito affezionato e devoto. Stasera lo si è testato.
Quello che doveva essere uno dei due loro concerti in Italia (l'altro a Pinarella di Cervia) si è trasformato, con l'aggiunta di tre band italiane , nella quattordicesima edizione del festival annuale Glam Attakk. Anche quest'anno (l'anno scorso ci fu Michael Monroe) ad ospitare la manifestazione ci pensa il sempre più meritevole Rock n Roll Arena, locale ormai assurto a vero polo di attrazione per la musica pesante nel nord Italia.
Serata ricca e lunga, aperta dai Waste Pipes di Rivoli (TO). Attivi da una decina di anni e fautori di un rock fortemente influenzato dagli anni settanta con l'ugola del cantante Chris, vera protagonista.
Seguono i lucchesi H.a.r.e.m., carriera quasi ventennale alle spalle con il carismatico leader e cantante Freddy Delirio(già tastierista nei Death SS di Steve Sylvester) a guidare le canzoni attraverso il loro piglio street hard rock dal taglio sinistro.
A ridosso dei D-A-D salgono sul palco gli altri torinesi Hollywood Killerz,
promotori di questo festival dal 1999 ed ormai diventato appuntamento fisso e seguito. Il gruppo ha occasione di presentare anche nuovi brani dal disco di prossima uscita che seguirà il fortunato Dead On Arrival uscito nel 2010. Un concentrato di street rock'n'roll punk, tagliente ed incalzante il loro.
Alle 23 passate, salgono sul palco gli headliner della serata D-A-D( ...anche se, a dire la verità, poco o nulla hanno avuto a che fare con il glam durante tutta la loro lunga carriera). L'arena nel frattempo si è riempita. C'è da presentare il loro ottimo e recentissimo disco " DIC.NII.LAN.DAFT.ERD.ARK" e proprio per dimostrare quanto il gruppo tenga alle nuove composizioni (un bel crocevia tra il loro passato rock'n'roll e la pesantezza grunge di metà carriera), gli estratti sono parecchi ad iniziare dall'apertura di concerto affidata a New Age Movin In. Nemmeno il tempo di riscaldarsi che dopo pochissime note di Jihad, problemi all'impianto audio/luci bloccano la performance.
Ma quello che può essere un incidente diventa teatrino e presupposto per dimostrare tutta l'esperienza accumulata in anni di concerti, mista alla ineguagliabile capacità di divertire ed intrattenere i fans da sopra un palco. Il cantante Jesper ed il bassista Stig sono maestri. Tutto si sistema, non senza qualche difficoltà, ed il concerto può riprendere.
La nomea di gruppo folle e spettacolare che li accompagna dal vivo, non viene disattesa fin dalle prime battute e il bassista Stig Pedersen grazie ai suoi innumerevoli, folli e bizzarri bassi a due corde( da quello trasparente all'ormai mitico missile, compagno di mille concerti), alle pose e arrampicate sopra a casse e batteria, mantiene lo spettacolo promesso. I fotografi ringraziano.
Il nuovo album viene sviscerato per bene: The end, Last Time In Neverland, The Place Of The Heart, più la darkeggiante ballad We All Fall down con il chitarrista Jacob A. Binzer alle tastiere ed il trascinante nuovo singolo I wan't what she 's Got, sul finire del quale a mettersi in mostra è il batterista Laust Sonne, ultimo entrato nella band nell' ormai lontano 1999 ma diventato importantissimo nel suono del gruppo grazie al suo stile elegante dal passato retaggio jazzistico."We want What Laust's Got".Tutte le sfumature della loro musica vengono messe in scena: gli esordi con il cowpunk'n'roll di Riding with Sue e nella finale It's After Dark con il bassista Stig alla voce. Il periodo di maggior successo a cavallo tra il 1989 e 1992 con l'anthemica Point Of View, la già citata Jihad e l'immancabile hit Slleping My Day Away estrapolate da No Fuel Left For The Pilgrims(1989), più il rock'n'roll di Grow or Pay e la tiratissima Bad Craziness da Riskin' it all(1991).
Ci fu anche il periodo durante il quale i D-A-D, come centinaia di altri gruppi, dovettero scendere a compromessi con il Grunge per rimanere in pista, ma lo fecero molto bene: la pesante Reconstrucdead ce lo ricorda , insieme alle più recenti Everything Glows e Monster Philosophy.
I D-A-D si divertono ancora e fanno divertire con il loro compromesso così ben incastrato tra energia e melodia, i loro chorus memorizzabili, le svisate
country/western che ogni tanto riaffiorano dal passato e una tenuta di palco da veri maestri con Jesper Binzer sempre pronto a coinvolgere il pubblico con i suoi "esperimenti" e sempre capace nel tirar fuori un sorriso.
Peccato che il tempo tiranno cancelli dalla scaletta la ballad Laugh'N'A 1/2 che non sarebbe dispiaciuta a nessuno per concludere la lunga serata.
SETLIST: A New Age Movin In/Jihad/The End/Everything Glows/Point Of View/Monster Philosiphy/Reconstrucdead/Ridin' with Sue/Last Time in Neverland/Grow or Pay/We All Fall Down/I Want What She's Got/Evil Twin/Bad Craziness/The Place Of The Heart/Sleeping My day away/It's After Dark
RECENSIONE: D-A-D "DIC.NII.LAN.DAFT.ERD.ARK"
giovedì 23 febbraio 2012
RECENSIONE: HOGJAW ( Sons Of The Western Skies )
HOGJAW Sons Of The Western Skies ( Swampjawbeamusic, 2012)
Con il terzo album Sons Of The Western Skies, gli Hogjaw dall'Arizona rivendicano di diritto un posto tra le migliori Southern rock band contemporanee. Amici fin dai tempi di scuola, hanno dovuto aspettare vent'anni prima di unirsi come band nel 2006.
Già dai primi due album Devil in Details (2008) e Ironwood (2010) si erano fatti notare per il loro roccioso e solido hard southern rock, tanto vicino alla tradizione dei Lynyrd Skynyrd quanto alle band più leggendarie, heavy e toste del movimento quali Molly Hatchet, Doc Holliday, Blackfoot e Hydra, senza tuttavia snobbare e nascondere la pesantezza, il carattere ed una presenza scenica più moderna e vicina allo stoner rock di gruppi come i Clutch, avvicinati anche con il look da trasandati boscaioli redneck.
Gruppo con pochi fronzoli: diretto, viscerale e schietto. Il poker di canzoni che aprono il loro terzo album ne sono una prova inconfutabile.
Spoonfed, Hells Half Home of Mine, Road Of Fools e Six Shots picchiano giù duro, non facendosi apprezzare per l'originalità quanto per il loro carattere rozzo, solido e concreto. Le chitarre di Jones e Kreg Self lavorano duro e giocano con gli assoli in Six Shots, una cavalcata d'impronta heavy che non lascia prigionieri.
Poi, si arriva a Everyone's Goin Fishin, un divertente boogie/soul con il basso di Elvis DD ed un sax contagioso che ci introducono alla vera passione/hobby dei nostri: la pesca( a tal proposito, su alcuni loro video, potete trovarli impegnati durante le loro divertenti -ma professionali-battute in alto mare).
Look to the Sky è una classica southern ballad: otto minuti di spazi infiniti, terra rossa e la "grossa"voce di Jonboat Jones a condurre metà canzone, mentre l'altra metà è strumentale e free.
Mainstream Trucker(18 wheeler mix) è un canonico e terroso blues con l'armonica che serpeggia in lungo ed in largo, a cui fa seguito la tambureggiante Midnight Run To Cleator, con la batteria di Kwall a tenere il ritmo come una marcia forsennata. Ecco che si inizia a capire quanto gli Hogjaw, a loro modo, siano un gruppo fuori dagli schemi: accelerazioni e rallentamenti in odor di stoner '90 a tradire il chiaro retaggio metal della band.
A chiudere la lunga western ballad The Sum Of All Things, i confini si riallargano ed i tipici paesaggi americani si rimpossessano della scena.
Canzoni di vere e sincere persone per veri e sinceri ascoltatori.
Nessun trucco e nessun inganno.
INTERVISTA HOGJAW
Con il terzo album Sons Of The Western Skies, gli Hogjaw dall'Arizona rivendicano di diritto un posto tra le migliori Southern rock band contemporanee. Amici fin dai tempi di scuola, hanno dovuto aspettare vent'anni prima di unirsi come band nel 2006.
Già dai primi due album Devil in Details (2008) e Ironwood (2010) si erano fatti notare per il loro roccioso e solido hard southern rock, tanto vicino alla tradizione dei Lynyrd Skynyrd quanto alle band più leggendarie, heavy e toste del movimento quali Molly Hatchet, Doc Holliday, Blackfoot e Hydra, senza tuttavia snobbare e nascondere la pesantezza, il carattere ed una presenza scenica più moderna e vicina allo stoner rock di gruppi come i Clutch, avvicinati anche con il look da trasandati boscaioli redneck.
Gruppo con pochi fronzoli: diretto, viscerale e schietto. Il poker di canzoni che aprono il loro terzo album ne sono una prova inconfutabile.
Spoonfed, Hells Half Home of Mine, Road Of Fools e Six Shots picchiano giù duro, non facendosi apprezzare per l'originalità quanto per il loro carattere rozzo, solido e concreto. Le chitarre di Jones e Kreg Self lavorano duro e giocano con gli assoli in Six Shots, una cavalcata d'impronta heavy che non lascia prigionieri.
Poi, si arriva a Everyone's Goin Fishin, un divertente boogie/soul con il basso di Elvis DD ed un sax contagioso che ci introducono alla vera passione/hobby dei nostri: la pesca( a tal proposito, su alcuni loro video, potete trovarli impegnati durante le loro divertenti -ma professionali-battute in alto mare).
Look to the Sky è una classica southern ballad: otto minuti di spazi infiniti, terra rossa e la "grossa"voce di Jonboat Jones a condurre metà canzone, mentre l'altra metà è strumentale e free.
Mainstream Trucker(18 wheeler mix) è un canonico e terroso blues con l'armonica che serpeggia in lungo ed in largo, a cui fa seguito la tambureggiante Midnight Run To Cleator, con la batteria di Kwall a tenere il ritmo come una marcia forsennata. Ecco che si inizia a capire quanto gli Hogjaw, a loro modo, siano un gruppo fuori dagli schemi: accelerazioni e rallentamenti in odor di stoner '90 a tradire il chiaro retaggio metal della band.
A chiudere la lunga western ballad The Sum Of All Things, i confini si riallargano ed i tipici paesaggi americani si rimpossessano della scena.
Canzoni di vere e sincere persone per veri e sinceri ascoltatori.
Nessun trucco e nessun inganno.
INTERVISTA HOGJAW
martedì 21 febbraio 2012
RECENSIONE: EDDA (Odio i Vivi)
EDDA Odio i Vivi ( Niegazowana, 2012)
Odio Edda come lui odia i vivi. Lui ha i suoi buoni motivi ma non li dice, io ho i miei e ve li dico.
Odio Edda perchè è vivo e ci mentiva. Ci mentiva quando diceva, dopo l'uscita del suo esordio solista Semper Biot, che non avrebbe più suonato elettrico, accampando mille scuse, tra cui quelle di essere sordo e vecchio per certi suoni, diciamo "a volume alto". Questo disco, a suo modo, è sinfonicamente Noise.
Odio i vivi, perchè mentivamo a noi stessi. Mentivamo quando, dopo l'ascolto di Semper Biot, pensavamo che un disco così difficilmente avrebbe avuto un degno successore, indotti e convinti dallo stesso autore così pessimista sulle proprie potenzialità.
I motivi erano tanti: Semper Biot ha custodito e custodisce al suo interno oltre che buone, a volte ottime canzoni, anche dei sentimenti, quelli di chi ha sempre amato la voce, il carattere ed il carisma di quello che fu l'ex cantante dei Ritmo Tribale; il cantante che la maggioranza dava per scomparso nel nulla. Ricordi ed emozioni che affioravano, mischiandosi alla realtà degli ultimi anni trascorsi da Stefano Edda Rampoldi e dalla sua timida resurrezione con canzoni che piano piano divennero la sua autobiografia, svelando tante cose. Un disco che mi ha accompagnato quasi giornalmente. Poi ho dovuto smettere perchè l'ascolto mi lasciava dentro troppe cose risolte e irrisolte. Troppo di tutto. Anche per questo odio Edda.
E' difficile raccontare Edda a chi l'ha scoperto solamente nel 2009. Lui ci ha provato con Semper Biot. Molto bene.
Un misto di irrequieta voglia di vivere e latente rassegnazione. Un pulcino bagnato sopra ad un mappamondo gigante e scivoloso. Occhi curiosi a forma di cannocchiale sopra ad un alto ponteggio metropolitano. Indifeso soldato che mostra denti e bestemmia per auto proteggersi e scacciare demoni veri e patacche vestite da diavolo.
Con la stessa squadra di lavoro (no, qui i ponteggi in giro per Milano non c'entrano più nulla), dell'esordio: ossia Walter Somà, suo alter ego e coautore delle canzoni ( presto il suo disco solista), e Taketo Gohara in produzione. Tutto quello che (musicalmente) non c'era in Semper Biot c'è qui. Dove là c'era una chitarra acustica, qui c'è una chitarra elettrica, e tanti archi e strumenti a fiato, degni di una filarmonica "impazzita" sotto la regia di Stefano Nanni.
"Ho dei rapporti interpersonali proprio di merda. E' una qualità che mi riconosco, soprattutto con le donne che non capiscono che le amo tutte", così parlava in questa intervista.
Perchè Odio i Vivi è il più grande disco d'amore di questi anni, con tanti nomi di donna nei titoli che nemmeno i Toto osarono mettere in un solo disco: Emma, Anna, Marika, Tania.
Forse Laura, canzone di Ciro Sebastianelli che Edda ama cantare spesso nei suoi live, ha fatto scattare la scintilla...
"L'amore diventa merda dopo due settimane/ I Miei amici hanno figli, figli, figli / Io ho sempre fame" canta in Anna fino ad arrivare al crescendo tra chitarre, archi e rumori assortiti di seghe e lamiere: "Anna non faccio regali/ Io non ho buon gusto".
Canzoni destrutturate, pieni di chitarre elettriche rumorose e pesanti ( Topazio-variante della sua famosa Il Grande Brescia?-), che rasentano la cacofonia quando partono gli archi, le frasi spezzate, le imprecazioni, gli ammiccamenti e le urla di Edda (Gionata-scritta da Somà e Gionata Mirai-) e poi ancora i fiati (Qui). Canzoni piene di radici: partono da una parte e scappano in mille direzioni (Odio I Vivi); canzoni che sembrano nate durante i suoi imprevedibili e sgangherati live, pronte a trasformarsi in qualunque cosa voi vogliate.
Canta con la voce che diventa strumento aggiunto sia nelle frasi sbiascicate ed incomprensibili, sia quando arrivano i vocalizzi impossibili quasi degni del compianto Demetrio Stratos.
Pensieri arruffati lanciati in pasto al mondo, dove ci si può perdere ma spesso si finisce per immedesimarsi tanto sono intrisi di quella quotidiana e pessimistica saggezza:
"Perchè le strade, amica mia, dividono/Ho sbagliato tutto nella vita e ho avuto te"(Emma)
"Nessuno sa rovinare la mia vita meglio di me"(Odio I Vivi)
"Vivo sul filo dell'invisibilità tra la gente/e vado sotto e vado sotto questa grande città"(Qui)
"Ricordati che devi morire. Rilassati"(Marika)
"Io già lo so che rinascerò in un altro corpo/per favore no"(Tania)
Edda ha poca voglia di vestirsi. Si mette a nudo una seconda volta. Se Semper Biot era autobiografia, Odio i Vivi è radiografia. Another side of Stefano Rampoldi.
Sinfonie dei topi, ponteggi crollati, autobus impazziti. Un cuore gigante che vorrebbe abbracciare l'intero universo, mentre si trova a lottare tu per tu con un sentimento che non corrisponde mai alle proprie esigenze. Debolezze che diventano forza.
L'incomunicazione in Omino Nero, l'invisibilità in un mondo che gioca (Qui). Il blues di Edda.
Il suo difficile rapporto con le persone, con le donne in particolare, con il mondo tutto, sono la chiave di lettura di un disco che puritani perbenisti hanno iniziato ad attaccare appena la foto di copertina ha iniziato a girare in rete, intanto Belen, in prima serata su Rai 1, faceva volare la sua "farfalla". Ora ascoltate il resto, maledetti!
A Edda creare corazze non serve più. Ora, ha una schiera di soldati in armatura che lo hanno adottato o meglio che non l'hanno mai abbandonato, pronti a difenderlo.
Dimenticavo: odio Edda perchè si è fottuto anche il nome di mia madre. Maledetto pure lui.
Recensione: IN ORBITA
Recensione: Live, Tronzano Vercellese, 8 Gennaio 2011
INTERVISTA
Odio Edda come lui odia i vivi. Lui ha i suoi buoni motivi ma non li dice, io ho i miei e ve li dico.
Odio Edda perchè è vivo e ci mentiva. Ci mentiva quando diceva, dopo l'uscita del suo esordio solista Semper Biot, che non avrebbe più suonato elettrico, accampando mille scuse, tra cui quelle di essere sordo e vecchio per certi suoni, diciamo "a volume alto". Questo disco, a suo modo, è sinfonicamente Noise.
Odio i vivi, perchè mentivamo a noi stessi. Mentivamo quando, dopo l'ascolto di Semper Biot, pensavamo che un disco così difficilmente avrebbe avuto un degno successore, indotti e convinti dallo stesso autore così pessimista sulle proprie potenzialità.
I motivi erano tanti: Semper Biot ha custodito e custodisce al suo interno oltre che buone, a volte ottime canzoni, anche dei sentimenti, quelli di chi ha sempre amato la voce, il carattere ed il carisma di quello che fu l'ex cantante dei Ritmo Tribale; il cantante che la maggioranza dava per scomparso nel nulla. Ricordi ed emozioni che affioravano, mischiandosi alla realtà degli ultimi anni trascorsi da Stefano Edda Rampoldi e dalla sua timida resurrezione con canzoni che piano piano divennero la sua autobiografia, svelando tante cose. Un disco che mi ha accompagnato quasi giornalmente. Poi ho dovuto smettere perchè l'ascolto mi lasciava dentro troppe cose risolte e irrisolte. Troppo di tutto. Anche per questo odio Edda.
E' difficile raccontare Edda a chi l'ha scoperto solamente nel 2009. Lui ci ha provato con Semper Biot. Molto bene.
Un misto di irrequieta voglia di vivere e latente rassegnazione. Un pulcino bagnato sopra ad un mappamondo gigante e scivoloso. Occhi curiosi a forma di cannocchiale sopra ad un alto ponteggio metropolitano. Indifeso soldato che mostra denti e bestemmia per auto proteggersi e scacciare demoni veri e patacche vestite da diavolo.
Con la stessa squadra di lavoro (no, qui i ponteggi in giro per Milano non c'entrano più nulla), dell'esordio: ossia Walter Somà, suo alter ego e coautore delle canzoni ( presto il suo disco solista), e Taketo Gohara in produzione. Tutto quello che (musicalmente) non c'era in Semper Biot c'è qui. Dove là c'era una chitarra acustica, qui c'è una chitarra elettrica, e tanti archi e strumenti a fiato, degni di una filarmonica "impazzita" sotto la regia di Stefano Nanni.
"Ho dei rapporti interpersonali proprio di merda. E' una qualità che mi riconosco, soprattutto con le donne che non capiscono che le amo tutte", così parlava in questa intervista.
Perchè Odio i Vivi è il più grande disco d'amore di questi anni, con tanti nomi di donna nei titoli che nemmeno i Toto osarono mettere in un solo disco: Emma, Anna, Marika, Tania.
Forse Laura, canzone di Ciro Sebastianelli che Edda ama cantare spesso nei suoi live, ha fatto scattare la scintilla...
"L'amore diventa merda dopo due settimane/ I Miei amici hanno figli, figli, figli / Io ho sempre fame" canta in Anna fino ad arrivare al crescendo tra chitarre, archi e rumori assortiti di seghe e lamiere: "Anna non faccio regali/ Io non ho buon gusto".
Canzoni destrutturate, pieni di chitarre elettriche rumorose e pesanti ( Topazio-variante della sua famosa Il Grande Brescia?-), che rasentano la cacofonia quando partono gli archi, le frasi spezzate, le imprecazioni, gli ammiccamenti e le urla di Edda (Gionata-scritta da Somà e Gionata Mirai-) e poi ancora i fiati (Qui). Canzoni piene di radici: partono da una parte e scappano in mille direzioni (Odio I Vivi); canzoni che sembrano nate durante i suoi imprevedibili e sgangherati live, pronte a trasformarsi in qualunque cosa voi vogliate.
Canta con la voce che diventa strumento aggiunto sia nelle frasi sbiascicate ed incomprensibili, sia quando arrivano i vocalizzi impossibili quasi degni del compianto Demetrio Stratos.
Pensieri arruffati lanciati in pasto al mondo, dove ci si può perdere ma spesso si finisce per immedesimarsi tanto sono intrisi di quella quotidiana e pessimistica saggezza:
"Perchè le strade, amica mia, dividono/Ho sbagliato tutto nella vita e ho avuto te"(Emma)
"Nessuno sa rovinare la mia vita meglio di me"(Odio I Vivi)
"Vivo sul filo dell'invisibilità tra la gente/e vado sotto e vado sotto questa grande città"(Qui)
"Ricordati che devi morire. Rilassati"(Marika)
"Io già lo so che rinascerò in un altro corpo/per favore no"(Tania)
Edda ha poca voglia di vestirsi. Si mette a nudo una seconda volta. Se Semper Biot era autobiografia, Odio i Vivi è radiografia. Another side of Stefano Rampoldi.
Sinfonie dei topi, ponteggi crollati, autobus impazziti. Un cuore gigante che vorrebbe abbracciare l'intero universo, mentre si trova a lottare tu per tu con un sentimento che non corrisponde mai alle proprie esigenze. Debolezze che diventano forza.
L'incomunicazione in Omino Nero, l'invisibilità in un mondo che gioca (Qui). Il blues di Edda.
Il suo difficile rapporto con le persone, con le donne in particolare, con il mondo tutto, sono la chiave di lettura di un disco che puritani perbenisti hanno iniziato ad attaccare appena la foto di copertina ha iniziato a girare in rete, intanto Belen, in prima serata su Rai 1, faceva volare la sua "farfalla". Ora ascoltate il resto, maledetti!
A Edda creare corazze non serve più. Ora, ha una schiera di soldati in armatura che lo hanno adottato o meglio che non l'hanno mai abbandonato, pronti a difenderlo.
Dimenticavo: odio Edda perchè si è fottuto anche il nome di mia madre. Maledetto pure lui.
Recensione: IN ORBITA
Recensione: Live, Tronzano Vercellese, 8 Gennaio 2011
INTERVISTA
domenica 19 febbraio 2012
RECENSIONE: NINA ZILLI (L'amore è Femmina)
NINA ZILLI L'amore è Femmina ( Universal Records, 2012)
Per chi già conosceva la bella e brava Nina Zilli, il suo passaggio sanremese non è stato una sorpresa ma una conferma dell'esuberante personalità dell'artista piacentina dal ricco bagaglio musicale.
Cresciuta musicalmente a pane, Soul e Rhythm and Blues, la sua carriera potrebbe conoscere una vera impennata di notorietà nazionalpopolare che la dura gavetta artistica, il primo Sanremo del 2010 ed i numerosi premi della critica hanno appenna sfiorato due anni fa.
Gavetta spesa come corista per svariati gruppi reggae (tra cui Africa Unite, Franziska, Smoke) e qualche passaggio televisivo a rinforzare l'altrettanto ricco bagaglio di vita tra l'infanzia passata in Irlanda e due anni di apprendistato musicale negli States. Poi il primo Sanremo con L'uomo che amava le donne, vero preludio al primo album Sempre Lontano del 2010, e il successo del singolo 50mila insieme all'amico Giuliano Palma.
Personalità, presenza scenica solare, autoironia e tanta determinazione che trovano conferma nel secondo album L'amore è femmina, con qualche cambiamento di sound rispetto al debutto: la semplicità travolgente, vintage e black che permeava i suoni (da live band) del primo disco si amplia con inserti di moderna elettronica, mai troppo invasivi come nell'apertura Per le Strade scritta da Pacifico. Un disco più controllato nel sound (Michele Canova Iorfida in produzione); vengono a mancare le numerose influenze jamaicane dell'esordio, sostituite da canzoni più soul e confidenziali, mantenendo l'amore e la leggerezza come protagonisti dei suoi testi, con quella punta di femminismo che piacerebbe ad Aretha Franklin, pur con qualche rara e piacevole eccezione. Non cercate troppo impegno, con Nina Zilli ci si svaga e ci si diverte, anche quando un sentimento come l'amore, da leggero si fa pesante.
La tradizione pop della musica italiana dei sessanta con Mina come saldo punto di riferimento, senza cadere mai nella pura imitazione e mettendoci un po' del suo: la sanremese Per Sempre, La Felicità (scritta da Diego Mancino).
Poi le solite influenze Motown e Stax, con Etta James, Nina Simone (il suo nome d'arte arriva proprio da qui), i Temptations e le più attuali Amy Winehouse e Caro Emerald sempre ben presenti in Una Notte , L'Inverno All'improvviso e nella struggente prova vocale di Non Qui.
Da segnalare il rocksteady di Un'Altra Estate scritto a quattro mani con Carmen Consoli, il travolgente R&B/rock Anna e il testo esistenzialista nella blueseggiante La casa sull'Albero.
Voce temprata dallo studio ( soprano) ma assolutamente naturale e mai forzata. Grande passione per la musica afro/black, temperamento e voglia di arrivare, sensualità, ricerca maliziosa del look; seguendo la sua indole ed una attitudine sincera, così lontana dal cantato "urlato" imposto dagli amici di Maria.
Se le sue polemiche dichiarazioni sui talent show (x-factor in particolare) hanno fatto parlare, facendola passare per spocchiosa, una base di verità nelle sue parole è comunque presente. A volte i talenti possono emergere senza passare dal calderone mediatico forzato e un po' (troppo)preconfezionato del fenomeno televisivo degli ultimi anni. I suoi sudati live-show (cercate il suo Live @ Blue Note 2010) sono una buona conferma, tanto da riuscire a guadagnarsi il rispetto della scena musicale alternativa italiana. Il duetto sanremese con Skye dei Morcheeba è stato tra le poche cose da salvare del recente Sanremo e resterà un buon biglietto da visita per il futuro, premiandola (per quel che può ancora valere nel 2012) con la partecipazione al prossimo Eurofestival in rappresentanza dell'Italia.
Ora la cosa più importante sarà scrollarsi di dosso le ingombranti ombre, mai negate da lei stessa(Mina , Amy Winehouse) che la seguono alla voce termini di paragone, dimostrando che Nina Zilli è Nina Zilli; proseguendo la sua carriera in modo libero ed indipendente come la carriera della prediletta Nina Simone insegna.
Per chi già conosceva la bella e brava Nina Zilli, il suo passaggio sanremese non è stato una sorpresa ma una conferma dell'esuberante personalità dell'artista piacentina dal ricco bagaglio musicale.
Cresciuta musicalmente a pane, Soul e Rhythm and Blues, la sua carriera potrebbe conoscere una vera impennata di notorietà nazionalpopolare che la dura gavetta artistica, il primo Sanremo del 2010 ed i numerosi premi della critica hanno appenna sfiorato due anni fa.
Gavetta spesa come corista per svariati gruppi reggae (tra cui Africa Unite, Franziska, Smoke) e qualche passaggio televisivo a rinforzare l'altrettanto ricco bagaglio di vita tra l'infanzia passata in Irlanda e due anni di apprendistato musicale negli States. Poi il primo Sanremo con L'uomo che amava le donne, vero preludio al primo album Sempre Lontano del 2010, e il successo del singolo 50mila insieme all'amico Giuliano Palma.
Personalità, presenza scenica solare, autoironia e tanta determinazione che trovano conferma nel secondo album L'amore è femmina, con qualche cambiamento di sound rispetto al debutto: la semplicità travolgente, vintage e black che permeava i suoni (da live band) del primo disco si amplia con inserti di moderna elettronica, mai troppo invasivi come nell'apertura Per le Strade scritta da Pacifico. Un disco più controllato nel sound (Michele Canova Iorfida in produzione); vengono a mancare le numerose influenze jamaicane dell'esordio, sostituite da canzoni più soul e confidenziali, mantenendo l'amore e la leggerezza come protagonisti dei suoi testi, con quella punta di femminismo che piacerebbe ad Aretha Franklin, pur con qualche rara e piacevole eccezione. Non cercate troppo impegno, con Nina Zilli ci si svaga e ci si diverte, anche quando un sentimento come l'amore, da leggero si fa pesante.
La tradizione pop della musica italiana dei sessanta con Mina come saldo punto di riferimento, senza cadere mai nella pura imitazione e mettendoci un po' del suo: la sanremese Per Sempre, La Felicità (scritta da Diego Mancino).
Poi le solite influenze Motown e Stax, con Etta James, Nina Simone (il suo nome d'arte arriva proprio da qui), i Temptations e le più attuali Amy Winehouse e Caro Emerald sempre ben presenti in Una Notte , L'Inverno All'improvviso e nella struggente prova vocale di Non Qui.
Da segnalare il rocksteady di Un'Altra Estate scritto a quattro mani con Carmen Consoli, il travolgente R&B/rock Anna e il testo esistenzialista nella blueseggiante La casa sull'Albero.
Voce temprata dallo studio ( soprano) ma assolutamente naturale e mai forzata. Grande passione per la musica afro/black, temperamento e voglia di arrivare, sensualità, ricerca maliziosa del look; seguendo la sua indole ed una attitudine sincera, così lontana dal cantato "urlato" imposto dagli amici di Maria.
Se le sue polemiche dichiarazioni sui talent show (x-factor in particolare) hanno fatto parlare, facendola passare per spocchiosa, una base di verità nelle sue parole è comunque presente. A volte i talenti possono emergere senza passare dal calderone mediatico forzato e un po' (troppo)preconfezionato del fenomeno televisivo degli ultimi anni. I suoi sudati live-show (cercate il suo Live @ Blue Note 2010) sono una buona conferma, tanto da riuscire a guadagnarsi il rispetto della scena musicale alternativa italiana. Il duetto sanremese con Skye dei Morcheeba è stato tra le poche cose da salvare del recente Sanremo e resterà un buon biglietto da visita per il futuro, premiandola (per quel che può ancora valere nel 2012) con la partecipazione al prossimo Eurofestival in rappresentanza dell'Italia.
Ora la cosa più importante sarà scrollarsi di dosso le ingombranti ombre, mai negate da lei stessa(Mina , Amy Winehouse) che la seguono alla voce termini di paragone, dimostrando che Nina Zilli è Nina Zilli; proseguendo la sua carriera in modo libero ed indipendente come la carriera della prediletta Nina Simone insegna.
giovedì 16 febbraio 2012
RECENSIONE: FIRST AID KIT ( The Lion's Roar)
FIRST AID KIT The Lion's Roar ( Wichita Recordings, 2012)
Una bella fiaba nordica. Le giovani Klara e Johanna Soderberg sembrano proprio uscire da lì. Da quelle fiabe popolate da principi e principesse, piccoli animaletti, giganti, trolls, castelli, torri e grandi distese di foreste verdi e incantate.
Una fiaba che è riuscita a far commuovere Patti Smith durante l'esecuzione di Dancing Barefoot, cantata dalle due giovani sorelle (19 anni la bionda Klara e 22 la bruna Johanna-spero di aver indovinato- ) durante la cerimonia del Polar Music Prize Award a Stoccolma; una fiaba che ha attraversato gli oceani incuriosendo e rapendo il sempre vigile Jack White, forse pure lui incollato a youtube a visionare le First Aid Kit mentre eseguivano Tiger Mountain Peasant Song dei Fleet Foxes o Simple Man di Graham Nash. Il buon Jack ha voluto fortissimamente conoscerle in quel di Nashville.
Scoprire cosa si nasconda dietro a queste due sorelline svedesi( i loro video sono veramente ben fatti e prodotti), se mai ci fosse qualcuno, sarebbe interessante, ma distoglierebbe troppo l'orecchio dalla loro musica e riempirebbe l'ascolto di pregiudizi inutili. Quindi, fidiamoci delle lacrime di Patti Smith e delle nostre emozioni.
The Lion's Roar è il secondo disco delle First Aid Kit, dopo un Ep e l'esordio The big Black and the Blue uscito nel 2010 .
Tante le cose che colpiscono al primo ascolto: le voci, tutte e due stupende e irresistibilmente tentatrici quando si uniscono, i testi velati di quella triste malinconia sempre indirizzata al sogno, che solamente gli scandinavi posseggono e che da due ventenni non ti aspetteresti; infine i suoni, ma qui il merito non è tutto loro, perchè per questo primo vero lancio internazionale, Klara e Johanna, insieme al papà Benkt(suona il basso) hanno preso l'aereo e si sono spostate ad Omaha in Nebraska a casa dei Bright Eyes, facendosi produrre il disco da Mike Mogis e aiutare da personaggi di primo piano della scena alt/folk americana.
Cavalcare l'onda nel new-folk potrebbe essere cosa scontata di questi tempi. Per lasciare un segno devi assolutamente avere qualcosa in più, e le sorelle Soderberg le loro carte, vista la giovane età, se le giocano più che bene. Cresciute dalla mamma con quei dischi che avevano le stesse copertine che loro hanno scelto per The Lion's Roar. Se non bastasse la copertina per svelare le loro influenze, ascoltando il testo del traditional country Emmylou con tanto di pedal steel suonata da Mogis, potremo anche scoprire cosa girava nel giradischi della mamma e quali siano i loro sogni in musica.
Come le foto che popolano il libretto, le canzoni sono abbagliate da tenui, quanto penetranti raggi solari che s'infilano come nell'obiettivo di una macchina fotografica, virando la foto e trasformandola in qualcosa dal sapore antico ed evocativo. Una foresta svedese cresciuta nei rossi deserti americani.
A parte la finale, allegra e festaiola marcetta King of the world, scritta in compagnia di Conor Oberst, presente anche nelle vocal, con la presenza di James Felice(Felice Brothers), il disco è una convincente, a tratti un po' manieristica, collezione di canzoni in perfetto bilico tra folk e alt/country con il passato ( Emmylou Harris, Joni Mitchell, Johnny Cash, Gram Parsons e Joan Baez) che si mischia al presente(Okkervil River, Fleet Foxes, O' Death, Bright Eyes appunto). Canzoni coese, affascinanti e pronte a catturare al primo ascolto, senza cadere nella mera commercialità ma pagando l'unico scotto della ripetitività e di una produzione fin troppo perfetta e su misura. Ciò' non toglie che il crescendo di The Lion's Roar, l'algida To a Poet, il perfetto folk/pop di Blue, le sinfoniche atmosfere di Dance to Another Tune e le romantiche visioni della spoglia New Year's Eve riescano a catturare l'attenzione e farsi piacere immediatamente, magari senza arrivare alle lacrime come Patti. Ma funzionano.
Lasciamo che le First Aid Kit (il nome è alquanto curioso, comunque) continuino a vivere la loro fiaba appena iniziata. Ci saranno ostacoli (il pop è dietro l'angolo) nascosti nelle pagine del libro, ma il finale è lontano e ancora tutto da scrivere.
Se volete prolungare la fiaba, sulla Limited Edition del cd, vi è il codice per poter scaricare un piccolo live set acustico di sei canzoni comprendente: The Lion's Roar, Emmylou, Ghost Town, Marianne's Son, Hard Believer, I Met Up With the King. Devo dire che, ascoltando le canzoni così spoglie e al naturale, la bravura delle First Aid Kit emerge in modo maggiore.
Una bella fiaba nordica. Le giovani Klara e Johanna Soderberg sembrano proprio uscire da lì. Da quelle fiabe popolate da principi e principesse, piccoli animaletti, giganti, trolls, castelli, torri e grandi distese di foreste verdi e incantate.
Una fiaba che è riuscita a far commuovere Patti Smith durante l'esecuzione di Dancing Barefoot, cantata dalle due giovani sorelle (19 anni la bionda Klara e 22 la bruna Johanna-spero di aver indovinato- ) durante la cerimonia del Polar Music Prize Award a Stoccolma; una fiaba che ha attraversato gli oceani incuriosendo e rapendo il sempre vigile Jack White, forse pure lui incollato a youtube a visionare le First Aid Kit mentre eseguivano Tiger Mountain Peasant Song dei Fleet Foxes o Simple Man di Graham Nash. Il buon Jack ha voluto fortissimamente conoscerle in quel di Nashville.
Scoprire cosa si nasconda dietro a queste due sorelline svedesi( i loro video sono veramente ben fatti e prodotti), se mai ci fosse qualcuno, sarebbe interessante, ma distoglierebbe troppo l'orecchio dalla loro musica e riempirebbe l'ascolto di pregiudizi inutili. Quindi, fidiamoci delle lacrime di Patti Smith e delle nostre emozioni.
The Lion's Roar è il secondo disco delle First Aid Kit, dopo un Ep e l'esordio The big Black and the Blue uscito nel 2010 .
Tante le cose che colpiscono al primo ascolto: le voci, tutte e due stupende e irresistibilmente tentatrici quando si uniscono, i testi velati di quella triste malinconia sempre indirizzata al sogno, che solamente gli scandinavi posseggono e che da due ventenni non ti aspetteresti; infine i suoni, ma qui il merito non è tutto loro, perchè per questo primo vero lancio internazionale, Klara e Johanna, insieme al papà Benkt(suona il basso) hanno preso l'aereo e si sono spostate ad Omaha in Nebraska a casa dei Bright Eyes, facendosi produrre il disco da Mike Mogis e aiutare da personaggi di primo piano della scena alt/folk americana.
Cavalcare l'onda nel new-folk potrebbe essere cosa scontata di questi tempi. Per lasciare un segno devi assolutamente avere qualcosa in più, e le sorelle Soderberg le loro carte, vista la giovane età, se le giocano più che bene. Cresciute dalla mamma con quei dischi che avevano le stesse copertine che loro hanno scelto per The Lion's Roar. Se non bastasse la copertina per svelare le loro influenze, ascoltando il testo del traditional country Emmylou con tanto di pedal steel suonata da Mogis, potremo anche scoprire cosa girava nel giradischi della mamma e quali siano i loro sogni in musica.
Come le foto che popolano il libretto, le canzoni sono abbagliate da tenui, quanto penetranti raggi solari che s'infilano come nell'obiettivo di una macchina fotografica, virando la foto e trasformandola in qualcosa dal sapore antico ed evocativo. Una foresta svedese cresciuta nei rossi deserti americani.
A parte la finale, allegra e festaiola marcetta King of the world, scritta in compagnia di Conor Oberst, presente anche nelle vocal, con la presenza di James Felice(Felice Brothers), il disco è una convincente, a tratti un po' manieristica, collezione di canzoni in perfetto bilico tra folk e alt/country con il passato ( Emmylou Harris, Joni Mitchell, Johnny Cash, Gram Parsons e Joan Baez) che si mischia al presente(Okkervil River, Fleet Foxes, O' Death, Bright Eyes appunto). Canzoni coese, affascinanti e pronte a catturare al primo ascolto, senza cadere nella mera commercialità ma pagando l'unico scotto della ripetitività e di una produzione fin troppo perfetta e su misura. Ciò' non toglie che il crescendo di The Lion's Roar, l'algida To a Poet, il perfetto folk/pop di Blue, le sinfoniche atmosfere di Dance to Another Tune e le romantiche visioni della spoglia New Year's Eve riescano a catturare l'attenzione e farsi piacere immediatamente, magari senza arrivare alle lacrime come Patti. Ma funzionano.
Lasciamo che le First Aid Kit (il nome è alquanto curioso, comunque) continuino a vivere la loro fiaba appena iniziata. Ci saranno ostacoli (il pop è dietro l'angolo) nascosti nelle pagine del libro, ma il finale è lontano e ancora tutto da scrivere.
Se volete prolungare la fiaba, sulla Limited Edition del cd, vi è il codice per poter scaricare un piccolo live set acustico di sei canzoni comprendente: The Lion's Roar, Emmylou, Ghost Town, Marianne's Son, Hard Believer, I Met Up With the King. Devo dire che, ascoltando le canzoni così spoglie e al naturale, la bravura delle First Aid Kit emerge in modo maggiore.
lunedì 13 febbraio 2012
INTERVISTA a LUCA GEMMA
A due soli anni di distanza da Folkadelic, il cantautore eporediese, Luca Gemma fa uscire il suo quarto album solista, Supernaturale,continuando a dimostrare una freschezza di scrittura invidiabile, sospesa, così com'è, tra pop, rock e folk.
Animo vagabondo, Luca Gemma trasporta in musica il suo ricco bagaglio di esperienze di vita e musicali, partite negli anni novanta...
Supernaturale parte da una semplice quanto onesta e dura considerazione: la riscoperta della natura( con tutte le sue bellezze) intorno a noi, come antidoto per dimenticare tutto il brutto che l'Italia ci ha dato in questi ultimi tempi: politica in primis...
Sono stato "nomade" fino ai venti anni e mi è piaciuto molto, a conti fatti. Ma da tempo sono stanziale a Milano e quindi nomade non lo sono più. Ho vissuto sette anni in Germania e mi piacerebbe presto riuscire a stare qualche mese l'anno a Berlino. Per ciò che riguarda l'Italia, ne parlo sia bene che male, direi senza pregiudizio, e in ogni caso preferisco starci e contribuire a cambiarla.
Supernaturale è un disco nato in pochi mesi. Avevi da parte alcune idee oppure è stato tutto così istintivo?
Avevo due canzoni più o meno complete, CANZONE AL BUIO e IO VOGLIO, sulle quali mi sono rimesso a lavorare. Tutto è il resto è nato in pochi mesi, a partire dalla primavera del 2011.
Le canzoni sembrano seguire un determinato percorso, legandosi le une con le altre. Si parte dal brutto per arrivare all'esplosione della bellezza. Possiamo considerarlo a tutti gli effetti un concept?
Questo è un effetto casuale della tracklist e me ne sono accorto anch'io a cose fatte. In alcune canzoni si sentono l'amarezza e l'incazzatura per la situazione politica e culturale italiana e per l'aria che di conseguenza si respira per strada. In altre prevale la ricerca della bellezza come antidoto allo stato delle cose. Ma non ho pensato a un concept-album e stento ancora a vederlo in questo modo. Ovviamente mi piace che ci sia un mood unico che lega le canzoni tra loro e ciò è dovuto al fatto di averle scritte e poi registrate molto di getto.
Bye Bye, mette alla berlina la politica. Mai, come in questi mesi, la politica con i suoi partiti, i suoi protagonisti e le sue misere comparse vive una profonda crisi. Che stagione sta vivendo secondo te?
La politica, soprattutto qui da noi, ha vissuto negli ultimi venti anni la sua stagione peggiore. Da un lato è stata sostituita dalla comunicazione, spacciando la forma per la sostanza. Dall'altro si è dedicata agli interessi personali di qualcuno e non a quelli di tutti. Insomma il concetto della delega della
rappresentanza è stato completamente svilito. Tutto questo nell'indifferenza totale di gran parte delle persone, felici di pensare unicamente ai cazzi propri. Insomma il CHIAGNI E FOTTI, come dico nel ritornello, perfetto per un paese di sudditi e non di cittadini.
Blu Elettrico sembra un invito a seguire i propri sogni ed i propri interessi. Tu, giustamente, parli di musica. Cosa consiglieresti ad un giovane d'oggi che sogna il proprio futuro nella musica?
Sì, per me la musica è soprattutto una grande fonte di gioia. L'era digitale ha reso semplice l'accesso alla produzione e alla diffusione attraverso la rete della propria musica. Contemporaneamente questa facilità e la conseguente quantità di roba hanno reso la musica un sottofondo costante per cui è diventato più difficile concentrarsi sull'ascolto e sapere approfondire. Scaricare gratis mille canzoni sull'ipod dà un senso di onnipotenza ma è come avere davanti mille paste alla crema. Alla fine più di sei o sette non ne mangi. Detto questo, se uno ha talento e molta volontà non deve far altro che coltivare entrambi.
Nel disco ci sono molti ospiti. Hai voglia di presentarceli?
Posso dirti che ognuno di loro ha dato al disco qualcosa di prezioso adattandosi perfettamente alle canzoni in cui hanno suonato, lavorando di sottrazione. Nessuno aveva sentito nulla prima di venire in studio perché sia io che Paolo Iafelice, il produttore, volevamo che suonassero di getto. Nik Taccori (Sananda Maitreya) ha suonato la batteria, Andrea Viti (Karma e Afterhours) il basso, Patrizia Laquidara ha cantato in un brano in una tonalità piuttosto inusuale per una cantante donna. Vittorio Cosma (pianista e produttore) piano wurlitzer e organo, Pasquale de Fina (Atleticodefina) qualche chitarra elettrica, Mattia Boschi (Marta sui Tubi) il violoncello, Roberto Romano (già con i Rossomaltese, ora collaboratore dei Baustelle) alcuni fiati e Gaetano Cappa (Istituto Barlumen) ukulele e chitarra tenore. Li ringrazio tutti molto.
Quanto è stato importante il lavoro di Paolo Iafelice in produzione?
Con Paolo ho lavorato tante altre volte, fin dai tempi dei Rossomaltese. Siamo molto amici e per me è un piacere lavorare con lui senza riverenze reciproche: se una cosa è brutta, lo è e basta. E' molto bravo a capire se un pezzo gira oppure no e tecnicamente è imbattibile.
Ascoltando Credo, mi è sorto spontaneo chiederti:qual'è il tuo rapporto con la religione?
Non sono credente ma osservo da lontano e ho molto rispetto per le persone che hanno una ricca spiritualità. Ma non sono attratto dai dogmi. Credo nella natura, ecco.
La natura è la grande protagonista del disco (tra le tante canzoni, mi piace citare la bella Il cielo sopra di te cantata con Patrizia Laquidara). Tu ora vivi a Milano. Come ti rapporti con la città?
Per indole io sono decisamente metropolitano e non ho difficoltà a vivere in città. Milano mi piace ancora, è una città in cui mi sento a casa ( pur essendo romano) e che ancora mi incuriosisce. Piena di cose che non vanno, certo, ma sono fiducioso nella sua rinascita culturale e sociale
In carriera , hai scritto molte canzoni per grandi interpreti femminili. Di solito come nascono? Scrivi appositamente, pensando a chi le interpreterà, oppure scegli quelle più adatte, tra tutte quelle già scritte?
Mi piace scrivere pensando a chi canterà la canzone, ma questo non sempre è possibile. Di solito però, mentre scrivo, capisco subito che non è un brano che canterò io. Allora viene messo nella cartella dedicata agli altri interpreti.
Uscirà qualche video promozionale? Credi ancora che le immagini possano aiutare la promozione?
Uscirà tra pochi giorni il video di BYE BYE, girato da Claudio Del Monte, poi quello di UNA MELA ROSSA e un altro ancora. A me piace molto il cinema e le immagini possono aggiungere potere evocativo alla musica. Inoltre grazie al web un video vive per sempre, o almeno finché lo vuoi tu, e così te ne freghi della programmazione delle tv musicali
Presentando Supernaturale, hai citato i Black Keys? Quali sono i tuoi ascolti più recenti?
Oltre a loro, Bon Iver, Fink, Superheavy, Camille e Bobo Rondelli
E' appena uscita una discutibile ed opinabile classifica (come tutte le classifiche),dei più belli dischi italiani (33 giri) di sempre da parte di una nota rivista musicale. Hai una personale (ed opinabile) top 5 anche tu?
Cinque dischi italiani sono decisamente pochi anche se con quelli stranieri avrei ancora più difficoltà. Comunque ci provo e scelgo una raccolta di Modugno e una di Tenco (allora i 33 giri intesi come album non si facevano), Anima Latina di Battisti, Burattino Senza Fili di Bennato e Rimmel di De Gregori
Sulla tua agenda del 2012 cosa c'è scritto...
Ricordati di fare dei bei concerti.
RECENSIONE: LUCA GEMMA-Supernaturale
Animo vagabondo, Luca Gemma trasporta in musica il suo ricco bagaglio di esperienze di vita e musicali, partite negli anni novanta...
Supernaturale parte da una semplice quanto onesta e dura considerazione: la riscoperta della natura( con tutte le sue bellezze) intorno a noi, come antidoto per dimenticare tutto il brutto che l'Italia ci ha dato in questi ultimi tempi: politica in primis...
Intervista a Luca Gemma.
Ti ritrovi nella definizione di "nomade"? Nel disco non esiti a parlare male dell'Italia, quasi un invito ad abbandonarla..Sono stato "nomade" fino ai venti anni e mi è piaciuto molto, a conti fatti. Ma da tempo sono stanziale a Milano e quindi nomade non lo sono più. Ho vissuto sette anni in Germania e mi piacerebbe presto riuscire a stare qualche mese l'anno a Berlino. Per ciò che riguarda l'Italia, ne parlo sia bene che male, direi senza pregiudizio, e in ogni caso preferisco starci e contribuire a cambiarla.
Supernaturale è un disco nato in pochi mesi. Avevi da parte alcune idee oppure è stato tutto così istintivo?
Avevo due canzoni più o meno complete, CANZONE AL BUIO e IO VOGLIO, sulle quali mi sono rimesso a lavorare. Tutto è il resto è nato in pochi mesi, a partire dalla primavera del 2011.
Le canzoni sembrano seguire un determinato percorso, legandosi le une con le altre. Si parte dal brutto per arrivare all'esplosione della bellezza. Possiamo considerarlo a tutti gli effetti un concept?
Questo è un effetto casuale della tracklist e me ne sono accorto anch'io a cose fatte. In alcune canzoni si sentono l'amarezza e l'incazzatura per la situazione politica e culturale italiana e per l'aria che di conseguenza si respira per strada. In altre prevale la ricerca della bellezza come antidoto allo stato delle cose. Ma non ho pensato a un concept-album e stento ancora a vederlo in questo modo. Ovviamente mi piace che ci sia un mood unico che lega le canzoni tra loro e ciò è dovuto al fatto di averle scritte e poi registrate molto di getto.
Bye Bye, mette alla berlina la politica. Mai, come in questi mesi, la politica con i suoi partiti, i suoi protagonisti e le sue misere comparse vive una profonda crisi. Che stagione sta vivendo secondo te?
La politica, soprattutto qui da noi, ha vissuto negli ultimi venti anni la sua stagione peggiore. Da un lato è stata sostituita dalla comunicazione, spacciando la forma per la sostanza. Dall'altro si è dedicata agli interessi personali di qualcuno e non a quelli di tutti. Insomma il concetto della delega della
rappresentanza è stato completamente svilito. Tutto questo nell'indifferenza totale di gran parte delle persone, felici di pensare unicamente ai cazzi propri. Insomma il CHIAGNI E FOTTI, come dico nel ritornello, perfetto per un paese di sudditi e non di cittadini.
Blu Elettrico sembra un invito a seguire i propri sogni ed i propri interessi. Tu, giustamente, parli di musica. Cosa consiglieresti ad un giovane d'oggi che sogna il proprio futuro nella musica?
Sì, per me la musica è soprattutto una grande fonte di gioia. L'era digitale ha reso semplice l'accesso alla produzione e alla diffusione attraverso la rete della propria musica. Contemporaneamente questa facilità e la conseguente quantità di roba hanno reso la musica un sottofondo costante per cui è diventato più difficile concentrarsi sull'ascolto e sapere approfondire. Scaricare gratis mille canzoni sull'ipod dà un senso di onnipotenza ma è come avere davanti mille paste alla crema. Alla fine più di sei o sette non ne mangi. Detto questo, se uno ha talento e molta volontà non deve far altro che coltivare entrambi.
Nel disco ci sono molti ospiti. Hai voglia di presentarceli?
Posso dirti che ognuno di loro ha dato al disco qualcosa di prezioso adattandosi perfettamente alle canzoni in cui hanno suonato, lavorando di sottrazione. Nessuno aveva sentito nulla prima di venire in studio perché sia io che Paolo Iafelice, il produttore, volevamo che suonassero di getto. Nik Taccori (Sananda Maitreya) ha suonato la batteria, Andrea Viti (Karma e Afterhours) il basso, Patrizia Laquidara ha cantato in un brano in una tonalità piuttosto inusuale per una cantante donna. Vittorio Cosma (pianista e produttore) piano wurlitzer e organo, Pasquale de Fina (Atleticodefina) qualche chitarra elettrica, Mattia Boschi (Marta sui Tubi) il violoncello, Roberto Romano (già con i Rossomaltese, ora collaboratore dei Baustelle) alcuni fiati e Gaetano Cappa (Istituto Barlumen) ukulele e chitarra tenore. Li ringrazio tutti molto.
Quanto è stato importante il lavoro di Paolo Iafelice in produzione?
Con Paolo ho lavorato tante altre volte, fin dai tempi dei Rossomaltese. Siamo molto amici e per me è un piacere lavorare con lui senza riverenze reciproche: se una cosa è brutta, lo è e basta. E' molto bravo a capire se un pezzo gira oppure no e tecnicamente è imbattibile.
Ascoltando Credo, mi è sorto spontaneo chiederti:qual'è il tuo rapporto con la religione?
Non sono credente ma osservo da lontano e ho molto rispetto per le persone che hanno una ricca spiritualità. Ma non sono attratto dai dogmi. Credo nella natura, ecco.
La natura è la grande protagonista del disco (tra le tante canzoni, mi piace citare la bella Il cielo sopra di te cantata con Patrizia Laquidara). Tu ora vivi a Milano. Come ti rapporti con la città?
Per indole io sono decisamente metropolitano e non ho difficoltà a vivere in città. Milano mi piace ancora, è una città in cui mi sento a casa ( pur essendo romano) e che ancora mi incuriosisce. Piena di cose che non vanno, certo, ma sono fiducioso nella sua rinascita culturale e sociale
In carriera , hai scritto molte canzoni per grandi interpreti femminili. Di solito come nascono? Scrivi appositamente, pensando a chi le interpreterà, oppure scegli quelle più adatte, tra tutte quelle già scritte?
Mi piace scrivere pensando a chi canterà la canzone, ma questo non sempre è possibile. Di solito però, mentre scrivo, capisco subito che non è un brano che canterò io. Allora viene messo nella cartella dedicata agli altri interpreti.
Uscirà qualche video promozionale? Credi ancora che le immagini possano aiutare la promozione?
Uscirà tra pochi giorni il video di BYE BYE, girato da Claudio Del Monte, poi quello di UNA MELA ROSSA e un altro ancora. A me piace molto il cinema e le immagini possono aggiungere potere evocativo alla musica. Inoltre grazie al web un video vive per sempre, o almeno finché lo vuoi tu, e così te ne freghi della programmazione delle tv musicali
Presentando Supernaturale, hai citato i Black Keys? Quali sono i tuoi ascolti più recenti?
Oltre a loro, Bon Iver, Fink, Superheavy, Camille e Bobo Rondelli
E' appena uscita una discutibile ed opinabile classifica (come tutte le classifiche),dei più belli dischi italiani (33 giri) di sempre da parte di una nota rivista musicale. Hai una personale (ed opinabile) top 5 anche tu?
Cinque dischi italiani sono decisamente pochi anche se con quelli stranieri avrei ancora più difficoltà. Comunque ci provo e scelgo una raccolta di Modugno e una di Tenco (allora i 33 giri intesi come album non si facevano), Anima Latina di Battisti, Burattino Senza Fili di Bennato e Rimmel di De Gregori
Sulla tua agenda del 2012 cosa c'è scritto...
Ricordati di fare dei bei concerti.
RECENSIONE: LUCA GEMMA-Supernaturale
venerdì 10 febbraio 2012
RECENSIONE: CISCO ( Fuori i Secondi )
CISCO Fuori i Secondi (Color Sound Indie,2012)
Sapori antichi, album fotografici sbiaditi, biografie consumate, futurismo, racconti epici da osteria di provincia e numeri sensazionali da circo di inizio secolo('900 ovviamente).
Per il terzo album solista, dopo La lunga Notte(2006) e Il Mulo(2008), Stefano "Cisco" Bellotti, si traveste da grande capo banda di inizio '900, andando a raccontare dodici storie/canzoni, sospese tra amarcord, amore per la sua terra emiliana e i suoi "illustri" abitanti di seconda schiera, e speranza nel futuro travestita da sano ottimismo. Piccoli ritratti che fanno compiere all'ex cantante dei Modena City Ramblers un lungo e ben disteso passo in avanti nella scrittura, avvicinandosi sempre più a quella forma cantautorale inseguita fin dal suo abbandono dei Ramblers.
Un disco che fin dal titolo, preso in prestito dalla boxe, vuole prendere la parte più ottimista della vita, andando a riscoprire il passato legato a situazioni e personaggi "perdenti" che solo il tempo ha riscattato: c'é l'immensa lontananza (quasi prog nel suo incedere) nel diario di bordo di Yuri Gagarin, primo uomo a vedere la terra da una nuova e insolita prospettiva; c'è il sofferto e commovente ricordo di Augusto (Daolio, ex cantante dei Nomadi), compianto corregionale di cui quest'anno, ad Ottobre, ricorrono i vent'anni dalla morte; ci sono la "pazzia" di Antonio Ligabue, il pittore, tanto deriso in vita quanto rivalutato in morte e poi c'è una delle storie più epiche dello sport italiano, lo swing di inizio '900 cantato in dialetto di Dorando (Pietri, atleta vincitore delle medaglia d'oro mai vinta alle olimpiadi di londra del 1908).
Lontano dalla rivoluzione "populista" della grande famiglia, ma più vicino ad una rivoluzione poetica che chiama in causa immagini seppiate e ricordi di un tempo che fu. Si circonda di vecchi amici ex Ramblers che danno una mano in fase di scrittura: Giovanni Rubbiani, Alberto Cottica e Kaba Cavazzuti e una band ormai colladauta dove spiccano le presenze di Andrea Faccioli alle chitarre e il maestro Francesco Magnelli(ex Moda, CCCP,CSI e PGR ) al piano e tastiere.
Uno sguardo sul mondo visto da diverse prospettive geografiche e temporali.
Il passato e il presente messi a confronto in La Dolce Vita: il disagio e il duro vivere dei nostri giorni raccontati, rispolverando nostalgicamente la spensieratezza neorealista della "Dolce vita " di Fellini e Mastroianni, e la pesantezza-pessimistica della vita agra di Luciano Bianciardi; costruendo un mariachi folk come Golfo Mistico o prendendo consapevolezza dei tempi che si stanno vivendo in I Tempi siamo Noi.
Lo sguardo introspettivo nella poetica fantasiosa della leggera ballad pianistica Lunatico, sospesa tra sogno e realtà ; l'importanza dei piccoli gesti nella preghiera Credo e il ritratto autoironico/biografico del Il Gigante, folk/blues in gran stile big band e forti accenni waitsiani.
Infine due amare ma speranzose dediche ai luoghi e alla lontananza: Una Terra di Latte e Miele ed Emilia.
Un disco che profuma di vecchio (in senso buono), sia musicalmente che testualmente. Una maturità di scrittura raggiunta con l'aggiunta di sopraffini arrangiamenti (Augusto e Gagarin sono un buon esempio) ed una sfida-quella di abbandonare nel 2005 i famosi Ramblers-che a questo punto si può dire più che vinta.
Sapori antichi, album fotografici sbiaditi, biografie consumate, futurismo, racconti epici da osteria di provincia e numeri sensazionali da circo di inizio secolo('900 ovviamente).
Per il terzo album solista, dopo La lunga Notte(2006) e Il Mulo(2008), Stefano "Cisco" Bellotti, si traveste da grande capo banda di inizio '900, andando a raccontare dodici storie/canzoni, sospese tra amarcord, amore per la sua terra emiliana e i suoi "illustri" abitanti di seconda schiera, e speranza nel futuro travestita da sano ottimismo. Piccoli ritratti che fanno compiere all'ex cantante dei Modena City Ramblers un lungo e ben disteso passo in avanti nella scrittura, avvicinandosi sempre più a quella forma cantautorale inseguita fin dal suo abbandono dei Ramblers.
Un disco che fin dal titolo, preso in prestito dalla boxe, vuole prendere la parte più ottimista della vita, andando a riscoprire il passato legato a situazioni e personaggi "perdenti" che solo il tempo ha riscattato: c'é l'immensa lontananza (quasi prog nel suo incedere) nel diario di bordo di Yuri Gagarin, primo uomo a vedere la terra da una nuova e insolita prospettiva; c'è il sofferto e commovente ricordo di Augusto (Daolio, ex cantante dei Nomadi), compianto corregionale di cui quest'anno, ad Ottobre, ricorrono i vent'anni dalla morte; ci sono la "pazzia" di Antonio Ligabue, il pittore, tanto deriso in vita quanto rivalutato in morte e poi c'è una delle storie più epiche dello sport italiano, lo swing di inizio '900 cantato in dialetto di Dorando (Pietri, atleta vincitore delle medaglia d'oro mai vinta alle olimpiadi di londra del 1908).
Lontano dalla rivoluzione "populista" della grande famiglia, ma più vicino ad una rivoluzione poetica che chiama in causa immagini seppiate e ricordi di un tempo che fu. Si circonda di vecchi amici ex Ramblers che danno una mano in fase di scrittura: Giovanni Rubbiani, Alberto Cottica e Kaba Cavazzuti e una band ormai colladauta dove spiccano le presenze di Andrea Faccioli alle chitarre e il maestro Francesco Magnelli(ex Moda, CCCP,CSI e PGR ) al piano e tastiere.
Uno sguardo sul mondo visto da diverse prospettive geografiche e temporali.
Il passato e il presente messi a confronto in La Dolce Vita: il disagio e il duro vivere dei nostri giorni raccontati, rispolverando nostalgicamente la spensieratezza neorealista della "Dolce vita " di Fellini e Mastroianni, e la pesantezza-pessimistica della vita agra di Luciano Bianciardi; costruendo un mariachi folk come Golfo Mistico o prendendo consapevolezza dei tempi che si stanno vivendo in I Tempi siamo Noi.
Lo sguardo introspettivo nella poetica fantasiosa della leggera ballad pianistica Lunatico, sospesa tra sogno e realtà ; l'importanza dei piccoli gesti nella preghiera Credo e il ritratto autoironico/biografico del Il Gigante, folk/blues in gran stile big band e forti accenni waitsiani.
Infine due amare ma speranzose dediche ai luoghi e alla lontananza: Una Terra di Latte e Miele ed Emilia.
Un disco che profuma di vecchio (in senso buono), sia musicalmente che testualmente. Una maturità di scrittura raggiunta con l'aggiunta di sopraffini arrangiamenti (Augusto e Gagarin sono un buon esempio) ed una sfida-quella di abbandonare nel 2005 i famosi Ramblers-che a questo punto si può dire più che vinta.
martedì 7 febbraio 2012
RECENSIONE: VAN HALEN ( A Different Kind Of Truth)
VAN HALEN A Different Kind Of Truth ( Interscope Records, 2012)
I primi ascolti del vizioso singolo Tattoo mi avevano lasciato molti dubbi. I ripetuti ascolti del medesimo , sono riusciti a farmi cambiare idea, preparandomi all'ascolto dell'abum in modo positivo e speranzoso. Se i Van Halen targati 2012 sono questi, ben vengano, anche con canzoni ripescate dalla cantina e rilucidate a nuovo, saranno sempre meglio dell'ultimo disco in studio: il lontano III, registrato con Gary Cherone alla voce (comunque immune da grandi colpe, un po' come il buon Blaze Bayley negli Iron Maiden ), disco che doveva rilanciare e traghettare i Van Halen nel nuovo millennio, finendo per esserne, invece, la momentanea pietra tombale.
Dal 1998 ad oggi, in casa Van Halen sono successe tante , anche troppe cose extra-musicali che hanno dato, come risultato, un assordante silenzio discografico.
Normale, quindi, che il ritorno alla voce di David Lee Roth ( già anticipato, illusoriamente, con due canzoni nella raccolta The Best of Van Halen Vol.1-1996 ) faccia tanto rumore. L'ultimo grande guizzo lo diedero con F.U.C.K. (1991), unico disco del periodo Sammy Hagar che mi abbia preso e convinto in toto. Nonostante la popolarità, mai scemata, i dischi post 1984 non mi hanno mai entusiasmato pienamente e la super-costola Chickenfoot, nata nel 2009, ha rivalutato alla grande l'ex cantante dei Montrose.
A Different Kind Of truth, pur non presentando la cristallina e vivace freschezza compositiva del periodo d'oro con Lee Roth (1978-1984)-gli anni passano per tutti-è un disco che cresce alla distanza, dando il meglio di se' agli estremi musicali e nella seconda metà.
La già citata Tattoo, She's the woman (nata da vecchi demo targati 1976) e You and Your Blues sono tre mid-tempo hard rock piazzati in apertura che scoraggiano l'ascolto, nella loro incompiutezza. Ma sono pronto a scommettere che qualcuno mi smentirà, eleggiendole migliori canzoni del disco.
Se avete la pazienza di proseguire, potrete trovare, oltre alla chitarra di Eddie, quella sì già in forma dalle prime tracce(il lavoro su She's the woman, nonostante tutto, è spettacolo), una buona prova d'insieme, dove anche il paffuto figliol prodigo Wolfgang fa la sua bella figura, sostituendo al basso, più che degnamente, Michael Anthony (insostituibile, però, nei chorus).
Anche se la sensazione di dejà vu, ogni tanto fa capolino e il gioco dei rimandi è tanto divertente quanto inutile, le veloci China Town, Bullethead (anche lei ripresa da un demo 1977), Outta Space si fanno ben ascoltare, rinnovando la parte più heavy di una delle band con il disco di debutto più sensazionale e sorprendente della storia del rock. La buona orecchiabilità di Blood and Fire, potrebbe candidarla, fin da ora, a secondo singolo.
As I mischia la moderna pesantezza con la velocità, interrotta solamente da un breve siparietto acustico, risultando la canzone più singolare ed imprevedibile del disco, con un Lee Roth istrionico, camaleontico ed in forma come ai vecchi tempi ( si parla di sola voce, naturalmente); anche Honeybabysweetiedoll , dal vago sapore esotico, sembra incastrata perfettamente in un suono hard rock pesante e moderno, al passo con i tempi ,con Eddie Van Halen ancora irrangiugibile nei suoi funambolici assoli.
Stay Frosty riprende le divertenti canzoni boogie/blues cabarattestiche dei tempi che furono e l'aggancio con la vecchia Ice Cream Man va ben oltre il titolo.
Certo, per un gruppo che ha costruito la sua carriera con dei tormentoni indelebili ( Runninn' with the Devil, Ain't Talkin' 'bout love, Dance the Night away, Panama, Jump), aspettare la fine del disco per trovare l'unica canzone, Beats Workin', con un chorus che ti si stampa in testa ed in grado di rivaleggiare con i vecchi classici, potrebbe essere scambiato per un segnale di poca salute.
Uno sforzo maggiore, in fase di composizione, si poteva fare ed i commenti dell'ex Sammy Hagar a proposito, mi sembrano ben affondati, più che leciti e giusti; anche se, da diretto interessato, dettati da un po' di rabbia repressa.
Nonostante tutto, il disco è piacevole, divertente e ben fatto, in grado di riportare la band dei fratelli Van Halen nei gradini più alti dell'hard rock melodico, insieme ai vecchi dinosauri che tengono ancora botta, e riconsegnare un pò di visibilità mediatica.
A patto che il tutto sia un buon allenamento per successive e più ispirate mosse; sperando che in casa Van Halen continui a regnare pace e armonia. Chissà, forse in famiglia c'è già un cantante scalpitante, pronto a completare il bel quadretto familiare.
Perchè, se reunion deve essere, i vecchi fans meritano qualcosina in più di vecchi scarti tirati a nuovo. Voto 6/7
I primi ascolti del vizioso singolo Tattoo mi avevano lasciato molti dubbi. I ripetuti ascolti del medesimo , sono riusciti a farmi cambiare idea, preparandomi all'ascolto dell'abum in modo positivo e speranzoso. Se i Van Halen targati 2012 sono questi, ben vengano, anche con canzoni ripescate dalla cantina e rilucidate a nuovo, saranno sempre meglio dell'ultimo disco in studio: il lontano III, registrato con Gary Cherone alla voce (comunque immune da grandi colpe, un po' come il buon Blaze Bayley negli Iron Maiden ), disco che doveva rilanciare e traghettare i Van Halen nel nuovo millennio, finendo per esserne, invece, la momentanea pietra tombale.
Dal 1998 ad oggi, in casa Van Halen sono successe tante , anche troppe cose extra-musicali che hanno dato, come risultato, un assordante silenzio discografico.
Normale, quindi, che il ritorno alla voce di David Lee Roth ( già anticipato, illusoriamente, con due canzoni nella raccolta The Best of Van Halen Vol.1-1996 ) faccia tanto rumore. L'ultimo grande guizzo lo diedero con F.U.C.K. (1991), unico disco del periodo Sammy Hagar che mi abbia preso e convinto in toto. Nonostante la popolarità, mai scemata, i dischi post 1984 non mi hanno mai entusiasmato pienamente e la super-costola Chickenfoot, nata nel 2009, ha rivalutato alla grande l'ex cantante dei Montrose.
A Different Kind Of truth, pur non presentando la cristallina e vivace freschezza compositiva del periodo d'oro con Lee Roth (1978-1984)-gli anni passano per tutti-è un disco che cresce alla distanza, dando il meglio di se' agli estremi musicali e nella seconda metà.
La già citata Tattoo, She's the woman (nata da vecchi demo targati 1976) e You and Your Blues sono tre mid-tempo hard rock piazzati in apertura che scoraggiano l'ascolto, nella loro incompiutezza. Ma sono pronto a scommettere che qualcuno mi smentirà, eleggiendole migliori canzoni del disco.
Se avete la pazienza di proseguire, potrete trovare, oltre alla chitarra di Eddie, quella sì già in forma dalle prime tracce(il lavoro su She's the woman, nonostante tutto, è spettacolo), una buona prova d'insieme, dove anche il paffuto figliol prodigo Wolfgang fa la sua bella figura, sostituendo al basso, più che degnamente, Michael Anthony (insostituibile, però, nei chorus).
Anche se la sensazione di dejà vu, ogni tanto fa capolino e il gioco dei rimandi è tanto divertente quanto inutile, le veloci China Town, Bullethead (anche lei ripresa da un demo 1977), Outta Space si fanno ben ascoltare, rinnovando la parte più heavy di una delle band con il disco di debutto più sensazionale e sorprendente della storia del rock. La buona orecchiabilità di Blood and Fire, potrebbe candidarla, fin da ora, a secondo singolo.
As I mischia la moderna pesantezza con la velocità, interrotta solamente da un breve siparietto acustico, risultando la canzone più singolare ed imprevedibile del disco, con un Lee Roth istrionico, camaleontico ed in forma come ai vecchi tempi ( si parla di sola voce, naturalmente); anche Honeybabysweetiedoll , dal vago sapore esotico, sembra incastrata perfettamente in un suono hard rock pesante e moderno, al passo con i tempi ,con Eddie Van Halen ancora irrangiugibile nei suoi funambolici assoli.
Stay Frosty riprende le divertenti canzoni boogie/blues cabarattestiche dei tempi che furono e l'aggancio con la vecchia Ice Cream Man va ben oltre il titolo.
Certo, per un gruppo che ha costruito la sua carriera con dei tormentoni indelebili ( Runninn' with the Devil, Ain't Talkin' 'bout love, Dance the Night away, Panama, Jump), aspettare la fine del disco per trovare l'unica canzone, Beats Workin', con un chorus che ti si stampa in testa ed in grado di rivaleggiare con i vecchi classici, potrebbe essere scambiato per un segnale di poca salute.
Uno sforzo maggiore, in fase di composizione, si poteva fare ed i commenti dell'ex Sammy Hagar a proposito, mi sembrano ben affondati, più che leciti e giusti; anche se, da diretto interessato, dettati da un po' di rabbia repressa.
Nonostante tutto, il disco è piacevole, divertente e ben fatto, in grado di riportare la band dei fratelli Van Halen nei gradini più alti dell'hard rock melodico, insieme ai vecchi dinosauri che tengono ancora botta, e riconsegnare un pò di visibilità mediatica.
A patto che il tutto sia un buon allenamento per successive e più ispirate mosse; sperando che in casa Van Halen continui a regnare pace e armonia. Chissà, forse in famiglia c'è già un cantante scalpitante, pronto a completare il bel quadretto familiare.
Perchè, se reunion deve essere, i vecchi fans meritano qualcosina in più di vecchi scarti tirati a nuovo. Voto 6/7
lunedì 6 febbraio 2012
RECENSIONE: The KENNETH BRIAN BAND (Welcome to Alabama)
The KENNETH BRIAN BAND Welcome to Alabama (Southern Shift Records, 2011)
In fondo, Brian Kenneth non fa paura. Dietro al suo aspetto da componente di una Sludge-Core band, si nasconde un cuore romantico e totalmente devoto al southern/country rock d'annata. Ascoltando le note iniziali del disco, si capisce quanto sia l'amore e la dedizione che questo artista riversa verso il southern rock dei primi anni settanta. Per cui, se la sempre più revivalistica formazione dei Lynyrd Skynyrd, quella che si gode la baby pensione ottenuta nei soli 7 anni di vera attività nei settanta, quella dal sound un po' plastificato e hard degli ultimi dischi (The Last Rebel , a mio avviso, rimane l'unico vero picco della seconda parte di carriera), per intenderci, vi delude sempre di più, un ascolto al tatuato Kenneth è d'obbligo.
Tutto suona vintage in questo secondo disco del gruppo (registrato tra Settembre 2009 e Marzo 2010), dopo l'esordio "Fallin Down Slow". I suoni, il titolo, il produttore e l'immagine di copertina lasciano pochi margini di immaginazione. A metà strada tra The Allman Brothers Band di Brothers and Sisters e la melodia chitarristica dei primi The Outlaws. Proprio dal disco che portò il sound degli Allman verso il country, arriva il produttore Johnny Sandin, un veterano, anche musicista e manager della Capricorn Records, ai tempi. Un vero Guru del Southern sound. Per non farsi mancare nulla, Kenneth coverizza pure Nothin you Can Do, accompagnato dalla voce di Bonnie Bramlett, brano di Dickey Betts tratto da un album solista del chitarrista: il solare Dickey Betts and The Great Southern(1977).
Kenneth Brian (un passato nel metal prima di spostarsi a Nashville, ecco spiegato l'aspetto truce) non picchia mai troppo duro ma lascia ampio spazio alla melodia, anche quando sono le chitarre elettriche a guidare le canzoni come nell'iniziale Something Better, nella cavalcata di Tonight We Ride che ruba qualcosa a Southern Man di Neil Young e nel suo manifesto: Welcome to Alabama, non originalissima a partire dal titolo, ma vera dichiarazione d'amore verso la sua musica e la sua terra.
Per chi nutre dei dubbi sul cuore romantico del buon e tatuato Brian: Last Call e Prayer For Love, sono due delicate country songs; la prima cantata in compagnia della voce femminile di Lillie Mae Rische, la seconda con la slide di di Jason Isbell ad imperversare. Due canzoni in grado di aprire infiniti varchi, portati al culmine dall'esecuzione in solitaria della finale Cry to the Dark con la presenza di Lillie Mae Rischie nel controcanto.
Un disco omogeneo a cui manca, certamente, il guizzo vincente o la canzone da ricordare. Anche se, fortunatamente, lontanissimo dagli eccessi dell'ultimo southern sound tamarro dell'ex rapper Kid Rock, dalla spavalderia di uno Shooter Jennings o dal calderone musicale "pasticciato" di Hank III tanto per rimanere a dei suoi contemporanei.
The Kenneth Brian Band, per ora, sono una fedele ed onesta riproposizione delle grandi band dei settanta. Sicuramente, con il tempo, verrà fuori anche la personalità che gli farà compiere il grande salto. Un ascolto piacevole e legato alla tradizione.
In fondo, Brian Kenneth non fa paura. Dietro al suo aspetto da componente di una Sludge-Core band, si nasconde un cuore romantico e totalmente devoto al southern/country rock d'annata. Ascoltando le note iniziali del disco, si capisce quanto sia l'amore e la dedizione che questo artista riversa verso il southern rock dei primi anni settanta. Per cui, se la sempre più revivalistica formazione dei Lynyrd Skynyrd, quella che si gode la baby pensione ottenuta nei soli 7 anni di vera attività nei settanta, quella dal sound un po' plastificato e hard degli ultimi dischi (The Last Rebel , a mio avviso, rimane l'unico vero picco della seconda parte di carriera), per intenderci, vi delude sempre di più, un ascolto al tatuato Kenneth è d'obbligo.
Tutto suona vintage in questo secondo disco del gruppo (registrato tra Settembre 2009 e Marzo 2010), dopo l'esordio "Fallin Down Slow". I suoni, il titolo, il produttore e l'immagine di copertina lasciano pochi margini di immaginazione. A metà strada tra The Allman Brothers Band di Brothers and Sisters e la melodia chitarristica dei primi The Outlaws. Proprio dal disco che portò il sound degli Allman verso il country, arriva il produttore Johnny Sandin, un veterano, anche musicista e manager della Capricorn Records, ai tempi. Un vero Guru del Southern sound. Per non farsi mancare nulla, Kenneth coverizza pure Nothin you Can Do, accompagnato dalla voce di Bonnie Bramlett, brano di Dickey Betts tratto da un album solista del chitarrista: il solare Dickey Betts and The Great Southern(1977).
Kenneth Brian (un passato nel metal prima di spostarsi a Nashville, ecco spiegato l'aspetto truce) non picchia mai troppo duro ma lascia ampio spazio alla melodia, anche quando sono le chitarre elettriche a guidare le canzoni come nell'iniziale Something Better, nella cavalcata di Tonight We Ride che ruba qualcosa a Southern Man di Neil Young e nel suo manifesto: Welcome to Alabama, non originalissima a partire dal titolo, ma vera dichiarazione d'amore verso la sua musica e la sua terra.
Per chi nutre dei dubbi sul cuore romantico del buon e tatuato Brian: Last Call e Prayer For Love, sono due delicate country songs; la prima cantata in compagnia della voce femminile di Lillie Mae Rische, la seconda con la slide di di Jason Isbell ad imperversare. Due canzoni in grado di aprire infiniti varchi, portati al culmine dall'esecuzione in solitaria della finale Cry to the Dark con la presenza di Lillie Mae Rischie nel controcanto.
Un disco omogeneo a cui manca, certamente, il guizzo vincente o la canzone da ricordare. Anche se, fortunatamente, lontanissimo dagli eccessi dell'ultimo southern sound tamarro dell'ex rapper Kid Rock, dalla spavalderia di uno Shooter Jennings o dal calderone musicale "pasticciato" di Hank III tanto per rimanere a dei suoi contemporanei.
The Kenneth Brian Band, per ora, sono una fedele ed onesta riproposizione delle grandi band dei settanta. Sicuramente, con il tempo, verrà fuori anche la personalità che gli farà compiere il grande salto. Un ascolto piacevole e legato alla tradizione.
venerdì 3 febbraio 2012
RECENSIONE: THERAPY? ( A Brief Crack Of Light)
THERAPY? A Brief Crack Of Light ( Blast Records, 2012)
Nell'immenso marasma del rock più alternativo degli anni novanta, i nord irlandesi Therapy? sono spesso ricordati per i loro due album Troublegum(1994) e Infernal Love(1995). Poi, nonostante una carriera lunga venti anni (questo è il tredicesimo album), di loro nessuno ha più parlato, lasciando le sorti del gruppo in mano ai devoti (e fortunati) fan. Eppure, se dovessi premiare un gruppo per l'onestà e la sincerità della proposta musicale, non avrei dubbi nel scegliere la band di Andy Cairns.
La popolarità (anche commerciale: canzoni come Screamager , Nowhere e Stories lasciarono il segno) di metà anni novanta è scemata velocemente, ma non ha minimamente influito sulla musica. I dischi hanno continuato ad uscire regolarmente, mostrando una libertà di movimento che ha sfiorato tutte le sfumature del rock: dai dischi pù melodici e rock'n'roll(Shameless-2001, High Anxiety-2003) a dischi più sperimentali ed ostici (Suicide pact-you first-1999, Never Apologise never expain-2004 e Crooked Timber-2009), il tutto senza farsi influenzare da mode musicali passeggere, ma seguendo un proprio percorso artistico, lontano da qualsiasi catalogazione o etichetta.
Con la collaudata formazione a tre: Andy Cairns, voce e chitarra , il fedele bassista Michael McKeegan, da sempre insieme al timone della band e il batterista Neil Cooper, i Therapy?, anche con A Brief Crack Of Light danno lezioni su come chitarre pesanti, intelligenza compositiva, testi mai banali e melodia possano viaggiare insieme in perfetto equilibrio, facendosi contaminare da tante altre idee. Registrato a Newcastle e prodotto dallo stesso Cairns insieme ad Adam Sinclair, l'album si presenta come uno dei più estremi e sperimentali registrati in carriera, andando a recuperare, anche, alcuni suoni presenti nella primissima parte di carriera, risultando molto 90's nei suoni ma presentando alcune novità mai sentite prima nei loro dischi.
Il singolo, posto in apertura, Living in the Shadow Of The Terrible Thing, con i suoi pesanti e diretti riff heavy è sicuramente fuorviante rispetto a quanto il resto dell'album ci mostrerà. Una canzone 100% Therapy che svolge degnamente il compito.
Se Plague Bell e Ghost Trio sono due grevi post-core song, che mi hanno ricordato, in alcuni punti, i migliori Helmet di Page Hamilton, Stark Raving Sane è puro Therapy? sound con finale noise.
Le sorprese arrivano con la strumentale Marlow, quasi ballabile nel suo incedere e curiosa nei chorus femminili; nel vortice noise guidato dal basso della bella The Buzzing con le spoken words urlate di Cairns; nell'industrial ipnotico con inserti simil dub di Get Your Dead Hand Off My Shoulder e nella lenta e cupa discesa della finale Ecclesiastes, elettronica con tanto di vocoder.
Il punto massimo del disco si tocca in Why Turbulence, dopo la sfuriata quasi thrash iniziale si trasforma in un lento e cadenzato pachiderma stoner/doom; il punto minimo, nelle chitarre alt della poco incisiva e scialba Before You, With You, After You.
Per chi ha continuato a seguire i Therapy? in tutti questi anni ,una nuova riconferma, da parte di un gruppo sempre e comunque sorprendente, poco convenzionale ma coerente che, a ventitrè anni dalla nascita, continua a stupire, consapevole di non avere più mire commerciali. Dischi che escono diversamente l'uno dall'altro e che indicano quanto la loro fame di musica sia ancora tanta, anche se, oramai, diretta a pochi. Sottovalutati?
Per chi ancora non li conoscesse, è meglio fare un salto nel 1994 e procurarsi Troublegum, uno dei dischi fondamentali degli anni novanta.
vedi anche RECENSIONE/LiveReport: THERAPY? live-Rock'n'Roll Arena, Romagnano Sesia (NO),9 Novembre 2012
Nell'immenso marasma del rock più alternativo degli anni novanta, i nord irlandesi Therapy? sono spesso ricordati per i loro due album Troublegum(1994) e Infernal Love(1995). Poi, nonostante una carriera lunga venti anni (questo è il tredicesimo album), di loro nessuno ha più parlato, lasciando le sorti del gruppo in mano ai devoti (e fortunati) fan. Eppure, se dovessi premiare un gruppo per l'onestà e la sincerità della proposta musicale, non avrei dubbi nel scegliere la band di Andy Cairns.
La popolarità (anche commerciale: canzoni come Screamager , Nowhere e Stories lasciarono il segno) di metà anni novanta è scemata velocemente, ma non ha minimamente influito sulla musica. I dischi hanno continuato ad uscire regolarmente, mostrando una libertà di movimento che ha sfiorato tutte le sfumature del rock: dai dischi pù melodici e rock'n'roll(Shameless-2001, High Anxiety-2003) a dischi più sperimentali ed ostici (Suicide pact-you first-1999, Never Apologise never expain-2004 e Crooked Timber-2009), il tutto senza farsi influenzare da mode musicali passeggere, ma seguendo un proprio percorso artistico, lontano da qualsiasi catalogazione o etichetta.
Con la collaudata formazione a tre: Andy Cairns, voce e chitarra , il fedele bassista Michael McKeegan, da sempre insieme al timone della band e il batterista Neil Cooper, i Therapy?, anche con A Brief Crack Of Light danno lezioni su come chitarre pesanti, intelligenza compositiva, testi mai banali e melodia possano viaggiare insieme in perfetto equilibrio, facendosi contaminare da tante altre idee. Registrato a Newcastle e prodotto dallo stesso Cairns insieme ad Adam Sinclair, l'album si presenta come uno dei più estremi e sperimentali registrati in carriera, andando a recuperare, anche, alcuni suoni presenti nella primissima parte di carriera, risultando molto 90's nei suoni ma presentando alcune novità mai sentite prima nei loro dischi.
Il singolo, posto in apertura, Living in the Shadow Of The Terrible Thing, con i suoi pesanti e diretti riff heavy è sicuramente fuorviante rispetto a quanto il resto dell'album ci mostrerà. Una canzone 100% Therapy che svolge degnamente il compito.
Se Plague Bell e Ghost Trio sono due grevi post-core song, che mi hanno ricordato, in alcuni punti, i migliori Helmet di Page Hamilton, Stark Raving Sane è puro Therapy? sound con finale noise.
Le sorprese arrivano con la strumentale Marlow, quasi ballabile nel suo incedere e curiosa nei chorus femminili; nel vortice noise guidato dal basso della bella The Buzzing con le spoken words urlate di Cairns; nell'industrial ipnotico con inserti simil dub di Get Your Dead Hand Off My Shoulder e nella lenta e cupa discesa della finale Ecclesiastes, elettronica con tanto di vocoder.
Il punto massimo del disco si tocca in Why Turbulence, dopo la sfuriata quasi thrash iniziale si trasforma in un lento e cadenzato pachiderma stoner/doom; il punto minimo, nelle chitarre alt della poco incisiva e scialba Before You, With You, After You.
Per chi ha continuato a seguire i Therapy? in tutti questi anni ,una nuova riconferma, da parte di un gruppo sempre e comunque sorprendente, poco convenzionale ma coerente che, a ventitrè anni dalla nascita, continua a stupire, consapevole di non avere più mire commerciali. Dischi che escono diversamente l'uno dall'altro e che indicano quanto la loro fame di musica sia ancora tanta, anche se, oramai, diretta a pochi. Sottovalutati?
Per chi ancora non li conoscesse, è meglio fare un salto nel 1994 e procurarsi Troublegum, uno dei dischi fondamentali degli anni novanta.
vedi anche RECENSIONE/LiveReport: THERAPY? live-Rock'n'Roll Arena, Romagnano Sesia (NO),9 Novembre 2012
martedì 31 gennaio 2012
RECENSIONE: MARK LANEGAN BAND (Blues Funeral)
MARK LANEGAN BAND Blues Funeral ( 4AD Records, 2012)
Dall'anonimo e profondo nero pece di Bubblegum sono spuntati colorati fiori. Quasi il precedente disco, uscito otto anni fa, rappresentasse il fondo del quadro su cui Lanegan ha cucito la sua nuova opera.
Mark Lanegan è ancora quell'enorme ed impassibile ombra, dall'aspetto quasi svogliato, appoggiata con tutto il suo pesante peso all'asta del microfono, mentre intorno a lui, Nick Oliveri e Josh Homme progettavano il finimondo. Questa la scena osservata nel Novembre 2002 in un Alcatraz gremito durante il tour dei Queens Of The Stone Age che seguì il fortunato Songs for the Deaf. Lanegan è sempre e ancora in piedi, scruta svogliatamente quello che gli sta intorno e quando ne sente la necessità fa uscire le sue amare impressioni.
Quelle magnolie non sono messe lì a caso. Dodici canzoni che continuano ad essere quelle nate nei meandri più oscuri, fangosi e malati della vita. L'ascolto di Blues Funeral lascia trasparire, però, un velato e beffardo ottimismo dipinto sopra a suoni che i puristi potrebbero liquidare con frettoloso snobismo.
Gli otto anni che lo separano da Bubblegum, l'hanno visto ospite "protagonista" in tanti progetti: dai Gutter Twins e The Twilight Singers in compagnia dell'amico Greg Dulli, ai soliti QOTSA, dai Soulsavers, ai duetti roots insieme alla scozzese Isobel Campbell e non ultimo con i suoi Screaming Trees, di cui nel 2011 è uscito il famoso disco "fantasma" Last Words: The Final Recordings.
Esperienze che hanno lasciato il segno, aprendo( senza esagerare) quelle porte della socialità, nascosta per troppo tempo dietro ad una maschera che celava e copriva i segni di una vita di solitaria sofferenza ed estrema diffidenza verso l'esterno. Blues Funeral è, a suo modo, un'apertura. Un passo ardito e spiazzante in molti punti.
Almeno due capolavori in questo disco: nelle poche concessioni alle sfumature della notturna Gray Goes Black, chiaro invito a vedere le cose con il loro vero colore durante i solitari passaggi tra la luce del giorno e il buio della notte che scandiscono la nostra vita, silenzioso viaggio con l'unica e preziosa compagnia di una radio accesa, e nelle splendida cartolina di St. Louis Elegy, low ballad e personale gospel, in stile Soulsavers, con un verso che sembra racchiudere tutta la vita di Lanegan: and the dead of winter will cut you quick / these tears are liquor and i’ve drunk myself sick...
Lanegan porta la musica su un altro livello, timidamente accennato in Bubblegum. Perchè accanto alla solitaria, spoglia ed acustica Deep Black Vanishing Train, tanto vicina ai primissimi e cantautorali dischi solisti, il disco è ricco di canzoni dove le tipiche liriche laneganiane vengono circondate da synth e loop in perfetto stile New wave 80's. La più lampante Ode to Sad Disco, la macerante camminata tra le vie della redenzione di Harborviell Hospital e la finale consapevolezza di Tiny Grain Of Truth non hanno paura di giocare con l'elettronica, dimostrando, una volta di più, quanto la voce profonda e penetrante del quarantasettenne cantautore possa cambiare l'aspetto e il corso di qualsiasi sequenza di note di qualunque strumento.
Lanegan gioca, ancora una volta, a sottrarre per arricchire le sue canzoni. Il contrasto tra le fredde macchine e il calore della sua voce, con gli ascolti, conquista e rivaluta i due splendidi album con i Soulsavers (-in verità, da me, sempre amati-).
Tutto quello che rimane, tra l'alto volo di un corvo e una buca scavata nella terra, è cantato nell'incedere bellico di The Gravedigger's Song, una delle poche concessione al rock chitarristico del disco. Le altre sono Riot in My House con la chitarra del rosso Josh Homme protagonista (il riff portante, invero, non è proprio originalissimo) e il perfetto equilibrio tra synth e chitarre della viziosa ed orecchiabile Quiver Syndrome.
La scarnificazione del blues si fa concreta in Bleeding Muddy Water, lo spirito del grande bluesman sembra vegliare lungo tutta la canzone e dare un senso compiuto al titolo dell'album.
...muddy water/pillar to post/how do i bleed you?/just like a ghost/muddy water/heaven’s son/you are the bullet/you are the gun...
Riverito, corteggiato e amato ( anche questa volta tanti ospiti: il produttore e chitarrista Alain Johannes, Jack Irons alla batteria, sono loro la M.L. Band, Greg Dulli e Chris Goss), Lanegan dimostra ancora una volta di essere la più (in)credibile voce uscita negli anni novanta, degna di stare accanto ai più grandi cantautori "maledetti" d'America. Voce che sa scavare ancora nel profondo dell'anima anche se accompagnata con delle fredde e poco animate batterie elettroniche che fanno da metronomo. Quello che le belle voci di Cornell e Vedder sognano di essere e che , forse, solo Cobain e Staley avrebbero potuto raggiungere. Voce di un sopravvissuto. Il bicchiere di Whiskey è ancora mezzo pieno e i fantasmi che girano intorno sono ancora tanti e assetati.
Dall'anonimo e profondo nero pece di Bubblegum sono spuntati colorati fiori. Quasi il precedente disco, uscito otto anni fa, rappresentasse il fondo del quadro su cui Lanegan ha cucito la sua nuova opera.
Mark Lanegan è ancora quell'enorme ed impassibile ombra, dall'aspetto quasi svogliato, appoggiata con tutto il suo pesante peso all'asta del microfono, mentre intorno a lui, Nick Oliveri e Josh Homme progettavano il finimondo. Questa la scena osservata nel Novembre 2002 in un Alcatraz gremito durante il tour dei Queens Of The Stone Age che seguì il fortunato Songs for the Deaf. Lanegan è sempre e ancora in piedi, scruta svogliatamente quello che gli sta intorno e quando ne sente la necessità fa uscire le sue amare impressioni.
Quelle magnolie non sono messe lì a caso. Dodici canzoni che continuano ad essere quelle nate nei meandri più oscuri, fangosi e malati della vita. L'ascolto di Blues Funeral lascia trasparire, però, un velato e beffardo ottimismo dipinto sopra a suoni che i puristi potrebbero liquidare con frettoloso snobismo.
Gli otto anni che lo separano da Bubblegum, l'hanno visto ospite "protagonista" in tanti progetti: dai Gutter Twins e The Twilight Singers in compagnia dell'amico Greg Dulli, ai soliti QOTSA, dai Soulsavers, ai duetti roots insieme alla scozzese Isobel Campbell e non ultimo con i suoi Screaming Trees, di cui nel 2011 è uscito il famoso disco "fantasma" Last Words: The Final Recordings.
Esperienze che hanno lasciato il segno, aprendo( senza esagerare) quelle porte della socialità, nascosta per troppo tempo dietro ad una maschera che celava e copriva i segni di una vita di solitaria sofferenza ed estrema diffidenza verso l'esterno. Blues Funeral è, a suo modo, un'apertura. Un passo ardito e spiazzante in molti punti.
Almeno due capolavori in questo disco: nelle poche concessioni alle sfumature della notturna Gray Goes Black, chiaro invito a vedere le cose con il loro vero colore durante i solitari passaggi tra la luce del giorno e il buio della notte che scandiscono la nostra vita, silenzioso viaggio con l'unica e preziosa compagnia di una radio accesa, e nelle splendida cartolina di St. Louis Elegy, low ballad e personale gospel, in stile Soulsavers, con un verso che sembra racchiudere tutta la vita di Lanegan: and the dead of winter will cut you quick / these tears are liquor and i’ve drunk myself sick...
Lanegan porta la musica su un altro livello, timidamente accennato in Bubblegum. Perchè accanto alla solitaria, spoglia ed acustica Deep Black Vanishing Train, tanto vicina ai primissimi e cantautorali dischi solisti, il disco è ricco di canzoni dove le tipiche liriche laneganiane vengono circondate da synth e loop in perfetto stile New wave 80's. La più lampante Ode to Sad Disco, la macerante camminata tra le vie della redenzione di Harborviell Hospital e la finale consapevolezza di Tiny Grain Of Truth non hanno paura di giocare con l'elettronica, dimostrando, una volta di più, quanto la voce profonda e penetrante del quarantasettenne cantautore possa cambiare l'aspetto e il corso di qualsiasi sequenza di note di qualunque strumento.
Lanegan gioca, ancora una volta, a sottrarre per arricchire le sue canzoni. Il contrasto tra le fredde macchine e il calore della sua voce, con gli ascolti, conquista e rivaluta i due splendidi album con i Soulsavers (-in verità, da me, sempre amati-).
Tutto quello che rimane, tra l'alto volo di un corvo e una buca scavata nella terra, è cantato nell'incedere bellico di The Gravedigger's Song, una delle poche concessione al rock chitarristico del disco. Le altre sono Riot in My House con la chitarra del rosso Josh Homme protagonista (il riff portante, invero, non è proprio originalissimo) e il perfetto equilibrio tra synth e chitarre della viziosa ed orecchiabile Quiver Syndrome.
La scarnificazione del blues si fa concreta in Bleeding Muddy Water, lo spirito del grande bluesman sembra vegliare lungo tutta la canzone e dare un senso compiuto al titolo dell'album.
...muddy water/pillar to post/how do i bleed you?/just like a ghost/muddy water/heaven’s son/you are the bullet/you are the gun...
Riverito, corteggiato e amato ( anche questa volta tanti ospiti: il produttore e chitarrista Alain Johannes, Jack Irons alla batteria, sono loro la M.L. Band, Greg Dulli e Chris Goss), Lanegan dimostra ancora una volta di essere la più (in)credibile voce uscita negli anni novanta, degna di stare accanto ai più grandi cantautori "maledetti" d'America. Voce che sa scavare ancora nel profondo dell'anima anche se accompagnata con delle fredde e poco animate batterie elettroniche che fanno da metronomo. Quello che le belle voci di Cornell e Vedder sognano di essere e che , forse, solo Cobain e Staley avrebbero potuto raggiungere. Voce di un sopravvissuto. Il bicchiere di Whiskey è ancora mezzo pieno e i fantasmi che girano intorno sono ancora tanti e assetati.
lunedì 30 gennaio 2012
RECENSIONE: NOLATZCO ( Assalto alla Luna)
NOLATZCO Assalto alla Luna ( Psicolabel, 2012)
La fuga istintiva dei Nolatzco è quella di chi ,in questo mondo, si sente privato di tutto, di chi vede l'imminente fine (Speed) al posto del futuro in ogni raggio solare che seguirà all'ennesima notte. Dove, i pochi spiragli di vera luce entrano attraverso il sogno romantico della fuga in compagnia di un affetto (Assalto alla luna e Tutto svanisce) che si trasforma in fuga da un' apocalisse (che è quello che c'è già). L'apocalisse della precaria quotidianità. Vita che diventa imprecazione e bestemmia, sdegno, voglia di rivoluzione ma anche l'amara consapevolezza di accettare la rassegnazione ad una sconfitta di fronte alla quale bisogna comunque trovare dei colpevoli, ben mimetizzati in mezzo a tanta superficialità(Condannati al successo). La luna potrebbe essere il posto giusto su cui approdare per tenersi lontano da tutto questo, e forse meditare. La rivincita del romanticismo?
Assalto alla Luna è il primo lavoro dei Nolatzco, gruppo con sede a Ferrara, formato da: Giovanni "Nanni" Fanelli, autore di tutti i testi, attuale bassista dei Rossofuoco di Giorgio Canali e già membro dei Quinto Stato ( band autrice di due interessanti album, l'omonimo -2003 e Le ultime tracce di Mr.Tango-2007), al basso e voce, Stefania Orioli al secondo basso, Diego Artioli alla batteria e il bravo Ivo Giammetta alla chitarra .
Dieci canzoni dirette e precise nel colpire i bersagli, ambientate in un contesto e in scenari da sopravissuti alla fine del mondo. Dove, città fredde, spoglie, grigio-metalliche e poco accoglienti, potrebbero ricordare gli scenari raccontati da Vasco Brondi(da sempre grande fan dei Quinto Stato di Fanelli).
Tracce abrasive come l'iniziale Babyrivoluzione, non lasciano dubbi su quanto Canali sia più di un punto di riferimento: un punto di partenza, sicuramente, ma non un punto di arrivo. Lo si capisce dal testo di Educati al successo, (...Grovigli di tette cosce e culi bocche rifatte cazzi duri e a natale l’intermittenza di 1000 alberelli vestiti da troia… nuovi maestri di vita, nuove religioni di plastica ma noi restiamo fedeli alla linea con coca cola light…), con la sferragliante chitarra suonata da Ivo Giammetta che si ripete nel veloce post-punk anti-cemento ad impatto ambientale zero di Abusivisness. Canzoni che farebbero un gran comodo a chi era rimasto deluso dal Canali di Nostra signora della dinamite e che il recente Rojo ha parzialmente riscattato. Qui troverete l'urgenza del Canali più incazzato, con il valore aggiunto dei vent'anni di meno.
Ancora fuga e ancora luna nel lento incedere dell'oscurità della darkeggiante Lullabymoon e nel mal di vivere di una città come Milano dove le opere di Cattelan diventano parte integrante dell' arredo urbano nella finale La Ballata dei Cuori Intermittenti.
L'oscuro amore del terzo millennio di Un Caos che ti somiglia, costruita come solo Emidio Clementi ed i suoi Massimo Volume saprebbero fare, cozza contro la diretta, scollacciata e contagiosa Signorina Diesel, con il connubbio donne e motori che pare aver trovato un punto di accordo nel chorus che ti si stampa in testa: "inghiottito dalla fica, masticato e rigettato".
I Nolatzco, nella loro opera prima che segue l'Ep del 2010, disegnano un ritratto crudo e poco edificante, ma estremamente reale del nostro habitat, imprigionato nelle sue contraddizioni politiche e sociali. Una zoomata sul quotidiano musicata in maniera cruda e tagliente, con la curiosa presenza dei due bassi che diventa sinonimo di pesantezza.
I Nolatzco, giovani figli dell'Emilia paranoica, lanciano il loro assalto alla luna, quarantatre anni dopo Armstrong. Ma siamo sicuri che la luna sia disposta a riaccogliere noi "immondi" essere umani? Una sanguinaria romantica rivoluzione.
La fuga istintiva dei Nolatzco è quella di chi ,in questo mondo, si sente privato di tutto, di chi vede l'imminente fine (Speed) al posto del futuro in ogni raggio solare che seguirà all'ennesima notte. Dove, i pochi spiragli di vera luce entrano attraverso il sogno romantico della fuga in compagnia di un affetto (Assalto alla luna e Tutto svanisce) che si trasforma in fuga da un' apocalisse (che è quello che c'è già). L'apocalisse della precaria quotidianità. Vita che diventa imprecazione e bestemmia, sdegno, voglia di rivoluzione ma anche l'amara consapevolezza di accettare la rassegnazione ad una sconfitta di fronte alla quale bisogna comunque trovare dei colpevoli, ben mimetizzati in mezzo a tanta superficialità(Condannati al successo). La luna potrebbe essere il posto giusto su cui approdare per tenersi lontano da tutto questo, e forse meditare. La rivincita del romanticismo?
Assalto alla Luna è il primo lavoro dei Nolatzco, gruppo con sede a Ferrara, formato da: Giovanni "Nanni" Fanelli, autore di tutti i testi, attuale bassista dei Rossofuoco di Giorgio Canali e già membro dei Quinto Stato ( band autrice di due interessanti album, l'omonimo -2003 e Le ultime tracce di Mr.Tango-2007), al basso e voce, Stefania Orioli al secondo basso, Diego Artioli alla batteria e il bravo Ivo Giammetta alla chitarra .
Dieci canzoni dirette e precise nel colpire i bersagli, ambientate in un contesto e in scenari da sopravissuti alla fine del mondo. Dove, città fredde, spoglie, grigio-metalliche e poco accoglienti, potrebbero ricordare gli scenari raccontati da Vasco Brondi(da sempre grande fan dei Quinto Stato di Fanelli).
Tracce abrasive come l'iniziale Babyrivoluzione, non lasciano dubbi su quanto Canali sia più di un punto di riferimento: un punto di partenza, sicuramente, ma non un punto di arrivo. Lo si capisce dal testo di Educati al successo, (...Grovigli di tette cosce e culi bocche rifatte cazzi duri e a natale l’intermittenza di 1000 alberelli vestiti da troia… nuovi maestri di vita, nuove religioni di plastica ma noi restiamo fedeli alla linea con coca cola light…), con la sferragliante chitarra suonata da Ivo Giammetta che si ripete nel veloce post-punk anti-cemento ad impatto ambientale zero di Abusivisness. Canzoni che farebbero un gran comodo a chi era rimasto deluso dal Canali di Nostra signora della dinamite e che il recente Rojo ha parzialmente riscattato. Qui troverete l'urgenza del Canali più incazzato, con il valore aggiunto dei vent'anni di meno.
Ancora fuga e ancora luna nel lento incedere dell'oscurità della darkeggiante Lullabymoon e nel mal di vivere di una città come Milano dove le opere di Cattelan diventano parte integrante dell' arredo urbano nella finale La Ballata dei Cuori Intermittenti.
L'oscuro amore del terzo millennio di Un Caos che ti somiglia, costruita come solo Emidio Clementi ed i suoi Massimo Volume saprebbero fare, cozza contro la diretta, scollacciata e contagiosa Signorina Diesel, con il connubbio donne e motori che pare aver trovato un punto di accordo nel chorus che ti si stampa in testa: "inghiottito dalla fica, masticato e rigettato".
I Nolatzco, nella loro opera prima che segue l'Ep del 2010, disegnano un ritratto crudo e poco edificante, ma estremamente reale del nostro habitat, imprigionato nelle sue contraddizioni politiche e sociali. Una zoomata sul quotidiano musicata in maniera cruda e tagliente, con la curiosa presenza dei due bassi che diventa sinonimo di pesantezza.
I Nolatzco, giovani figli dell'Emilia paranoica, lanciano il loro assalto alla luna, quarantatre anni dopo Armstrong. Ma siamo sicuri che la luna sia disposta a riaccogliere noi "immondi" essere umani? Una sanguinaria romantica rivoluzione.
venerdì 27 gennaio 2012
RECENSIONE/REPORTAGE: The VASELINES Live@ Spazio 211, Torino, 26 Gennaio, 2012
"It wasn't all Duran Duran/You want the truth? /Well, This is it,/ I hate the '80s 'cause the '80s were shit..." ( verso estrapolato da I Hate 80's, canzone contenuta nel loro secondo album Sex with an X uscito a ventuno anni di distanza dal primo Dum-Dum) racchiude benissimo la storia degli scozzesi The Vaselines, e a suo modo, è un piccolo manifesto per rivendicare un angolino di posto nella storia della musica, che giustamente spetta anche loro. La tanta, a volte ingombrante, pubblicità fatta da Nirvana e Cobain, poco è servita per farli uscire da quell'aura di culto che fino a cinque anni fa sembrava condannarli, tanto da invertire il detto: se la pubblicità è l'anima del commercio...con noi ha funzionato poco.
I Vaselines nel 2006 hanno ceduto alla reunion e Sex with an X, uscito nel 2010 è stato un segno di grande emancipazione ad effetto ritardante. Racchiusi, all'epoca, dentro al poco pregevole termine Twee pop, che con il tempo assumerà ben altro significato e prestigio. Oggi, una voce che, con un pò di immaginazione, può voler dire: "ci rimettiamo in pista perchè sappiamo viaggiare, anche, con le nostre gambe, senza aiuti e riprendiamo il discorso proprio da dove lo avevamo interrotto".
Con i cronisti di mezzo mondo intenti nello sforzarsi di parlare dei Vaselines senza riesumare il nome di Kurt Cobain (io non ci sono riuscito- sorry-), loro, candidamente, non nascondono nulla e quando ci sono da spendere buone e sincere parole per chi diede visibilità alle loro canzoni, lo fanno senza problemi ma con estrema gratitudine.
La rinnovata voglia di musica li ha portati a rimettersi in cammino e, per la prima volta in carriera, ad intraprendere un tour che tocca quattro città italiane.
Nella settimana che passerà alla storia per l'eco minaccioso e doveroso dei forconi siciliani e l'incubo dei tir a sbarrare le strade, il clima all'interno dello Spazio 211 di Torino è quello giusto di chi vuole lasciare all'esterno problemi, nebbia e freddo, godendosi una serata fatta di curiosià e tante canzoni. Curiosità di capire cosa c'era nella seconda metà degli anni ottanta in Gran Bretagna oltre alle eterne lotte tra Duran Duran e Spandau Ballet (anche se The Cure, The Smiths, The Housemartins e i conterranei scozzesi The Proclaimers tra i tanti, basterebbero nel rispondere al quesito) e capire perchè il Grunge deve qualcosina al rock lo fi ed indipendente di due (allora)giovanissimi scozzesi di Edimburgo.
Frances McKee e Eugene Kelly a dispetto dell' età sono ancora quei due ragazzini dispettosi e divertiti nel punzecchiare il pubblico, tirando in ballo spesso e volentieri il sesso e riscoprendo, con le loro canzoni, quei sogni, incubi e pruriti adolescenziali presenti, ma vergognosamente nascosti, anche in età adulta.
Accompagnati da due componenti dei Belle & Sabastian, il bravo, puntuale e versatile Stevie Jackson alla chitarra e il più defilato Bobby Kildea al basso, più il preciso ma potente batterista Michael Gaughrin dei 1990s. Una band da valore aggiunto.
La scaletta parte con Oliver Twisted ed oltre ai loro piccoli grandi classici presenta tanti brani dell' ultimo disco, segno di quanto The Vaselines credano ad un lavoro creato per essere suonato live, che sembra riprendere il discorso interrotto in quel famoso concerto sul palco con i Nirvana nel 1990.
La possente e noise Ruined, Poison Pen, il darkeggiante western di The Devil inside Me, il nuovo manifesto I Hate the 80's, il singolo Sex with an X, dal vivo acquistano nuovo vigore e non sfigurano incastrate dentro alla scaletta, insieme al passato. Aspettando che qualche altro grosso nome nel mondo musicale le faccia diventare delle nuove canzoni da coverizzare.
Frances McKee sa ancora catalizzare l'attenzione e sicuramente è la più loquace tra i due. I pochi dialoghi partono sempre dalla sua bocca, pur faticando a farsi seguire. Eugene Kelly partecipa sporadicamente se non per fermare tutti e segnalare al batterista l'attacco sbagliato di Slushy: stavano per risuonare Ruined una seconda volta, consecutivamente. Risate.
Le cantilenanti filastrocche adolescenziali Molly's Lips e Son Of a Gun e la straordinaria ballata Jesus Doesn't Wants Me for a Sunbeam, sono naturalmente ben accolte dal pubblico e diventate di diritto i picchi emotivi dello show che prosegue tra le possenti esecuzioni di Lovecraft, l'epocale Monsterpussy e Dying for it.
Dopo un'ora tirata, gli scozzesi lasciano il palco per tornarci dopo pochi minuti e chiudere la performance. La richiesta lanciata al pubblico è la seguente: volete la versione disco o la versione punk di You think you're a Man (cover dell'icona gay Divine)? La risposta è scontata e dal riff marziale di Stevie Jackson, che riproduce il suono che in origine era delle tastiere, l'approdo alla finale Dum-Dum è un fulmine a ciel sereno. La versione punk e tirata della titletrack del loro primo disco fa scatenare l'audience che riempie lo Spazio 211, nell'ultimo e anche unico movimento tellurico che scuote la sala, altrimenti composta da chi segue in modo molto reverenziale e ossequioso lo show.
Passano cinque minuti dall'uscita di scena e Frances è già dietro il bancone del merchandising. Lo spirito indie è ancora quello di venticinque anni fa. Sembra cambiato veramente poco nei Vaselines. Gruppo, a cui non manca la voglia di crescere, ma che semplicemente porta avanti un'attitudine ben radicata nel tempo.
Perdenti, sfortunati, infantili, approssimativi, ironici e beffardi, definiteli come più vi piace; sono tutti aggettivi che continuano ad adattarsi bene al loro pop/indie chitarristico. Un esempio(per molte giovani bands) da seguire, ora come allora.
SETLIST: Oliver Twisted / The Day I was a Horse / Monsterpussy / Sex with an X / Molly's Lips / The Devil's inside Me / Jesus doesn't want Me for a Sunbeam / I Hate the 80's / Lovecraft / No Hope / Poison Pen / Son of a Gun / Rory Rides Me Raw / Ruined / Slushy / Whitechapel / Sex Sux(Amen) / Dying For It / You think You're a Man / Dum-Dum
martedì 24 gennaio 2012
RECENSIONE: LUCA GEMMA (Supernaturale)
LUCA GEMMA Supernaturale ( Adesiva Discografica-Novunque/Self, 2012)
A due soli anni di distanza da Folkadelic, il cantautore eporediese, Luca Gemma fa uscire il suo quarto album solista,continuando a dimostrare una freschezza di scrittura invidiabile sospesa, così com'è, tra pop, rock e folk.
Animo vagabondo, Luca Gemma trasporta in musica il suo ricco bagaglio di esperienze di vita e musicali, partite negli anni novanta quando in coppia con Pacifico componeva i Rossomaltese, gruppo folk/rock, lontano da qualsiasi classificazione, che fece uscire due interessanti dischi da riscoprire.
Supernaturale parte da una semplice quanto onesta e dura considerazione: la riscoperta della natura( con tutte le sue bellezze) intorno a noi, come antidoto per dimenticare tutto il brutto che l'Italia ci ha dato in questi ultimi tempi: politica in primis.
"Politica bye bye/Che non insegni mai/A immaginare un mondo/ Ma a farti i cazzi tuoi" da Bye bye
Un disco nato in fretta, dove Gemma cerca di calarsi il più possibile nella parte. Canzoni che prendono corpo nella sua mente durante l'alba dei giorni, per catturare quel particolare momento della giornata, in grado di aumentare l'ispirazione. Undici canzoni che partono da Una mela rossa e Bye bye, l'attacco più duro al nostro paese, nascosto dietro all'eleganza di ritmiche comunque rock, secche e serrate che amano virare nel r'n'b e nella black/soul per andare sempre più incontro all'esplosione della semplicità e della bellezza in tutte le sue forme. Un cammino di recupero e disintossicazione che porterà verso il vero e proprio arrivo dell'estate, sinonimo di libertà e bellezza( Venne l'estate), musicata con la scarna e romantica presenza dell'ukulele suonato da Gaetano Cappa. Un recupero della primordialità, dove ci si fa bastare il poco, apprezzandone tutte le sfumature.
"Io sento freddo l'Italia non mi piace/E' posto per carogne e figli di papà/L'hai detto tu che diventare grandi/E' prepararsi al meglio è spingersi più in là" da Una mela rossa
Ecco, allora, che prima di arrivare al'esplosione dell'estate dentro di noi, occorre compiere un viaggio. Scappare dal marciume e cercare consapevolezza dentro di sè. Riappriopriarsi delle proprie forze, della propria anima, dei propri interessi: l'amore verso la musica nelle strofe e nel rock di Blu elettrico , e la stupenda ballata Il cielo sopra di te, uno dei picchi di questo disco, cantata insiema alla brava Patrizia Laquidara, con la presenza del violoncello di Mattia Boschi(Marta sui tubi), tra grilli e cicale in sottofondo e l'immenso vuoto. Una catarsi.
Da qui, inizia la discesa(o meglio l'elevazione) verso quella felicità che pensavamo persa ma, contrariamente, solo ben nascosta dentro noi (dentro a rari sentimenti come la generosità) e dentro la bellezza universale della natura, dei suoi colori, odori, dei momenti della giornata che spesso liquidiamo senza la giusta attenzione o diamo semplicemente per scontati.
Natura e Soppranaturale sono canzoni pop rock con chitarre e melodia in perfetto equilibrio.
Ospiti come Andrea Viti(ex bassista di Karma, Afterhours e Juan Mordecai) e Pasquale De Fina(Atleticodefina) contribuiscono nel dare al disco, quell'impianto rock su cui la voce (mai sopra le righe) di Gemma sa essere estremamente coinvolgente e rassicurante, riuscendo a colorare di soul canzoni come L'alba, di folk come la ballata e quasi preghiera di Credo, o di funk/blues, come nella liberatoria e vero preludio all'estate di Io Voglio.
"Gambe allenate che la strada è lunga/E braccia tese a quello che verrà/Voce potente per un sano vaffanculo/Per un futuro come piace a me" da Io Voglio
Un disco onomatopeico. La sensazione di leggerezza che permea l'intero lavoro riesce nell'intento di liberare la mente. I suoni essenziali e live, grazie all'aiuto del produttore Paolo Iafelice danno un grande aiuto, ricordandomi, a tratti, l'ultimo disco di Cristina Donà, Torno a casa a piedi.
Se la speciale ricetta di Gemma nel recupero della felicità, nell'immediato può risultare faticosa, il suo disco concept riesce a dare la prima e basilare spinta di incoraggiamento.
Una primavera arrivata in anticipo...la nostra estate arriverà prima, quest'anno.
INTERVISTA
A due soli anni di distanza da Folkadelic, il cantautore eporediese, Luca Gemma fa uscire il suo quarto album solista,continuando a dimostrare una freschezza di scrittura invidiabile sospesa, così com'è, tra pop, rock e folk.
Animo vagabondo, Luca Gemma trasporta in musica il suo ricco bagaglio di esperienze di vita e musicali, partite negli anni novanta quando in coppia con Pacifico componeva i Rossomaltese, gruppo folk/rock, lontano da qualsiasi classificazione, che fece uscire due interessanti dischi da riscoprire.
Supernaturale parte da una semplice quanto onesta e dura considerazione: la riscoperta della natura( con tutte le sue bellezze) intorno a noi, come antidoto per dimenticare tutto il brutto che l'Italia ci ha dato in questi ultimi tempi: politica in primis.
"Politica bye bye/Che non insegni mai/A immaginare un mondo/ Ma a farti i cazzi tuoi" da Bye bye
Un disco nato in fretta, dove Gemma cerca di calarsi il più possibile nella parte. Canzoni che prendono corpo nella sua mente durante l'alba dei giorni, per catturare quel particolare momento della giornata, in grado di aumentare l'ispirazione. Undici canzoni che partono da Una mela rossa e Bye bye, l'attacco più duro al nostro paese, nascosto dietro all'eleganza di ritmiche comunque rock, secche e serrate che amano virare nel r'n'b e nella black/soul per andare sempre più incontro all'esplosione della semplicità e della bellezza in tutte le sue forme. Un cammino di recupero e disintossicazione che porterà verso il vero e proprio arrivo dell'estate, sinonimo di libertà e bellezza( Venne l'estate), musicata con la scarna e romantica presenza dell'ukulele suonato da Gaetano Cappa. Un recupero della primordialità, dove ci si fa bastare il poco, apprezzandone tutte le sfumature.
"Io sento freddo l'Italia non mi piace/E' posto per carogne e figli di papà/L'hai detto tu che diventare grandi/E' prepararsi al meglio è spingersi più in là" da Una mela rossa
Ecco, allora, che prima di arrivare al'esplosione dell'estate dentro di noi, occorre compiere un viaggio. Scappare dal marciume e cercare consapevolezza dentro di sè. Riappriopriarsi delle proprie forze, della propria anima, dei propri interessi: l'amore verso la musica nelle strofe e nel rock di Blu elettrico , e la stupenda ballata Il cielo sopra di te, uno dei picchi di questo disco, cantata insiema alla brava Patrizia Laquidara, con la presenza del violoncello di Mattia Boschi(Marta sui tubi), tra grilli e cicale in sottofondo e l'immenso vuoto. Una catarsi.
Da qui, inizia la discesa(o meglio l'elevazione) verso quella felicità che pensavamo persa ma, contrariamente, solo ben nascosta dentro noi (dentro a rari sentimenti come la generosità) e dentro la bellezza universale della natura, dei suoi colori, odori, dei momenti della giornata che spesso liquidiamo senza la giusta attenzione o diamo semplicemente per scontati.
Natura e Soppranaturale sono canzoni pop rock con chitarre e melodia in perfetto equilibrio.
Ospiti come Andrea Viti(ex bassista di Karma, Afterhours e Juan Mordecai) e Pasquale De Fina(Atleticodefina) contribuiscono nel dare al disco, quell'impianto rock su cui la voce (mai sopra le righe) di Gemma sa essere estremamente coinvolgente e rassicurante, riuscendo a colorare di soul canzoni come L'alba, di folk come la ballata e quasi preghiera di Credo, o di funk/blues, come nella liberatoria e vero preludio all'estate di Io Voglio.
"Gambe allenate che la strada è lunga/E braccia tese a quello che verrà/Voce potente per un sano vaffanculo/Per un futuro come piace a me" da Io Voglio
Un disco onomatopeico. La sensazione di leggerezza che permea l'intero lavoro riesce nell'intento di liberare la mente. I suoni essenziali e live, grazie all'aiuto del produttore Paolo Iafelice danno un grande aiuto, ricordandomi, a tratti, l'ultimo disco di Cristina Donà, Torno a casa a piedi.
Se la speciale ricetta di Gemma nel recupero della felicità, nell'immediato può risultare faticosa, il suo disco concept riesce a dare la prima e basilare spinta di incoraggiamento.
Una primavera arrivata in anticipo...la nostra estate arriverà prima, quest'anno.
INTERVISTA
sabato 21 gennaio 2012
RECENSIONE & INTERVISTA: UNÒRSOMINÒRE. (La Vita Agra)
UNÒRSOMINÒRE. La Vita Agra ( Lavorare Stanca, 2011)
L’ascolto di La vita agra richiede un po’ di impegno e attenzione superiore alla media che verranno ripagati nei successivi ascolti. Lo stesso impegno che Unòrsominòre. vorrebbe e pretenderebbe da chi gli sta accanto ogni giorno: da chi guarda il teleschermo della televisione con l’amo già attaccato alla bocca e da chi applaude ad un comizio politico credendo di avere le promesse già in tasca con il timbro “mantenute” fresco di inchiostro. Difficile fare finta di nulla di fronte a tutto questo. Meglio essere cinici e sputare fuori tutto, anche in modo duro e diretto.
Unòrsominòre. è il progetto di Kappa (Emiliano Merlin), ex componente dei veronesi Lecrevisse gìà all’attivo con il debutto omonimo del 2009 e l’Ep “Tre canzoni per la repubblica italiana” uscito nel 2010 per festeggiare e denunciare i 150 anni dell’Unità d’Italia .
La Vita Agra (titolo preso in prestito dal romanzo del 1962, di Luciano Bianciardi)...
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INTERVISTA
Kappa, Unòrsominòre., Emiliano. Tre nomi: una persona o ci sono diversità?
Una, una. E’ solo che mi piace mettere in difficoltà chi deve averci a che fare. No, in realtà sono nomi legati a età diverse. Quindi direi che sono un instabile insicuro che invecchiando cerca di mascherarsi assumendo nuove identità.
La Vita Agra è un libro del 1962 di Luciano Bianciardi(non l’ho mai letto). Lo consiglieresti e perchè? Oltre al titolo, quanto c’è di quel romanzo nel tuo disco?
Certo, lo consiglio, è un libro snello, scritto in un italiano magistrale, ed è illuminante circa le origini e le ragioni del degrado della dignità dell’uomo nella società del profitto. Nel disco c’è molto del senso generale di amarezza che si trova anche nelle pagine di Bianciardi, e un paio di temi sono ripresi in maniera diretta, in particolare quello dell’auspicio alla decrescita. Per il resto però non ci sono riferimenti stretti; ho dato questo titolo al disco per il sapore che ha, per l’immaginario che suggerisce, più che per analogie con la storia di Bianciardi.
Anche se le etichette sono sempre limitative: come classificheresti il tuo disco?
Musicalmente è un disco di canzoni, con gli accordi, le parole e tutto. Pop-rock triste, con qualche deviazione sul cantautorato e su suoni più borderline, e con alcune raffinatezze sparse fra gli arrangiamenti. Concettualmente è una raccolta di miserie, quelle in cui sguazziamo da troppi anni ormai – miserie sociali, politiche, morali, emotive.
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giovedì 19 gennaio 2012
RECENSIONE: TOMMY STINSON (One Man Mutiny)
TOMMY STINSON One Man Mutiny ( Done to Death records, 2011)
Se il "rock NON è morto", contrariamente a quanto qualcuno da circa trent'anni con scadenza annuale, vuole farci credere, un pò di merito va a personaggi minori come Tommy Stinson.
Diversamente dal fratello Bob, morto per overdose nel 1995, Tommy è un sopravvissuto del post-punk americano dei primi anni ottanta.
Nel 1979, formò insieme al fratello, a Paul Westerberg e Chris Mars, The Replacements, band che partendo dal garage/punk più stradaiolo, con gli anni riuscì a crearsi un buon seguito grazie all'introduzione di elementi rock'n'roll e pop, divenendo quel gruppo di culto che tutti conosciamo e punto di riferimento per giovani band in erba.
Dopo lo scioglimento nei primi anni novanta, ognuno andò per la sua strada.
Tracce di Stinson le possiamo ritrovare nei numerosi gruppi a cui prestò il suo basso: dai Bash & Bop ai Perfect, giungendo all'ultima incarnazione dei Soul Asylum. Dal 1998 è ufficialmente il bassista di quello strano fenomeno da baraccone messo in piedi da Axl Rose, recante il luccicante e ancora remunerativo nome : Guns'n'Roses.
Questa sua seconda prova solista dopo Village Gorilla Head del 2004, sembra ripartire e guardare proprio ai dischi solisti di un ex gunners, il primo ad andarsene dalla formazione originale, il chitarrista Izzy Stradlin; alle prove soliste di un altro grande loser del rock americano come Mike Ness; o ancora all'ultimo e divertente album di quella testa calda di Ron Wood . Non ci sono troppe etichette da spendere per descrivere il disco: Rock, dice tutto e bene. Sicuramente meno sporco e crudo rispetto ai suoi passati progetti, preferendo giocare in prevalenza sulla melodia, di facile presa.
In apertura piazza il tambureggiante rock/blues di Don't Deserve You , doppiata dalla più stoniana che non si può, It's a Drag, con tanto di slide suonata da Chip Roberts e urletti alla Mike Jagger.
Meant to be e All this Way for Nothing sono due perfette road song, la prima viaggia nei territori cari a Tom Petty, la seconda ricorda la carica giovanile di gruppi come i Gaslight Anthem.
Nella seconda parte del disco, Tommy Stinson esplora nuovi territori, più leggeri: nella finale title track, traccia un bilancio di vita in stile dylaniano; si avvicina al suono americana con Come to Hide e nella country ed ironica Zero to Stupid (...I just can't go from zero to stupid in just one ... in just one ... in just one ... in just one ...one drink); ritrova il vecchio compagno dei Replacements, Paul Westerberg, con il quale scrive l'esotica Match Made in Hell, dove duetta con la voce femminile della sua donna Emily Roberts, presente anche su Destroy Me e in tutti i cori del disco.
Nulla di particolarmente miracoloso in One Man Mutiny se non poter dire, a fine ascolto:il rock è vivo! Per me è già tanto.
Se il "rock NON è morto", contrariamente a quanto qualcuno da circa trent'anni con scadenza annuale, vuole farci credere, un pò di merito va a personaggi minori come Tommy Stinson.
Diversamente dal fratello Bob, morto per overdose nel 1995, Tommy è un sopravvissuto del post-punk americano dei primi anni ottanta.
Nel 1979, formò insieme al fratello, a Paul Westerberg e Chris Mars, The Replacements, band che partendo dal garage/punk più stradaiolo, con gli anni riuscì a crearsi un buon seguito grazie all'introduzione di elementi rock'n'roll e pop, divenendo quel gruppo di culto che tutti conosciamo e punto di riferimento per giovani band in erba.
Dopo lo scioglimento nei primi anni novanta, ognuno andò per la sua strada.
Tracce di Stinson le possiamo ritrovare nei numerosi gruppi a cui prestò il suo basso: dai Bash & Bop ai Perfect, giungendo all'ultima incarnazione dei Soul Asylum. Dal 1998 è ufficialmente il bassista di quello strano fenomeno da baraccone messo in piedi da Axl Rose, recante il luccicante e ancora remunerativo nome : Guns'n'Roses.
Questa sua seconda prova solista dopo Village Gorilla Head del 2004, sembra ripartire e guardare proprio ai dischi solisti di un ex gunners, il primo ad andarsene dalla formazione originale, il chitarrista Izzy Stradlin; alle prove soliste di un altro grande loser del rock americano come Mike Ness; o ancora all'ultimo e divertente album di quella testa calda di Ron Wood . Non ci sono troppe etichette da spendere per descrivere il disco: Rock, dice tutto e bene. Sicuramente meno sporco e crudo rispetto ai suoi passati progetti, preferendo giocare in prevalenza sulla melodia, di facile presa.
In apertura piazza il tambureggiante rock/blues di Don't Deserve You , doppiata dalla più stoniana che non si può, It's a Drag, con tanto di slide suonata da Chip Roberts e urletti alla Mike Jagger.
Meant to be e All this Way for Nothing sono due perfette road song, la prima viaggia nei territori cari a Tom Petty, la seconda ricorda la carica giovanile di gruppi come i Gaslight Anthem.
Nella seconda parte del disco, Tommy Stinson esplora nuovi territori, più leggeri: nella finale title track, traccia un bilancio di vita in stile dylaniano; si avvicina al suono americana con Come to Hide e nella country ed ironica Zero to Stupid (...I just can't go from zero to stupid in just one ... in just one ... in just one ... in just one ...one drink); ritrova il vecchio compagno dei Replacements, Paul Westerberg, con il quale scrive l'esotica Match Made in Hell, dove duetta con la voce femminile della sua donna Emily Roberts, presente anche su Destroy Me e in tutti i cori del disco.
Nulla di particolarmente miracoloso in One Man Mutiny se non poter dire, a fine ascolto:il rock è vivo! Per me è già tanto.
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