Se avete visto almeno una volta Billy Bragg dal vivo durante le sue comparsate in solitaria sopra ad un palco, sapete di quanto non abbia bisogno di troppi artifizi per costruire i suoi spettacoli. Bastano la presenza delle due chitarre, le tante canzoni (repertorio in continua crescita, dal suo debutto Life's a Riot With Spy vs.Spy -1983 ad oggi, siamo al tredicesimo disco), i testi con le parole che "uccidono" e fanno pensare, i suoi aneddotti, le storie di vita e il contagioso e leggero humour british atto a stemperare le pesanti denunce sociali tradotte in musica. Capita, a volte, che tra una canzone e l'altra si fermi per bere una rilassante tazza di the bollente.
Proprio da questa pausa the, si potrebbe partire per raccontare il suo album più "americano" in carriera, il più vicino, musicalmente, al maestro Woody Guthrie che lo stesso Bragg insieme ai Wilco di Jeff Tweedy, omaggiò con le tre uscite Mermaid Avenue, musicandone i preziosi testi perduti. Un legame forte a cui non rinuncia nemmeno in questo disco, proponendo la sua rilettura leggera come un soffio di brezza di Ain't Got No Home di Guthrie, l'unica cover del disco ma anche uno dei pochi graffi sociali dell'album. Canzone del 1938 nel cui testo si legge tutta l'attualità dei nostri giorni:
"My crops I lay into the banker's store/My wife took down and died upon the cabin floor/And I ain't got no home in thisworld anymore...Now as I look around, it's mighty plain to see/This world is such a great and a funny place to be/Oh, the gamblin' man is rich an' the workin' man is poor/ And I ain't got no home in this world anymore."
Per registrarlo è volato a South Pasadena in California a farsi produrre da Joe Henry, anche coautore di due splendidi testi (Over You e la delicataYour Name On My Tongue) e con l'aiuto di notevoli musicisti americani ha costruito, in soli cinque giorni all'interno del seminterrato/studio di registrazione (The Garfield House) di casa Henry, un album in cui le invettive politiche e sociali bussano di rado alla porta delle liriche che preferiscono assorbire l'amara introspezione e la malinconia di un autore che, dopo anni di dura lotta, vuole fermarsi, concedersi una pausa riflessiva, affidandosi: all'amore, nel crescendo avvolgente di Your Name On My Tongue, alla fede non convenzionale in Do Unto Other ("fai agli altri quello che vorresti facessero a te"), alla rimarginazione di cicatrici lasciate dalle perdite umane (l'iniziale January Song), all'ottimismo per il futuro come farebbe un vecchio saggio ancora carico di speranze (Tommorow's Going To Be A Better Day).
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Ci si immerge quindi in uno stato di apparente e cullante tranqulllità Nashviliana fatta di chitarre acustiche, lap e pedal steel suonate da Greg Leisz (No One Knows Nothing Anymore, nell'autoironia domestica di Handyman Blues, Chasing Rainbows), dal pianoforte leggero e spesso presente di Patrick Warren (Do Unto Others), da un Billy Bragg mai così accomodante, con una vocalità calda anche quando le parole da cantare sono quelle di un triste e doloroso commiato dagli affetti più cari e da una società che sembra aver visto tutto il visibile (Goodbye, Goodbye).
Un disco che scava nell'interiorità con leggiadra leggerezza, garantita da un viaggio nella tradizione country/folk dell' America musicale. Uno dei suoi album più atipici e per certi versi coraggiosi e spiazzanti per chi ha ancora nelle orecchie i chorus di una New England o le invettive barricadere di una All You Fascist sparata in faccia. Queste le ritroveremo ai concerti. Ora si legge: 80% America (Guthrie), 20% Inghilterra (Clash), ma il risultato è ancora 100% Billy Bragg. La sua credibilità (e onestà) è intatta e questo è quel che conta.
Bragg si tiene volutamente fuori dalla rabbia sociale che i tempi vorrebbero imporre ad un combattente con la chitarra come lui. Dribbla a favore della bellezza e della lentezza, come fece Dylan a suoi tempi (Tooth & Nail è il suo Basement Tapes?) rifugiandosi, fischiettando, nel più semplice degli auguri per un domani migliore: Tomorrow's Going To Be A Better Day. Speriamo.
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