mercoledì 27 gennaio 2016

RECENSIONE: LUCINDA WILLIAMS (The Ghosts Of Highway 20)

 LUCINDA WILLIAMS  The Ghosts Of Highway 20 (Highway 20 Records/Thirty Tigers, 2016)





Se è vero che meno te la passi bene, più sei prolifico ed ispirato, a Lucinda Williams dobbiamo erigere un totem per il modo in cui ci sta spiegando questa semplice equazione di vita tanto veritiera quanto amara. Suo malgrado, purtroppo, e mettendo BLACKSTAR di David Bowie fuori classifica per ovvie ragioni che non sto qui a spiegare. Noi da ascoltatori egoisti gioiamo in rispettoso silenzio. Negli ultimi anni ha viaggiato spesso su queste autostrade di vita con la sofferenza al fianco, seduta silente nel lato passeggeri: dopo la morte della madre che guidò la stesura di WEST (2007), ora è la morte del padre, lo scrittore e poeta Miller Williams, la principale e più sentita delle perdite umane tanto da ispirarle due canzoni dolorose e struggenti come il folk di If There's A Heaven e If My Love Could Kill. In quest'ultima, la malattia  che ha portato via il padre, l'Alzheimer, s'innalza a protagonista in negativo, ladra di tempo, speranze e memoria, divoratrice di pelle e di ossa. Quasi da brividi. C'è però un altro padre che è uscito dalla sua vita recentemente: il genitore del marito e produttore Tom Overby, a lui è dedicata la cover di Factory di Bruce Springsteen. Overby senior fu un operaio diligente per tutta la sua esistenza e la canzone di Springsteen, originariamente contenuta in DARKNESS ON THE EDGE OF TOWN dipingeva la dura vita di un altro padre, Douglas Springsteen: "è una vita di lavoro, nient'altro che lavoro" è il concetto. Lucinda la fa sua infarcendola oltre modo d'enfasi. Un inno per tutti gli eroi della classe operaia.
Nel giro di due anni ci dona due doppi dischi (ben otto facciate di vinile per volere esagerare) nati e cresciuti insieme ma profondamente diversi e distinti, a partire dalle atmosfere musicali pigre, malinconiche e rarefatte che avvolgono le quattordici canzoni, tanto che House Of Earth, il cui testo è di Woody Guthrie ma non era mai stato musicato fino ad oggi, sembra  un sussurro cantato a voce bassa a tarda notte, con tutta l'accortezza di far meno rumore possibile. Diversi sono anche i musicisti  che l'hanno accompagnata in studio: oltre a David Sutton (basso) e Butch Norton (batteria), spiccano le chitarre di Greg Leisz, la sei corde che esce alla sinistra delle nostre casse, di Bill Frisell quella nella parte destra. Chitarre protagoniste che generano fantasmi nella spettrale I Know All about It, creano atmosfera nell'acustica Place In My Heart, e tessono tristi ragnatele di morte in Death Came.
Dopo il pluri glorificato e premiato DOWN WHERE THE SPIRIT MEETS THE BONE, disco che nulla aveva da invidiare ai suoi dischi più riusciti, CAR WHEELS ON A GRAVEL ROAD (1998) in testa, questa volta affronta a modo suo il tema del viaggio facendo tappa nelle città che hanno segnato la sua vita (i nove minuti del folk crepuscolare Lousiana Story parlano di sua madre, del luogo dove è sepolta), spesso in modo doloroso, ripercorrendo quella strada che dal Texas porta alla Carolina del Sud e mettendo in fila tutti quei ricordi (fantasmi) che la legano ai territori del Sud e che l'epicità della title track con la chitarra di Val McCallum espongono così bene in primo piano. "Conosco questa strada come il palmo della mia mano/Ogni uscita lascia un po' di morte"
Un disco con pochissimi assalti rock: Doors Of Heaven tra le più elettriche, il country di Bitter Memory tra le più mosse e frizzanti, i tredici minuti della finale Faith & Grace, la più particolare, aperta e senza schemi, e con la sezione ritmica quasi funky in primo piano. Meno diretto rispetto al precedente, preferisce nascondersi dentro alle ombre dei silenzi, spiare dall'uscio e poi addentrarsi negli angoli più oscuri della vita. Le canzoni hanno il passo lento, cupo e malinconico, ma si distinguono tutte per profondità, ispirazione e tanto vissuto. Troppo vissuto. Ballate da prendere in blocco, tormentate, che alla fine lasciano un velo di tristezza nel cuore e piacere nelle orecchie (il suono delle chitarre è tra i punti di forza). Questa è la sua strada. La sa a memoria e si viaggia bene. Ancora una volta.




RECENSIONE: LUCINDA WILLIAMS-Blessed (2011)




Nessun commento:

Posta un commento