martedì 26 agosto 2014

RECENSIONE: CORY BRANAN (The No-Hit Wonder)

CORY BRANAN  The No-Hit Wonder (Bloodshot Records, 2014)



Cory Branan è un songwriter dal passo lento, apparentemente distaccato dalla vorace velocità dell'odierno music business, capace di tenere un piede nel pericoloso outlaw country dei seventies, uno appoggiato sull' acceleratore del presente che schiaccia a suo piacimento senza compiacere nessuno, ma riuscendo a stare ben in equilibrio sulla linea della migliore tradizione rock americana, risultando persino sfuggente ad ogni etichetta musicale si voglia appiccicargli addosso. Ne sono testimoni le quattro uscite discografiche ben distese nel tempo: dal debutto The Hell You Say del 2002, passando per 12 Songs (2006) fino al buon Mutt di due anni fa che a tratti giocava nello strizzare l'occhio al miglior Springsteen di metà 70. Poi ci sono le storie: nato tra il Mississippi e Memphis, rapito da Nashville e dalle vecchie canzoni di John Prine a cui ha aggiunto la giusta dose d'irruenza, la sfacciataggine rock della sua generazione, e l'ironia sbeffeggiante a cui queste nuove undici tracce non sfuggono. Negli ultimi tre anni è diventato marito e padre ma la scrittura non ne ha risentito più di tanto, acquistando piuttosto le tenui sfumature della maturità. Maturo sì ma sempre arcignamente guascone (The Only You) e irriverente: uno tipo sempre piuttosto scomodo e da prendere con le molle. Arricchito dalle nuove esperienze, forse più convenzionali e romantiche ma ugualmente eccitanti se raccontate  come succede nell' honky tonk  d'apertura You Make Me, dedicata alla fresca moglie e cantata insieme all'ospite Jason Isbell, o in quella Daddy Was A Skywriter che allunga la mano verso il Ry Cooder di frontiera, le sonorità zydeco con l'armonica a serpeggiare e il testo a declamare l'importanza che i genitori hanno avuto nella sua vita. La famiglia è completa.
Disco più rootsy rispetto al precedente. Il country di All The Rivers In Colorado si adagia sulla steel guitar e vede Caitlin Rose e Austin Lucas ai cori, C'mon Shadow è un altro lieve acquerello country suonato in punta di dita; All I Got And Gone, un soffuso valzer notturno; mentre la finale Meantime Blues è un folk acustico e solitario, The Highway Home è un folk rock corale dove ai prestigiosi musicisti della band viene dato il giusto spazio per mettersi in mostra. Suonano: John Radford (Justin Townes Earle) alla batteria, Sadler Vaden (400 Unit, Drivin N Cryin) alle chitarre, Audley Freed (The Black Crowes) alle chitarre e Robbie Turner (Waylon Jennings, Charlie Rich) alla steel guitar.
Non mancano comunque le veloci scorribande in discesa senza freni: l'irriverente attacco cow punk della tittle track, un cavalcante manifesto suonato con i membri dei The Hold Steady Craig Finn e Steve Selvidge, un omaggio alla vita "on the road" di tutti quei musicisti che lottano ogni giorno per arrivare o Sour Mash con Tim Easton alle voci, un veloce trenino che sbuffa fumoso e alticcio hillbilly country, quello che piacerebbe a Johnny Cash, tanto da aspettarsi la materializzazione del man in black alla prima fermata.
Disco vario e piacevole che conferma il quarantenne Branan come uno dei migliori narratori  del moderno ma eternamente "vecchio" cantautorato americano.



RECENSIONE: CORY BRANAN-Mutt (2012)
RECENSIONE: JASON ISBELL-Southeastern (2013)
RECENSIONE: BILLY JOEL-A Matter Of Trust-The Bridge To Russia (2014)
RECENSIONE: BILLY JOE SHAVER-Long In The Tooth (2014)
RECENSIONE: TOM PETTY and THE HEARTBREAKERS-Hypnotic Eye (2014)
RECENSIONE: MALCOLM HOLCOMBE-Pitiful Blues (2014)

lunedì 18 agosto 2014

RECENSIONE: JACKSON BROWNE (Late For The Sky)

JACKSON BROWNE  Late For The Sky (Inside Recordings/Rhino Records/Warner, 1974/2014)


Quando un disco è perfetto c’è dopo da aggiungere. E’ quello che deve aver pensato Jackson Browne quando ha messo mani a questa riedizione del suo capolavoro (rimasterizzata dai nastri analogici originali), nata per celebrare  i quarant’anni dall’uscita e fortemente voluta dallo stesso autore, nell’anno in cui egli stesso è stato tributato dai colleghi (Bonnie Raitt, Lyle Lovett, Ben Harper, Bruce Springsteen, Lucinda Williams, Bruce Hornsby tra i tanti) nel bel doppio disco Looking Into You, e che vedrà l'uscita (7 Ottobre) del nuovo album in studio Standing In The Breach atteso fin dal 2008, quando uscì l'ultimo Time The Conqueror.
Nessun proclama altisonante, nessuna bonus track, nessuna traccia live del periodo a rimpolpare. Bastano le canzoni e la iconografica copertina di Bob Seidmann, arrivata in ispirazione a Browne prendendo spunto dall' opera L'Empires Des Lumieres del pittore belga  Rene Magritte, e divenuta simbolo di un periodo florido dal punto di vista musicale quanto amaro da quello personale. Quel poco in aggiunta sono i testi, mai apparsi in nessuna edizione precedente anche se da sempre ben vividi nella memoria dei fan. E qui i testi contano, perché dietro a canzoni che potrebbero nascondere le debolezze sentimentali dell’autore, le perdite (amorose nella struggente title track, le amicizie in For A Dancer) si nascondevano le sconfitte-un anno dopo, sua moglie si tolse la vita- le incertezze ("non mi è chiaro quello che voglio dire" canta in Farther On) di una intera generazione che aveva smarrito la via maestra e all’orizzonte vedeva il nero di una apocalisse travestita anche da incubo nucleare, la finale Before The Deluge diverrà un inno in tal senso, traghettando Browne verso la creazione del movimento MUSE (Musicians United For Safe Energy) e gli importanti concerti No Nukes del 1979 che coinvolsero tanti amici musicisti.
Tutto scorreva su canzoni che troppo frettolosamente qualcuno battezzerà soft rock, ma che pesavano come macigni. Altro che leggerezza. Ballate amare dove la chitarra di David Lindley era in grado di far uscire il sole californiano (il graffiante rock'n'roll da viaggio di The Road And The Sky, il funk/reggae di Walking Slow) o far cadere amara pioggia di lacrime (The Late Show). Jackson Browne fu uno dei più fulgidi poeti di quel periodo, capace di mantenere, nel tempo, il fisico e quell’aria da eterno ragazzo californiano (anche se nato in Germania) ma lasciare gran parte dei sogni e un po’ dell’ispirazione migliore (che continuerà almeno fino a Hold Out-1980, con gli splendidi The Pretender-1976 e Running On Empty-1977 in mezzo) impacchettati nel sedile posteriore di quella chevrolet eternamente parcheggiata in quel tipico viottolo americano di L.A.-ma con i cieli del Messico (fotomontaggio ahimè)-davanti a quel lampione dalla luce sempre più fioca, ma non ancora spento del tutto.

 

vedi anche
RECENSIONE: BILLY JOEL-A Matter Of Trust-The Bridge To Russia (2014)
RECENSIONE: BILLY JOE SHAVER-Long In The Tooth (2014)
RECENSIONE: TOM PETTY and THE HEARTBREAKERS-Hypnotic Eye (2014)
RECENSIONE: MALCOLM HOLCOMBE-Pitiful Blues (2014)



lunedì 11 agosto 2014

RECENSIONE: MALCOLM HOLCOMBE (Pitiful Blues)

 MALCOLM HOLCOMBE  Pitiful Blues  (Gypsy eyes Music/IRD, 2014)



Puoi alzarti una mattina d'agosto con poca voglia di mettere i piedi fuori da casa. Con la noia in primo piano, fastidiosamente appiccicata agli occhi. Guardare fuori dalla finestra e vedere nuvoloni neri, minacciosi, presagio di tempesta, portatori insani di mal vivere. No grazie, resto in casa. Poi ti ricordi di aver messo da parte un disco per l'ascolto, forse attendendo l'arrivo del suo momento. Vi succede mai? Quando partono le visioni quasi bibliche di Pitiful Blues (la canzone) ti accorgi che il momento giusto per ascoltarlo era proprio quello: alle sei di mattina, le braccia allungate per un pigro stiracchio, i piedi nudi sul pavimento, lo sguardo perso, la finestra sul balcone è ancora aperta e lascia entrare una brezza troppo fresca per essere estiva, troppo calda per essere autunnale, ma abbastanza troppo di tutto per creare un certo smarrimento complessivo, una bussola impazzita che non vuole trovare la stabilità, mentre dietro una voce grezza, tormentata, baritonale e vissuta canta: "I sit around the table pray down on the floor/swear i'm gonna go to war and suffer nevermore/it's an eye for an eye and a tooth for a tooth/i aint learned nuthin' but the poor me pitful blues/i aint learned nuthin' but the poor me pitful blues". Ok, mi dico, c'è gente messa peggio di me, ci sono soldati impegnati in battaglie ben più dure da portare a casa. E non sto parlando di sole guerre armate. Affrontiamo la giornata. Malcolm Holcombe la sa lunga sulla vita, nonostante una carriera decollata solo in prossimità dei quarant'anni, con la sola voce potrebbe mangiarsi in un boccone metà di tutti quei cantautori che spuntano come funghi fuori stagione, soprattutto nei giorni piovosi di un' estate nefasta come questa. Troppo falsi e in anticipo per essere buoni. Quei funghi, quei cantautori. Holcombe ha la scorza dura di chi ha sceso le verdi colline delle Blue Ridge Mountains in North Carolina per cercare più fortuna in città (Nashville), trovando spesso più disagi che beltà (l'alcolismo è stata una piaga dura da sconfiggere, la depressione pure) ma le tante verità che ha raccolto riesce a raccontarle con la naturalezza dei puri. Sopravvissuto all'illusione del successo promesso, ma mai arrivato concretamente,
Holcombe ha sia l'onestà che la sapienza concessa a pochi, la capacità di non costruire arsenali davanti alla voce che potrebbe bastarsi da sola: una chitarra fingerpicking, belle chitarre dobro, un banjo, un violino costruiscono ballate folk/country nella struttura, ma blues giù fino al profondo dell'anima. Tanto scure, amare quanto raggianti e speranzose. Non ci sono arsenali nemmeno a dividere le esperienze di vita dalle canzoni. E' un tutt'uno che si percepisce all'istante, senza traduzioni, nonostante la complicata enigmaticità di alcuni testi. Registrato in presa diretta tra la sua casa a Swannanoa e gli studi di Tulsa con l'inseparabile produttore e musicista Jared Tyler (anche al dobro) così come deve essere fatto con canzoni come le sue, pure come flusso d'acqua corrente  e dirette come frecce d'amore puntate al centro del cuore: l'attacco politico nel desolante western By The Boots, la solitudine nella desertica Savannah Blues, i sogni infranti di Another Despair, il gioco di squadra strumentale nei rimpianti amorosi lunghi come il corso del Mississippi in Sign For A Sally. Tutto funziona a meraviglia. Che meraviglia.
Canzoni come Roots, le antiche pagine di ricordi in bianco e nero nell'appalachian spoken folk di Words Of December, la finale For The Love Of A Child lasciano dietro di loro le scie del vissuto come una lumaca lascia la scia di viscoso muco dietro di sè. Potrai cancellarne i segni con la forza, strofinando forte con un colpo di suola, ma il percorso è già stato fatto: impresso indelebile nel corpo, sfatto e consumato dall'usura, e tatuato nell'anima, ancora brillante e dorata. Sembra quasi estate. Oggi esco. Un dieci più che meritato.





vedi anche RECENSIONE: SEASICK STEVE-Hubcap Music (2013)




vedi anche RECENSIONE: BILLY JOE SHAVER-Long In The Tooth (2014)




vedi anche RECENSIONE: TOM PETTY and the HEARTBREAKERS-Hypnotic Eye (2014)



martedì 5 agosto 2014

RECENSIONE: BILLY JOE SHAVER (Long In The Tooth)

BILLY JOE SHAVER  Long In The Tooth (Lightning Rod Records, 2014)


Manca solo il fodero con le pistole. Il ritratto fotografico in copertina, creato dal noto fotografo Jim McGuire, è così semplice, e per questo magnifico, che riesce a inquadrare tutta la vita di Billy Joe Shaver. Se non lo conoscete e la foto non vi lascia abbastanza input, potete sempre leggere la bella introduzione di Steve Earle che inizia così: "se un giorno Dio si svegliò e decise di fare di sé un cantautore, fu un mattino del 16 Agosto del 1939..." oppure alcune frasi di Bob Dylan, Kris Kristofferson, Willie Nelson e Tom T. Hall raccolte nel tempo che ne esaltano la carriera musicale, tutte presenti nel booklet come autocelebrativa garanzia di qualità, unite alle dichiarazioni di Shaver che accompagnano l'uscita " ...il miglior album che abbia mai registrato". Oppure recuperare qualche quotidiano texano della primavera del 2007 che ne racconti le gesta di spericolato pistolero intento a sistemare, a modo suo, un diverbio fuori dal Papa Joe's Texas Saloon di Lorena (Texas). Per la cronaca: venne assolto per legittima difesa dopo aver conficcato un proiettile in testa ad uno sventurato avventore che lo aveva provocato. Manca solo il fodero con le pistole. L'ho già detto. La cosa migliore, però, è ascoltare la prima traccia Hard To Be An Outlaw cantata insieme al vecchio amico Willie Nelson, canzone presente anche nel fresco disco Band Of Brothers di quest'ultimo. Metafora che usa il vecchio west per attaccare la nuova industria country americana e rivendicare con orgoglio la paternità di un certo modo di suonare e vivere la country music. Se lo dicono due leggende come loro, crediamoci e sosteniamoli. Billy Joe Shaver ha superato tutti i gradini della scala della vita, non tralasciando nemmeno quelli più insidiosi, scricchiolanti e traballanti; il suo piede è spesso inciampato, sprofondato ma ha trovato sempre il gradino successivo, tanto da arrivare a 75 anni  con lo spirito da combattente ancora vivo e pulsante. Ascoltando The Git To avrete in soli quattro minuti tutta la sua visione del mondo.
La biografia in poche e basilari tappe spiega molto: cresciuto dalla sola madre e dai nonni dopo essere stato abbandonato in fasce dal padre, giovanissimo lavora prima nei campi di cotone degli zii, poi in una segheria e proprio lì ci lascia due dita (lo stampo di quella mano monca che appare sul retro copertina è proprio il suo), dopo il servizio militare in marina si gioca la personale carta musicale trasferendosi a Nashville. Le sue canzoni piacciono così tanto da essere interpretate dai più grandi: Elvis Presley, The Allman Brothers Band, Johnny Cash. Waylon Jennings ci fa addirittura un intero disco, l'epocale Honky Tonk Heroes. Il debutto solista arriva nel 1973 con Old Five And Dimers Like Me, e da allora entrerà in quella ristretta cerchia di eroi del country fuorilegge, con la buona compagnia di Hank Williams, Waylon Jennings, Willie Nelson, Kris Kristofferson, Merle Haggard, Johnny Cash, Guy Clark, Townes Van Zandt, Steve Young, per rimanere ai più noti.
Gli anni settanta saranno caratterizzati dagli spettri di alcol e droghe fino ad una decisa conversione religiosa che gli salverà la vita e influenzerà l'attività musicale a venire che riprende a correre veloce grazie soprattutto all'aiuto del promettente figlio Eddy, fino a subire nuovamente uno stop con  l'inaspettata morte per overdose (suicidio?) di quest' ultimo, avvenuta a soli 38 anni nel capodanno del 2000 e la scomparsa della madre e della moglie nel giro di due anni. Ne sono invece passati sette dall'ultimo disco di inediti Everybody's Brother, ma ne è valsa la pena. Sembra che sia stato Todd Snider, uno dei discepoli più credibili, a spingerlo nuovamente in sala d'incisione in compagnia della Can't Hardly Playboys Session Band, composta da Dan Dugmore, Michael Rhodes, Jedd Hughes e Lynn Williams, e dei produttori Ray Kennedy e Gary Nicholson.
Long In The Tooth è un disco piacevolissimo dall'inizio alla fine, bilanciatissimo. Da una parte l'elettricità combattiva spalmata sul lento incedere di Long In The Tooth con la chitarra  di Tony Joe White e lo straniante scacciapensieri suonato da Mickey Rafael, e poi quei caratteristici honk tonk su cui ha scritto la carriera, e che gli escono come troppe noccioline in una tasca: Sunbeam Special corre sbuffando come un treno, ma indietro con la memoria, Last Call For Alcohol ospita il piano di Leon Russell e il violino di Larry Franklin, Checkers & Chess non indugia troppo per mostrare da che parte sta la sua coscenza "sto giocando a dama mentre loro giocano a scacchi/ l'uomo ricco ruba i soldi/il povero si prende la colpa".
Dall'altro lato, i mansueti segni del tempo: I'll Love You As Much As I Can e I'M In Love sono romantiche ballate d'amore che strizzano l'occhio ai '50, American Me è un border ballad da viaggio, a ritmo di valzer, una cosa alla Tom Russell con la fisarmonica di Joel Guzman ospite, mentre la finale Music City USA è un atto di fede totale verso la musica country, un cammino sicuro e totalizzante. "...tutto è iniziato in questa piccola città giù nel profondo Texas/quando ascoltò il vecchio Johnny Cash che cantava country blues/ogni sera prese la sua chitarra e iniziò a leggere riviste country..."
Disco vero, genuino e schietto come l'autore. Da playlist di fine anno (la mia s'intende). "Scrivere canzoni può essere un'esperienza straziante, ma se si scava verso il basso e si è veri e onesti si trova qualcosa di veramente grande. Credo che ognuno dovrebbe avere la possibilità di scrivere. È lo psichiatra più economico che c'è e Dio lo sa...". Parola di Billy Joe Shaver.






vedi anche RECENSIONE: GUY CLARK-My Favorite Picture Of You (2013)
vedi anche RECENSIONE: JOHNNY CASH-Out Among The Stars (2014)
vedi anche RECENSIONE: TOM PETTY and the HEARTBREAKERS-Hypnotic Eye (2014)