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sabato 28 dicembre 2019

RECENSIONE: HELL SPET (Killer Machine)

HELL SPET Killer Machine (autoproduzione, 2020)




non c'è tempo da perdere
Pronti per l'apocalisse? Gli Hell Spet ce ne danno un anticipo di mezz'ora (29 minuti e 32 secondi per la precisione) tanto per metterci in guardia da quello che ci aspetterà in un futuro nemmeno troppo lontano, quando le macchine e la tecnologia prenderanno il sopravvento. Continuando il discorso programmatico iniziato da band come i Fear Factory in tempi non sospetti. Ma se là regnava il freddo chirurgico della proposta musicale, qui c'è ancora spazio per il calore. C'è ancora speranza. 
La band bresciana arriva al traguardo del quinto disco riuscendo nell'intento di mettere su disco quello che stavano sempre cercando: il connubio perfetto tra la tradizione musicale del country bluegrass americano (ecco il calore!), l'anarchia e la libertà d'intenti punk gridata nei chorus, la pesantezza delle chitarre e le trame del thrash metal. Queste ultime in netta prevalenza rispetto al passato. Quello che vogliono in questo momento. 
L'odore di letame della stalla di montagna e le scintille di un'officina meccanica giù in città non sono mai state così vicine tra loro. Cowpunkmetal della miglior specie: in Italia non lo troverete facilmente, dovete spostarvi dalle parti di Hank Williams III o su alcune opere di quel matto di Scott H. Biram. 
Qualcuno ricorda ancora i tedeschi Waltons? 
Mandolino (Simone Grazioli) e banjo (Nicolò Papini) lanciati a tutta velocità introducono il lavoro incessante della sezione ritmica formata dalla poderosa batteria (Michele "Cannibal" Saleri) e dal mastodontico è vintage double bass (Andrea "Biscio" Bresciani), dalle chitarre elettriche che spaziano dal rock'n'roll 50 a riff speed metal (Federico "Feddo" Guarienti) e dalla voce camaleontica che prima ti culla con la profondità di Johnny Cash  poi ti sveglia con il più brutale dei growl (Federico Cantaboni). Tutto scorre alla velocità della luce non c'è tempo da perdere. Non c'è sosta e non c'è inganno nelle undici tracce registrate all'Indiebox Music Hall di Giovanni Bottoglia: dall'iniziale motorhediana 'You' ll Fall' alla finale 'Back From Hell' passando dallo speed country di 'Cyborg Genocide' con i suoi stop and go cadenzati e i chorus Oi!, dalla veloce 'Dirty Life', al forte grido di 'Right Now', dalla cangiante pesantezza di 'Space Shuttle', all'arcigno hardcore di 'Killer Machine', fino all'epicità Irish folk di 'Rising From The Graves' e 'Don' t Look Back'. 
Ah dimenticavo la cosa più importante: la Hell Spet band da il meglio di sé sopra un palco. Se poi offrirete loro qualche birra come carburante, vi ringrazieranno con uno  spettacolo live in cui difficilmente riuscirete a star fermi e su cui non vorreste mai vedere la parola fine. Cheers. 

(Il disco sarà presentato in anteprima Domenica 5 Gennaio alla Latteria Molloy di Brescia) 


Foto: Dino Stupe

martedì 24 dicembre 2019

RECENSIONE: GERRY BECKLEY (Five Mile Road)

GERRY BECKLEY Five Mile Road (Blue Elan Records, 2019)




L'altra metà d'America
Se il logo America fosse stampato in copertina questo disco avrebbe qualche chance in più di visibilità. Si tratta invece del nuovo disco solista di Gerry Beckley, una delle due metà del gruppo (l'altra è Dewey Bunnell naturalmente), quello per cui gli anni sembrano non passare mai. Il concerto della band, quest'anno a Verona per festeggiare i 50 anni di carriera, me l'ha confermato. Beckey, 66 anni, ha ancora la stessa aria dell'eterno ragazzo di sempre: elegante ma sportivo, gentile, a modo, in una definizione pop rock come le canzoni che portano la sua firma.
Un disco, a tre anni dal precedente Carousel,  che si riappropria della semplicità degli anni migliori a cavallo tra la West Coast californiana e la sterzata beatlesiana portata da George Martin. Recupera perfino una canzone, 'Home Again', la cui prima stesura risale agli anni settanta. 
Un diario di viaggio che fa da colonna sonora alle fotografie, altra sua grande passione, raccolte in anni di carriera on the road e ora riunite in un libro. 
"Sapevo che questo gruppo di canzoni, anche la scelta del titolo dell'album, avrebbe riguardato il mio viaggio". 
Ma soprattutto si riappropria di molte canzoni che scrisse dieci anni fa per l'album Heart Of The Valley di Jeff Larson. Una collaborazione che all'epoca funzionò e che prosegue in qualche modo qui. 
Un po' Graham Nash, un po' Paul McCartney, le dodici canzoni hanno il dono dell'eterna gentilezza musicale di Beckley, melodicamente pop e costruite in viaggio ('Vagabond') che si sviluppano sul country elettro acustico come nell'apertura 'Life Lessons', l'unica scritta in coppia con Bill Mumy, nel country folk di 'Five Mile Road' con la chitarra ospite di Rusty Young (Poco) o di 'Heart Of The Valley' e 'Sudden Soldier', quest'ultima un'istantanea di una quotidianità negli aeroporti che si è spesso presentata ai suoi occhi durante gli spostamenti della band in tour. Qualche scatto più ritmato nel rock di 'Hang Your Head High' e nell'orchestra che arricchisce 'Calling'. 
Quando si siede al pianoforte fa uscire  il sangue british ('Something To Remember') di sponda Beatles che c'è in lui, nato in Texas da un papà  militare dell'aeronautica americana e madre inglese, cresciuto poi a Londra ma con il successo che lo aspettava nuovamente negli States. 
Beckley suona quasi tutti gli strumenti, con poche eccezioni (ecco Jason Scheff dei Chicago) in un disco costruito come si faceva una volta, tenendo in considerazione la tracklist come si trattasse di un vinile e i suoi due lati (così dice lui). 
Un disco fuori moda che porta comunque l'indelebile marchio America stampato nel cuore. 








sabato 21 dicembre 2019

30 DISCHI PER RICORDARE IL MIO 2019

30 DISCHI PER RICORDARE IL MIO 2019



DUFF McKAGAN- Tenderness    Recensione
MICHAEL KIWANUKA-Kiwanuka    Recensione
JIMMY "DUCK" HOLMES- Cypress Grove    Recensione
KADAVAR-For The Dead Travel Fast      Recensione
CHRIS KNIGHT- Almost Daylight     Recensione
WHISKEY MYERS -Whiskey Myers    Recensione
SACRED REICH -Awakening     Recensione
JESSE MALIN- Sunset Kids     Recensione
BRUCE SPRINGSTEEN -Western Stars
STEVE GUNN-The Unseen In Between     Recensione
RIVAL SONS-Feral Roots     Recensione
MICHAEL CHAPMAN-True North     Recensione
THE LONG RYDERS- Psychedelic Country Soul     Recensione
BOB MOULD- Sunshine Rock     Recensione
L.A. GUNS-The Devil You Know     Recensione
SON VOLT-Union     Recensione
JOSH RITTER-Fever Breaks    Recensione
D.A.D.- A Prayer For The Loud    Recensione
IAN NOE- Between The Country    DEBUTTO DELL'ANNO  Recensione
THE RACOUNTERS- Help Us Stranger    Recensione
THE ALLMAN BETTS BAND-Down To The River    Recensione
THE BLACK KEYS- Let's Rock    Recensione
WARRIOR SOUL- Rock'n'Roll Disease   Recensione
PURPLE MOUNTAINS- Purple Mountains    Recensione 
BLACK PUMAS-Black Pumas     Recensione
DOUG SEEGERS-A Story I Got To Tell   Recensione
RODNEY CROWELL-Texas     Recensione
SAINT VITUS- Saint Vitus
WILLIE NELSON- Ride Me Back   Recensione
THE STEEL WOODS- Old News    Recensione

bonus
JOHN GARCIA AND THE BAND OF GOLD   Recensione
YOLA-Walk Through Fire     Recensione
HAYES CARLL-What It Is    Recensione
RAMMSTEIN-Rammstein
delusione
TESLA-Shock!  Recensione


BOX, ristampe e postumi 


RORY GALLAGHER-Blues    Recensione
BOB DYLAN -Travelin' Thru, The Bootleg Series Volume 15
J.J. CALE-Stay Around       Recensione
NEIL YOUNG - Tuscaloosa      Recensione
TOWNES VAN ZANDT - Sky Blue    Recensione
GREGG ALLMAN- Laid Back


ITALIANI





VINICIO CAPOSSELA- Ballate Per Uomini e Bestie
MASSIMO VOLUME- Il Nuotatore
EDDA-Fru Fru
CHEAP WINE- Faces
SUPERDOWNHOME- Get My Demons Straight   Recensione
DARIO SN -The Easy Way   Recensione
TIJUANA HORROR CLUB- The Big Swindle    Recensione
THE CROWSROADS-On The Ropes      Recensione
STEVE RUDIVELLI- Brianza Texas Radio      Recensione


CONCERTI

 
I miei concerti del 2019

MADRUGADA (Latteria Molloy, Brescia, 4 Maggio)
un concerto di rarissima intensità per festeggiare i vent'anni del loro debutto Industrial Silence. Concerto sorpresa dell'anno quello dei norvegesi.

ALL THEM WITCHES (Bloom, Mezzago, 27 Aprile)
Il gruppo di Nashville è una delle migliori realtà rock uscite negli ultimi anni. Un concentrato bomba di blues, desert sound, hard rock e psichedelia. Diretti, credibili, senza fronzoli e, nonostante tutto, un futuro ancora tutto da scrivere.

ALICE COOPER (Pala Alpitour, Torino, 10 Settembre)
anche se lo spettacolo horror, i trucchi e le trovate sceniche da luna park sono le stesse di quarant'anni fa adattate al trascorrere del tempo, Alice Cooper sa ancora come mettere in piedi uno spettacolo vincente equilibrando alla perfezione rock e teatro. Divertimento assicurato. Recensione

MICHAEL KIWANUKA (Fabrique, Milano, 7 Dicembre)
un concerto incredibile per intensità, bravura, ritmo e scaletta dove il passato della black music amoreggia con il presente, con il rock, la psichedelia e nemmeno te ne accorgi, con l'umiltà di chi sa dove arrivare, conquistando lo strabordante pubblico del Fabrique. Unica nota negativa: proprio il Fabrique e un pubblico ben oltre la capienza.  Recensione

AMERICA (Teatro Romano, Verona, 7 Luglio)
il concerto che ho inseguito e sognato da circa 40 anni. Quello che mi ha riportato alla West coast della mia adolescenza. Un greatest hits per i loro 50 anni di carriera. Un suono pulito e basico, fatto di armonie vocali, belle chitarre acustiche, batteria, basso e chitarre elettriche. La splendida cornice del teatro, e la notte estiva dopo un violento temporale fanno il resto.   Recensione

MANUEL AGNELLI (Teatro Display, Brescia, 23 Novembre)
uno spettacolo intimo, caldo, avvolgente e coinvolgente, fatto di tante canzoni sue e non, ma anche di poesia, letteratura, aneddoti, accompagnato sul palco dal solo Rodrigo D'Erasmo e da un semplice ma accattivante gioco di luci. Bello.   Recensione

RIVAL SONS (Live Club, Trezzo, 15 Novembre)
dopo le conferme su disco, arriva anche il live per decretare i californiani una delle migliori hard rock band ascoltate nel nuovo millennio. E poi un cantante come Jay Buchanan a fare la differenza.

Steve Forbert (Scuola Toscanini, Chiari, 2 Febbraio   Recensione
The Long Ryders (Scuola Toscanini, Chiari, 19 Aprile)   Recensione
Steve Hill (Hydro, Biella, 10 Aprile)   Recensione
Edda (Latteria Molloy, Brescia, 18 Maggio)
Omar Pedrini (Latteria Molloy, Brescia, 23 Febbraio)   Recensione
Massimo Volume (No Silenz Festival, Cigole, 13 Giugno)
Orange Goblin (Ultrasuoni Festival, Dro (TN), 5 Luglio)
Hell Spet (Ultrasuoni Festival, Dro (TN), 6 Luglio)
Flamin Groovies & Festival Beat (Festival Beat, Salsomaggiore Terme, 29 Giugno)
Popa Chubby (Roload Sound Festival, Biella, 10 Luglio)
Napalm Death (Festa Radio Onda d'Urto, Brescia, 14 Agosto)
Motorpsycho (Latteria Molloy, Brescia, 11 Ottobre)
Ettore Giuradei (Teatro delle Ali, Breno (BS), 2 Novembre)
The Gentlemens (Monami, Montichiari,1 Novembre)
I Hate My Village (Latteria Molloy, Brescia, 15 Febbraio)


mercoledì 11 dicembre 2019

appunti veloci dal WEEKEND. Il disco: THE WHO (Who). Il concerto: MICHAEL KIWANUKA live@Fabrique, Milano, 7 Dicembre 2019

THE WHO  Who  (Universal, 2019)




Eccolo qua: un disco che non troverete nelle classifiche di fine anno compilate troppo frettolosamente. Un po' perché uscire ai primi di Dicembre ti taglia già fuori, si sa, un po' perché, se avete ascoltato tanti dischi avrete trovato sicuramente di meglio. Non lo meriterebbe. Io però la butto lì: i migliori Who dal lontano 1981? (Roger Daltrey in una intervista si è spinto indietro fino al 1973). Non che ci volesse molto, visto che in mezzo ci sono solo It's Hard e Endless Wire, i fanalini di coda della loro discografia. Però non male per un gruppo nato nell'anno in cui in Italia venne inaugurata l'autostrada del sole. Lo stesso anno in cui incontrarono l'artista pop Sir Peter Blake che creò la copertina di Faces Dances qualche anno dopo e pure questa.
La coppia formata da Roger Daltrey e Pete Townshend di strade ne ha percorse così tante che mettere in fila undici canzoni (tre in più nella versione deluxe), senza un tema portante ma in completa libertà, è puro mestiere: uno sa ancora ruggire quando vuole e ho ancora in testa il bel disco con Wilko Johnson ('Ball And Chain' si prende a cuore le condizioni dei carcerati a Guantanamo riprendendo una vecchia canzone di Townshend), l'altro schitarra ancora con fervore ('All This Music Must Fade') e si prende la scena nella sorniona e orchestrale 'I' ll Be Back', uno sguardo indietro ai tempi andati. Certo, quelle vecchie strade vengono percorse un po' tutte: ci sono gli anni sessanta, i settanta, gli ottanta, i synth con i loro pregi e tanti difetti, cori e voci al vocoder abbastanza orribili (e evitabili), la schiettezza pop, e il deja vu è di casa quasi all'angolo di ogni traccia. Le mie favorite sono la leggera ''Break The News', una folk song sostenuta dal sapore molto British e radio friendly e la cangiante 'Rockin' In Rage' un rock teatrale il giusto.
Molto probabilmente questo disco ha la parola fine incisa nell'ultimo solco dell'ultima canzone.
E pensare che il disco si apre con queste sarcastiche parole :"I don’t care, I know you’re going to hate this song”. Bentornati comunque.







MICHAEL KIWANUKA live@Fabrique, Milano, 7 Dicembre 2019

Che crescita Michael Kiwanuka! Ricordo il suo timido e acerbo talento con quegli occhi da cerbiatto davanti al pubblico curioso dei Magazzini Generali nel 2012 ai tempi del suo acclamato debutto, lo ritrovo leone stasera, sette anni dopo, con altri due album pazzeschi nelle tasche, capace di mettere in piedi un concerto incredibile per intensità, bravura, ritmo e scaletta dove il passato della black music amoreggia con ...il presente, con il rock, la psichedelia e nemmeno te ne accorgi, con l'umiltà di chi sa dove arrivare, conquistando lo strabordante pubblico del Fabrique. Il ragazzo è pronto per i palazzetti.
Ecco, se devo trovare un difetto alla serata, il buon Kiwanuka non c'entra nulla: un concerto lo vivi bene quando l'organizzazione ti mette nelle condizioni per farlo.
Sì l'ho vissuto male.
Stasera il locale era invivibile, stipato in ogni buco della sua superficie ben oltre la capienza, tanto che le piazze piene di sardine di questi giorni ci facevano un baffo. Non oso immaginare un possibile piano di evacuazione in caso di emergenza in una simile occasione.
Vabbè, poi c'è il vergognoso contorno tutto italico: prezzi bevande da ristorante cinque stelle, parcheggiatori abusivi delle grandi occasioni che chiedevano 10 euro (10 euro!) per trovarti un posto macchina in zona industriale (mandati prontamente a cagare) e bagarini che continuano la loro opera come il più normale dei mestieri. Ma questi basta ignorarli.
Fortunatamente esiste la musica. Però rispettiamola cazzo!


 

martedì 10 dicembre 2019

RECENSIONE: MAMMOTH MAMMOTH (Kreuzung)

MAMMOTH MAMMOTH  Kreuzung (Napalm Records, 2019)



Play it loud...
Dall' Australia, da sempre terra lontana di buon rock'n'roll, arrivano i Mammoth Mammoth, una decina d'anni di carriera e sei album alle spalle.
Perché quando ti assale quella voglia di rock'n'roll puro, goliardico e ignorante (basta leggere i titoli per capire le loro intenzioni: "le nostre influenze sono le nostre esperienze, non scriviamo canzoni su maghi, unicorni o alieni sexy" dicono) i MAMMOTH MAMMOTH da Melbourne sono dei buoni mestieranti del genere in grado di sfamare gli affamati che dal rock pretendono solo sudore, energia e divertimento.
La band capitanata dal cantante e chitarrista Mickey Tucker si lascia alle spalle la scorza più pesante del suono di inizio carriera, spesso etichettato sotto la voce stoner (loro hanno sempre preferito la parola rock anche se la pesantezza è quella di sempre, ascoltare 'Tear It Down') per suonare ancora più diretti e veloci come già anticipato dal precedente disco Mount The Mountain uscito nel 2017, primo per l'etichetta Napalm Records.
Se in 'Wanted Man' sembrano palesamente omaggiare i conterranei Ac Dc, e in 'Lead Boots' cercano vie più melodiche, soprattutto nel cantato, nelle restanti canzoni si lanciano a rotta di collo su un hard rock'n'roll pesante e dal tiro icidiale ('I'm Ready', 'Motherf@cker') giocando sullo stesso campo dei Motorhead e seguendo la strada degli Orange Goblin della seconda metà di carriera. L'album lo intitolano in tedesco (Kreuzung significa incrocio) omaggiando il paese che più di tutti li ha adottati: a Berlino hanno registrato il disco, in Germania le date più numerose dei loro tour.









martedì 3 dicembre 2019

RECENSIONE: NICHOLAS DAVID (Yesterday's Gone)

NICHOLAS DAVID - Yesterday's Gone (2019)



Dopo Jonathan Long, bella scoperta dell'anno scorso ( naturalmente presente la sua chitarra ospite anche in questo disco) Samantha Fish si dimostra, oltre che grande musicista, anche una buona talent scout, reclutando sotto la sua etichetta discografica un altro pezzo da novanta. O almeno con tutti i numeri per diventarlo.
"L' ho vista come se fosse un'opportunità per crescere. Mi sento così felice che sia successo. È stato bello e divertente" dice Nicholas David.
Samantha Fish gli risponde:"Nicholas è un cantautore e musicista di eccezionale talento. Sa cosa vuole e quando lavora in studio è pieno di idee e ispirazione". Sembrano tutti contenti.
Nicholas David non è più giovanissimo (quasi 40 anni per lui, una moglie e due figli) ma alle spalle ha già parecchi dischi e vanta pure un buon piazzamento al talent show americano The Voice, a cui partecipò nel 2012 suo malgrado, iscritto per scherzo da un amico, e almeno vent'anni di dura gavetta come musicista suonando le tastiere, girando in tour anche in compagnia di Devon Allman e Duane Betts. Quest'ultimo lascia l'impronta della sua chitarra lungo le undici tracce del disco. Autodidatta, nato in Minnesota, fisico imponente e vestiario che può riportare alla mente Dr John, le sue canzoni seguono le strade dettate dai tasti del pianoforte e dalla sua voce, elemento distintivo, profonda, blues e segnante. A tratti si intravede Leon Russell, a volte Elton John.
Canzoni dirette verso il southern soul ('Heavy Heart'), che toccano il R&B ('Okay') senza disdegnare qualche puntata nel jazz (''Peel Back The Leaves'), nel rock ('Hole In The Bottom', 'Curious') e nel funky ('I' m Interested').
Ballate melodiche, cariche di sentimento (la beatlesiana 'With Or Without') a cui sembra mancare solamente un pizzico di grinta in più. Ma a uno che mette sul piatto pezzi come 'Stars' e 'Times Turning' cosa puoi dire?
Quando era ancora un ragazzino, suo nonno, che fu il primo ad avvicinarlo alla musica, in punto di morte si rivolse alla moglie dicendo: "di a Nick di continuare a suonare". Nicholas non solo ha continuato a suonare ma con questo disco esce allo scoperto prenotando un posto tra i migliori talenti dell'anno.
Il nonno ne sarebbe fiero.






giovedì 28 novembre 2019

An Evening With MANUEL AGNELLI feat. Rodrigo D'Erasmo live @Teatro Display, Brescia, 23 Novembre 2019




An Evening With MANUEL AGNELLI feat. Rodrigo D'Erasmo live @Teatro Display, Brescia, 23
Novembre 2019

metti una serata con Manuel Agnelli
Più di trenta anni di carriera sulle spalle e spesso sento parlare di lui in tv ancora come “nuova musica italiana”. Ha scritto almeno uno degli album fondamentali del rock alternativo italiano, volenti o nolenti, sfido chiunque a ripetere un album di quella intensità (anni novanta ma anche di sempre: Hai Paura Del Buio?), anche se credo che la discografia degli Afterhours almeno fino a Ballate Per Piccole Iene non abbia punti deboli.
Ha suonato negli States accompagnando gente come Greg Dulli e Mark Lanegan ottenendo il loro rispetto (e non è il solito rocker pecoreccio che fuori dai confini italiani non conta nulla), va in TV in un canale di stato a fare cover di Springsteen, Van Morrison, Jackson Browne/Nico, Lou Reed, Nick Drake, Beatles, Radiohead, Pixies, Suicide e qualcuno riesce ancora a trattarlo come l’ultimo arrivato. Lo so che ci siete, vi ho letto qualche tempo fa quando in TV c'era il suo programma Ossigeno.
Passa spesso per antipatico, forse perché è un artista determinato e con una forte personalità, viscerale, che fa scelte, che si sbatte per la musica mettendoci la faccia. Che sia mettere in piede un festival come il Tora! Tora! (ricordate?) o fare il giudice a X Factor.
Uno che divide: o lo ami o lo odi. Però non si può riconoscergli o fare finta di nulla davanti alla sua importanza nel rock italiano degli anni 90, 2000.
Ora sta portando in giro questo spettacolo (An Evening With Manuel Agnelli) intimo, caldo, avvolgente e coinvolgente, fatto di tante canzoni ma anche di poesia, letteratura, aneddoti, accompagnato sul palco dal solo Rodrigo D'Erasmo e da un semplice quando accattivante gioco di luci.
Agnelli sfodera la sua potenza vocale, mai così in luce e in primo piano, il suo bagaglio musicale e il suo essere musicista a tutto tondo: dalle sue canzoni ai Joy Division, da una 'Lost in The Flood' che nemmeno più Springsteen fa così al pianoforte, a un "tributo" a Nick Cave con una toccante 'Skeleton Tree', 'Berlin' di Lou Reed (seguita dai ricordi delle sue disavventure giovanili in Germania) , 'True Love Will Find You In The End' omaggio a Daniel Johnston, passando da Battisti a Lana Del Rey (captata dagli ascolti della figlia). Pochi saprebbero affrontare certi repertori così vari, uscendone vincenti.
E non meno importante: esce la sua simpatia che tocca l'apice nell'aneddoto sul viaggio con Emidio Clementi in India. Già, proprio così.
Se amate la musica è uno spettacolo assolutamente da non perdere (una delle cose più belle viste quest'anno) e forse chissà: se siete tra coloro che non lo hanno mai sopportato potreste anche cambiare la vostra visuale. Non è forse questo il bello della musica? Sorprendere.




mercoledì 27 novembre 2019

DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 81: MAMA'S PRIDE (Mama's Pride)

MAMA’S PRIDE-Mama’s Pride (1975)




I figli di Saint Louis
Si potrebbe partire dal famigerato terzo disco (il secondo fu Uptown & Lowdown, 1977) che avrebbe potuto svoltare la loro carriera: Ronnie Van Zant si era impegnato nel prendere sotto le sue ali protettrici la band di Saint Louis e produrre l' album. Purtroppo in quel 1977 non vi fu tempo e le ali del fato, trasformate in ali d'aereo, portarono il cantante dei Lynyrd Skynyrd in ben altri posti, chissà dove. I Mama’s Pride si bloccarono, il disco non vide mai la luce e fu anche la loro prematura fine, avvenuta con lo scioglimento nel 1982. La storia riprese negli anni novanta quando il terzo disco della carriera arrivò ma i tempi erano veramente diversi. E dire che tutto iniziò nel migliore dei modi per la band dei fratelli Pat e Danny Liston che scelsero proprio di omaggiare loro madre nel nome da dare al gruppo, ex cantante country e western negli anni 30, piazzandola anche in una copertina quasi rassicurante, “una chioccia intorno ai suoi ragazzi”, salvo ribaltare le cose nel retro, carico dei tipici eccessi e stereotipi della vita rock’n’roll che alla fine finirono veramente per inghiottirli.
Situazione che rispecchia anche la loro musica: devota al verbo sudista dei padri Allman Brothers (‘’Who Do You Think You’re Foolin’) ma capace anche di improvvisi e saettanti scatti soul boogie (‘Missouri Sky Line’). “Eravamo ragazzi di South St. Louis. Mio fratello ed io siamo stati cresciuti da una madre single. All'improvviso, siamo passati dal nulla a enormi dimore e limousine e tutto era a nostra disposizione. Voglio dire, dovevi stare attento a ciò che chiedevi, perché sarebbe successo” racconta un Danny Liston ora più che mai rifugiato tra le mani di Dio, ma che ai tempi cadde con facilità nell’alcolismo “l'unica volta che ero felice era quando stavo suonando. Ma, ricordo l'ultima canzone del set, solo perché volevo che non finisse mai perché so che sarebbe successo - nel momento in cui la canzone sarebbe finita e nel momento in cui sarei uscito da questo palco, la depressione mi avrebbe colto”. Ottenuto un buon contratto con la Acto, etichetta satellite della Atlantic, e la produzione di Arif Mardin, uno con già dei Grammy in tasca, i Mama’s Pride racchiudono nelle nove canzoni tutto il meglio e i difetti del southern rock. Citano gli Allman Brothers nella voglia di allungare e jammare, i Marshall Tucker Band nelle canzoni più epiche, articolate e cangianti, la melodia dei Doobie Brothers in ‘Blue Mist’, gli Outlaws quando si adagiano sicuri sui verdi campi del country (la ballata acustica ‘Laurie Ann’). Un disco che avrebbe meritato più fortuna, comunque trainato dal buon successo di ‘In The Morning’, rispetto a quell'aurea da band da seconda fila del southern rock americano che i Mama’s Pride si trascinano dietro ancora oggi. Ma se tutti i generi hanno bisogno anche delle seconde file per rinforzarsi, i Mama’s Pride fanno la loro bella (davanti) e sporca figura dietro (girate la copertina). Ogni tanto i fratelli Liston, ancora oggi, si riuniscono per ricordare le cose più belle di quella brevissima stagione.




venerdì 22 novembre 2019

RECENSIONE: BLACK STAR RIDERS (Another State Of Grace)

BLACK STAR RIDERS  Another State Of Grace (Nuclear Blast, 2019)



the boys are back in town
Il legame con i Thin Lizzy è ancora presente (ascoltate l'iniziale 'Tonight The Moonlight Let Me Down' con il sax ospite di Michael Monroe) e non potrebbe essere diversamente vista la presenza del chitarrista Scott Gorham che i palchi con la band irlandese li ha calcati dall'inizio alla fine dell'avventura e visto che la band è nata proprio da una costola dei riformati Thin Lizzy. Da questo disco però..., il quarto, la band sembra gridare forte e chiaro la propria indipendenza e la propria nuova identità. Ricky Warwick, forte del suo pesante passato con gli Almighty, si prende per mano la band e la conduce verso un futuro che sarà sicuramente carico di grandi soddisfazioni. Nella ballata 'What Will It Take', cantata insieme a Pearl Aday (figlia di Meat Loaf), si può misurare la sua bravura di songwriter anche quando calca meno la mano sul lato rock. Cercate i suoi dischi solisti.
Quando hard rock e melodia viaggiano così bene insieme (chitarre e cori, più la straordinaria voce del rosso Warwick) e quando le radici americane e celtiche si intrecciano senza danneggiarsi tra loro, escono fuori canzoni dal carattere forte, heavy, come la dura 'Soldier In The Ghetto' (il lavoro delle due chitarre-con Gorham c'è il nuovo entrato Christian Martucci-porta inevitabilmente ai Thin Lizzy d'annata), dai testi impegnati come la title track dove Warwick ritorna indietro in quell'Irlanda degli anni settanta segnata dal sangue dell'Ira o come 'Why Do You Love Your Guns' una semi ballad di forte denuncia contro il proliferare delle armi da fuoco negli Stati Uniti d'America.
"Sono osservazioni sulla vita e cosa sta succedendo nel mondo. Posso solo scrivere quello che so e come influenza i miei amici e la mia famiglia. Ho libri pieni di testi e scarabocchio tutto il tempo" racconta il cantante.
I Black Star Riders continuano a tenere in vita la luce di Phil Lynott afferrando il rock a due mani, una chiusa a pugno pronta a sferrare fendenti e a combattere (la componente barricadera è viva e pulsante) e l'altra aperta per accarezzare. Tutto in modo onesto e da vecchi ed esperti operai del rock.






 

domenica 17 novembre 2019

RECENSIONE: MICHAEL KIWANUKA (Kiwanuka)

MICHAEL KIWANUKA  Kiwanuka (Polydor Records, 2019)




light
Non è certamente un disco immediato il terzo lavoro di Michael Kiwanuka. L'imperativo è non scoraggiarsi per essere ricompensati.
Se c'è una canzone da cui partire per affrontare l'ascolto però non la troverete qui ma all'inizio del precedente Love & Hate: questo terzo album sembra ripartire proprio dai dieci minuti di 'Cold Little Heart'. Ne ha fatta di strada da Home Again e tante cose sono successe dopo, il debutto uscito nel 2012, un disco che rappresentava la via di uscita di un giovane ragazzo di origini ugandesi cresciuto in un quartiere bianco di Muswell Hill a Londra (dove i genitori si trasferirono per sfuggire al violento e sanguinario regime imposto da Amin Dada), dipingeva ancora incertezza musicale legata al folk e al soul nonostante i riferimenti fossero ben forti e chiari ma soprattutto una debolezza caratteriale, una timidezza (ricordo bene il primo concerto ai Magazzini Generali di Milano) che per poco non lo indussero a mollare tutto prima del tempo, pressato dall'industria discografica che voleva persino cambiargli il nome. Dove vai con quel nome?
 "Non cambierò il mio nome, non importa come mi chiamano" canta ora con grande orgoglio. Sarebbe stato un delitto.
Kiwanuka tra il primo e il secondo album ha lavorato su se stesso, scavando nella propria indole e i risultati sono stati incredibili. L'incontro con Danger Mouse ha portato al clamoroso successo di Love & Hate ma soprattutto lo hanno portato ad imboccare le strade della personalità e presa di coscienza delle proprie capacità. In copertina si è fatto dipingere come un sovrano, metà africano metà inglese, e ha intitolato l'album semplicemente Kiwanuka. Un messaggio forte: questo sono io. Prendere o lasciare. Prendiamo. Grazie. E tra i testi compare sovente questa sua dichiarazione di indipendenza, orgoglio e identità. Certamente un consiglio da seguire. Lo fa nella maniera più sofisticata mischiando personale e politico, inserendo sampler di peso sociale e dove il vero "eroe" è Fred Hampton, attivista e rivoluzionario, ucciso a sangue freddo dalla polizia a Chicago (Kiwanuka si domanda: può essere un vero eroe?).
Un flusso musicale, certo ambizioso, diviso in tredici canzoni ma che deve essere preso in blocco dall'inizio alla fine. Una lunga suite, dove orchestrazioni d'archi, influssi jazzati, cori gospel e soul, funk, chitarre rock, impegno folk, psichedelia ballano insieme in un flusso di coscienza che cattura, ammalia e rapisce, scandito dalla voce vellutata, calda e avvolgente. È il passato della black music che amoreggia calorosamente con il presente.
 Ho tralasciato volutamente titoli e influenze (in rete troverete di tutto e di più) perché l'insieme sembra essere più importante delle singole tracce. Al primo ascolto è stata una smorfia dubbiosa poi è diventato droga vera. Da ripetere in loop. Dategli tempo.
 Appuntamento al Fabrique di Milano in Dicembre, consapevole che quella timidezza di inizio carriera ora si possa chiamare personalità.





RECENSIONE: MICHAEL KIWANUKA -Home Again (2012)
RECENSIONE/REPORT: MICHAEL KIWANUKA live@Magazzini Generali, Milano, 21 Aprile 2012
RECENSIONE: MICHAEL KIWANUKA-Love & Hate (2016)



giovedì 14 novembre 2019

RECENSIONE: MARK LANEGAN BAND (Somebody's Knocking)

MARK LANEGAN BAND  Somebody's Knocking (Heavenly Recordings, 2019)




 bene ma non benissimo...
a Mark Lanegan gli si vuole bene: ad ogni disco post Blues Funeral (che grande disco fu quello! Il primo che metteva il blues fuori dalla porta a giocare con l'elettronica) speri sia riuscito a fare quelle due ultime bracciate che gli permetterebbero di uscire da quel vortice new wave in cui continua beatamente a girare. E invece no, Somebody's Knocking per certi versi è la punta più estrema toccata fino ad ora. Che gran bastardo Mark. Alla fine vince sempre lui. Vorrei scrivere e gridare: "non riesco nemmeno più a dire lo salva la voce perché per la prima volta non c'è una canzone che mi sia entrata nel cuore, nell'anima, in qualunque altro posto…" e invece no. Non lo faccio perché queste canzoni alla fine arrivano insieme a tutta la libertà artistica che si sta prendendo. In una recente intervista è stato chiaro: se non vi piace quello che faccio, girate pure alla larga.
" Faccio dischi per far piacere a me stesso, e se a qualcun altro piacciono è la ciliegina sulla torta" racconta a Northern Transmissions. Com
A questo punto è chiaro: ci crede veramente, anche se l'album si apre con questa frase:" going downtown in the wrong direction".
"Quando avevo dodici anni la scuola in cui mio padre lavorava era chiusa e qualcuno gli diede una scatola di dischi che era stata dimenticata. Uno dei dischi era Autobahn dei Kraftwerk. Un altro degli album era un disco dI Lightnin Hopkins, quindi per la prima volta mi sono presentato alla musica elettronica e al blues." Ecco spiegato. Ricorda Lanegan.
Qui bisogna prendere tutto in blocco (quelle più danzerecce, a pensarci bene, forse sono troppo) e forse bisogna farsene una ragione visto il tanto tempo trascorso tra queste onde. Mark Lanegan sta bene così, adagiato e comodo tra la new wave e il synth rock a cui dona la sua rauca e inimitabile voce: echi di Joy Division e New Order, Sisters of Mercy, Depeche Mode. Ma anche i Gun Club quelle poche volte che ritorna al rock vecchia maniera, ci sono pure echi di  Nick Cave, David Bowie e Leonard Cohen quando accompagna le canzoni più atmosferiche. I fidati amici Alaian Johannes (produttore) e Greg Dulli appaiono invece in carne e ossa.
 Mancano i fantasmi folk blues che scavano la terra dell'anima, sostituiti da beat a volte troppo ghiacciati ma in qualche modo suadenti in grado di catturare.
Sempre più freddo. Io aspetto comunque il prossimo…prima o poi ritornerà anche a nuotare in posti più caldi.
E già si intravede all'orizzonte la prossima mossa: nel 2020 è in uscita l'autobiografia accompagnata da un nuovo disco.




lunedì 11 novembre 2019

DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 80: RORY GALLAGHER (Tattoo)

RORY GALLAGHER   Tattoo (1973)



chi si ferma è perduto

Se l'ispirazione chiama, Rory Gallagher risponde. A pochi mesi di distanza da Blueprint, in quel 1973 funestato dalla violenza che serpeggia per le strade dell’ Irlanda del nord, ritorna in studio di registrazione e senza cali di qualità registra uno dei suoi migliori dischi in carriera. Una vita frenetica su e giù dai palchi europei e americani, in mezzo poche settimane per registrare canzoni che nascevano on the road, tra un palco e le camere d'albergo. Questa volta nessun produttore esterno a dare fastidio e creare intralcio. TATTOO lo afferma e lo proietta ancora più in alto.
La genesi dell’album prende il via nell’amata Cork in un club preso in affitto che si trovava in una barca ormeggiata sulla riva del fiume. “Poteva scrivere canzoni, rilassarsi, mangiare cibo casalingo. Le prove si tennero lì e quando tornammo a Londra era tutto pronto” racconterà il fratello Donal.
A Londra, ai Polydor Studios, registra con la band composta da Gerry McAvoy (basso), Lou Martin (tastiere) e Rod de ‘Ath (batteria), la stessa del precedente Blueprint.
La doppietta d'apertura non lascia scampo: ‘Tattoo ‘d Lady’ è un rock carico di rimandi all'infanzia (il circo, il luna Park) ma che si proietta nel suo presente, mentre ‘Cradle Rock’ è una furia a tutta bottleneck destinata a segnare l’intera carriera. Mentre con ‘20:20 Vision’, un breve sipario acustico, e con ‘They Don’t Make Them Like You Anymore’ mette in fila le influenze jazz suonando il bouzouki di Manolis Chiotis omaggiando il musicista greco con la sua Perasmenes Mou Agapes, con ‘Livin’Like A Trucker’ riprende a macinare rock blues sopra ai ricordi e alle suggestioni delle recenti trasferte americane.
‘Sleep On A Clothes-Line’ è un trascinante boogie a cui ‘Who’s That Coming’ risponde con il blues più classico in scaletta costruito su slide e bottleneck. C’è ancora il tempo per ‘A Million Miles Away’ una delle più intense ed evocative canzoni d’amore del suo repertorio, venuta in ispirazione tra le scogliere di Ballycotton e per il riff pesante che guida la conclusiva ‘Admit It’.
Via, si riparte per un altro tour che diventerà Irish 74, schivando ma affrontando di petto il sangue che bagna la sua Irlanda. Non rinuncerà a suonare nei posti più pericolosi. “Sono un musicista, non un politico” era il suo mantra e lo rispetterà fino in fondo, perché “penso che diverrei terribilmente pigro se mi prendessi un anno di pausa o qualcosa del genere”.




martedì 5 novembre 2019

RECENSIONE: TOM KEIFER BAND (Rise)

TOM KEIFER BAND   Rise (Cleopatra Records, 2019)
 
 
 
 
 
cenerentola dopo mezzanotte
 
Per uno che si è trovato davanti alla possibilità di vedere la propria carriera di cantante stroncata da un serio problema alle corde vocali (quante operazioni e giorni di riabilitazione), RISE è un altro piccolo miracolo, il disco che in qualche modo i Cinderella di Tom Keifer avrebbero dovuto fare dopo Still Climbing, uscito nel 1994. Invece tutto si interruppe sul più bello. Come confessato in una recente intervista, di rimettere in piedi la vecchia band, TOM KEIFER non ci pensa nemmeno, però questa volta per il secondo disco a suo nome, dopo il precedente The Way Life Goes del 2013, fa aggiungere il nome della nutrita band stile seventies in copertina (anche due coriste tra cui la moglie Savannah). Sembra già una piccola apertura e riconoscenza al gioco di squadra.
"C'è un'energia completamente nuova. È un nuovo capitolo. È una nuova band. In termini di performance, lo spettacolo, se esci e lo guardi, il modo in cui eseguo, canto e suono la chitarra è sempre lo stesso di sempre, e lo show è molto energico, ma c'è una nuova band."
In Rise convivono le tre anime di Keifer: da una parte quella rock fatta di chitarre hard a volte ai limiti del metal (la modernista 'Hype') che l'ascolto dell'accoppiata di apertura ('Touching The Divine' e 'The Death Of Me') conferma e canzoni come 'All Amped Up' e 'Life Was Here' ribadiscono; dall'altra quella sentimentale fatta di ballate mai scontate cantate con la voce aspra e abrasiva di sempre come l'acustica dai forti sapori southern 'Waiting On Demons', il pianoforte che guida la belle 'Rise' dal carattere soul e 'Taste For The Pain' e la finale 'You Believe In Me' condotta in solitaria, voce e chitarra che confermano la bontà di Keifer come songwriter e quanto il suo ormai ventennale trasferimento a Nashville si faccia sentire nella sua arte; in mezzo il blues di 'Untitled' e la viziosa 'Breaking Down' in grado di riportare l'orologio indietro ai tempi di Long Cold Winter e Heartbreak Station quando i Cinderella confermarono di essere diversi dalle tante band con cui condividevano il red carpet dello street glam di quegli anni. Possessori di quel retaggio roots che faceva la differenza.
"Tento di rendere ogni disco interessante. Non mi piace fare due dischi consecutivi uguali anche se c'è sempre un filo conduttore che li unisce".
Il segnale lanciato da Keifer con i suoi due dischi solisti sembra molto chiaro: è tornato per restare.