1-SEASICK STEVE-You'can't teach an old dogs new tricks
Steven Gene Wold, ha settant'anni e si fa chiamare Seasick Steve(pare, solo perchè soffra il mal di mare) è in pista dagli anni sessanta, ma solamente da otto anni ha iniziato ad incidere dischi. In mezzo c'è tutta una vita passata a lavorare nel retrobottega della musica come produttore e tecnico del suono ma sopratutto, a girovagare per il mondo come un solitario hobo guadagnandosi la pagnotta ai margini delle strade, raccimolando il poco necessario.
2-TOM WAITS-Bad As Me
Waits continua il suo discorso di decostruzione della forma canzone iniziata negli anni ottanta con l'aiuto della moglie Kathleen Brennan(coautrice dei testi). Non sarà più sorprendente come una volta, ma la sua personale miscela musicale: bizzarra, visionaria e frenetica che allo stesso tempo sa essere poetica, romantica e malinconica continua a conquistare adesso come quarant'anni fa. Polvere e brillantina. Antiche foto e quotidianità unite.
3-WILCO-The Whole Love
The Whole Love abbandona in parte il rassicurante country rock di Sky blue sky e le derive pop del precedente omonimo per cercare strade artistiche che conducono lontano, meno estreme rispetto ai primi lavori ma comunque sperimentali. La mente di Jeff Tweedy rimane materia assai complicata e certi vecchi mostri continuano a nascondersi in modo rassicurante dentro alla sua mente , tanto da uscire in avanscoperta quando meno te lo aspetti.
4-BLACK JOE LEWIS & THE HONEYBEARS- Scandalous
Groove, fortissimamente groove. Se c'è una cosa che non si riesce a fare appena attacca Livin' in the jungle , prima traccia di Scandalous, seconda prova discografica di Black Joe Lewis e i suoi The Honeybears, è tenere il volume basso.
5-MIDDLE BROTHER- Middle Brother
12 canzoni che fanno di varietà e freschezza la loro forza, senza essere tuttavia dei capolavori da tramandare. McCauley, Goldsmith e Vasquez, rispettivamente leaders dei loro guppi Deer Trick, Delta Spirit e Dawes lasciano la loro personale impronta in ogni brano.
6-STEVE EARLE-I'll Never Get Out Of This World Alive
Con questo disco Steve Earle conferma il buon periodo della sua vita, forse arrivata ad un punto di totale stallo e rilassatezza ma con il fuoco dell'ispirazione che arde ancora anche se, per una volta , non è alimentato da brutte storie di droga e amori finiti ma dall'amore verso una vita ancora tutta da vivere e godere meglio se da "vero sopravvissuto".
7-RY COODER-Pull Up Some Dust and Sit Down
Tante cose, in questo disco, Cooder ci include tutto il suo bagaglio e passaporto musicale(partendo dalle roots americane arrivando al Messico, Cuba, gospel, Folk, blues e rock) ma soprattutto una lunga serie di imput e notizie dalla vecchia America poco confortanti, disegnando un quadro attuale poco roseo e felice ma che con la sua musica intorno, sembrano arrivare in modo meno catastrofico e più colorato di quanto potrebbe fare un qualsiasi giornale con i caratteri di stampa in bianco e nero.
8-TWILIGHT SINGERS-Dynamite Steps
Dopo il buon e fortunato Saturnalia in compagnia del gemello maledetto Mark Lanegan, Greg Dulli continua la personale battaglia con la profondità contenuta in domande e risposte sospese tra la vita e la morte. Il limbo, la fede, la redenzione vissute con lo sfondo di periferie urbane degradanti e abitate da personaggi perdenti e vogliosi di riscatto.
9-The DECEMBERISTS-The King is dead
La voglia di semplicità porta il gruppo al ritorno verso suoni e testi lontani dalla complessa architettura che costruiva il loro precedente The Hazards of love
10-FLEET FOXES-Helplessness Blues
Un sapiente mix tra il folk di matrice americana, in bilico tra psichedelia e west coast californiano e il folk-prog bucolico anglosassone( Van Morrison sembra un punto saldo) su cui il “vecchio” Peckhold riversa i suoi disagi interiori e le sue domande esistenziali come un vecchio signore in là con gli anni farebbe in punto di morte.
11-ALICE GOLD-Orbiter12-JOHN HIATT-Dirty Jeans and Mudslide Hymns13-OKKERVIL RIVER-I Am Very far14-DAVE ALVIN-Eleven Eleven15-REM- Collapse Into Now
16-PAUL SIMON-So Beautiful Or So What17-LUCINDA WILLIAMS-Blessed18-TINARIWEN-Tassili19-O'DEATH-Outside
20-RYAN ADAMS-Ashes & Fire21-TOM MORELLO-World Wide Rebel Songs22-NEIL YOUNG-A Treasure23-DEVOTCHKA-100 Lovers24-WANDA JACKSON-The Party Ain't Over25-HAYES CARLL-KMAG YOYO & other American Stories
26-MY MORNING JACKET-Circuital
27-MARIANNE FAITHFULL-Horses and High Heels
28-STEEPWATER BAND-Clava
29-JOE HENRY-Reverie30-The KENNETH BRIAN BAND-Welcome to Alabama
Pagine
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mercoledì 28 dicembre 2011
venerdì 23 dicembre 2011
PLAYLIST: TOP DISCHI ALT, HARD-HEAVY 2011
1-GRAVEYARD-Hisingen Blues
Un disco capace di appagare i nostalgici del vecchio hard rock in tutte le sue vecchie forme, come un disco del Led Zeppelin registrato nel 2011 e capace di infilare nei retaggi dei suoni vintage la modenità e il calore dello stoner, i rallentamenti del doom metal e la passione di certo rock sudista. Più che una sorpresa.
2-MASTODON-The Hunter
I Mastodon decidono di tagliare quasi tutti i ponti con il loro pesante passato con un solo colpo d'ascia, pur mantenendo le caratteristiche che ne hanno fatto una tra le più interessanti ed originali band di musica pesante dell'ultimo decennio( Leviathan-2004 e Blood Mountain-2006 entrano di diritto tra i migliori dischi degli anni zero).
3-EMA-Past Life Martyred Saints
Miss Erika M Anderson in arte EMA, con le dita della mano forma una pistola e ci invita, quasi minacciandoci, ad entrare nel suo disturbato mondo, obbligandoci a compiere un viaggio nella sua psiche...
4-BLACK COUNTRY COMMUNION-2
Una seconda prova che pareggia e supera in alcuni momenti il debutto, anche se richiede un ascolto più attento, soprattutto dovuto ad una produzione volutamente sporcata che inizialmente sembra fare da freno alla fluidità del disco. Un disco fatto da professionisti della musica che rincorre ancora le emozioni dettate dal cuore, ma questo con la presenza del carisma di Mr. Hughes era un dato assodato.
5-FLOGGING MOLLY-Speed Of Darkness
Dave King e soci , durante gli anni, sono cambiati, il loro irish/punk rock si è affinato, inglobando più influenze musicali che vedono la loro summa in questo Speed Of Darkness.
6-MACHINE HEAD-Unto the Locust
La band di Rob Flynn è ormai una garanzia ventennale che sa rinnovarsi. Unto The Locust segue il fortunato The Blackening, non lo copia ma conferma lo status di miglior band post-thrash metal uscita negli anni novanta. Una delle poche ad aver ancora voce in capitolo.
7-PRIMUS-Green Naugahyde
Sicuramente superiore ad Antipop, Green Naugahyde segna un nuovo inizio per la band californiana...quasi dodici anni di assenza e riescono a rilasciare un disco che non mostra minimamente i segni del tempo pur riprendendo a grandi dosi le peculiarità che fecero di Frizzle Fry(1990) Sailing the seas of Cheese(1991) e Pork Soda(1993), opere uniche per capire l'evoluzione rock di quegli anni...
8-RIVAL SONS-Pressure & Time
Gli americani di Los Angeles sparano tutto in mezz'ora di musica, 10 canzoni, dirette ed efficaci, senza nessun abbellimento superfluo e registrato pure in pochissimi giorni. Questi vanno veloci in tutti i sensi.
Hard rock anni settanta , quello che meglio si sposava con il blues ed una voce molto caratterizzante sono il loro biglietto da visita
9-PENTAGRAM-Last Rites
Liebling si è ripulito, ha messo da parte, chissà se per sempre, alcol e droghe e dopo sette anni dall'ultima uscita dei Pentagram, si ripresenta in compagnia del chitarrista storico della band , Victor Griffin.
10-The FEELIES-Here Before
Here Before è un lavoro a tratti solare ed intelligente, non farà la storia, ma ci riconsegna la band del New Jersey, certamente lontana dal grezzo, glaciale ma superlativo esordio del 1980, ma con un carico di melodie da far invidia a ben più blasonate band
11-CHICKENFOOT-III
12-SAVIOURS- Death's Procession13-JANE'S ADDICTION-The Great Escape Artist
14-STATUS QUO-Quid Pro Quo15-The BLACK KEYS-El Camino16-ANTHRAX- Worship Music17-ORCHID-Capricorn18-GENTLEMAN'S PISTOLS-At Her Majesty's Pleasure19-LESLIE WEST-Unusual Suspects
20-DROPKICK MURPHYS-Going Out in Style
21-ALICE COOPER-Welcome 2 My Nightmare22-SOCIAL DISTORTION-Hard Times and Nursery Rhymes
23-KIMBALL/JAMISON-Kimball/Jamison
24-The ANSWER-Revival
25-MEGADETH-Th1rt3en
26-CROWBAR-Sever the Wicked Hand
27-STEEL PANTHER-Balls Out
28-URIAH HEEP-Into The Wild
29-AGNOSTIC FRONT-My Life,My Way
30-NAZARETH-Big Dogz
Un disco capace di appagare i nostalgici del vecchio hard rock in tutte le sue vecchie forme, come un disco del Led Zeppelin registrato nel 2011 e capace di infilare nei retaggi dei suoni vintage la modenità e il calore dello stoner, i rallentamenti del doom metal e la passione di certo rock sudista. Più che una sorpresa.
2-MASTODON-The Hunter
I Mastodon decidono di tagliare quasi tutti i ponti con il loro pesante passato con un solo colpo d'ascia, pur mantenendo le caratteristiche che ne hanno fatto una tra le più interessanti ed originali band di musica pesante dell'ultimo decennio( Leviathan-2004 e Blood Mountain-2006 entrano di diritto tra i migliori dischi degli anni zero).
3-EMA-Past Life Martyred Saints
Miss Erika M Anderson in arte EMA, con le dita della mano forma una pistola e ci invita, quasi minacciandoci, ad entrare nel suo disturbato mondo, obbligandoci a compiere un viaggio nella sua psiche...
4-BLACK COUNTRY COMMUNION-2
Una seconda prova che pareggia e supera in alcuni momenti il debutto, anche se richiede un ascolto più attento, soprattutto dovuto ad una produzione volutamente sporcata che inizialmente sembra fare da freno alla fluidità del disco. Un disco fatto da professionisti della musica che rincorre ancora le emozioni dettate dal cuore, ma questo con la presenza del carisma di Mr. Hughes era un dato assodato.
5-FLOGGING MOLLY-Speed Of Darkness
Dave King e soci , durante gli anni, sono cambiati, il loro irish/punk rock si è affinato, inglobando più influenze musicali che vedono la loro summa in questo Speed Of Darkness.
6-MACHINE HEAD-Unto the Locust
La band di Rob Flynn è ormai una garanzia ventennale che sa rinnovarsi. Unto The Locust segue il fortunato The Blackening, non lo copia ma conferma lo status di miglior band post-thrash metal uscita negli anni novanta. Una delle poche ad aver ancora voce in capitolo.
7-PRIMUS-Green Naugahyde
Sicuramente superiore ad Antipop, Green Naugahyde segna un nuovo inizio per la band californiana...quasi dodici anni di assenza e riescono a rilasciare un disco che non mostra minimamente i segni del tempo pur riprendendo a grandi dosi le peculiarità che fecero di Frizzle Fry(1990) Sailing the seas of Cheese(1991) e Pork Soda(1993), opere uniche per capire l'evoluzione rock di quegli anni...
8-RIVAL SONS-Pressure & Time
Gli americani di Los Angeles sparano tutto in mezz'ora di musica, 10 canzoni, dirette ed efficaci, senza nessun abbellimento superfluo e registrato pure in pochissimi giorni. Questi vanno veloci in tutti i sensi.
Hard rock anni settanta , quello che meglio si sposava con il blues ed una voce molto caratterizzante sono il loro biglietto da visita
9-PENTAGRAM-Last Rites
Liebling si è ripulito, ha messo da parte, chissà se per sempre, alcol e droghe e dopo sette anni dall'ultima uscita dei Pentagram, si ripresenta in compagnia del chitarrista storico della band , Victor Griffin.
10-The FEELIES-Here Before
Here Before è un lavoro a tratti solare ed intelligente, non farà la storia, ma ci riconsegna la band del New Jersey, certamente lontana dal grezzo, glaciale ma superlativo esordio del 1980, ma con un carico di melodie da far invidia a ben più blasonate band
11-CHICKENFOOT-III
12-SAVIOURS- Death's Procession13-JANE'S ADDICTION-The Great Escape Artist
14-STATUS QUO-Quid Pro Quo15-The BLACK KEYS-El Camino16-ANTHRAX- Worship Music17-ORCHID-Capricorn18-GENTLEMAN'S PISTOLS-At Her Majesty's Pleasure19-LESLIE WEST-Unusual Suspects
20-DROPKICK MURPHYS-Going Out in Style
21-ALICE COOPER-Welcome 2 My Nightmare22-SOCIAL DISTORTION-Hard Times and Nursery Rhymes
23-KIMBALL/JAMISON-Kimball/Jamison
24-The ANSWER-Revival
25-MEGADETH-Th1rt3en
26-CROWBAR-Sever the Wicked Hand
27-STEEL PANTHER-Balls Out
28-URIAH HEEP-Into The Wild
29-AGNOSTIC FRONT-My Life,My Way
30-NAZARETH-Big Dogz
giovedì 22 dicembre 2011
RECENSIONE: KATE BUSH (50 Words for Snow)
KATE BUSH 50 Words for Snow ( Fish People Records, 2011)
Non sono ancora pervenute controprove: 50 Words for Snow è candidato a diventare il disco invernale di questo 2011 agli sgoccioli. Il disco giusto da regalare durante le feste a patto che, chiunque riceverà questo gelato cd abbia larghe vedute musicali e non si aspetti simpatici jingle da canticchiare sotto l'albero in compagnia dei pargoli o seduto, con la pancia piena, davanti ad una tavola imbandita.
Kate Bush non è più l'affascinante ballerina di fine anni settanta che conquistava ed ammagliava con la sua voce e il mistero tutto femminile che riusciva ad emanare. Con questo disco, però, dimostra di saper (ancora) giocare complicato e far parlare di sé, nonostante le sue uscite pubbliche (non parliamo dei concerti-non pervenuti-) siano quasi nulle e su disco, a parte il recente Director's Cut che rivisitava cose vecchie, non la si sentiva dal 2005 di Aerial.
50 Words for Snow è un disco che va ascoltato nella sua intierezza, nel tepore domestico, con la neve che bussa lieve ai vetri delle finestre ed un pupazzo che veglia sulla porta di casa: sarebbe l'ideale. 7 canzoni, tutte piuttosto lunghe, dedicate ai quei piccoli cristalli, magici e misteriosi, di cui Kate Bush riesce a raccogliere e catalogare 50 parole per indicarli, seguendo l'esempio dato dagli eschimesi. Nasce così la canzone ( preceduta dal soffio di una bufera) dall'andamento quasi tribale, composta da un lungo elenco di parole declamate con l'aiuto dell'attore Stephen Fry (alcune, inventate, sono veramente buffe ed improponibili) e l'idea di dedicare un intero disco alla neve.
Gli otto minuti di 50 Words for Snow (la canzone) ed il primo singolo estratto Wild Man sono le uniche concessioni al pop del disco, altrimenti costruito sulla costante presenza del pianoforte a duellare con la splendida voce della cinquantatreenne cantante britannica, che pur non raggiungendo le vette di una volta, rimane ammagliante e teatrale come poche.
Snowflakes apre il sipario in modo splendido, facendo subito entrare nel mood del disco fatto di eteree note di pianoforte e pochi interventi percussivi e orchestrazioni mai invadenti. Qui, la voce di mamma Kate è accompagnata da quella acuta del figlio Albert che arrivà là dove, evidentemente, non arriva più la sua. Un dialogo ipnotizzante tra madre e figlio, lungo quasi dieci minuti. Qualche brivido lo fa venire e non è solo dovuto al freddo.
Dopo più di trent'anni di carriera, Kate Bush riesce a realizzare il sogno di duettare con il suo "mito" da ragazzina: sir Elton John. Il tutto avviene in Snowed in at Wheeler Street. Oltre al pianoforte vi è
l'accompagnamento di una sezione archi e la voce di Elton John, come dimostrato nelle sue ultime uscite discografiche, sembra essere tornata alla qualità. Una canzone che culmina in crescendo con tutta la band protagonista (John Giblin al basso, Steve Gadd alla batteria e il marito Dan Macintosh alle chitarre). Un gran brano.
Misty è una favola di tredici minuti, raccontata in punta di piedi, quasi jazzata, con un pupazzo di neve protagonista e tutto quello che ne consegue se ci si innamora perdutamente di lui.
Certo, il rischio di perdersi durante l'ascolto di canzoni, impegnative come Lake Tahoe e la conclusiva Among Angels, è sempre in agguato ma il feeling che Kate Bush riesce ad instaurare dopo pochi minuti, facilita l'impresa e depone tutto a suo favore.
Conoscendo Kate Bush, non è così improbabile che i 65 minuti di questo disco diventino anche un'opera teatrale. Sarebbe la sua ennesima sfida. Intanto noi aspettiamo...la neve. Buone feste a tutti.
Non sono ancora pervenute controprove: 50 Words for Snow è candidato a diventare il disco invernale di questo 2011 agli sgoccioli. Il disco giusto da regalare durante le feste a patto che, chiunque riceverà questo gelato cd abbia larghe vedute musicali e non si aspetti simpatici jingle da canticchiare sotto l'albero in compagnia dei pargoli o seduto, con la pancia piena, davanti ad una tavola imbandita.
Kate Bush non è più l'affascinante ballerina di fine anni settanta che conquistava ed ammagliava con la sua voce e il mistero tutto femminile che riusciva ad emanare. Con questo disco, però, dimostra di saper (ancora) giocare complicato e far parlare di sé, nonostante le sue uscite pubbliche (non parliamo dei concerti-non pervenuti-) siano quasi nulle e su disco, a parte il recente Director's Cut che rivisitava cose vecchie, non la si sentiva dal 2005 di Aerial.
50 Words for Snow è un disco che va ascoltato nella sua intierezza, nel tepore domestico, con la neve che bussa lieve ai vetri delle finestre ed un pupazzo che veglia sulla porta di casa: sarebbe l'ideale. 7 canzoni, tutte piuttosto lunghe, dedicate ai quei piccoli cristalli, magici e misteriosi, di cui Kate Bush riesce a raccogliere e catalogare 50 parole per indicarli, seguendo l'esempio dato dagli eschimesi. Nasce così la canzone ( preceduta dal soffio di una bufera) dall'andamento quasi tribale, composta da un lungo elenco di parole declamate con l'aiuto dell'attore Stephen Fry (alcune, inventate, sono veramente buffe ed improponibili) e l'idea di dedicare un intero disco alla neve.
Gli otto minuti di 50 Words for Snow (la canzone) ed il primo singolo estratto Wild Man sono le uniche concessioni al pop del disco, altrimenti costruito sulla costante presenza del pianoforte a duellare con la splendida voce della cinquantatreenne cantante britannica, che pur non raggiungendo le vette di una volta, rimane ammagliante e teatrale come poche.
Snowflakes apre il sipario in modo splendido, facendo subito entrare nel mood del disco fatto di eteree note di pianoforte e pochi interventi percussivi e orchestrazioni mai invadenti. Qui, la voce di mamma Kate è accompagnata da quella acuta del figlio Albert che arrivà là dove, evidentemente, non arriva più la sua. Un dialogo ipnotizzante tra madre e figlio, lungo quasi dieci minuti. Qualche brivido lo fa venire e non è solo dovuto al freddo.
Dopo più di trent'anni di carriera, Kate Bush riesce a realizzare il sogno di duettare con il suo "mito" da ragazzina: sir Elton John. Il tutto avviene in Snowed in at Wheeler Street. Oltre al pianoforte vi è
l'accompagnamento di una sezione archi e la voce di Elton John, come dimostrato nelle sue ultime uscite discografiche, sembra essere tornata alla qualità. Una canzone che culmina in crescendo con tutta la band protagonista (John Giblin al basso, Steve Gadd alla batteria e il marito Dan Macintosh alle chitarre). Un gran brano.
Misty è una favola di tredici minuti, raccontata in punta di piedi, quasi jazzata, con un pupazzo di neve protagonista e tutto quello che ne consegue se ci si innamora perdutamente di lui.
Certo, il rischio di perdersi durante l'ascolto di canzoni, impegnative come Lake Tahoe e la conclusiva Among Angels, è sempre in agguato ma il feeling che Kate Bush riesce ad instaurare dopo pochi minuti, facilita l'impresa e depone tutto a suo favore.
Conoscendo Kate Bush, non è così improbabile che i 65 minuti di questo disco diventino anche un'opera teatrale. Sarebbe la sua ennesima sfida. Intanto noi aspettiamo...la neve. Buone feste a tutti.
lunedì 19 dicembre 2011
PLAYLIST: TOP DISCHI ITALIANI 2011
1-VINICIO CAPOSSELA-Marinai Profeti e Balene
Ultimo avviso ai naviganti: il prolungato ascolto del disco produrrà dipendenza. Un 'opera che rimarrà negli annali in compagnia delle migliori opere musicali italiane e un artista che conferma la sua voglia di sperimentare con la fantasia.
2-PAOLO BENVEGNU'-Hermann
Liberate la mente perchè il terzo disco dell'ex cantante dei Scisma ha tanto da offrire per riempirvela nuovamente. Un disco che conferma Benvegnù come uno dei migliori cantautori attualmente in Italia e uno dei pochi a poter ereditare la forma e la sostanza della cara categoria italica.
3-VERILY SO-Verily So
Lo sguardo che si perde nella polvere alzata dai piccoli tornado di vento che scompigliano la tranquillità di quelle tipiche ghost town americane, dove vecchie case di legno dormono abbandonate nascondendo chissà quali storie e vite passate, l’udito è sordo ed incapace di cogliere rumori. I livornesi di Cecina, Verily So con le canzoni del loro debutto saprebbero infrangere quel silenzio creando un connubio musica-luogo perfetto.
4-LUIGI MAIERON- Vino Tabacco e Cielo
"Vino Tabacco e cielo" è un piccolo scrigno pieno di tradizioni e storie, che come insegnato da Van De Sfroos, possono varcare i confini regionali e allargarsi in tutta Italia abbattendo quei fittizi confini federali che fortunatamente non sono ancora stati eretti.
5-CASINO ROYALE- Io e la mia Ombra
Un disco basilarmente pop, ma di quello intelligente, elettronica che flirta con la dance su cui poggiano gli infiniti input della musica "totalitaria" a cui i Casino Royale ci hanno da sempre abituato,un disco dal "groove elevato" dove la semplicità apparente si arricchisce di nuove sfumature dietro ad ogni ascolto.
Ancora una volta"Radicalmente diversi dagli originali"
6-DAVIDE VAN DE SFROOS- Yanez
La capacità di musicare e dare parola a dei piccoli film, quasi dei cortometraggi, completi di tutti i particolari, rimane il grande pregio della scrittura di Van De Sfroos. Canzoni in grado di far vivere all'ascoltatore i sapori , gli odori , saper coinvolgere fino all' immedesimazione, usando la poesia di frasi che solo il dialetto riesce a far risaltare.
7-The PEAWEES-Leave It Behind
Leave It Behind è il quarto album della band e arriva a quattro anni di distanza dall'ultimo Walking The walk(2007) e le tante e positive esperienze in giro per l'Europa che ne hanno accresciuto l'esperienza e le potenzialità.
8-MOJO FILTER- Mrs Love Revolution
I Mojo Filter sono una portata alcolica e appetitosa, lontana dal rock alternativo che tira tanto nella penisola, ma estremamente più vicino a quell'idea di rock che incarna il sogno americano e la sua naturale prosecuzione britannica
9-GIORGIO CANALI & ROSSO FUOCO- Rojo
Se l'amico ed ex compagno di CCCP, CSI e PGR, Giovanni Lindo Ferretti negli ultimi anni è stato protagonista di un discutibile ma comunque rispettabile dietro front di ideali(nel rock certi cambiamenti di rotta si pagano), Canali dopo il più tranquillo, meditato ed intimista "Nostra signora della dinamite"(2009), torna sospinto dai venti di rivoluzione che soffiano sopra ad una crisi che è piombata e che ci vede inermi spettatori , poco colpevoli e molto coinvolti nel subirne gli effetti.
10-99 POSSE- Cattivi Guagliuni
I 99 Posse sono mancati. La loro assenza mi sembrava una sconfitta di fronte alle derive etico/sociali e politiche che hanno caratterizzato l'ultimo decennio della repubblica italiana.
La loro voce di dissenso e denuncia ha fatto la rivoluzione nei primi anni novanta.
11-VERDENA-Wow
12-GENERAL STRATOCUSTER and THE MARSHALS-General Stratocuster and The Marshals
13-CRISTINA DONA'-Torno a casa a piedi
14-GREEN LIKE JULY-Four Legged Fortune
15-MANNARINO-Supersantos16-WAINES-Sto
17-ECO NUEL-Almost White
18-ZEN CIRCUS-Nati per subire
19-STOOP-Freeze Frames
20-BRUNORI SAS-Vol.2:Poveri Cristi
21-The CYBORGS-The Cyborgs
22-CAPAREZZA-Il Sogno Eretico
23-UNORSOMINORE-La Vita Agra
24-BANDABARDO'-Scaccianuvole
25-MODENA CITY RAMBLERS-Sul tetto del mondo
26-BUD SPENCER BLUES EXPLOSION-Do it
27-PSYCHOVOX-La Scelta28-GUY LITTELL-Later
29-ONE DIMENSIONAL MAN-A Better Man
30-BUGO-Nuovi Rimedi per la Miopia
sabato 17 dicembre 2011
RECENSIONE: THE PEAWEES (Leave It Behind)
THE PEAWEES Leave It Behind(Wild Honey records, 2011)
Che bell'album Leave It Behind. Avevo perso notizie(per mia incuranza) degli spezzini The Peawees dai primi anni duemila quando li vidi in concerto e mi fecero una gran bella impressione, così diversi da tanti altri gruppi punk italiani dell'epoca con cui dividevano il palco. Con la brillantina del re di Menphis che già spolverava le loro canzoni e la loro presenza sul palco, mi piacquero subito a pelle. Ora li ritrovo, con una trasformazione adulta, che li porta ad abbracciare in toto alcune sonorità '50 e '60 che oltre all'amato rock'n'roll includono tanto soul e r'n'b, alla ricerca di quelle radici musicali di chi ripercorre le strade a ritroso come prima di loro seguirono i Clash di London Calling e ultimamente hanno fatto i Social Distortion dell'ultimo Hard Times and Nursery Rhymes. Su quella lunga strada che parte dal primo pulsante rock'n'roll, si colora dei caldi suoni targati stax, si scontra con la selvaggia scena di Detroit e si sporca della sudicia contaminazione degli Stones in esilio parigino.
Leave It Behind è il quarto album della band e arriva a quattro anni di distanza dall'ultimo Walking The walk(2007) e le tante e positive esperienze in giro per l'Europa che ne hanno accresciuto l'esperienza e le potenzialità.
Hervè Peroncini(voce e chitarra), forte del suo carisma guida il suo combo verso il soul trasudante dal rock'n'roll d'apertura Food for My Soul, con tanto di fiati, verso il vintage rock'n'roll di Gonna Tell, tra rockabilly e i Clash "rapiti" da re Elvis.
Le armoniche protagoniste in Memories are gone e nella rutilante The Place, con tanto di piano alla Jerry Lee Lewis, non nascondono l'intatta energia del passato, presente anche nelle più dirette Danger, battente bandiera Stooges e nel garage rock di Don't knock at my door.
Ma c'è un lato del disco che disegna la nuova anima di questa band che con Leave It Behind osa l'incontro con la grande America. L'impatto è più che credibile. Ascoltando Diggin' the sound sembra di ascoltare l'anima rock'n'roll dello Springsteen di The River, nella nera attitudine di Good Boy Mama, con i suoi cori femminili e la sua lenta andatura dove a mettersi in mostra sono i fraseggi chitarristici di Carlo Landini. La title track Leave It Behind e la finale Count Me Out dimostrano una gran cura dei particolari e sono la conferma che la strada intrapresa dai nuovi Peawees è quella giusta. Dopo anni di ricerca, hanno forse trovato il loro suono.
Un disco che emana calore e che trova il suo giusto trampolino di lancio sopra ad un palco. Tra i migliori dischi italiani dell'anno. Ora che li ho ritrovati cercherò di non perderli più di vista. Me lo prometto.
Che bell'album Leave It Behind. Avevo perso notizie(per mia incuranza) degli spezzini The Peawees dai primi anni duemila quando li vidi in concerto e mi fecero una gran bella impressione, così diversi da tanti altri gruppi punk italiani dell'epoca con cui dividevano il palco. Con la brillantina del re di Menphis che già spolverava le loro canzoni e la loro presenza sul palco, mi piacquero subito a pelle. Ora li ritrovo, con una trasformazione adulta, che li porta ad abbracciare in toto alcune sonorità '50 e '60 che oltre all'amato rock'n'roll includono tanto soul e r'n'b, alla ricerca di quelle radici musicali di chi ripercorre le strade a ritroso come prima di loro seguirono i Clash di London Calling e ultimamente hanno fatto i Social Distortion dell'ultimo Hard Times and Nursery Rhymes. Su quella lunga strada che parte dal primo pulsante rock'n'roll, si colora dei caldi suoni targati stax, si scontra con la selvaggia scena di Detroit e si sporca della sudicia contaminazione degli Stones in esilio parigino.
Leave It Behind è il quarto album della band e arriva a quattro anni di distanza dall'ultimo Walking The walk(2007) e le tante e positive esperienze in giro per l'Europa che ne hanno accresciuto l'esperienza e le potenzialità.
Hervè Peroncini(voce e chitarra), forte del suo carisma guida il suo combo verso il soul trasudante dal rock'n'roll d'apertura Food for My Soul, con tanto di fiati, verso il vintage rock'n'roll di Gonna Tell, tra rockabilly e i Clash "rapiti" da re Elvis.
Le armoniche protagoniste in Memories are gone e nella rutilante The Place, con tanto di piano alla Jerry Lee Lewis, non nascondono l'intatta energia del passato, presente anche nelle più dirette Danger, battente bandiera Stooges e nel garage rock di Don't knock at my door.
Ma c'è un lato del disco che disegna la nuova anima di questa band che con Leave It Behind osa l'incontro con la grande America. L'impatto è più che credibile. Ascoltando Diggin' the sound sembra di ascoltare l'anima rock'n'roll dello Springsteen di The River, nella nera attitudine di Good Boy Mama, con i suoi cori femminili e la sua lenta andatura dove a mettersi in mostra sono i fraseggi chitarristici di Carlo Landini. La title track Leave It Behind e la finale Count Me Out dimostrano una gran cura dei particolari e sono la conferma che la strada intrapresa dai nuovi Peawees è quella giusta. Dopo anni di ricerca, hanno forse trovato il loro suono.
Un disco che emana calore e che trova il suo giusto trampolino di lancio sopra ad un palco. Tra i migliori dischi italiani dell'anno. Ora che li ho ritrovati cercherò di non perderli più di vista. Me lo prometto.
giovedì 15 dicembre 2011
RECENSIONE: LESLIE WEST (Unusual Suspects)
LESLIE WEST Unusual Suspects ( Provogue Records, 2011)
Questo 2011, nel bene e nel male, resterà nella biografia di Leslie West. L'ex mastodontico chitarrista e cantante dei Mountain, veri e propri precursori dell'hard/heavy rock statunitense sembra aver voluto proseguire, suo malgrado, la maledizione dei Mountain, iniziata nel 1983 quando il bassista ed in seguito produttore Felix Pappalardi fu ucciso per mano della moglie.
West, nel Giugno scorso, si è visto amputare una gamba per via di gravi complicazioni dovute al diabete. Fortunatamente, il buon Leslie, sembra averla presa meglio di quanto si pensasse. Un mese dopo, alla sua prima apparizione pubblica , scherzandoci sù e presentando il suo nuovo disco, già pronto da tempo:"E' il mio miglior disco da molti anni a questa parte, la mia voce è ottima, le canzoni sono suonate con emozione. Pensavo addirittura potesse ricrescermi la gamba. Ma non si può avere tutto dalla vita".
Ecco, la buona notizia del suo sfortunato anno: è il suo ritorno discografico. Un ritorno col botto, affiancato da 5 chitarristi che non hanno mai negato le influenze che West (il cui vero cognome è Weinstein) ha saputo disseminare durante la sua travagliata carriera iniziata con l'apparizione a Woodstock.
Unusual Suspects ha tutte le carte per essere il miglior disco di West dai tempi di Climbing!(1970) e Nantucket Sleighride(1971) dei Mountain, racchiudendo tutte le sfaccettature della sua musica: hard, blues e heavy, con tanta melodia che si sposa con la sua voce ancora graffiante. Accompagnato da Kenny Aronoff alla batteria e Fabrizio Grossi al basso e in produzione.
Dal boogie blues dell'iniziale One more drink for the Road in compagnia della chitarra dipinta di classe cristallina di Steve Lukather che però si interrompe inaspettatamente sul più bello (queste sfumature non le capirò mai), all'altro southern blues Standing on a Higher Ground in compagnia di Billy Gibbons(ZZ TOP). Torrenziali solos, carichi e sporchi.
Il lato pesante del suo unico modo di suonare esce da Mudflap Mama con la chitarra di Slash, dalla cadenzata pesantezza di Third Degree di Willie Dixon con Joe Bonamassa(anche alla voce), sicuramente la miglior traccia del disco. Nothing Changed con il figliol prodigo e vichingo Zakk Wylde, tra i migliori chitarristi heavy usciti a cavallo tra gli anni ottanta e novanta(musicista a tutto tondo,poliedrico il suo range musicale: Heavy, southern e country nei suoi dischi) e la più canonica dedica alla moglie di Love you Forever.
Il lato più melodico del suo songwriting(in cooperazione con Joe Pizza, autore delle canzoni insieme a West), nell'altra dedica alla moglie per sola voce e chitarra elettrica di You & Me, nella bella To the moon, divisa com'è da parti arpeggiate e assalti elettrici e dalla emozionante ballad pianistica Legend, su cui ci scherza anche su "Non chiamatemi legenda, sono solo qui per suonare". Come dargli torto.
Non mancano alcune covers( oltre alla già citata Third Degree di Boyd/Dixon), come I Feel Fine dei Beatles, che diventa una boogie /blues song da autostrade americane e Turn Out the Lights di Willie Nelson, divertente western song in acustico con Slash e Zakk Wylde insieme. Per concludere la bonus track Beetle Juice "I Don't Know", nulla più che uno scherzo.
Non sarà un disco per palati fini, ma Unusual Suspects suona sincero e riporta alla ribalta un personaggio unico, quasi sempre dimenticato. Lui e la sua "Montagna" contribuirono a creare l'hard rock, ma attenzione: non chiamatelo leggenda!
Questo 2011, nel bene e nel male, resterà nella biografia di Leslie West. L'ex mastodontico chitarrista e cantante dei Mountain, veri e propri precursori dell'hard/heavy rock statunitense sembra aver voluto proseguire, suo malgrado, la maledizione dei Mountain, iniziata nel 1983 quando il bassista ed in seguito produttore Felix Pappalardi fu ucciso per mano della moglie.
West, nel Giugno scorso, si è visto amputare una gamba per via di gravi complicazioni dovute al diabete. Fortunatamente, il buon Leslie, sembra averla presa meglio di quanto si pensasse. Un mese dopo, alla sua prima apparizione pubblica , scherzandoci sù e presentando il suo nuovo disco, già pronto da tempo:"E' il mio miglior disco da molti anni a questa parte, la mia voce è ottima, le canzoni sono suonate con emozione. Pensavo addirittura potesse ricrescermi la gamba. Ma non si può avere tutto dalla vita".
Ecco, la buona notizia del suo sfortunato anno: è il suo ritorno discografico. Un ritorno col botto, affiancato da 5 chitarristi che non hanno mai negato le influenze che West (il cui vero cognome è Weinstein) ha saputo disseminare durante la sua travagliata carriera iniziata con l'apparizione a Woodstock.
Unusual Suspects ha tutte le carte per essere il miglior disco di West dai tempi di Climbing!(1970) e Nantucket Sleighride(1971) dei Mountain, racchiudendo tutte le sfaccettature della sua musica: hard, blues e heavy, con tanta melodia che si sposa con la sua voce ancora graffiante. Accompagnato da Kenny Aronoff alla batteria e Fabrizio Grossi al basso e in produzione.
Dal boogie blues dell'iniziale One more drink for the Road in compagnia della chitarra dipinta di classe cristallina di Steve Lukather che però si interrompe inaspettatamente sul più bello (queste sfumature non le capirò mai), all'altro southern blues Standing on a Higher Ground in compagnia di Billy Gibbons(ZZ TOP). Torrenziali solos, carichi e sporchi.
Il lato pesante del suo unico modo di suonare esce da Mudflap Mama con la chitarra di Slash, dalla cadenzata pesantezza di Third Degree di Willie Dixon con Joe Bonamassa(anche alla voce), sicuramente la miglior traccia del disco. Nothing Changed con il figliol prodigo e vichingo Zakk Wylde, tra i migliori chitarristi heavy usciti a cavallo tra gli anni ottanta e novanta(musicista a tutto tondo,poliedrico il suo range musicale: Heavy, southern e country nei suoi dischi) e la più canonica dedica alla moglie di Love you Forever.
Il lato più melodico del suo songwriting(in cooperazione con Joe Pizza, autore delle canzoni insieme a West), nell'altra dedica alla moglie per sola voce e chitarra elettrica di You & Me, nella bella To the moon, divisa com'è da parti arpeggiate e assalti elettrici e dalla emozionante ballad pianistica Legend, su cui ci scherza anche su "Non chiamatemi legenda, sono solo qui per suonare". Come dargli torto.
Non mancano alcune covers( oltre alla già citata Third Degree di Boyd/Dixon), come I Feel Fine dei Beatles, che diventa una boogie /blues song da autostrade americane e Turn Out the Lights di Willie Nelson, divertente western song in acustico con Slash e Zakk Wylde insieme. Per concludere la bonus track Beetle Juice "I Don't Know", nulla più che uno scherzo.
Non sarà un disco per palati fini, ma Unusual Suspects suona sincero e riporta alla ribalta un personaggio unico, quasi sempre dimenticato. Lui e la sua "Montagna" contribuirono a creare l'hard rock, ma attenzione: non chiamatelo leggenda!
mercoledì 14 dicembre 2011
RECENSIONE: SAVIOURS (Death's Procession)
SAVIOURS Death's Procession (Kemado Records, 2011)
Cadere nell'errore di liquidare i Saviours come delle semplici copie dei Motorhead, non renderebbe giustizia alla band di Oakland(California) che con questo quarto album cerca di scardinare il mercato con un lavoro vario e ben suonato, dove le influenze di Lemmy si sentono in alcuni episodi più tirati posti al centro dell'album, ma lasciano intravedere una qualità ed un modo di costruire le canzoni di tutto rispetto, dove la grezza attitudine è ancora un valore che supera qualsiasi abbellimento estetico di suono.
Quello che i Saviours cercano di costruire è un ponte tra il sulfureo hard doom rock settantiano con influenze di chiara matrice Black Sabbath e l'Heavy Metal della NWOBHM dei primi anni ottanta, seguendo ed attualizzando la lezione che i mai troppo lodati Angel Witch impartirono con il superbo album omonimo del 1980 e ricordando le tracce dei più attuali High on Fire e soprattutto The Sword, quelli del secondo album "Gods of the Earth" in particolare.
Tutto il disco, concettualmente ruota intorno all'apatia dell'essere umano di fronte al disfacimento globale della terra, in tutte le sue forme. All'uomo spettatore passivo di fronte alla sua imminente fine. E' "un mondo malato" verrebbe voglia di dire.
The Eye Obscene con i suoi sette minuti apre le danze con lento e cadenzato incedere come Earthen Dagger e la finale Walk to the Light in bilico tra doom, sludge e derive stoner, mentre nella strumentale Earth Possession & Death's Procession a mettersi in mostra sono i due chitarristi Austin Barber e Sonny Reinhardt che seguendo le chitarre gemelle maideniane impazzano lungo tutti i minuti della canzone.
L'anima più rock'n'roll e diretta della band viene in superficie in Crete'n e Gods End, tirate cavalcate che i Motorhead includerebbero volentieri nella loro discografia. La voce di Barber è sporca e cruda, senza eccellere in nessuna qualità ma colpendo più per intensità ed attitudine.
To the Grave Possessed e Fire or Old sono due grezze canzoni di old school Heavy Metal, la prima nasconde l'unica concessione alla melodia del disco nel chorus, mentre la seconda paga tributo agli Iron Maiden dei primi due album con Paul Di Anno e ai Thin Lizzy più metal, grazie soprattutto al lavoro incessante delle chitarre.
Un disco che alla fine piace, nella sua continua varietà di umori e stili. Sudore, attitudine da vendere ed un muro di Marshall pronto ad esplodere.
Cadere nell'errore di liquidare i Saviours come delle semplici copie dei Motorhead, non renderebbe giustizia alla band di Oakland(California) che con questo quarto album cerca di scardinare il mercato con un lavoro vario e ben suonato, dove le influenze di Lemmy si sentono in alcuni episodi più tirati posti al centro dell'album, ma lasciano intravedere una qualità ed un modo di costruire le canzoni di tutto rispetto, dove la grezza attitudine è ancora un valore che supera qualsiasi abbellimento estetico di suono.
Quello che i Saviours cercano di costruire è un ponte tra il sulfureo hard doom rock settantiano con influenze di chiara matrice Black Sabbath e l'Heavy Metal della NWOBHM dei primi anni ottanta, seguendo ed attualizzando la lezione che i mai troppo lodati Angel Witch impartirono con il superbo album omonimo del 1980 e ricordando le tracce dei più attuali High on Fire e soprattutto The Sword, quelli del secondo album "Gods of the Earth" in particolare.
Tutto il disco, concettualmente ruota intorno all'apatia dell'essere umano di fronte al disfacimento globale della terra, in tutte le sue forme. All'uomo spettatore passivo di fronte alla sua imminente fine. E' "un mondo malato" verrebbe voglia di dire.
The Eye Obscene con i suoi sette minuti apre le danze con lento e cadenzato incedere come Earthen Dagger e la finale Walk to the Light in bilico tra doom, sludge e derive stoner, mentre nella strumentale Earth Possession & Death's Procession a mettersi in mostra sono i due chitarristi Austin Barber e Sonny Reinhardt che seguendo le chitarre gemelle maideniane impazzano lungo tutti i minuti della canzone.
L'anima più rock'n'roll e diretta della band viene in superficie in Crete'n e Gods End, tirate cavalcate che i Motorhead includerebbero volentieri nella loro discografia. La voce di Barber è sporca e cruda, senza eccellere in nessuna qualità ma colpendo più per intensità ed attitudine.
To the Grave Possessed e Fire or Old sono due grezze canzoni di old school Heavy Metal, la prima nasconde l'unica concessione alla melodia del disco nel chorus, mentre la seconda paga tributo agli Iron Maiden dei primi due album con Paul Di Anno e ai Thin Lizzy più metal, grazie soprattutto al lavoro incessante delle chitarre.
Un disco che alla fine piace, nella sua continua varietà di umori e stili. Sudore, attitudine da vendere ed un muro di Marshall pronto ad esplodere.
lunedì 12 dicembre 2011
INTERVISTA ai W.I.N.D.
I friulani W.I.N.D. sono, da anni, una delle realtà rock più importanti d'Europa. Il power trio si è costruito un seguito internazionale basato su serietà e personalità che ha pochi eguali in Italia. Il loro ultimo disco Walkin' in a new direction è uscito nel 2010 ed è uno dei migliori dischi rock usciti nel nostro paese negli ultimi anni. Fabio Drusin, bassista, cantante e fondatore, parla del loro ultimo lavoro, della stabilità trovata dalla nuova formazione e dell'attività live in giro per il mondo, vero punto di forza dei W.I.N.D.
Ad un anno di distanza dall'uscita di Walkin' In A New Direction, quali sono le soddisfazioni maggiori che vi ha dato il disco, a tutti i livelli? Riuscite a trarre un primo bilancio di questa nuova avventura per la band?
Fabio Drusin: L'album è andato molto bene come vendite e come recensioni, ha ottenuto ottimi consensi dalla stampa e addetti ai lavori ed attualmente è l'album che ha venduto di piu dei nostri precedenti, essendo vicino alla quarta ristampa nel giro di un anno. Anche perchè supportato da parecchi concerti un pò ovunque negli ultimi due anni, ed un buon lavoro dal nostro management ed etichetta discografica.
Quali sono stati i più grandi cambiamenti umani e musicali con l'entrata nella band,( ormai quattro anni fa, se non sbaglio) di due nuovi elementi come Anthony Basso alle chitarre e Silver Bassi alla batteria?C'è stato da subito un ottimo feeling tra di noi, umano e musicale, siamo partiti subito per dei concerti una settimana dopo le prime prove. Direi che siamo maturati molto, assieme, ed abbiamo portato al nostro sound una ventata d'aria fresca, guidata dalla nostra compatibilità e anche dal fatto che abbiamo vissuto assieme per lunghi periodi in Tour, cosa molto importante, perchè solo lì riesci a capire se il motore gira; l'attitudine che devi avere per fare un mestiere come questo è una cosa fondamentale, oltre alla dote della musica, questo è il motivo per cui molte bands partono ma poi si fermano, per diversi motivi. Gli ostacoli da saltare sono molti e non tutti sono disposti a farlo. Noi ci reputiamo fortunati in questo,vuoi perchè nel corso degli anni abbiamo portato avanti un discorso serio, riuscendo a dare un certo peso e storia al nostro nome, vuoi perchè siamo un trio unito e motivato, che ha un'unico obiettivo. Ora per le bands emergenti è tutto piu difficile in questo businness, molto difficile e a mio parere manca anche una certa unità. Musicalmente parlando, con Anthony e Silver c'è stato un salto di qualità e professionalità, più aperture musicali, più orizzonti esplorati, due voci soliste e i molti concerti che abbiamo fatto hanno aiutato a maturare il nostro sound, che ripeto, risente positivamente per la nostra compatibilità musicale e anche umana. Dividiamo stessi gusti, stesse idee riguardo il nostro lavoro e progetti ed andiamo d'accordo rispettandoci a vicenda.
Come riportato sul retro copertina, il disco è stato registrato live in studio. Come siete riusciti ad ottenere questo suono strepitoso?Semplicemente cercando di portare sul disco il nostro suono naturale, il nostro feeling del momento, appunto registrando in maniera live in studio, con i nostri strumenti, microfoni d'ambiente vintage e l'occhio e orecchio attento del nostro produttore Stefano Amerio,.
che rispetto i dischi precedenti ha lasciato piu spazio al suono e all'ambiente, con pochissime sovrancisioni lasciando volutamente anche qualche imperfezione del momento, che fa parte dell'anima della musica, specie quella Rock. Poi la nostra personalità ha fatto il resto, il suono di una band, di uno strumento, nasce da quello che sei.
Volendo fefinire la vostra musica, ci si trova in difficoltà: blues, jam band, psichedelia, southern, hard blues. Il vostro range musicale è ampio. Qual'è la definizione che più vi aggrada o che riesce a rendere meglio la musica che suonate?Una parola: ROCK. Non amo particolarmente le etichette, che non dovrebbero essere date dai musicisti, i generi sono stati inventati dai giornalisti, per meglio etichettare una o l'altra band, che ovviamente è comodo e in certi casi serve; nel Rock, specie quello di un tempo, trovi un pò di tutto: il Blues, il Soul, il Funk. Mi piace ricordare una frase di Gregg Allman: "Non siamo una Jam Band, siamo una band che fa Jam".Un tempo tutti igrandi gruppi erano a loro modo jam bands: Traffic, Jethro Tull, Zeppelin, Cream, Hendrix, per citarne alcuni. Io personalmente sono un grande fan della musica Soul di un tempo ad esempio, genere che adora anche Anthony, ma ascolto anche musica Indiana, etnica, Jazz, Blues ovviamente, musica classica, il Funk di New Orleans.Tutti generi che puoi trovare in una sola parola, il Rock. Silver è un batterista atipico, ascolta principalmente musica dove il batterista non necessariamente è in prima linea, è molto musicale e il suo modo di suonare riflette questa sua particolarità. Oggi molti batteristi ascoltano principalmente bands dove il batterista è molto tecnico, limitando l'ascolto principalmente al solo strumento, cosi succede spesso anche per i chitarristi, mentre Anthony ascolta molti cantanti ad esempio, essendo cantante anche lui, e questo lo si sente nel suo modo di suonare. Tutto ciò aiuta ad amalgamare il nostro suono. Diciamo che lavoriamo naturalmente alla "Tutti per uno, uno per tutti", è questo che crea la personalità di una band
Ad esempio Deja Vu with the Blues è una canzone molto eclettica. Come è nata?E' nata durante un nostro ritiro in montagna qualche anno fa, appunto per scrivere le canzoni per il disco. L'ho scritta partendo dal riff di basso e pensando al Rhithm ad Blues vecchio stampo, poi nella parte centrale c'è un'impennata jam con solo di Anthony per poi finire con un solo di Trombone di Mauro Ottolini. Ho pensato al trombone perchè è uno strumento che adoro e perche pensavamo ci stesse bene in quel contesto un po "Funk Jam". Mauro lo ha inciso dopo un solo ascolto del brano, alla prima take. Lui è uno dei migliori qui in italia e non solo ed anche un grande fan dei Led Zeppelin, tornando al discorso di prima..
Il vostro nome all'estero è conosciuto ed apprezzato. Fate Festival e Tour ogni anno. La situazione in Italia com'è, notate grandi differenze rispetto agli altri paesi europei? Insomma l'Italia vi va stretta?E' un discorso lungo e complicato.Stretta non direi, anche perchè abbiamo suonato molto in Italia, e nel tempo abbiamo costruito un discreto seguito. Va un pò di moda dire che qui la situazione è peggiore che in altri posti, ma non sono completamente d'accordo, anche perchè avendo girato molto ho visto situazioni simili un pò ovunque. C'è qualcosa di positivo e qualcosa di negativo in ogni stato, dipende dal tuo giro, dai tuoi contatti, dalle scelte che fai. Se parliamo di certi programmi televisivi certo è un disastro, ma non dimentichiamo che sono programmi che vengono dall'America e dall'Inghilterra, è un marcio e una politica di media un po "lava cervelli", viviamo in un mondo globale che dovrebbe tornare all'analisi singola e alla liberta di scegliere. Negli Stati Uniti ad esempio, dove ho diversi amici musicisti, è piu dura che da noi, suonano per le mance, a volte pagano pochissimo, a parte i grandi, ma che anche loro dagli stadi sono passati ai clubs e vanno di moda i tours a doppio nome per richiamare piu persone, oltre al fatto che molti di loro aspettano di venire in Tour in Europa, dove li pagano meglio e il pubblico è ancora piu vergine e curioso.Vige un clima di disinteresse delle persone, bisognerebbe fare molti passi indietro, il consumismo e anche la tecnologia, paradossalmente non hanno aiutato molto. Non sono contro la tecnologia, internet e iTunes, se sono usati in maniera corretta e se non intaccano incosapevolmente la nostra curiosità ed entusiasmo, cose fondamentali per la musica, che però possono perdersi con i vari youtube, facebook etc. Voglio dire, Facebook e Myspace sembravano una svolta, invece hanno creato un mare troppo grande, dando anonimato. Quando c'è troppo tutti diventano troppo poco e la visibilità che dovrebbe dare, invece porta a sterilità e invisibilità, facendo calare l'interesse e la curosità. I ragazzi dovrebbero staccare un pò di più il computer e l'iPod e prendere in mano più spesso gli strumenti e suonare, parlare, confrontarsi, discutere, conoscere...
Spesso girate il mondo in compagnia di Alvin Youngblood Hart. Quali sono i ricordi più belli di questi tour, dove siete stati?Il primo concerto che abbiamo fatto con lui fu nel Maggio del 2008, in un Festival in Olanda, senza prove, ci trovammo in aereoporto ad Amsterdam e dopo qualche ora eravamo sul palco:-), da lì poi moltissimi altri concerti e Tours: in Inghilterra, Danimarca, Francia, Svizzera, Italia, Germania e anche Brasile. Ricordi bellissimi per tutti i Tours, incontri, lunghi spostamenti in Van, diverse Jams con artisti di rilievo, Anthony ci ha seguito per parte dei tours, suonando con noi, a formazione due chitarre. Ho imparato moltissimo da lui, Alvin è uno che suona ininterrottamente dai primi anni '90, ha vinto un Grammy, partecipato a due films, suonato e girato in compagnia di Eric Clapton, Neil Young, Ben Harper, Taj Mahal (colui che lo ha scoperto), Allman Brothers, Gov't Mule, Black Crowes, Bonie Raitt, solo per citarne alcuni. E' un musicista vero e persona molto semplice e umile, di aneddoti ne potrei raccontare a centinaia, ma diventerebbe lunga:-). Ricordo con piacere la registrazione alla BBC di Londra, nello stesso studio dove Led Zeppelin e Free registrarono i loro "Live at BBC", questo durante il Tour Inglese del 2010, dieci date una dietro l'altra, ho visitato città bellissime e posti in cui mai sarei stato se non per la musica. Come ad esempio lo scorso Tour Europeo che abbiamo fatto con W.I.N.D. assieme a Johnny Neel, 17 date tra Germania, Austria, Belgio, Polonia, Calabria, posti e gente meravigliosi, ricordi indelebili, come anche la recente jam che io e Anthony abbiamo fatto assieme alla Warren Haynes Band in Polonia, lo scorso Agosto.
Anche se l'ascolto di una canzone come "Demons" potrebbe dire il contrario, recentemente (3 Dicembre) avete affrontato anche un concerto, completamente unplugged. Come è andata? Esperienza da ripetere?Demons è nata sempre durante il nostro ritiro in montagna, Anthony ha accordato la chitarra in modo aperto, poi un riff e io ci ho aggiunto la melodia, è nata subito e dal vivo ci piace riproporla anche in elettrico. Suoniamo a volte anche in acustico, lo scorso 3 Dicembre non era la prima volta, quando si presenta l'occasione ideale per un concerto unplugged, ci piace riproporre la musica che amiamo, il Soul, il Gospel, il Blues e anche il nostro Rock, spoglandoci dalla potenza dell'elettrico e concentrandoci sul calore e l'emozione dell'acustico, tornando alle radici.
Pensate che la formazione a tre sia la migliore per la vostra musica? Quali sono i power trio "indispensabili" nella storia del rock?Con la formazione a tre andiamo a nozze, vuoi perchè lascia spazio e dinamiche, vuoi perchè ci troviamo ad occhi chiusi e ci conosciamo molto bene musicalmente,avendo iniziato così. Ovviamente ci piace suonare anche in quartetto, con Johnny è stato bellissimo, ma il trio format si sposa benissimo con la nostra musica e la nostra personalità. Spesso invitiamo ospiti ai fiati, alle tastiere, qualunque strumento, abbiamo suonato adirittura con due batterie, con Gandhi, cercando di inserire l'ospite nel contesto giusto, ma il trio, se dinamico, vario e articolato musicalmente, ci da molta soddisfazione. Riguardo i power trios "indispensabli" direi Cream, Mountain, Hendrix, ZZ Top.
I 5 dischi che riescono a mettervi d'accordo?Ce ne sono molti che ascoltiamo tutti e tre. Ti potrei dire Led Zeppelin III, Blind Faith, Free, Ray Lamontagne, Crosby. Ma anche molte altre cose, vecchie e nuove: Hendrix, Cream, Derek and The Dominos, James Brown, Gov't Mule, Black Crowes, Bob Seger, Mountain...Ricordo che lo scorso tour eravamo tutti molto eccitati da "In The Jungle Groove" di James Brown, ma ascoltavamo anche Neil Young, Bob Marley.
Vorrei chiudere, ricordando un grande artista. Il 6 Febbraio scorso è morto Gary Moore. Secondo me, almeno qui in Italia non è stato celebrato a dovere. Concordate? Qual'è il ricordo più grande che avete di lui?Gary Moore era un gentleman, con lui abbiamo praticamente vissuto per dieci giorni, quando aprimmo il suo tour in tedesco di dieci date con Alvin Youngblood Hart's Muscle Theory come Special Guest, nel Marzo del 2009. Un'esperienza indimenticabile che mi ha insegnato ed arricchito molto, lui era molto discreto, invitava Alvin a bere la Guinness nel suo camerino prima dello show e guardava sempre i nostri concerti, ogni sera, dal backstage.
Suonammo in tutte le principali città della Germania, ed era quasi sempre sold out. Gary amava la musica, non ha perso con gli anni il suo entusiasmo, aspettava paziente tutto cio che in tour devi aspettare, anche perchè girava con cucina, catering, produzione, audio e luci e tutto il suo staff al seguito, e non andava quasi mai in Hotel per lungo tempo, se ne stava nel backstage, a suonare e a parlare, seguiva i lavori con interesse, curava molto bene il sondcheck, cenava assieme a tutti noi, alla sua band e allo staff. Porto un bel ricordo di lui, come musicista ed essere umano, parlava spesso di chitarre, il resto lo interessava poco.
Walking In A New Dirction avrà presto un successore?
Sì, ci stiamo lavorando, abbiamo già diverse idee e dei brani abbozzati, contiamo di registrarlo nel 2012.
Ti ringrazio molto per la tua intervista, ogni mattina quando mi sveglio mi rendo conto di quanto fortunati siamo a fare ciò che facciamo, a poter dividere amore e emozioni con la musica e con chi ci ascolta. L'emozione è tutto e l'amore la cosa che fa girare il mondo. La muisca è una cosa meravigliosa, che da forza, amplifica ed attenua le pene. Comporre musica, creare i versi è come fare un'incontro di pugilato e se alla fine del match hai qualche bella parola significa che ne hai prese tante.
Foto by Alessandro Laporta-FotoCesco
vedi anche RECENSIONE: W.I.N.D. - Temporary Happiness (2013)
Ad un anno di distanza dall'uscita di Walkin' In A New Direction, quali sono le soddisfazioni maggiori che vi ha dato il disco, a tutti i livelli? Riuscite a trarre un primo bilancio di questa nuova avventura per la band?
Fabio Drusin: L'album è andato molto bene come vendite e come recensioni, ha ottenuto ottimi consensi dalla stampa e addetti ai lavori ed attualmente è l'album che ha venduto di piu dei nostri precedenti, essendo vicino alla quarta ristampa nel giro di un anno. Anche perchè supportato da parecchi concerti un pò ovunque negli ultimi due anni, ed un buon lavoro dal nostro management ed etichetta discografica.
Quali sono stati i più grandi cambiamenti umani e musicali con l'entrata nella band,( ormai quattro anni fa, se non sbaglio) di due nuovi elementi come Anthony Basso alle chitarre e Silver Bassi alla batteria?C'è stato da subito un ottimo feeling tra di noi, umano e musicale, siamo partiti subito per dei concerti una settimana dopo le prime prove. Direi che siamo maturati molto, assieme, ed abbiamo portato al nostro sound una ventata d'aria fresca, guidata dalla nostra compatibilità e anche dal fatto che abbiamo vissuto assieme per lunghi periodi in Tour, cosa molto importante, perchè solo lì riesci a capire se il motore gira; l'attitudine che devi avere per fare un mestiere come questo è una cosa fondamentale, oltre alla dote della musica, questo è il motivo per cui molte bands partono ma poi si fermano, per diversi motivi. Gli ostacoli da saltare sono molti e non tutti sono disposti a farlo. Noi ci reputiamo fortunati in questo,vuoi perchè nel corso degli anni abbiamo portato avanti un discorso serio, riuscendo a dare un certo peso e storia al nostro nome, vuoi perchè siamo un trio unito e motivato, che ha un'unico obiettivo. Ora per le bands emergenti è tutto piu difficile in questo businness, molto difficile e a mio parere manca anche una certa unità. Musicalmente parlando, con Anthony e Silver c'è stato un salto di qualità e professionalità, più aperture musicali, più orizzonti esplorati, due voci soliste e i molti concerti che abbiamo fatto hanno aiutato a maturare il nostro sound, che ripeto, risente positivamente per la nostra compatibilità musicale e anche umana. Dividiamo stessi gusti, stesse idee riguardo il nostro lavoro e progetti ed andiamo d'accordo rispettandoci a vicenda.
Come riportato sul retro copertina, il disco è stato registrato live in studio. Come siete riusciti ad ottenere questo suono strepitoso?Semplicemente cercando di portare sul disco il nostro suono naturale, il nostro feeling del momento, appunto registrando in maniera live in studio, con i nostri strumenti, microfoni d'ambiente vintage e l'occhio e orecchio attento del nostro produttore Stefano Amerio,.
che rispetto i dischi precedenti ha lasciato piu spazio al suono e all'ambiente, con pochissime sovrancisioni lasciando volutamente anche qualche imperfezione del momento, che fa parte dell'anima della musica, specie quella Rock. Poi la nostra personalità ha fatto il resto, il suono di una band, di uno strumento, nasce da quello che sei.
Volendo fefinire la vostra musica, ci si trova in difficoltà: blues, jam band, psichedelia, southern, hard blues. Il vostro range musicale è ampio. Qual'è la definizione che più vi aggrada o che riesce a rendere meglio la musica che suonate?Una parola: ROCK. Non amo particolarmente le etichette, che non dovrebbero essere date dai musicisti, i generi sono stati inventati dai giornalisti, per meglio etichettare una o l'altra band, che ovviamente è comodo e in certi casi serve; nel Rock, specie quello di un tempo, trovi un pò di tutto: il Blues, il Soul, il Funk. Mi piace ricordare una frase di Gregg Allman: "Non siamo una Jam Band, siamo una band che fa Jam".Un tempo tutti igrandi gruppi erano a loro modo jam bands: Traffic, Jethro Tull, Zeppelin, Cream, Hendrix, per citarne alcuni. Io personalmente sono un grande fan della musica Soul di un tempo ad esempio, genere che adora anche Anthony, ma ascolto anche musica Indiana, etnica, Jazz, Blues ovviamente, musica classica, il Funk di New Orleans.Tutti generi che puoi trovare in una sola parola, il Rock. Silver è un batterista atipico, ascolta principalmente musica dove il batterista non necessariamente è in prima linea, è molto musicale e il suo modo di suonare riflette questa sua particolarità. Oggi molti batteristi ascoltano principalmente bands dove il batterista è molto tecnico, limitando l'ascolto principalmente al solo strumento, cosi succede spesso anche per i chitarristi, mentre Anthony ascolta molti cantanti ad esempio, essendo cantante anche lui, e questo lo si sente nel suo modo di suonare. Tutto ciò aiuta ad amalgamare il nostro suono. Diciamo che lavoriamo naturalmente alla "Tutti per uno, uno per tutti", è questo che crea la personalità di una band
Ad esempio Deja Vu with the Blues è una canzone molto eclettica. Come è nata?E' nata durante un nostro ritiro in montagna qualche anno fa, appunto per scrivere le canzoni per il disco. L'ho scritta partendo dal riff di basso e pensando al Rhithm ad Blues vecchio stampo, poi nella parte centrale c'è un'impennata jam con solo di Anthony per poi finire con un solo di Trombone di Mauro Ottolini. Ho pensato al trombone perchè è uno strumento che adoro e perche pensavamo ci stesse bene in quel contesto un po "Funk Jam". Mauro lo ha inciso dopo un solo ascolto del brano, alla prima take. Lui è uno dei migliori qui in italia e non solo ed anche un grande fan dei Led Zeppelin, tornando al discorso di prima..
Il vostro nome all'estero è conosciuto ed apprezzato. Fate Festival e Tour ogni anno. La situazione in Italia com'è, notate grandi differenze rispetto agli altri paesi europei? Insomma l'Italia vi va stretta?E' un discorso lungo e complicato.Stretta non direi, anche perchè abbiamo suonato molto in Italia, e nel tempo abbiamo costruito un discreto seguito. Va un pò di moda dire che qui la situazione è peggiore che in altri posti, ma non sono completamente d'accordo, anche perchè avendo girato molto ho visto situazioni simili un pò ovunque. C'è qualcosa di positivo e qualcosa di negativo in ogni stato, dipende dal tuo giro, dai tuoi contatti, dalle scelte che fai. Se parliamo di certi programmi televisivi certo è un disastro, ma non dimentichiamo che sono programmi che vengono dall'America e dall'Inghilterra, è un marcio e una politica di media un po "lava cervelli", viviamo in un mondo globale che dovrebbe tornare all'analisi singola e alla liberta di scegliere. Negli Stati Uniti ad esempio, dove ho diversi amici musicisti, è piu dura che da noi, suonano per le mance, a volte pagano pochissimo, a parte i grandi, ma che anche loro dagli stadi sono passati ai clubs e vanno di moda i tours a doppio nome per richiamare piu persone, oltre al fatto che molti di loro aspettano di venire in Tour in Europa, dove li pagano meglio e il pubblico è ancora piu vergine e curioso.Vige un clima di disinteresse delle persone, bisognerebbe fare molti passi indietro, il consumismo e anche la tecnologia, paradossalmente non hanno aiutato molto. Non sono contro la tecnologia, internet e iTunes, se sono usati in maniera corretta e se non intaccano incosapevolmente la nostra curiosità ed entusiasmo, cose fondamentali per la musica, che però possono perdersi con i vari youtube, facebook etc. Voglio dire, Facebook e Myspace sembravano una svolta, invece hanno creato un mare troppo grande, dando anonimato. Quando c'è troppo tutti diventano troppo poco e la visibilità che dovrebbe dare, invece porta a sterilità e invisibilità, facendo calare l'interesse e la curosità. I ragazzi dovrebbero staccare un pò di più il computer e l'iPod e prendere in mano più spesso gli strumenti e suonare, parlare, confrontarsi, discutere, conoscere...
Spesso girate il mondo in compagnia di Alvin Youngblood Hart. Quali sono i ricordi più belli di questi tour, dove siete stati?Il primo concerto che abbiamo fatto con lui fu nel Maggio del 2008, in un Festival in Olanda, senza prove, ci trovammo in aereoporto ad Amsterdam e dopo qualche ora eravamo sul palco:-), da lì poi moltissimi altri concerti e Tours: in Inghilterra, Danimarca, Francia, Svizzera, Italia, Germania e anche Brasile. Ricordi bellissimi per tutti i Tours, incontri, lunghi spostamenti in Van, diverse Jams con artisti di rilievo, Anthony ci ha seguito per parte dei tours, suonando con noi, a formazione due chitarre. Ho imparato moltissimo da lui, Alvin è uno che suona ininterrottamente dai primi anni '90, ha vinto un Grammy, partecipato a due films, suonato e girato in compagnia di Eric Clapton, Neil Young, Ben Harper, Taj Mahal (colui che lo ha scoperto), Allman Brothers, Gov't Mule, Black Crowes, Bonie Raitt, solo per citarne alcuni. E' un musicista vero e persona molto semplice e umile, di aneddoti ne potrei raccontare a centinaia, ma diventerebbe lunga:-). Ricordo con piacere la registrazione alla BBC di Londra, nello stesso studio dove Led Zeppelin e Free registrarono i loro "Live at BBC", questo durante il Tour Inglese del 2010, dieci date una dietro l'altra, ho visitato città bellissime e posti in cui mai sarei stato se non per la musica. Come ad esempio lo scorso Tour Europeo che abbiamo fatto con W.I.N.D. assieme a Johnny Neel, 17 date tra Germania, Austria, Belgio, Polonia, Calabria, posti e gente meravigliosi, ricordi indelebili, come anche la recente jam che io e Anthony abbiamo fatto assieme alla Warren Haynes Band in Polonia, lo scorso Agosto.
Anche se l'ascolto di una canzone come "Demons" potrebbe dire il contrario, recentemente (3 Dicembre) avete affrontato anche un concerto, completamente unplugged. Come è andata? Esperienza da ripetere?Demons è nata sempre durante il nostro ritiro in montagna, Anthony ha accordato la chitarra in modo aperto, poi un riff e io ci ho aggiunto la melodia, è nata subito e dal vivo ci piace riproporla anche in elettrico. Suoniamo a volte anche in acustico, lo scorso 3 Dicembre non era la prima volta, quando si presenta l'occasione ideale per un concerto unplugged, ci piace riproporre la musica che amiamo, il Soul, il Gospel, il Blues e anche il nostro Rock, spoglandoci dalla potenza dell'elettrico e concentrandoci sul calore e l'emozione dell'acustico, tornando alle radici.
Pensate che la formazione a tre sia la migliore per la vostra musica? Quali sono i power trio "indispensabili" nella storia del rock?Con la formazione a tre andiamo a nozze, vuoi perchè lascia spazio e dinamiche, vuoi perchè ci troviamo ad occhi chiusi e ci conosciamo molto bene musicalmente,avendo iniziato così. Ovviamente ci piace suonare anche in quartetto, con Johnny è stato bellissimo, ma il trio format si sposa benissimo con la nostra musica e la nostra personalità. Spesso invitiamo ospiti ai fiati, alle tastiere, qualunque strumento, abbiamo suonato adirittura con due batterie, con Gandhi, cercando di inserire l'ospite nel contesto giusto, ma il trio, se dinamico, vario e articolato musicalmente, ci da molta soddisfazione. Riguardo i power trios "indispensabli" direi Cream, Mountain, Hendrix, ZZ Top.
I 5 dischi che riescono a mettervi d'accordo?Ce ne sono molti che ascoltiamo tutti e tre. Ti potrei dire Led Zeppelin III, Blind Faith, Free, Ray Lamontagne, Crosby. Ma anche molte altre cose, vecchie e nuove: Hendrix, Cream, Derek and The Dominos, James Brown, Gov't Mule, Black Crowes, Bob Seger, Mountain...Ricordo che lo scorso tour eravamo tutti molto eccitati da "In The Jungle Groove" di James Brown, ma ascoltavamo anche Neil Young, Bob Marley.
Vorrei chiudere, ricordando un grande artista. Il 6 Febbraio scorso è morto Gary Moore. Secondo me, almeno qui in Italia non è stato celebrato a dovere. Concordate? Qual'è il ricordo più grande che avete di lui?Gary Moore era un gentleman, con lui abbiamo praticamente vissuto per dieci giorni, quando aprimmo il suo tour in tedesco di dieci date con Alvin Youngblood Hart's Muscle Theory come Special Guest, nel Marzo del 2009. Un'esperienza indimenticabile che mi ha insegnato ed arricchito molto, lui era molto discreto, invitava Alvin a bere la Guinness nel suo camerino prima dello show e guardava sempre i nostri concerti, ogni sera, dal backstage.
Suonammo in tutte le principali città della Germania, ed era quasi sempre sold out. Gary amava la musica, non ha perso con gli anni il suo entusiasmo, aspettava paziente tutto cio che in tour devi aspettare, anche perchè girava con cucina, catering, produzione, audio e luci e tutto il suo staff al seguito, e non andava quasi mai in Hotel per lungo tempo, se ne stava nel backstage, a suonare e a parlare, seguiva i lavori con interesse, curava molto bene il sondcheck, cenava assieme a tutti noi, alla sua band e allo staff. Porto un bel ricordo di lui, come musicista ed essere umano, parlava spesso di chitarre, il resto lo interessava poco.
Walking In A New Dirction avrà presto un successore?
Sì, ci stiamo lavorando, abbiamo già diverse idee e dei brani abbozzati, contiamo di registrarlo nel 2012.
Ti ringrazio molto per la tua intervista, ogni mattina quando mi sveglio mi rendo conto di quanto fortunati siamo a fare ciò che facciamo, a poter dividere amore e emozioni con la musica e con chi ci ascolta. L'emozione è tutto e l'amore la cosa che fa girare il mondo. La muisca è una cosa meravigliosa, che da forza, amplifica ed attenua le pene. Comporre musica, creare i versi è come fare un'incontro di pugilato e se alla fine del match hai qualche bella parola significa che ne hai prese tante.
Foto by Alessandro Laporta-FotoCesco
vedi anche RECENSIONE: W.I.N.D. - Temporary Happiness (2013)
venerdì 9 dicembre 2011
RECENSIONE: TINARIWEN (Tassili)
TINARIWEN Tassili (ANTI Records, 2011)
Da alcuni anni, quando voglio ritrovare purezza nella musica, vado a cercare, almeno una volta all'anno, in luoghi lontani dove suonare rappresenta ancora qualcosa di magico e veramente mistico.
Chi è stato almeno per una volta nell' Africa sahariana e ha avuto modo di percorrere alcune strade lontane dai centri turistici, ha trovato un mondo al rallentatore, fatto di persone che camminano, apparentemente senza meta, lungo infinite strade polverose e altre, ferme, a gruppetti ai bordi di queste strade ad aspettare non si sa chi o cosa. Qualcosa di inconcepibile nella nostra assurda frenesia giornaliera. E' qui che pensi : a volte ci sarebbe bisogno di un lungo passo indietro.
Quello che i Tinariwen, originari del Mali, con Tassili sembrano voler fare, rispetto ai precedenti dischi che li hanno visti protagonisti, osannati ed incessati dai più grandi e disparati artisti occidentali.
Pur non abbandonando totalmente i contatti con il mondo musicale "evoluto", grazie soprattutto ad una manciata di ospitate di tutto rispetto, vi è la voglia di tornare a quella semplicità che i loro luoghi e la loro lingua madre (Tamasheq) impongono. Uno staccare la spina delle chitarre date in pasto al numeroso pubblico di un concerto, per preferire il calore acustico di un falò acceso in una fredda notte sahariana.
Chitarre, anche elettriche, ma soprattutto tante percussioni e battiti di mano ad accompagnare canzoni che fanno dei luoghi( il deserto ), la fede e l'appartenenza una ragione di vita, ma anche il rapporto con il sesso femminile non viene tralasciato(Tamiditin Tan Ufrawan e Tiliaden Osamnat).
Ibrahim Al Alhabib sembra voler guidare i suoi nomadi alla ricerca di una nuova compattezza dopo le rivoluzioni che hanno toccato i paesi nordafricani durante questo anno, che rimarrà impresso nei libri di storia."..Miei amici del Sahara, la nostra libertà non c'è più, restiamo uniti..." canta nella coralità di Imidiwan win sahara. Tutti valori che fuoriescono anche dai solchi di Tameyawt, nome degli abitanti di Timyawin, villaggio nel deserto sahariano, al confine tra Algeria e Mali. Dopo tutto, prima di essere musicisti, furono anche combattenti.
Un legame alla loro terra che rimane intatto, anche dopo aver viaggiato il mondo. TenereTaqhim Tossam lo spiega bene. Anche dopo aver visto luoghi ben più accomodanti, il richiamo della sabbia, dove l'acqua scarseggia e il caldo uccide, è forte e il ritorno assume ancora più magia e bellezza.
Se a Neil Cline dei Wilco è affidato l'onore di aprire l'album con la sua chitarra , nel crescendo di Imidiwan Ma Tenam, ai fiati dei dei The Dirty Dozen Brass Band, spetta il compito di colorare d'America Ya Messinagh.
I Tv On the Radio, nelle voci di Tunde Adebimpe e nelle chitarre di Kyp Malone sono ospiti in Walla Illa, Imidiwan win SaharaTenere Taqhim Tossam.
Un disco quasi ipnotico nel suo incedere, psichedelico, disintossicante e futuristico. L'essenzialità primordiale del blues. Perchè il mondo intero dovrà fare i conti con mamma Africa anche nella musica e i Tinariwen non sono altro che l'aspetto più esposto di un esercito di nomadi che vogliono far uscire le loro voci. C'è qualcuno che vuole riprendersi i diritti musicali che gli spetta. Difficile, non riuscire ad immedesimarsi , ascoltando le dodici canzoni del disco. Per cinquanta minuti si percorrono quelle strade polverose e solitarie , si cammina lentamente con la mente, senza una meta da raggiungere se non per (ri)prendersi una piccola e consolante disintossicazione giornaliera. Quasi una droga, pura e vitale, come il loro amato tea.
vedi anche: RECENSIONE/REPORT Live TINARIWEN live@Hiroshima Mon Amour, Torino 14 Aprile 2012
Da alcuni anni, quando voglio ritrovare purezza nella musica, vado a cercare, almeno una volta all'anno, in luoghi lontani dove suonare rappresenta ancora qualcosa di magico e veramente mistico.
Chi è stato almeno per una volta nell' Africa sahariana e ha avuto modo di percorrere alcune strade lontane dai centri turistici, ha trovato un mondo al rallentatore, fatto di persone che camminano, apparentemente senza meta, lungo infinite strade polverose e altre, ferme, a gruppetti ai bordi di queste strade ad aspettare non si sa chi o cosa. Qualcosa di inconcepibile nella nostra assurda frenesia giornaliera. E' qui che pensi : a volte ci sarebbe bisogno di un lungo passo indietro.
Quello che i Tinariwen, originari del Mali, con Tassili sembrano voler fare, rispetto ai precedenti dischi che li hanno visti protagonisti, osannati ed incessati dai più grandi e disparati artisti occidentali.
Pur non abbandonando totalmente i contatti con il mondo musicale "evoluto", grazie soprattutto ad una manciata di ospitate di tutto rispetto, vi è la voglia di tornare a quella semplicità che i loro luoghi e la loro lingua madre (Tamasheq) impongono. Uno staccare la spina delle chitarre date in pasto al numeroso pubblico di un concerto, per preferire il calore acustico di un falò acceso in una fredda notte sahariana.
Chitarre, anche elettriche, ma soprattutto tante percussioni e battiti di mano ad accompagnare canzoni che fanno dei luoghi( il deserto ), la fede e l'appartenenza una ragione di vita, ma anche il rapporto con il sesso femminile non viene tralasciato(Tamiditin Tan Ufrawan e Tiliaden Osamnat).
Ibrahim Al Alhabib sembra voler guidare i suoi nomadi alla ricerca di una nuova compattezza dopo le rivoluzioni che hanno toccato i paesi nordafricani durante questo anno, che rimarrà impresso nei libri di storia."..Miei amici del Sahara, la nostra libertà non c'è più, restiamo uniti..." canta nella coralità di Imidiwan win sahara. Tutti valori che fuoriescono anche dai solchi di Tameyawt, nome degli abitanti di Timyawin, villaggio nel deserto sahariano, al confine tra Algeria e Mali. Dopo tutto, prima di essere musicisti, furono anche combattenti.
Un legame alla loro terra che rimane intatto, anche dopo aver viaggiato il mondo. TenereTaqhim Tossam lo spiega bene. Anche dopo aver visto luoghi ben più accomodanti, il richiamo della sabbia, dove l'acqua scarseggia e il caldo uccide, è forte e il ritorno assume ancora più magia e bellezza.
Se a Neil Cline dei Wilco è affidato l'onore di aprire l'album con la sua chitarra , nel crescendo di Imidiwan Ma Tenam, ai fiati dei dei The Dirty Dozen Brass Band, spetta il compito di colorare d'America Ya Messinagh.
I Tv On the Radio, nelle voci di Tunde Adebimpe e nelle chitarre di Kyp Malone sono ospiti in Walla Illa, Imidiwan win SaharaTenere Taqhim Tossam.
Un disco quasi ipnotico nel suo incedere, psichedelico, disintossicante e futuristico. L'essenzialità primordiale del blues. Perchè il mondo intero dovrà fare i conti con mamma Africa anche nella musica e i Tinariwen non sono altro che l'aspetto più esposto di un esercito di nomadi che vogliono far uscire le loro voci. C'è qualcuno che vuole riprendersi i diritti musicali che gli spetta. Difficile, non riuscire ad immedesimarsi , ascoltando le dodici canzoni del disco. Per cinquanta minuti si percorrono quelle strade polverose e solitarie , si cammina lentamente con la mente, senza una meta da raggiungere se non per (ri)prendersi una piccola e consolante disintossicazione giornaliera. Quasi una droga, pura e vitale, come il loro amato tea.
vedi anche: RECENSIONE/REPORT Live TINARIWEN live@Hiroshima Mon Amour, Torino 14 Aprile 2012
mercoledì 7 dicembre 2011
RECENSIONE: The BROWN SPACEBOB ( In The Jam LEM)
The BROWN SPACEBOB In The Jam LEM (Indie, 2011)
Gli amplificatori incandescenti piazzati al centro di Joshua Tree e le corse da inferno su ruote possono benissimo rivivere nel nord del Piemonte, senza che nessuna alterazione sensoriale ci aiuti ad immaginare il tutto.
The Brown Spacebob, sono attivi dal 2009 ma solo ora , dopo anni spesi in altre esperienze arrivano al primo lavoro autoprodotto.
Il loro percorso musicale è una continuazione attuale del movimento stoner che suonato venti/quindici anni fa, poteva apparire "moda", suonato oggi vuol dire totale amore e dedizione verso certi suoni che non hanno mai ottenuto la ribalta che altri movimenti del periodo ottennero(Grunge?), ma che si propagarono nel sottosuolo contaminando ed influenzando tanto quanto il Grunge. Cosa che avviene rappresentata benissimo durante l'ascolto di In The Jam LEM.
Ascoltando gli spazi dilatati dell'apertura John Quijote, dall'incedere psichedelico , con i suoi quasi otto minuti che si concludono sulle note spagnoleggianti di una chitarra; o le frequenze disturbate e il conto alla rovescia che introducono la circolare pesantezza space/psichedelica della strumentale Werner.
Ascoltando le più dirette ed immediate: Mork go to Work con le chitarre a duellare(Cristian Perini e Roberto Tobia), la più immediata Also Floats, guidata dal basso(Roberto Tambone), o gli sprazzi di rock'n'roll saltellante che esce da War.
Il retrogusto blues e settantiano, caro a gruppi come i Clutch, introdotto dalla batteria(Francesco tambone) che apre Monsterlike, con l'ottima coralità delle linee vocali(diverse e cangianti lungo tutto il disco) e il suo finale rallentato o nelle esplosioni che squarciano il lento incedere blues di Tainted che porta alla coda cosmic e jammata finale.
Canzoni che, come Reborn, anche quando chiamano in causa ingombranti riferimenti come l'ormai storico rifferama di Josh Homme e i più recenti QOTSA, riescono a nascondere spunti interessanti come le linee vocali e assoli di chitarra ficcanti.
Scorrevolezza d'ascolto che non guarda all'originalità ma che trasporta a quegli anni novanta fatti di rumore di ampli in saturazione che facevano da introduzione a sfocate e accecanti visioni. Amplificatori che aspettano un contratto discografico per viaggiare anche nel presente, lontani dalle mode, perchè dove c'è il fuoco di una batteria, un basso e due chitarre che suonano, non c'è posto per ciò che fa moda.
Per ascoltare tutto l'album in streaming: http://soundcloud.com/the-brown-spacebob
Per scaricarvi l'album gratis: http://www.tbsb.it/
Gli amplificatori incandescenti piazzati al centro di Joshua Tree e le corse da inferno su ruote possono benissimo rivivere nel nord del Piemonte, senza che nessuna alterazione sensoriale ci aiuti ad immaginare il tutto.
The Brown Spacebob, sono attivi dal 2009 ma solo ora , dopo anni spesi in altre esperienze arrivano al primo lavoro autoprodotto.
Il loro percorso musicale è una continuazione attuale del movimento stoner che suonato venti/quindici anni fa, poteva apparire "moda", suonato oggi vuol dire totale amore e dedizione verso certi suoni che non hanno mai ottenuto la ribalta che altri movimenti del periodo ottennero(Grunge?), ma che si propagarono nel sottosuolo contaminando ed influenzando tanto quanto il Grunge. Cosa che avviene rappresentata benissimo durante l'ascolto di In The Jam LEM.
Ascoltando gli spazi dilatati dell'apertura John Quijote, dall'incedere psichedelico , con i suoi quasi otto minuti che si concludono sulle note spagnoleggianti di una chitarra; o le frequenze disturbate e il conto alla rovescia che introducono la circolare pesantezza space/psichedelica della strumentale Werner.
Ascoltando le più dirette ed immediate: Mork go to Work con le chitarre a duellare(Cristian Perini e Roberto Tobia), la più immediata Also Floats, guidata dal basso(Roberto Tambone), o gli sprazzi di rock'n'roll saltellante che esce da War.
Il retrogusto blues e settantiano, caro a gruppi come i Clutch, introdotto dalla batteria(Francesco tambone) che apre Monsterlike, con l'ottima coralità delle linee vocali(diverse e cangianti lungo tutto il disco) e il suo finale rallentato o nelle esplosioni che squarciano il lento incedere blues di Tainted che porta alla coda cosmic e jammata finale.
Canzoni che, come Reborn, anche quando chiamano in causa ingombranti riferimenti come l'ormai storico rifferama di Josh Homme e i più recenti QOTSA, riescono a nascondere spunti interessanti come le linee vocali e assoli di chitarra ficcanti.
Scorrevolezza d'ascolto che non guarda all'originalità ma che trasporta a quegli anni novanta fatti di rumore di ampli in saturazione che facevano da introduzione a sfocate e accecanti visioni. Amplificatori che aspettano un contratto discografico per viaggiare anche nel presente, lontani dalle mode, perchè dove c'è il fuoco di una batteria, un basso e due chitarre che suonano, non c'è posto per ciò che fa moda.
Per ascoltare tutto l'album in streaming: http://soundcloud.com/the-brown-spacebob
Per scaricarvi l'album gratis: http://www.tbsb.it/
lunedì 5 dicembre 2011
INTERVISTA ai MOJO FILTER
A pochi giorni dall'uscita del loro album "Mrs. Love Revolution", i riscontri sono già molto positivi.
I Mojo Filter, qui rappresentati da Alessandro Battistini (Voce e chitarra)e Carlo Lancini(chitarra) ci raccontano la loro "personale" rivoluzione rock e come è nato un disco "vero, sincero e sofferto".
Avete una definizione o una piccola frase da lasciare a chi non vi conosce per presentarvi?
Alessandro: i Mojo Filter sono una rock and roll band… niente di più, niente di meno.
Il vostro è un disco costruito sull'impatto e sulla spontaneità live. Come è avvenuto il lavoro con Jono Manson e come vi siete messi in contatto con lui?Carlo: ho conosciuto Jono nel 2000, dopo un suo concerto a Chiari. Jono è un artista di talento ed una persona amabile e cordiale. Ad ogni sua tournee ci si incontrava, anche in occasione di qualche show privato. Gradualmente ho introdotto la musica di Jono al resto della band. Quando nel 2009 i Mojo Filter hanno iniziato a lavorare a del materiale originale dopo la classica gavetta, Jono si è interessato alle nostre canzoni e al nostro primo disco, l’ep The Spell, uscito a marzo 2010. Partendo dalle nostre idee, dai riff e dal songwriting di Alessandro abbiamo poi gettato le basi per Mrs Love Revolution, verso la fine dell’estate 2010.
Alessandro: il lavoro con Jono si è sviluppato sostanzialmente a distanza. A settembre-ottobre dello scorso anno gli abbiamo inviato la bozza delle canzoni che avrebbero composto Mrs Love Revolution. Insieme abbiamo discusso sulla direzione da prendere e su alcuni elementi di omogeneità. Non abbiamo avuto il benché minimo dubbio sulla strada da prendere e sul fatto che il disco dovesse essere registrato in presa diretta e con suoni veri. Durante le registrazioni con il tecnico del suono Mauro Galbiati, la direzione di Jono è stata principalmente gestita a distanza, mentre il missaggio è stato fatto nel suo studio di Santa Fe, negli Stati Uniti.
Qual'è la "rivoluzione" del titolo dell'album?
Alessandro: negli anni Sessanta, quando l’intero sistema era in crisi, gli hippie hanno intrapreso una rivoluzione pacifica (“Love Revolution”) a suon di rock and roll… la musica allora era anche un modo per rivendicare la propria identità, difendere l’originalità dei singoli e combattere un piatto e diffuso conformismo… questo disco è un nostro modesto tentativo di rompere con gli schemi attuali e con l’insulsa musica mainstream che le major ci costringono a sentire ovunque… questa è la nostra rivoluzione pacifica.
Carlo: i Mojo Filter sono una band molto unita e coesa, proveniente da background musicali simili, ma con percorsi personali diversi. Mrs Love Revolution arriva ed è stato concepito in un periodo difficile per tutti noi, per motivi differenti. Insomma, la famosa “crisi” c’è e si sente, sia dal punto di vista economico che di tensioni psicologiche… Credo che ognuno attribuisca a questo disco un significato anche intimo, un manifesto di una rivoluzione personale, che può anche rappresentare il primo passo per una svolta. Senza presunzione, non voglio parlare di successo e soldi, quella non è una svolta che ci appartiene, soprattutto in questo mondo e in questa vita. Piuttosto lo vedo come il nostro modo di sentirci parte di un mondo sempre meno popolato e sempre più isolato e pieno di insidie, quello dei musicisti rock, lontano dal mainstream, appunto…
Parole e musica hanno la stessa importanza nell'economia di una vostra canzone?
Alessandro: no, assolutamente. Apprezzo enormemente i bei testi, quelli semplici e pieni di significato, ma la nostra musica è più ritmo, vibrazioni, chitarre distorte… e comunque talvolta il messaggio può arrivare indipendentemente dal testo della canzone… è semplicemente nell’aria.
Carlo: Alessandro è sempre molto diretto ed essenziale, sia nel comporre che nel rispondere alle domande di un giornalista. E’ fatto così! Provo ad estendere il concetto…l’elemento portante è quello musicale, il testo spesso arriva in una seconda fase. Proviamo comunque, a nostro modo, a far passare “il messaggio”. Penso a What I’ve Got: oggi in un battito di ciglia chiunque può volare a Shanghai, ma poi nessuno di noi ha una direzione, è perso. Gli imbonitori oggi ci vendono un sacco di stronzate, ma noi vediamo tensione, disoccupazione, disillusione e smarrimento. Liar (bugiardo), titolo inequivocabile, parla della fede persa…
In molte vostre canzoni, compare una componente molto soul che mi riporta a gruppi come i Creedence Clearwater Revival, in grado di unire soul, country, blues e rock'n'roll. Quali sono le vostre principali influenze?
Alessandro: Creedence, appunto, ma anche Led Zeppelin, Hendrix, Rolling Stones, Cream… ci piace il rock blues degli anni Sessanta, quello grezzo, diretto e senza troppi fronzoli.
Carlo: la nostra formazione è di quattro elementi, tipicamente rock. Ed è giusto che se tu trovi in noi elementi soul, il primo riferimento vada ai Creedence. La forma e la sostanza stanno lì. Ed effettivamente l’elemento soul c’è, e sta anche nella voce di Alessandro, che riesce ancora, ogni volta, a sorprendermi.
Las Vegas, musicalmente si stacca notevolmente dal resto dell'album. Come è nata?
Alessandro: il pezzo vuole essere un momento di rottura nella continuità del disco. La canzone è nata nel deserto dei Mojave, in viaggio verso Las vegas…è incredibile: dal nulla, all’improvviso, salta fuori un luogo assurdo, fuori dal mondo e dal tempo… una vera e propria città dell’oro dove gente da tutto il mondo arriva alla ricerca della propria pepita…magari anche con un sogno da realizzare….
Avete avuto modo di aprire per nomi di tutto rispetto del rock americano (Willie Nile, North Mississippi All Stars...), come sono state queste esperienze e quali segreti siete riusciti a carpire a questi artisti?
Carlo: Onestamente l’incontro con Willie Nile è durato il tempo di consegnargli il nostro primo disco, mentre Luther e Cody Dickinson sono stati molto cordiali e disponibili. Hanno apprezzato il nostro rock e – subito dopo il nostro set - ci han fatto molti complimenti. Luther e Alessandro hanno in comune una bella collezione di chitarre, sulle quali si sono confrontati. E’ stato interessante vedere come Luther le gestiva e come giravano feeling, groove e dinamiche all’interno di un power duo. Credo sia stato uno dei nostri migliori set, abbiamo assistito poi ad uno show intenso e il post-concerto è stato decisamente gratificante ed istruttivo. D’altra parte, sono i figli di Jim Dickinson…
Alessandro: personalmente sono rimasto colpito dalla naturalezza con cui questi musicisti affrontano la scena…
Cosa vuol dire suonare rock'n'roll nella provincia italiana e cosa pensate della scena rock italiana?
Alessandro: qualcuno può considerare assurdo suonare rock and roll in un paese che ne è l’antitesi assoluta, ma il rock è proprio questo: lo fai perché ne hai bisogno, non esistono alternative ne spiegazioni.
Carlo: come già ti ho detto, fare rock and roll vuol dire far parte di un piccolo mondo in estinzione. Un mondo che si arrabatta fra mille difficoltà, spesso ostacolandosi da solo… Purtroppo fare rock originale in Italia vuol dire confrontarsi anche con situazioni che di rock non hanno proprio niente. Spesso si fa confusione: c’è chi tenta di dare un messaggio intimo e personale – noi come tanti altri – e chi si limita a clonare. Purtroppo la gente non è in grado di scindere le categorie. E questa è la cosa peggiore. Frank Zappa diceva “nella lotta fra te e il mondo, stai dalla parte del mondo”. Ma credo fosse un consiglio che neppure lui ha mai seguito. E noi facciamo la stessa cosa. Suonare rock and roll vuol dire soffrire, sudare e fare molti chilometri per cercare la propria “strada”, senza la certezza di trovarla. Stare dei giorni su una canzone, discutere ed arrabbiarsi durante la registrazione di un disco, mangiare in due minuti mentre il fonico è a pisciare e trovare un riff che trasforma una canzone mentre bevi un caffè alle otto di mattina, prima di ripartire con le registrazioni. Ed Alessandro in questo è un maestro.
Quali sono i vostri obiettivi futuri?
Alessandro: suonare il più possibile
Carlo: nell’immediato la cosa che più ci interessa è riprendere l’autostrada e suonare le nostre canzoni ovunque e il più possibile. Come ha detto prima Alessandro, ne abbiamo bisogno…sembra retorica, ma è così ed è una necessità. Sicuramente c’è la voglia, da subito, di continuare la nostra piccola rivoluzione con un nuovo disco. In cantiere ci sono almeno 20 canzoni nuove sulle quali lavorare.
Se poteste scegliere un solo artista italiano o straniero con cui collaborare chi scegliereste e perchè?
Alessandro: Jono Manson a parte, io ne dico due: Dan Auerbach e Patrick Carney, i Black Keys.
Carlo: a questo punto, io dico Jack White e Ethan Johns. Jack White è grezzo e geniale, rigenera il country e il rockabilly, crea i Raconteurs e distrugge i White Stripes. Ethan Johns ha lavorato su dischi importanti.
Tre buone ragioni per avvicinarsi al vostro disco?
Carlo: Mrs Love Revolution è stato una necessità. Uso tre aggettivi per tentare di semplificarlo, anche se è difficile: vero, sincero e sofferto.
Alessandro: me ne viene in mente solo una: è un bel disco.
vedi anche RECENSIONE: MOJO FILTER-Mrs.Love Revolution (2011)
vedi anche RECENSIONE: MOJO FILTER-Roadkill Songs (2013)
I Mojo Filter, qui rappresentati da Alessandro Battistini (Voce e chitarra)e Carlo Lancini(chitarra) ci raccontano la loro "personale" rivoluzione rock e come è nato un disco "vero, sincero e sofferto".
Avete una definizione o una piccola frase da lasciare a chi non vi conosce per presentarvi?
Alessandro: i Mojo Filter sono una rock and roll band… niente di più, niente di meno.
Il vostro è un disco costruito sull'impatto e sulla spontaneità live. Come è avvenuto il lavoro con Jono Manson e come vi siete messi in contatto con lui?Carlo: ho conosciuto Jono nel 2000, dopo un suo concerto a Chiari. Jono è un artista di talento ed una persona amabile e cordiale. Ad ogni sua tournee ci si incontrava, anche in occasione di qualche show privato. Gradualmente ho introdotto la musica di Jono al resto della band. Quando nel 2009 i Mojo Filter hanno iniziato a lavorare a del materiale originale dopo la classica gavetta, Jono si è interessato alle nostre canzoni e al nostro primo disco, l’ep The Spell, uscito a marzo 2010. Partendo dalle nostre idee, dai riff e dal songwriting di Alessandro abbiamo poi gettato le basi per Mrs Love Revolution, verso la fine dell’estate 2010.
Alessandro: il lavoro con Jono si è sviluppato sostanzialmente a distanza. A settembre-ottobre dello scorso anno gli abbiamo inviato la bozza delle canzoni che avrebbero composto Mrs Love Revolution. Insieme abbiamo discusso sulla direzione da prendere e su alcuni elementi di omogeneità. Non abbiamo avuto il benché minimo dubbio sulla strada da prendere e sul fatto che il disco dovesse essere registrato in presa diretta e con suoni veri. Durante le registrazioni con il tecnico del suono Mauro Galbiati, la direzione di Jono è stata principalmente gestita a distanza, mentre il missaggio è stato fatto nel suo studio di Santa Fe, negli Stati Uniti.
Qual'è la "rivoluzione" del titolo dell'album?
Alessandro: negli anni Sessanta, quando l’intero sistema era in crisi, gli hippie hanno intrapreso una rivoluzione pacifica (“Love Revolution”) a suon di rock and roll… la musica allora era anche un modo per rivendicare la propria identità, difendere l’originalità dei singoli e combattere un piatto e diffuso conformismo… questo disco è un nostro modesto tentativo di rompere con gli schemi attuali e con l’insulsa musica mainstream che le major ci costringono a sentire ovunque… questa è la nostra rivoluzione pacifica.
Carlo: i Mojo Filter sono una band molto unita e coesa, proveniente da background musicali simili, ma con percorsi personali diversi. Mrs Love Revolution arriva ed è stato concepito in un periodo difficile per tutti noi, per motivi differenti. Insomma, la famosa “crisi” c’è e si sente, sia dal punto di vista economico che di tensioni psicologiche… Credo che ognuno attribuisca a questo disco un significato anche intimo, un manifesto di una rivoluzione personale, che può anche rappresentare il primo passo per una svolta. Senza presunzione, non voglio parlare di successo e soldi, quella non è una svolta che ci appartiene, soprattutto in questo mondo e in questa vita. Piuttosto lo vedo come il nostro modo di sentirci parte di un mondo sempre meno popolato e sempre più isolato e pieno di insidie, quello dei musicisti rock, lontano dal mainstream, appunto…
Parole e musica hanno la stessa importanza nell'economia di una vostra canzone?
Alessandro: no, assolutamente. Apprezzo enormemente i bei testi, quelli semplici e pieni di significato, ma la nostra musica è più ritmo, vibrazioni, chitarre distorte… e comunque talvolta il messaggio può arrivare indipendentemente dal testo della canzone… è semplicemente nell’aria.
Carlo: Alessandro è sempre molto diretto ed essenziale, sia nel comporre che nel rispondere alle domande di un giornalista. E’ fatto così! Provo ad estendere il concetto…l’elemento portante è quello musicale, il testo spesso arriva in una seconda fase. Proviamo comunque, a nostro modo, a far passare “il messaggio”. Penso a What I’ve Got: oggi in un battito di ciglia chiunque può volare a Shanghai, ma poi nessuno di noi ha una direzione, è perso. Gli imbonitori oggi ci vendono un sacco di stronzate, ma noi vediamo tensione, disoccupazione, disillusione e smarrimento. Liar (bugiardo), titolo inequivocabile, parla della fede persa…
In molte vostre canzoni, compare una componente molto soul che mi riporta a gruppi come i Creedence Clearwater Revival, in grado di unire soul, country, blues e rock'n'roll. Quali sono le vostre principali influenze?
Alessandro: Creedence, appunto, ma anche Led Zeppelin, Hendrix, Rolling Stones, Cream… ci piace il rock blues degli anni Sessanta, quello grezzo, diretto e senza troppi fronzoli.
Carlo: la nostra formazione è di quattro elementi, tipicamente rock. Ed è giusto che se tu trovi in noi elementi soul, il primo riferimento vada ai Creedence. La forma e la sostanza stanno lì. Ed effettivamente l’elemento soul c’è, e sta anche nella voce di Alessandro, che riesce ancora, ogni volta, a sorprendermi.
Las Vegas, musicalmente si stacca notevolmente dal resto dell'album. Come è nata?
Alessandro: il pezzo vuole essere un momento di rottura nella continuità del disco. La canzone è nata nel deserto dei Mojave, in viaggio verso Las vegas…è incredibile: dal nulla, all’improvviso, salta fuori un luogo assurdo, fuori dal mondo e dal tempo… una vera e propria città dell’oro dove gente da tutto il mondo arriva alla ricerca della propria pepita…magari anche con un sogno da realizzare….
Avete avuto modo di aprire per nomi di tutto rispetto del rock americano (Willie Nile, North Mississippi All Stars...), come sono state queste esperienze e quali segreti siete riusciti a carpire a questi artisti?
Carlo: Onestamente l’incontro con Willie Nile è durato il tempo di consegnargli il nostro primo disco, mentre Luther e Cody Dickinson sono stati molto cordiali e disponibili. Hanno apprezzato il nostro rock e – subito dopo il nostro set - ci han fatto molti complimenti. Luther e Alessandro hanno in comune una bella collezione di chitarre, sulle quali si sono confrontati. E’ stato interessante vedere come Luther le gestiva e come giravano feeling, groove e dinamiche all’interno di un power duo. Credo sia stato uno dei nostri migliori set, abbiamo assistito poi ad uno show intenso e il post-concerto è stato decisamente gratificante ed istruttivo. D’altra parte, sono i figli di Jim Dickinson…
Alessandro: personalmente sono rimasto colpito dalla naturalezza con cui questi musicisti affrontano la scena…
Cosa vuol dire suonare rock'n'roll nella provincia italiana e cosa pensate della scena rock italiana?
Alessandro: qualcuno può considerare assurdo suonare rock and roll in un paese che ne è l’antitesi assoluta, ma il rock è proprio questo: lo fai perché ne hai bisogno, non esistono alternative ne spiegazioni.
Carlo: come già ti ho detto, fare rock and roll vuol dire far parte di un piccolo mondo in estinzione. Un mondo che si arrabatta fra mille difficoltà, spesso ostacolandosi da solo… Purtroppo fare rock originale in Italia vuol dire confrontarsi anche con situazioni che di rock non hanno proprio niente. Spesso si fa confusione: c’è chi tenta di dare un messaggio intimo e personale – noi come tanti altri – e chi si limita a clonare. Purtroppo la gente non è in grado di scindere le categorie. E questa è la cosa peggiore. Frank Zappa diceva “nella lotta fra te e il mondo, stai dalla parte del mondo”. Ma credo fosse un consiglio che neppure lui ha mai seguito. E noi facciamo la stessa cosa. Suonare rock and roll vuol dire soffrire, sudare e fare molti chilometri per cercare la propria “strada”, senza la certezza di trovarla. Stare dei giorni su una canzone, discutere ed arrabbiarsi durante la registrazione di un disco, mangiare in due minuti mentre il fonico è a pisciare e trovare un riff che trasforma una canzone mentre bevi un caffè alle otto di mattina, prima di ripartire con le registrazioni. Ed Alessandro in questo è un maestro.
Quali sono i vostri obiettivi futuri?
Alessandro: suonare il più possibile
Carlo: nell’immediato la cosa che più ci interessa è riprendere l’autostrada e suonare le nostre canzoni ovunque e il più possibile. Come ha detto prima Alessandro, ne abbiamo bisogno…sembra retorica, ma è così ed è una necessità. Sicuramente c’è la voglia, da subito, di continuare la nostra piccola rivoluzione con un nuovo disco. In cantiere ci sono almeno 20 canzoni nuove sulle quali lavorare.
Se poteste scegliere un solo artista italiano o straniero con cui collaborare chi scegliereste e perchè?
Alessandro: Jono Manson a parte, io ne dico due: Dan Auerbach e Patrick Carney, i Black Keys.
Carlo: a questo punto, io dico Jack White e Ethan Johns. Jack White è grezzo e geniale, rigenera il country e il rockabilly, crea i Raconteurs e distrugge i White Stripes. Ethan Johns ha lavorato su dischi importanti.
Tre buone ragioni per avvicinarsi al vostro disco?
Carlo: Mrs Love Revolution è stato una necessità. Uso tre aggettivi per tentare di semplificarlo, anche se è difficile: vero, sincero e sofferto.
Alessandro: me ne viene in mente solo una: è un bel disco.
vedi anche RECENSIONE: MOJO FILTER-Mrs.Love Revolution (2011)
vedi anche RECENSIONE: MOJO FILTER-Roadkill Songs (2013)