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lunedì 30 marzo 2020

RECENSIONE: JESSE DANIEL (Rollin' On)

JESSE DANIEL   Rollin' On (Orchard Music/Die True Records, 2020)




a country boy can survive

Il giovane Jesse Daniel da Santa Cruz, California, ha già mille esperienze nascoste dentro a quel cappello che indossa con orgoglio. Infanzia difficile la sua, un passato da batterista in una punk band per sfogare la rabbia accumulata e poi la deriva sfociata nel mare inquinato delle droghe e giornate passate nella solitudine di un carcere prima e di un centro di riabilitazione poi, tanto per completare un quadro di v...ita disegnato sopra le assi che nascondono il lato più sporco della vita. A vederlo non sembra.
"Sono diventato un bidone della spazzatura. Prendevo qualsiasi droga, prendevo prendevo, fino a quando non avrei certamente trovato l'eroina" racconta in una intervista.
La sua salvezza l'ha trovata nella country music (a volte succede pure questo, pensate) e Rollin On, prodotto da Tommy Detamore, è il secondo disco che batte su quelle strade dopo il debutto di due anni fa.
Canzoni scritte, penna e chitarra, in tour insieme alla compagna e manager Jody Lyford, che raccontano di una felicità raggiunta senza dimenticare l'amaro passato, che amano viaggiare sulle strade musicalmente vivaci dell'honky Tonk country più selvaggio e disinibito. Basterebbe ascoltare 'Rollin On', sfrenata e irresistibile nel battito di quel pianoforte che ne guida l'andamento, o le note della chitarra nel rockabilly di 'Tar Snakes' o quel rock inzuppato di bluegrass che circonda la strumentale 'Chickadee'. 


 Anche se poi si concede a un tradizionale violino country in 'St. Claire's Retreat', alla fisarmonica da festa campestre Tex Mex nell'autobiografica 'Champion', alla ballate folk come succede in 'Old At Heart' , o alla pigra andatura da valzer da fine nottata di 'Son Of The San Lorenzo' che chiude il disco.
Un po' Doug Sahm, un po' Jim Lauderdale, un po' Blasters, un po' di Waylon Jennings, un po' Merle Haggard. Dopo due grandi songwriter introspettivi come Colter Wall e Ian Noe, Jesse Daniel riporta un po' di vigore alla country music delle nuove generazioni.








 

venerdì 27 marzo 2020

RECENSIONE in pillole: EARLY JAMES (Singing For My Supper)

EARLY JAMES  Singing For My Supper (Nonesuch Records, 2020)




Dan Auerbach continua a pescare personaggi dal suo cilindro senza fondo. Ecco questo EARLY JAMES, ventiseienne nativo di Birmingham, Alabama, voce profonda, aspra e soul da vecchio crooner navigato, un giovane nato vecchio, testi sarcastici che affondano nella profondità del suo animo e del suo sud, a partire dal primo singolo che apre il disco 'Blue Pill Blues' che naviga tra i suoi passati problemi con la depressione con un rock pop a tinte psichedeliche che pare uscito dai... tardi anni sessanta.
"Non sta scrivendo una canzone per essere universale; sta scrivendo una canzone per lui" dice Auerbach.
E "vintage" è la parola chiave che apre le porte alle dieci canzoni di questo debutto SINGING FOR MY SUPPER, sia quando le canzoni si fanno country folk ('Easter Eggs'), toccano il calypso nell'atipica 'All Down Hill', esplorano il noir alla Tom Waits in 'It Doesn' t Matter Now', si arricchiscono di un'orchestra in 'High Horse' che potrebbe fare la sua figura in Western Stars di Springsteen (sulle tracce di Glen Campbell), fino a diventare nere e scure come accade nella notturna 'Gone As A Ghost'.
Povero Early James non poteva scegliere tempi peggiori per affacciarsi sul mercato musicale.











lunedì 23 marzo 2020

RECENSIONE: ARBOURETUM (Let It All In)

ARBOURETUM   Let It All In (Thrill Jockey, 2020)





in perenne viaggio
Procede senza sosta la marcia della band di Baltimora guidata dal gran cerimoniere Dave Heumann. Fino ad ora si può dire che non abbiano incontrato ostacoli nel loro percorso, sbagliando veramente poco e costruendo con il tempo il loro ampio habitat naturale che però sembra non avere steccati o confini. Gli spigoli più taglienti della loro musica li hanno abbandonati da tanto tempo ormai, in favore di un viaggio sonoro, avv...enturoso, ipnotico, suggestivo, dilatato ed elegante nella forma, carico di riferimenti spirituali, metafore e leggende, lavorando con minuziosa arte sui dettagli che forse ha toccato il suo apice con Coming Out Of The Fog (2012).
In perenne armonia tra cosmicità e radici, sanno passare con disinvoltura attraverso le brumose colline del folk progressive britannico, i fantasmi dei Fairport Convention sono sempre dietro l'angolo ('A Prism In Reverse') per poi atterrare sulla superficie, rendendo omaggio alla patria America con un honky tonk dove è il pianoforte a fare da guida ('High Water Song') e nel folk blues di 'No Sanctuary Blues'.
Sanno cucire bene la malinconia nelle trame di 'Headwaters II' dove la chitarra piazza il suo bel assolo che conduce al finale, sanno avvolgere nella rassicurante apertura 'How Deep It Goes', raggiungendo l'apoteosi negli undici muniti di 'Let It All In' una corsa a spron battuto attraverso un crescendo di elettricità, psichedelia, fughe e un finale jammato, carico di distorsione.
"Let It All In è stato qualcosa che abbiamo suonato per mesi, anche prima che venisse modificato il testo o gli accordi. L'abbiamo suonata solo perché era bello suonarla. Quando siamo entrati in studio con la canzone, avevamo sviluppato un'intera metodologia attorno al brano. Ci siamo sistemati, ci siamo sintonizzati e l'abbiamo lasciata scorrere. Trascorsero dodici minuti e ci rendemmo conto di averla fatta quasi perfettamente. Eccola lì, al primo ciak." racconta Heumann.
In continuo movimento, gli Arbouretum fluttuano sopra al pianeta musica ormai da diciotto anni e nove dischi. Sarebbe un peccato non riuscire ad acciuffarli almeno una volta. In tempi come questi poi, riescono ad allegerirci i pensieri portandoli lontano per almeno 45 minuti ed è già qualcosa.








 

venerdì 20 marzo 2020

RECENSIONE: SADLER VADEN (Anybody Out There?)

SADLER VADEN  Anybody Out There? (Dirty Mag Records, 2020)



 o la va o la spacca...
C'è sempre un tempo in cui i grandi piano piano si fanno da parte. C'è chi perde l'ispirazione e chi ci lascia, a volte per sopraggiunta anzianità a volte anche prematuramente per sempre. Ci vogliono forze nuove dietro. Sempre. Sandler Vaden, originario del South Carolina, non è proprio giovanissimo, nei suoi 34 anni di vita ha messo in valigia così tante buone esperienze da gregario che ora può permettersi di uscire allo scoperto per tappare un po' di quei posti mancanti tra le fila del classic rock americano, quello che viaggia in mezzo tra chitarre elettriche e ballate, tra southern rock e americana. Già chitarra nei 400 Unit di Jason Isbell e nei Drivin' N Cryin' di Kevin Kinney, Anybody Out There? è il secondo album solista dopo il debutto a suo nome uscito nel 2016.
Un disco che non si inventa nulla, pagando dazio a chi è venuto prima di lui. Il suo grande merito? Lasciare la sua firma e la sua personalità in modo diretto e senza troppi fronzoli in un genere che ha già dato il meglio di sé.
Echi di Tom Petty in 'Next To You' che messa lì all'inizio è un buon biglietto da visita che sa di classico, di quelli come si facevano ai bei tempi, così come la positività elargita in 'Good Man' riportano alla mente sempre il compianto biondo di Gainesville.
I toni medi e pacati sembrano avere la meglio, ma mentre le ariose ballate acustiche 'Don' t Worry' allungata con l'hammond e 'Be Here, Right Now' adagiata su una slide guitar convincono, 'Curtain Call' gioca la carta della malinconia con i suoi archi e funziona alla grande, 'Modern Times' lascia poche impronte e convince meno.
Per una 'Peace +Harmony' che lui stesso dichiara ispirata da George Harrison, 'Golden Child' ha il tiro del Ryan Adams più sbarazzino, mentre nella title track fa valere le sue doti chitarristiche, in un rock blues con chitarre belle presenti e taglienti. Certamente tra le migliori del disco.
Un buon biglietto da visita che questa volta è sicuramente da raccogliere.









lunedì 16 marzo 2020

RECENSIONE: THE WOOD BROTHERS (Kingdom In My Mind)

THE WOOD BROTHERS   Kingdom In my Mind  (Honey Jar Records, 2020)



Quando si scava tra l'american roots è sempre difficile uscirne con qualcosa di unico e originale. La band dei fratelli Wood, Chris (basso, contrabbasso e voce) e Oliver (chitarre, voce e songwriting), insieme al polistrumentista Jani Rix, in qualche modo ci ha sempre provato, unendo folk, blues e gospel con l'approccio libero e senza confini del jazz. Questo ottavo album della loro carriera, iniziata nel 2006, ha preso forma da lunghe jam in studio di registrazione a Nashville.
"Non stavamo suonando canzoni. Stavamo solo improvvisando e lasciando che la musica dettasse tutto. Normalmente quando stai registrando stai pensando alle tue parti e alla tua esibizione, ma con queste sessioni, stavamo solo interagendo l'un l'altro e ci divertivamo sul momento". Spiega Oliver Wood.
È nato in modo casuale, in completa libertà, rispecchiando lo stesso approccio che li anima sopra ai palchi: ecco allora che le contaminazioni jazz portate in dote da Chris Wood segnano il lento incedere dell'apertura 'Alabaster'. Ma poi è un continuo peregrinare acustico tra le radici folk blues di 'Little Bit Sweet', il gospel di 'Jitterbug Love', il funk di 'Little Bit Broken', il soul di 'Cry Over Nothing', il boogie della più elettrica 'Don' t Think About My Death', il country bluegrass di 'The One I Love', il corale blues 'A Dream' s A Dream', la ballata 'Satisfied'.
Un gioco di rimandi nella pura tradizione americana condotto con cristallina bravura e in completa libertà.
Ma i veri segreti di questo disco si celano nel calore e nella vivacità d'esecuzione, nell' alto approccio alla materia, mai banale, nella registrazione degli strumenti che sembra non perdersi nemmeno il più soffuso dei rumori prodotti in studio di registrazione. Un disco da crepuscolo. Vincente, pur mantenendo la voce bassa e il carattere umile.









venerdì 13 marzo 2020

RECENSIONE: MONDO GENERATOR (Fuck It)


MONDO GENERATOR   Fuck It (Heavy Psych Sounds, 2020)





calci nel sedere
Kyuss lives! è naturalmente quello che speriamo tutti a molti anni dallo scioglimento ma è anche il monicker con il quale alcuni ex componenti della band portarono in giro il repertorio della cult band americana qualche anno fa. Insieme a John Garcia e Brant Bjork c'era naturalmente Nick Oliveri che nel nuovo album della sua creatura MONDO GENERATOR, che esce in questi giorni a otto anni di distanza dall'ultimo, sembra scherzarci su con una traccia intitolata 'Kiuss Dies!' che a questo punto o chiude definitivamente il discorso oppure lo riapre clamorosamente.
A quella reunion non partecipò Josh Homme (a lui sempre l'ultima parola) che però per questo ritorno dei Mondo Generator mette a disposizione i suoi Pink Duck Studio. Un ritorno che non guarda in faccia nessuno: grezzo, furente, selvaggio, schizzato ('Listening To The Daze').
14 tracce in 44 minuti di pura agonia punk. Insieme a Mike Amster (Nebula) e Mike Pygmie (della Band Of Gold di John Garcia) spara le sue cartucce di intransigente punk hardcore: 'Up Against The Void' , 'Turboner' , 'When Death Comes' , in S. V. E. T. L. A. N. A. S duetta con Olga dei Svetlanas, gruppo in cui suona pure Oliveri da qualche anno (forse la traccia che meno mi è piaciuta del disco), 'It's You I Don't Believe' è una scheggia di intransigente aggressività.
Senza dimenticare di gettare un po' di vecchia sabbia del deserto in tracce come 'Fuck It', 'Silver Tequila/666 Miles Away', 'Option Four' ma sono solo piccoli granelli in un mare di sudore punk rock alla vecchia maniera che richiama in causa mostri sacri come Bad Brains, Dead Kennedys e Black Flag.
"Puoi sentire la polvere e la sabbia del deserto californiano mescolate con l’odore marcio di un seminterrato sporco!”. Con queste parole il gruppo cerca di spiegare l'album sul proprio sito. Io ci sento più lo sporco mentre il deserto si intravede solo in lontananza, ma non è un male, ciò conferma che Nick Oliveri non ha ancora perso quella carica eversiva che ne ha segnato l'intera carriera, a volte strabordando in eccesso soprattutto nel privato.









lunedì 9 marzo 2020

RECENSIONE: JONATHAN WILSON (Dixie Blur)

JONATHAN WILSON   Dixie Blur (Bella Union, 2020)




going up the country...
Due anni di tour insieme a Roger Waters e un ultimo disco, Rare Birds, nato dopo la fine di una relazione d'amore, che dal bassista dei Pink Floyd prendeva pure ispirazione, ma non solo questo, visto che era talmente ambizioso nel suo viaggiare nel tempo (c'erano anche gli azzardi di certi anni ottanta lì dentro) che è risultato ostico e poco capito anche dai suoi fan. Questa volta Jonathan Wilson ha puntato diritto a Nashville ( in questi giorni alle prese con la devastazione di un uragano) sotto il suggerimento di Steve Earle e con l'aiuto di Patrick Sansone (Wilco) in produzione ha scritto tredici canzoni (più una cover) dove riversa la sua personale idea di country americana, a volte con i piedi ben piantati nel classico, altre con le scarpe a un metro da terra, dando sfogo alla sua arte più visionaria come già ci ha abituato nel passato.

Registrato in presa diretta, in soli sei giorni, al Sound Emporium Studio con gli straordinari musicisti del posto, professionisti della country music con in cima il violinista Mark O'Connor, vero gran protagonista lungo tutta la durata del disco, che fanno risultare Dixie Blur il suo disco più diretto e accessibile di sempre. Un metodo e un approccio di registrazione completamente diversi rispetto ai precedenti quattro lavori.
"Questo è il suono del Sud, il suono delle colline della Carolina. Questa è la mia casa, da dove vengo. Alcune cose che ho fatto in passato sono più i suoni della mia immaginazione. Ma queste canzoni hanno il suono di mio padre, dei miei zii". Rivendica con orgoglio Wilson che comunque non ha dimenticato Topanga. .
In mezzo alle ariose e introspettive '69 Corvette' (che cela ricordi d'infanzia snocciolati in stile American Recordings) e 'So Alive' (la forza dell'amore), alle ballate al pianoforte e steel guitar di 'Fun For The Masses' e 'Oh Girl' con il suo crescendo, alla crepuscolare e sentita interpretazione in 'New Home', al bluegrass di 'El Camino Real', al suono alla Phil Spector adattato agli anni 2000 di 'Enemies', al malinconico country western al chiaro di luna di 'Golden Apples', all'incedere cupo di 'Riding The Blinds', a una 'Platform' che vedrei bene cantata da Willie Nelson, fino al folk di 'Pirate' e l'honk tonk di 'In Heaven Making Love', c'è una 'Just For Love' dei Quicksilver Messenger Service, posta in apertura, a fare da giusto ponte con il passato, allungando la vista verso il futuro, come sempre.









sabato 7 marzo 2020

RECENSIONE: HAYSEED DIXIE (Blast From The Grassed)

HAYSEED DIXIE  Blast From The Grassed (2020)




anniversario bluegrass
Vent'anni fa quattro boscaioli poco raccomandabili muniti di strumenti musicali al posto delle motoseghe scesero dai monti Appalachi alla conquista del mondo a suon di brani heavy e hard rock rivisitati in salsa country e bluegrass (rockgrass è il loro trademark). All'epoca in testa alle loro preferenze c'erano gli AC DC naturalmente, ma anche Motorhead, Judas Priest, Black Sabbath, Queen (da manuale la loro... 'Bohemian Rhapsody' che sa di erba e sterco).
Quest'anno per festeggiare la ricorrenza il leader John Wheeler (voce, chitarra e violino) accompagnato dall'irsuto bassista e veterano Jake Bakesnake Byers, il funambolico mandolino di Hippy Joe Hymas e il banjo suonato da Tim Carter hanno fatto uscire un disco alla vecchia maniera, solo cover e niente brani propri come ci avevano abituato ultimanente. Se già conoscete gli individui sapete a cosa andrete incontro, se invece li avete ignorati fino ad oggi, il consiglio è quello di non perderveli dal vivo dove suonano intorno a un frigorifero ben fornito di alcol, piazzato dove di solito c'è una batteria, diventando di fatto l'unico "strumento elettrico" sopra al palco in mezzo a una sarabanda di strumenti a corda che si intrecciano tra loro: mandolino, chitarra, banjo, violino, double bass e uno schiacciapensieri a disturbare. Headbanging assicurato quando superano i duecento all'ora.
BLAST FROM THE GRASSED ha una scaletta da festa delle medie, spuma corretta compresa nel prezzo: se avete sempre odiato i Toto forse questa volta 'Africa' vi strapperà almeno un sorriso. Sotto alla palla stroboscopica potrete pomiciare con l'amante di turno su 'Staying Alive' (Bee Gees) e 'Dancing Queen' (Abba) riarrangiate da festa campestre. Poi tutti con i capelli cotonati con una carrellata di hit da superclassifica show anni ottanta: 'Shout' (Tears Of Fears), 'Tainted Love' (Soft Cell) e 'Take On Me' (A-ha), 'Sweet Dreams' (Eurhythmics) mentre 'Eternal Flame' (The Bangles) e 'Blue Monday' (New Order) sono per i più secchioni della compagnia, quelli più sofisticati che non si accontentano mai.
Un po' come quelli che vorrebbero più serietà e legame alla tradizione rock. Per loro ci sono 'Suspicious Minds' (Elvis Presley) e 'Mrs. Robinson' (Simon & Garfunkel).
Naturalmente il tutto è da non prendere troppo sul serio, c'è il rischio di rovinare la festa.








 

lunedì 2 marzo 2020

RECENSIONE: HUMULUS (The Deep)

 HUMULUS   The Deep (Kozmik Artifact, 2020)




nuovi orizzonti in profondità
Mettersi in mano ai tedeschi. Detta così sembra quasi una minaccia, ma a volte può essere salvifico e in questo caso diventare pure appagante e stimolante per il futuro. Il gruppo bergamasco/bresciano ha fiutato bene il territorio europeo più adatto alla propria proposta musicale e la decisione sembra dare buoni risultati già da qualche tempo. Gli affollati festival europei già affrontati dalla band sono lì a dimostrarlo.
THE DEEP esce per l'etichetta tedesca Kozmik Artifact mentre le date live saranno in mano all'agenzia berlinese Magnificent Booking. Ben fatto.
Benedetti da fiumi di birra che nell'etichetta porta il loro nome, prodotta dal birrificio Elav (questo sì 100% italiano come loro) e rappresentati questa volta da un polpo in copertina (in passato c'erano trichechi e elefanti) con THE DEEP il gruppo di Andrea Van Cleef (chitarra e voce), Giorgio Bona (basso) e Massimiliano Boventi (batteria) arriva al traguardo dei dieci anni di carriera con un album in grado di giocarsi le migliori carte sopra ai più importanti palchi europei di musica pesante grazie ad una proposta mai stagna ma in continuo movimento, sinonimo di grande libertà artistica, da leggere anche come maturità.
Le due canzoni che sfiorano i quindici minuti 'Into The Heart Of The Volcano Sun' e 'Sanctuary III-The Deep' sembrano già racchiudere gran parte della loro bibbia musicale fatta di luci, chiaro scuri e buia profondità spalmate su lunghe divagazioni psichedeliche dal forte richiamo progressive e pesanti ripartenze stoner doom con il particolare timbro vocale di Andrea Van Cleef a toccare le corde più basse soprattutto nei tre minuti di quiete dell'acustica 'Lunar Queen', la cosa più vicina ai suoi lavori solisti.
Ma se la cavalcata stoner 'Gone Again' (accompagnata dal video) e la sabbathiana 'Devil' s Peak' mostrano il lato più heavy e intransigente, sono le lente e magnetiche sfumature etniche e tribali di 'Hajra' interrotte da violente esplosioni elettriche cariche di fuzz a regalare all'intero disco otto sorprendenti minuti che mettono in luce la perfetta coesione raggiunta della band.
Un viaggio lungo cinquanta minuti tra infinito deserto, alte stelle, profondi fondali e sogni onirici. Musica che scuote forte la pancia e galleggia quieta nel cervello.







domenica 1 marzo 2020

RECENSIONE: THE OUTLAWS (Dixie Highway)

THE OUTLAWS  Dixie Highway (SPV, 2020)


Ce n'è ancora…
'Southern Rock Will Never Die', la canzone che apre il disco (che copertina brutta però), sembra essere anche il manifesto programmatico di quello che DIXIE HIGHWAY (secondo album dopo il ritorno del 2012) promette fin da subito: un ritorno agli antichi fasti anni settanta degli OUTLAWS, dove la tradizionale epicità del southern rock e la forza delle tre chitarre viaggiano all'unisono lungo quello che è rimasto della vecchia Dixie Highway, autostrada che univa Chicago a Miami. Chitarre fiammeggianti, lunga coda finale e l'omaggio a tutti i grandi caduti del southern rock. E purtroppo sono tanti. "Ghost riders on the wind in the southern sky" cantano.
A caricare i fucili ci pensano i due veterani Henry Paul (chitarra e voce) e Monte Yoho (batteria). Con loro: Randy Threet (basso), Steve Grisham (chitarre), Dave Robbins (tastiere), Dale Oliver (chitarra), Jaran Sorenson (batteria) e l'ospite Billy Crain (chitarra).
Henry Paul sembra essere battagliero e deciso: "abbiamo scritto e registrato questo album per rafforzare l'idea che gli Outlaws contano ancora e che il southern rock avrà sempre importanza. È un messaggio che siamo orgogliosi di portare nel ventunesimo secolo".
E dentro ai solchi di Dixie Highway sembra veramente di ritrovare le atmosfere dei tempi migliori, anche perché gli spazi aperti disegnati in 'Heavenly Blues' arrivano direttamente dall'album Hurry Sundown uscito nel 1977. Un ripescaggio che funziona. Ma non è l'unico, visto che anche la cangiante 'Windy City' s Blue' arriva da un vecchio demo dimenticato degli anni settanta, scritta del vecchio bassista Frank O'Keefe, scomparso nel  1995 a soli 44 anni.

La forte componente western country che li distingueva in album come l'esordio del 1975 e Lady In Waiting (1976) e che fece guadagnare loro l'appellativo di "Eagles del southern rock" (e qui sta voi decidere se è un bene o no) esce prepotente in canzoni come 'Over The Night in Athens' mentre in 'Endless Ride' risplende tutta l'epicità del vecchio southern rock con infiniti duelli di chitarre e poi quella 'Dark Horse Run' che si gioca la carta delle armonie vocali di stampo west coast sotto un tappeto più leggero.
Mentre la forza delle chitarre che caratterizzò un live album epocale come Bringing Back Alive (1978) sembra non essersi affievolita troppo nel tempo, ascoltando canzoni come lo scatenato blues boogie di 'Rattlesnake Road' e la strumentale 'Showdown' che fa riaffiorare i fantasmi della Allman Brothers Band che poi rivivono fieramente nella ballata finale 'Macon Memories' che con i suoi omaggi agli eroi di un'epoca irripetibile chiude idealmente il disco proprio come era iniziato.
Un disco di southern rock alla vecchia maniera come non si sentiva da tempo, firmato da una delle band, o meglio quello che resta di quella band (ma non è importante) che quei tempi gloriosi li visse in diretta. E per un attimo sembra di respirare ancora quella mistura bastarda di erba appena tagliata, polvere e asfalto che i vecchi vinili emanavano ad ogni giro.
Fieri, battaglieri, nostalgici e autentici, i fuorilegge sono tornati.