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martedì 25 febbraio 2020

RECENSIONE: GREG DULLI (Random Desire)

GREG DULLI  Random Desire (Cream/BMG, 2020)
 
 
 
 

la bellezza ci salverà
Difficile voler male a un artista come Greg Dulli, uomo viscerale che poche volte ha sbagliato le sue mosse. E anche quando l'ispirazione non era delle migliori a salvarlo è sempre stata l'onestà e un approccio alla musica unico e ancora romantico come pochi. In un periodo della vita in cui l'ispirazione sembra tornata ai massimi livelli (In Spades degli Afghan Whigs uscito tre anni fa è ancora caldo e scalpitante, degno dei migliori episodi targati anni novanta) sarebbe stato veramente un peccato lasciare queste dieci canzoni (per soli 37 intensi minuti, curati in ogni minimo particolare) chiuse in un cassetto. Meglio farle uscire anche se tutti gli amici più stretti erano impegnati in altri progetti.
"Tutti avevano un progetto, quindi ero tipo:'Devo fare qualcosa e se mai lo farò, dovrei farlo subito' " dice.
E allora, decide di fare quasi tutto da solo questa volta con l'aiuto di una ristretta schiera di musicisti tra cui Jon Skibic, Rick G. Nelson, Jon Theodore: il risultato finale non sembra così distante da quanto proposto con gli ultimi Afghan Whigs (ascoltare 'Black Moon') , Gutter Twins e soprattutto con il progetto Twilight Singers. Ballate alla Greg Dulli, liriche ('Sempre') oscure e viziose, investigative tra le pieghe più carnali dell'amore, tra i chiaro scuri della vita e delle perdite (pesante e dolorosa la morte dell'amico Dave Rosser), dei demoni personali, condotte dalla linea guida di un pianoforte come la finale 'Slow Pan', 'It Falls Apart', e ' Scorpio' che lo stesso Dulli ha dichiarato ispirata da Prince. Malinconiche e notturne pennellate acustiche come 'Marry Me' e la strepitosa 'Ghost', scritta a New Orleans, con un violino a disegnare velata malinconia, una algida e elettronica 'Lockless' scaldata dal soffio di una tromba, con qualche lampo elettrico ed esplosivo ('Pantomina', 'The Tide') a pompare ancora sangue rosso carminio.
Profondo e ispirato.
 
 
 
 

 
 

venerdì 21 febbraio 2020

RECENSIONE: SUPERSUCKERS (Play That Rock'n'Roll)

SUPERSUCKERS  Play That Rock'n'Roll  (2020)



alzate il volume
Ci sono band a cui nessuno chiederebbe mai delle rivoluzioni. Band nate per suonare rock'n'roll dall'inizio alla fine dei loro giorni. I Supersuckers di Eddie Spaghetti sono una di queste. Questa volta poi sta tutto nella foto di copertina e nel titolo: e che vada alla malora anche l'originalità. "La nostra lettera d'amore al rock'n'roll" lascia detto Spaghetti. Dopo aver festeggiato i trent'anni di carriera con il precedente Suck It (2018) ma soprattutto dopo la riabilitazione di Spaghetti reduce da una doppia vittoria sulla vita (ha sconfitto un tumore alla gola e mandato la morte a farsi fottere dopo un brutto incidente stradale) si buttano come freschi ventenni (Eddie e soci, il chitarrista Marty Chandler e il batterista Chris Von Streicher battono tutti intorno al mezzo secolo di vita) con immutata spavalderia a suonare come se non ci fosse un domani. E se ci fosse sarebbe proprio tale e quale al loro presente.
Tolta 'Ain't No Day Like Yesterday' con una chitarra vagamente psichedelica non c'è un attimo di tregua nelle dodici canzoni registrate a Austin, Texas, nello studio di Willie Nelson. Dall'iniziale 'Ain' t Gonna Stop' dove Spaghetti sembra già mettere le cose in chiaro "non smetterò fino a quando non lo fermerò" canta, passando per la dura e diretta 'Last Time Again' che sarebbe tanto piaciuta a Lemmy, dal punk di 'Bringing It Back' al blues di 'You Ain’t The Boss Of Me', dall'atto d'amore scritto con sangue, sudore e devozione della title track, viaggio nella storia del rock, fino alla cover di 'Dead, Jail o Rock n 'Roll' di Michael Monroe, un altro grande troppo spesso dimenticato. Play It Loud e long live rock'n'roll.








lunedì 17 febbraio 2020

RECENSIONE: OZZY OSBOURNE (ORDINARY MAN)

OZZY OSBOURNE  Ordinary Man (Epic, 2020)




Un "all right now" gridato come ai vecchi tempi, poi la sua inconfondibile risata malefica. ORDINARY MAN, il nuovo disco di OZZY OSBOURNE inizia nel segno della tradizione. Un deja vu che ti fa pensare immediatamente: "Ozzy è tornato, è sempre lui". Quando qualche mese fa diceva che questo è il miglior disco della sua carriera però non gli credevo. Ora, parecchi ascolti gli credo ancor meno, ma mica perché sia brutto eh, solo perché ritengo non sia così. Ha voluto accontentare un po' tutti con questo disco e in qualche modo si è pure rimesso in gioco (l'hanno rimesso in gioco): ha messo in fila la sua carriera con una decina di belle canzoni. Sicuramente il miglior disco dai tempi di Ozzmosis.
Ci sono i riff pesanti e alcune veloci ripartenze in stile vecchi Black Sabbath (la schizofrenica e fumosa 'Goodbye') anche se non c'è Tony Iommi e nemmeno Zakk Wylde, c'è perfino un'armonica che porta il pensiero dritto dritto a 'The Wizard' in 'Eat Me', c'è la malignità horror e alcuni momenti ('Straight To Hell') che richiamano Blizzard Of Ozz e Diary Of A Madman (eccoli i motivi per cui questo non sarà mai il miglior disco di Ozzy), c'è una 'Under The Graveyard' in bilico tra eighties e i novanta di Ozzmosis ma in qualche modo con tutti gli attributi di un classico e una melodia che ti si inchioda nel cervello, c'è perfino una velocissima traccia dall'attitudine punk ('It's A Raid') che da un Ozzy settantunenne non ti aspetteresti più, forse mai, nata ricordando quei caldi giorni in California immersi nella cocaina durante le registrazioni di Vol. 4 dei Black Sabbath come ha recentemente dichiarato.
Di 'Ordinary Man' sappiamo già tutto, una ballata al pianoforte che da Ozzy Osbourne abbiamo già sentito tante altre volte. Ricordo: 'So Tired' , 'L. A. Tonight', 'Dreamer'. La grande differenza qui la fanno il pianoforte e la voce dell'ospite sir Elton John e l'assolo di chitarra lasciato da Slash.
"Mi sono accorto che assomigliava a una canzone di Elton. Così ho chiesto a Sharon: e se la cantassi con lui? Glielo abbiamo chiesto e, roba da non credere, ha detto di sì e ha cantato e suonato il pianoforte”.
Della sinfonica 'Holy For Tonight' sarà bello scoprire che ci piacerà con gli ascolti, grazie a quelle antiche reminescenze da Electric Light Orchestra che si trascina dietro.
Ci sono Chad Smith alla batteria, Duff McKagan al basso in tutte le tracce, Slash e Tom Morello a piazzare assoli e il giovane produttore, classe 1990, Andrew Watt alle chitarre, tutti insieme fanno il loro dovere facendo suonare il disco alla grande, seppur registrato in tempi brevissimi e un Ozzy a mezzo servizio. Il 2019 non è certamente stato tra i suoi anni da incorniciare.
C'è perfino l'auto-tune (orribile), soprattutto nella finale e già edita 'Take What You Want' e ospiti inconsueti (ma qui il vero ospite è Ozzy) come Post Malone e il rapper Scott Travis, da non confondere con Travis Scott, batterista dei Judas Priest (sarebbe stato certamente più utile), per accontentare le nuove generazioni che forse nemmeno sanno da dove spunti fuori un tale, tremolante, che si fa chiamare Ozzy, balzato agli onori delle cronache non musicali qualche anno fa per un reality ambientato in famiglia. Ah sì, poi ci sono i Black Sabbath. La sua strana famiglia che ora pare stringersi intorno a lui per proteggerlo.
E pensare che i primi 40 secondi promettevano pure bene. Ecco, forse di quest' ultima avremmo fatto volentieri a meno.
Ozzy Osbourne ha il morbo di Parkinson, già combattuto in passato, forse annullerà ancora una volta il suo ultimo tour, già più volte rimandato. Molto probabilmente questo sarà il suo ultimo disco in carriera e i pochi rimpianti per una vita condotta in corsia di sorpasso che affiorano in mezzo a cannibali e alieni verdi (quelli della inconsueta 'Scary Little Green Men') i tanti messaggi di addio sparsi nei testi sembrano purtroppo confermarlo. Il solo pensiero mi rattrista parecchio. Pare proprio un disco di commiato.
Ozzy è stato uno dei miei primi miti musicali.
Faccio ripartire tutto dal principio: un altro "all right now" ci seppellirà…








martedì 11 febbraio 2020

RECENSIONE: THE CADILLAC THREE (Country Fuzz)

THE CADILLAC THREE Country Fuzz  (Big Machine Records, 2020)




fuori da ogni etichetta
 
Birra fredda, whiskey Jack Daniels, pick up El Camino, Johnny Cash, Merle Haggard, Charlie Daniels sono solo alcuni nomi e parole che spuntano fuori leggendo i testi dei Cadillac Three, band di Nashville giunta al traguardo del quarto disco, a due anni dal precedente Legacy. Non ci vuole certamente troppo ingegno per inquadrarli : il loro è un southern rock dal taglio ruspante ed elettrico (il boogie 'Bar Round Here' apre le danze nel migliore dei modi) che ama anche adagiarsi sui verdi campi del country ('Back Home'), senza disdegnare sipari più melodici e pop ('Heat', la finale 'Long After Last Call' che gioca di slide).
Ma attenzione, perché da qui in avanti, stanchi di essere etichettati ( ecco in arrivo la canzone 'Labels') scelgono loro stessi il nome del genere musicale a cui vogliono essere associati: "country fuzz, va bene, grazie". Prendiamo nota.
"Ci siamo stufati di essere chiamati southern rock o essere visti troppo rock per suonare country, quindi, abbiamo dato a tutti qualcosa per chiamarci che in realtà pensavamo fosse bello e sensato."
 
"Non puoi giudicare un disco dalla copertina fino a quando non lo senti girare sul giradischi. C'è sempre di più dietro il titolo" cantano in 'Labels'.
Jared Johnston (voce e chitarra), Neil Mason (batteria) e Kelby Ray (basso) compensano una latente originalità dei contenuti (i titoli promettono proprio quello) con la giusta attitudine che gioca spesso e volentieri con il funk, danzereccio di 'The Jam' (e qui appare pure il fantasma di Prince) e 'All The Makin' s Of A Saturday Night', con il southern blues elettrico di 'Hard Out Here For A Country Boy' (con gli ospiti Chris Jason e Travis Trit) con le chitarre hard di 'Slow Rollin' e quelle di 'Crackin' Cold Ones With The Boys' dal taglio più moderno, con il blues acustico di 'Raise Hell'. Pochi fronzoli, tanta sostanza, voglia di divertirsi e attitudine live. Fieri e chiassosi, i Cadillac Three non pretendono di essere ricordati per i loro messaggi quanto per la varietà e la spensieratezza con cui affrontano la materia rock. Insieme a Whiskey Myers, Blackberry Smoke, Black Stone Cherry, Rival Sons rappresentano il miglior presente del classic rock legato al passato e questo è senza dubbio il loro miglior disco: "per noi ogni album è più ambizioso del precedente". Avanti così.











 

venerdì 7 febbraio 2020

RECENSIONE: DRIVE BY-TRUCKERS (The Unraveling)

DRIVE BY-TRUCKERS  The Unraveling (ATO Records, 2020)


THE UNRAVELING sembra iniziare proprio là dove finiva il precedente American Band. "Gli ultimi tre anni e mezzo sono stati tra i più tumultuosi che il nostro paese abbia mai visto" racconta Patterson Hood. Se quattro anni fa la preoccupazione più grande era affrontare e scongiurare la possibile vittoria di Donald Trump alle elezioni presidenziali, questo nuovo album fa i conti con tutto quello che è avvenuto dopo il trionfo dell'attuale presidente.
La band di Athens guidata da Patterson Hood e Mike Cooley che da tempo ha messo da parte l'epica southern rock si conferma una delle poche realtà ancora in grado di cavalcare il presente, mai così cupo, e metterlo in discussione con chitarre taglienti (anche se non mancano momenti meditativi come l'apertura 'Rosemary With A Bible And A Gu' guidata da pianoforte e archi o il country di Thoughts And Prayers') e testi diretti e provocatori, ambientati in una America in ombra da nubi nere e minacciose.
Tra gli ospiti Cody Dickinson e la sua washboard in 'Babies In Cages', brano registrato live in studio. Titoli come il ritratto americano dipinto in '21 st Century USA' dove "gli uomini lavorano sodo ma mai abbastanza per stare bene" , 'Armageddon's Back In Town' e la lunga 'Awaiting Resurrection' sulla scia delle cavalcate in crescendo alla Neil Young, sono chiarissimi e non hanno bisogno di troppe spiegazioni.
C'è poca luce tra i solchi, tra le parole serpeggia amarezza, voglia di riscatto e cambiamento. Anche altri spettri neri si stanno ripresentano minacciosi, conseguenza inevitabile del mal di vivere: "il 1971 non ci ha insegnato nulla!? Il 1994 non ci ha insegnato nulla?... Mi mancano i miei amici morti per via dell'eroina" cantano in 'Heroin Again'.
C'è da riempire il grosso buco di questo presente e nella lunga presentazione al disco che accompagna i testi, la conclusione recita: "non rinunciate a lottare, e non smettete di inseguire un sogno. Votate e resistete. A volte è la cosa migliore che possiamo fare. Ci vediamo al prossimo rock show".
Seguiamo i consigli.







DRIVE-BY TRUCKERS  It’s Great To Be Alive!  (2015)




lunedì 3 febbraio 2020

RECENSIONE: TIJUANA HORROR CLUB (Naked Truth)

TIJUANA HORROR CLUB  Naked Truth (2020)


la nuda verità
Un altro lunedì è lasciato alle spalle ed è nuovamente ora di montare gli strumenti, preparare o disfare il backstage (tanto è uguale), riempire i bicchieri e salire sul palco. I bresciani Tijuana Horror Club non lasciano sciogliere troppo il ghiaccio nel tumbler della vita e ritornano a poco più di un anno dal precedente The Big Swindle. Lo fanno alla loro maniera proprio come recitava la copertina del precedente disco: una base ritmica solida e da battaglia formata da Mario Agnelli (batteria) e Davide Rudelli (basso), una bella dose di pianoforte saettante suonato da Alberto Ferrari (anche voce), la chitarra fuzz e la voce greve e cavernosa di Joey Gaibina a riempire e dare il tocco finale. Aggiungete a piacimento il sempre gradito supporto di Andy McFarlane, la tromba di Francesco Venturini e il trombone di Fabrizio Del Vecchio, ben presenti in tutti il disco, la produzione di Ronnie Amighetti al Klubhouse di Brescia e avrete l'esplosivo nuovo cocktail denominato Naked Truth.
L'aggiunta dei fiati nel suono da big band della travolgente 'Monday Blues' e la tromba nella finale 'Trained Wild Animals' a sbuffare malinconia aprono e chiudono un disco che mette nuovamente in fila i loro tanti punti fermi che passano dal macabro teatro di Screaming Jay Hawkins alle atmosfere notturne e caliginose di Tom Waits, dal rock'n'roll swing battuto dai tasti di Jerry Lee Lewis al punk, dal blues al psychobilly dei Cramps fino a quel Django Reinhardt tanto amato dalla band.
In mezzo tra lo swing ruspante di 'Party Girls', la luna piena che illumina 'Windy Night', il tiro rock di 'Soul Savers', il rock’n’roll di 'Dick Picking' e 'Grand Marnier' c'è anche il tempo di una pausa nella fumosa ballata da notte fonda ' Believe In What I Say'.
La nuda verità è che qui non ci sono inganni e truffe: tutto viene spiattellato in bella mostra come nel tavolo preparato per la copertina (foto di Paolo Tresoldi). Tra amori, feticci, strumenti di "lavoro", passioni ed effetti personali c'è pure il vinile di Sgt. Pepper e scoprirete perché ascoltando il disco.
La nuda verità è che tutto è suonato e sviscerato con il solo aiuto di sudore, passione, incrollabile fede rock'n'roll, alcol e faccia tosta da vendere. Basta assistere a un loro live.
L' appuntamento  è per il 28 Febbraio 2020 alla Latteria Molloy di Brescia in occasione del release party, aperto dall'amico Cek Franceschetti.





RECENSIONE: TIJUANA HORROR CLUB-The Big Swindle (2019)