DEPECHE MODE Delta Machine (Columbia, 2013)
Delta Machine, tredicesimo album di studio della band britannica si nutre, a partire dal titolo, di una grande contraddizione: può il blues (nel senso più ampio del termine, e sottolineo ampio) essere spietatamente freddo e riuscire a riscaldare così bene anima e cuore? Se lo date in pasto alle macchine infernali di Martin Gore e Andy Fletcher, la risposta è sì. Ascoltate: il mistico singolo Heaven uno dei pochi veri momenti melodici e accessibili dell'intero disco che arriva a sfiorare il gospel, i disturbi di una Angel a due marce, la placida lentezza seduttiva sulle rive di un Mississippi contaminato di scorie in Slow, i synth battenti di Soft Touch/Raw Nerve, il canonico giro blues incastrato all'interno dell'electro incedere di Goodbye, quasi Muddy Waters, dall'alto, guidasse le mani di Gore sulle corde della chitarra (in verità, strumento poco presente in tutto il disco) all'interno di una macchina del futuro che il leggendario bluesman non ha fatto in tempo a conoscere, e che forse mai avrebbe apprezzato. In più, a rafforzare l'affermazione, l'esperienza maiuscola di Dave Gahan tra le ragnatele dei Soulsavers nel bello e poco celebrato The Light The Dead See dello scorso anno è servita, si sente nel timbro vocale rassicurante in continuo progresso durante gli anni e nella affermazione in fase compositiva del cantante; tre pezzi con la sua firma in un solo album sono cosa rara e da ripetere quanto prima, visti i buoni risultati-aggiungo-. I Depeche Mode hanno sempre avuto la capacità, da Some Great Reward (1984) in avanti, di restare fedeli a se stessi, alla loro missione musicale, aggiungendo o sottraendo input alla loro musica con perizia chirurgica, prorogando una longevità che sembra fare sempre tendenza-generando imitatori- pur restando ancorata all'elettronica e alla fede per i synth di partenza. Negli anni sono sempre cresciuti, hanno creato capolavori come Violator (1990) raggiungendo ogni tipologia di ascoltatore rock, ma si sono anche fermati, inciampando in qualche passo falso discografico e umano, e di stanca routine come l'ultimo Sounds Of The Universe. Delta Machine potrebbe rappresentare una (buona) nuova ripartenza, e perchè non sperare nel ritorno stabile di Alan Wilder dopo il timido riavvicinamento, per completare l'opera e dare maggiori stimoli per il futuro? Qui, di stanchezza sembra essercene meno a favore della ispirazione, nonostante ascoltando l'album per la prima volta, potrebbe sembrare il contrario. Ci vuole impegno. Nulla è regalato questa volta, nemmeno il singolo lo è.
"E’ bello fare qualcosa di diverso ogni volta, qualsiasi cosa. Magari qualcosa di semplice purchè non ci si ripeta. Heaven è stata composta al piano. Avevo scritto gli accordi, la linea vocale e il testo prima ancora di avvicinarmi ad un computer". Racconta Martin Gore, seconda voce straordinaria in molti punti del disco, durante l'intervista per il making of dell'album.
Difficile fare peggio del precedente Sounds Of The Universe e Delta Machine pur riprendendo idee e suoni già presenti e sentiti lungo i solchi di una carriera trentennale, riesce nel miracolo di collocarli in una nuova dimensione: moderna, cupa, oscura e quasi impenetrabile, dove la voce di Grahan si assume l'incarico di essere l'unico viatico d'entrata verso la forma umana, mentre la produzione di Ben Hiller gioca a smorzare più che a sottolineare, nonostante un ritorno massiccio all'elettronica. Un disco unico nella loro carriera, e mi permetto di dire ben riuscito. La non presenza di un vero e proprio singolo "riempi pista" a fare ombra, pone democraticamente tutte e 13 le canzoni sullo stesso livello, generando quasi un mood ininterrotto di 60 minuti, che parte dal benvenuto "sinistro" e ben augurante di Welcome To My World e arriva al commiato liberatorio e purificatore della finale Goodbye:
"Sei stato tu a togliermi l’anima di dosso/e poi l’hai buttata nel fuoco/e l’hai domata e rapita/
e mi hai riempito di desiderio/adesso sono puro/sono pulito/e mi sento bene e sereno".
Profondità e lentezza prendono spesso il potere come nella liquida onda elettro-cardiaca di My Little Universe o nella disturbante Alone, interrotte da repentine accelerazioni come capita in Angel o da alcuni episodi decisamente up tempo, in netta minoranza, come Should Be Higher , Shoote My Soul, forse l'unica concessione vera al dance floor e agli anni '80, o la già citata Soft Touch/Raw Nerve.
I temi delle liriche sono quelli di sempre, appesantiti da una coltre di scura nebbia disturbante convertita in assuefazione: il tempo che fugge (Broken), le paure, le sofferenze, gli incubi, anime in cerca di redenzione, le metafore religiose provenienti da un tenebroso e asettico mondo dove puoi dormire placidamente il sonno del diavolo per dare lui soddisfazione o camminare con l'angelo dell'amore che ti veglia sulla testa. Eppure ad uscirne vincitore è sempre la positività dei sopravvissuti (My Little Universe, Heaven, Goodbye).
Forse questo era il miglior seguito possibile di Songs Of Faith And Devotion (1995) che chiudeva un capitolo roseo della loro carriera, aprendone un altro poco felice, segnato da dipartite artistiche e cadute umane. Arriva solo oggi uno dei dischi più coraggiosi, intensi ed ostici della loro carriera. Se lo possono permettere. Un lavoro complesso, ipnotico, coraggioso e apprezzabile che lavora con lentezza e nel tempo, e che fa ben poco per accaparrarsi le simpatie del primo ascolto. Voto: 7
vedi anche RECENSIONE: MARK LANEGAN-Blues Funeral (2012)
vedi anche RECENSIONE: NICK CAVE & THE BAD SEEDS-Push The Sky Away (2013)
vedi anche RECENSIONE: EELS-Wonderful, Glorious (2013)
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venerdì 29 marzo 2013
martedì 26 marzo 2013
RECENSIONE: HARPER SIMON (Division Street)
HARPER SIMON Division Street ( Play It Again Sam , 2013)
Primi mesi del 2013 all'insegna dei figli d'arte. Dopo Devon Allman e Shooter Jennings, ritorna anche Harper Simon, a quattro anni dal debutto omonimo, disco di folk/country che destò ottime impressioni, anche grazie alle buone collaborazioni incluse tra cui quella con l'amico d'infanzia Sean Lennon ma anche all'ombra di papà Paul Simon che aleggiava sulle canzoni, lasciando la sua firma concreta su un paio di esse. Forse è stata proprio la voglia di staccarsi dai pesanti paragoni che lo ha spinto a scrivere musica completamente diversa per questo ritorno discografico arrivato dopo un periodo di forte depressione che ne ha minato la salute. Harper Simon è riuscito a portare a compimento-con fatica- un lavoro che da un lato cerca nuove strade musicali soprattutto inspessendo le chitarre elettriche ("la missione era fare un disco di Rock n Roll di quelli che avrei voluto ascoltare io"), e riempiendo ogni buco del pentagramma di batterie pestanti, synth, tastiere e cercando quelle dissonanze moderne a volte anche troppo ingombranti, dall'altro rischia di piantare troppe spine su un pallone che potrebbe sgonfiarsi prima del previsto. Quasl' è il vero Harper Simon? Quello che sellava i cavalli a Nashville o quello che strizza l'occhio al moderno, seguendo la scia lasciata dagli Arcade Fire e dai tanti epigoni cresciuti come funghi in questi anni? Quello che si nutriva del calore country di un fuoco alimentato a legna o quello freddo e urgente che esce da canzoni come il singolo Bonnie Brae? Lo stesso Harper nel suo sito spiega così il carattere multiforme di alcune scelte: "Queste canzoni sono l'instantanea di un personaggio in un momento cruciale. Possono andare da una parte o dall'altra, una metaforica Division Street: su o giu, negative o positive, alla luce o all'autodistruzione", o ancora "mi piaciono Little Richard, The Kinks, Big Star, Hank Williams e i Pixies e i Television, Muddy Waters e i T.Rex. Mi piacciono gli Who e gli X. Mi piace tutto"
Da questa bulimica voglia di musica, inevitabilmente figlia della sua adolescenza privilegiata e scoppiata concretamente-dopo aver lavorato nelle retrovie-solo arrivato alla soglia dei quarant'anni, nascono fuzz garage martellanti e ossessivi come Veterans Parade, Eternal Questions, e soprattutto Dixie Cleopatra con una bella chitarra elettrica suonata dallo stesso Harper ed una batteria incalzante, quella di Pete Thomas (batterista degli Attractions di Elvis Costello), che si confrontano con l'acustica povertà di una Just Like St. Teresa così vicina a certi lontani episodi del padre Paul Simon insieme a Garfunkel o di Ellioth Smith. Non un caso che il produttore sia Tom Rothrock, che in passato lavorò con lo sfortunato cantautore di Omaha.
Parentesi New Wave '80 come Division Street e ariose canzoni pop che esplorano sul passato (99), orchestrali sinfonie dell'anima come Breathe Out Love, le viole che guidano la marziale e suggestiva Chinese Jade, le oscure, pischedeliche e darkeggianti spirali di Leaves Of Golden Brown, sono ingredienti di un disco piacevole ma spiazzante se paragonato con il precedente, che può diventare anche omologato se confrontato con i trend attuali.
Anche questa volta non si fa mancare gli ospiti: da Nikolai Fraiture ( Strokes), Nate Walcott (BrightEye), il tastierista Mikael Jorgensen (Wilco), Brian LeBarton (Feist), Inara George, cantautrice, figlia del compianto Lowell George ai cori.
L'impressione è quella di un talento smisurato, dalla voce ipnotica (qui, troppo spesso ingabbiata nei riverberi) e dalla grande personalità e abilità compositiva nel muoversi a proprio piacimento nell'universo musicale. Simon ha voglia di tirare fuori tutto il meglio di se stesso, e lo fa mettendosi completamente a nudo (tutte le liriche e le musiche sono sue), correndo però verso troppe direzioni, e due soli dischi completamente diversi tra loro potrebbero essere un pregio ma diventare anche troppo dispersivi e destabilizzanti per crearsi un seguito fedele. Ora che tutti i colori sono sulla tavolozza, si scelgano i preferiti. Io ho preferito le sfumature folk antiche e seppiate del debutto. Al terzo disco l'ardua sentenza.
vedi anche RECENSIONE: SHOOTER JENNINGS-The Other Life (2013)
vedi anche RECENSIONE: BILLY BRAGG-Tooth & Nail (2013)
vedi anche RECENSIONE: ELLIOTT MURPHY-It Takes a Worried Man (2013)
Primi mesi del 2013 all'insegna dei figli d'arte. Dopo Devon Allman e Shooter Jennings, ritorna anche Harper Simon, a quattro anni dal debutto omonimo, disco di folk/country che destò ottime impressioni, anche grazie alle buone collaborazioni incluse tra cui quella con l'amico d'infanzia Sean Lennon ma anche all'ombra di papà Paul Simon che aleggiava sulle canzoni, lasciando la sua firma concreta su un paio di esse. Forse è stata proprio la voglia di staccarsi dai pesanti paragoni che lo ha spinto a scrivere musica completamente diversa per questo ritorno discografico arrivato dopo un periodo di forte depressione che ne ha minato la salute. Harper Simon è riuscito a portare a compimento-con fatica- un lavoro che da un lato cerca nuove strade musicali soprattutto inspessendo le chitarre elettriche ("la missione era fare un disco di Rock n Roll di quelli che avrei voluto ascoltare io"), e riempiendo ogni buco del pentagramma di batterie pestanti, synth, tastiere e cercando quelle dissonanze moderne a volte anche troppo ingombranti, dall'altro rischia di piantare troppe spine su un pallone che potrebbe sgonfiarsi prima del previsto. Quasl' è il vero Harper Simon? Quello che sellava i cavalli a Nashville o quello che strizza l'occhio al moderno, seguendo la scia lasciata dagli Arcade Fire e dai tanti epigoni cresciuti come funghi in questi anni? Quello che si nutriva del calore country di un fuoco alimentato a legna o quello freddo e urgente che esce da canzoni come il singolo Bonnie Brae? Lo stesso Harper nel suo sito spiega così il carattere multiforme di alcune scelte: "Queste canzoni sono l'instantanea di un personaggio in un momento cruciale. Possono andare da una parte o dall'altra, una metaforica Division Street: su o giu, negative o positive, alla luce o all'autodistruzione", o ancora "mi piaciono Little Richard, The Kinks, Big Star, Hank Williams e i Pixies e i Television, Muddy Waters e i T.Rex. Mi piacciono gli Who e gli X. Mi piace tutto"
Da questa bulimica voglia di musica, inevitabilmente figlia della sua adolescenza privilegiata e scoppiata concretamente-dopo aver lavorato nelle retrovie-solo arrivato alla soglia dei quarant'anni, nascono fuzz garage martellanti e ossessivi come Veterans Parade, Eternal Questions, e soprattutto Dixie Cleopatra con una bella chitarra elettrica suonata dallo stesso Harper ed una batteria incalzante, quella di Pete Thomas (batterista degli Attractions di Elvis Costello), che si confrontano con l'acustica povertà di una Just Like St. Teresa così vicina a certi lontani episodi del padre Paul Simon insieme a Garfunkel o di Ellioth Smith. Non un caso che il produttore sia Tom Rothrock, che in passato lavorò con lo sfortunato cantautore di Omaha.
Parentesi New Wave '80 come Division Street e ariose canzoni pop che esplorano sul passato (99), orchestrali sinfonie dell'anima come Breathe Out Love, le viole che guidano la marziale e suggestiva Chinese Jade, le oscure, pischedeliche e darkeggianti spirali di Leaves Of Golden Brown, sono ingredienti di un disco piacevole ma spiazzante se paragonato con il precedente, che può diventare anche omologato se confrontato con i trend attuali.
Anche questa volta non si fa mancare gli ospiti: da Nikolai Fraiture ( Strokes), Nate Walcott (BrightEye), il tastierista Mikael Jorgensen (Wilco), Brian LeBarton (Feist), Inara George, cantautrice, figlia del compianto Lowell George ai cori.
L'impressione è quella di un talento smisurato, dalla voce ipnotica (qui, troppo spesso ingabbiata nei riverberi) e dalla grande personalità e abilità compositiva nel muoversi a proprio piacimento nell'universo musicale. Simon ha voglia di tirare fuori tutto il meglio di se stesso, e lo fa mettendosi completamente a nudo (tutte le liriche e le musiche sono sue), correndo però verso troppe direzioni, e due soli dischi completamente diversi tra loro potrebbero essere un pregio ma diventare anche troppo dispersivi e destabilizzanti per crearsi un seguito fedele. Ora che tutti i colori sono sulla tavolozza, si scelgano i preferiti. Io ho preferito le sfumature folk antiche e seppiate del debutto. Al terzo disco l'ardua sentenza.
vedi anche RECENSIONE: SHOOTER JENNINGS-The Other Life (2013)
vedi anche RECENSIONE: BILLY BRAGG-Tooth & Nail (2013)
vedi anche RECENSIONE: ELLIOTT MURPHY-It Takes a Worried Man (2013)
venerdì 22 marzo 2013
RECENSIONE:ELLIOTT MURPHY(It Takes A Worried Man)
Benvenuti in Murphyland.
Ci sono illustri americani che a Parigi hanno cercato nuova ispirazione poetica ma hanno trovato presto il riposo divino, fulmineamente barattato con l'ascensione verso la mitizzazione riservata alle rockstar eterne, ce ne sono altri che nella capitale francese non hanno trovato la gloria da consegnare ai posteri ma solo libertà, genuina ispirazione e buone motivazioni per continuare una carriera innalzata sull'onestà del lungo corso, costruita sulla strada, con il motto "del fare" in cima alla lista delle proprie priorità.
Elliott Murphy appartiene a questa seconda specie di emigranti, quelli che preferiscono ancora le strade contorte e collaterali del rock, una volta capito che la strada principale, chissà poi per quale oscuro motivo, è bloccata e non regala più del dovuto, affollata così com'è da continui ed ingombranti paragoni che lo perseguitano fin da inizio carriera e con le serrande del mercato discografico che si intravedono aldilà del marciapiede, sempre posizionate a metà altezza quando non chiuse del tutto. Per chi lo segue fin dai suoi imperdibili dischi degli anni '70 (Aquashow-1973, Night Lights-1976, Just A Story From America-1977), lui è già un mito e ciò basta. Da angelo biondo e ribelle di Long Island ad antico troubadour dei tempi moderni. Partito dalla New York glam degli anni '70 e arrivato in Europa nel 1989, non se n'è più andato, conquistato da quella che considera una delle capitali culturali del mondo (volete dargli torto?) costruendosi un seguito di fan affezionati e devoti. Amore recentemente contraccambiato con l'assegnazione a Murphy della prestigiosa Medaille de Vermeil de la Ville de Paris da parte del primo cittadino parigino. Anche l'Italia è una sua roccaforte e i piccoli locali sono i suoi caldi rifugi , a volte pure i grandi stadi lo accolgono, ma solo quando l'invito è spedito dall'amico Springsteen.
Carriera di un onesto poeta della musica, artigiano con tutte le potenzialità per essere un grande numero uno. Ogni tanto ce lo ricorda con qualche bella zampata, certamente non epocale, come questo nuovo disco che esce a di distanza di tre anni dal precedente. Il mondo di Murphy, come racconta nella ironica Murphyland, sta tutto qua, in questi 40 minuti di musica. Murphy ritrova un po'della sua America, la stessa che chiudeva il precedente album con Train Kept A Rolling.
Il Newyorchese è ancora una delle migliori penne del rock'n'roll, e non solo perchè divide la sua attività musicale con quella di scrittore e romanziere, ma perchè in It Takes A Worried Man riesce a mettere in piedi un concept accattivante tra realtà e fantasia, pieno di speranza, con stile e classe invidiabile, musicalmente vario che partendo da molto lontano, ripescando il traditional folk della iniziale Worried Man Blues, mette in fila i temi cardine di tutta una carriera: l'amore, il dolore, la speranza, il sogno, le illusioni, le amarezze, il viaggio e l'ottimismo, e li convoglia nella storia di un ipotetico viaggiatore alla ricerca della Murphyland perduta," il posto dove tutti vorremmo stare" e dove "Louis Armstrong canta Hello Dolly", il luogo dove poter realizzare i propri sogni, il posto da perseguire fin dalla giovane età, superando gli ostacoli e gli incontri "sbagliati" o salvifici della vita, che siano la malvagia Angeline, Mister Jackson, Fanny Gonzales o l'ultimo dei Ramone come canta in Little Big Man.
"La vita è meravigliosa, ma il mondo può essere un inferno" confessa nella dylaniana Then You Start Crying. Puoi essere circondato da tante cose materiali e persone ma il vuoto e la solitudine possono averla sempre vinta declama nella epica e riuscitissima tensione musicale creata da I Am Empty, una delle migliori canzoni del disco, con la signora Springsteen, Patti Scialfa, a raddoppiare la voce e Olivier Durand ad incorniciare il tutto con l'assolo finale.
"Oh e le cattive notizie arrivano senza sosta, siamo anime oscillanti come un acrobata, cenere alla cenere e polvere alla polvere, Hallelujah".
Istantanee di una esistenza vissuta ai limiti con la chimera dell'immortalità dettata dalla gioventù nella colata di parole del tagliente rock Day For Night, perdite che incidono come lame nella teatralità di He's Gone, autostrade come metafore di vita nel country placido di Eternal Highway, trombe che sbuffano e reclamano qualcosa in più dalla vita (Little Bit More), un pianoforte solitario e malinconico ad accomiatare tutte le sofferenze in Even Steven.
Il figlio ventitreenne Gaspard nuovamente a produrre, suonare e fare da regia ad un disco registrato in giro per il mondo (Parigi, Bruxeles, New York), e suonato ancora insieme ai fidati The Normandy All Stars ( Olibvier Durand alle chitarre, Laurent Pardo al basso, Alan Fatras alla batteria).
Questa è un po' la sua autobiografia. Un uomo (preoccupato) che ha scelto di vivere nella sua Murphyland, compiere le sue scelte in totale libertà, pagandone forse in termini di successo ma guadagnandone in coerenza e meritato rispetto.
vedi anche RECENSIONE: ELLIOTT MURPHY-Elliott Murphy (2010)
vedi anche RECENSIONE: BOB DYLAN-Tempest (2012)
vedi anche RECENSIONE: BILLY BRAGG- Tooth & Nail (2013)
martedì 19 marzo 2013
RECENSIONE: SHOOTER JENNINGS (The Other Life)
SHOOTER JENNINGS The Other Life ( eONE Records, 2013)
Quando parte Flying Saucer Song (vecchia canzone dimenticata di Harry Nilsson) pare di aver messo sul lettore qualche outtakes dei Pink Floyd periodo The Wall. Lo spiazzamento dura tre minuti, il tempo necessario per fare mente locale e ricordarsi di quanto Shooter Jennings sia un personaggio anticonvenzionale e da prendere sempre con le dovute precauzioni. Rieccolo nuovamente qua, il figlio d'arte scavezzacollo. E' passato meno di un anno dal precedente Family Man (2012), disco che lo incanalava sulla retta via della maturità artistica, intriso com'era di canzoni intime, personali e nostalgiche, lasciando da parte l'hard di grana grossa degli esordi e arditi esperimenti come Black Ribbons (2010) per fiondarsi sul country tout court. Superata la prima traccia però, anche questo disco ne segue la stessa direzione (metà delle canzoni provengono dalle sessions di Family Man), aggiungendo un pizzico di piccante Jalapeño per vivacizzare il tutto. Tutto torna a posto, e già dalla successiva e alcolica A Hard Lesson To Learn e dal risveglio campestre di The White Trash Song, un veloce honk tonk/bluegrass odorante di fieno datato 1972 e rubato al repertorio del songwriter Steve Young con tanto di galline, cinguettii e ululati in sottofondo ad accompagnare il violino e la voce dell'ospite Scott H Biram, un altro personaggio poco raccomandabile a duettare, si capisce di aver di fronte un disco di razzolante e poco convenzionale country/americana, buono per le scorribande estive entrando verso l'oscurità della notte.
Un disco che conferma, come insegnato da papà Waylon, la capacità del figliol prodigo di cambiare spesso aria e registro mantenendo sempre la ventilata e ruspante libertà di muoversi all'interno del pianeta musica (americana) senza temere giudizi o brutte figure: luminose country songs come Wild And Lonesome cantata in coppia con la cantautrice Patty Griffin (ma alla fine si è sposata o no con Robert Plant?), numeri da navigato crooner come la pianistica The Other Life che dà anche il titolo al cortometraggio legato all'album girato con Blake Judd, viaggi temporali e biografici nel passato country di papà come Outlaw You, il southern/rock'n'roll teso e corale di Mama, It's Just My Medicine con il suo finale disturbato, e quello in compagnia della voce "consumata" del sessantacinquenne Jim "Dandy" Mangrum, storico e carismatico cantante dei sempre dimenticati Black Oak Arkansas in 15 Million Light -Years Away, o i rassicuranti folk adulti e cantautorali come Outsider a disegnarne l'eccellenza acquisita dall'ultimo dei fuorilegge.
La finale, dilatata e dalla vena progressiva The Gunslinder, con il sax imperversante suonato da Jonathan Stewart, chiude il disco facendoti capire perchè l'inizio era così inaspettatamente pinkfloydiano. Il cerchio che si chiude.
Un Jennings nella storia della american music ci è già entrato di diritto, ma nulla toglie all'altro la capacità di sfornare dischi non imprescindibili ma dannatamente genuini e piacevoli, con quei non rari guizzi di imprevedibilità che spesso fanno la differenza nel panorama musicale odierno, sempre più livellato sulla stanca riproposizione del passato priva di spunti di originalità.
vedi anche RECENSIONE: SHOOTER JENNINGS-Family Man (2012)
vedi anche RECENSIONE: BILLY BRAGG-Tooth & Nail (2013)
Quando parte Flying Saucer Song (vecchia canzone dimenticata di Harry Nilsson) pare di aver messo sul lettore qualche outtakes dei Pink Floyd periodo The Wall. Lo spiazzamento dura tre minuti, il tempo necessario per fare mente locale e ricordarsi di quanto Shooter Jennings sia un personaggio anticonvenzionale e da prendere sempre con le dovute precauzioni. Rieccolo nuovamente qua, il figlio d'arte scavezzacollo. E' passato meno di un anno dal precedente Family Man (2012), disco che lo incanalava sulla retta via della maturità artistica, intriso com'era di canzoni intime, personali e nostalgiche, lasciando da parte l'hard di grana grossa degli esordi e arditi esperimenti come Black Ribbons (2010) per fiondarsi sul country tout court. Superata la prima traccia però, anche questo disco ne segue la stessa direzione (metà delle canzoni provengono dalle sessions di Family Man), aggiungendo un pizzico di piccante Jalapeño per vivacizzare il tutto. Tutto torna a posto, e già dalla successiva e alcolica A Hard Lesson To Learn e dal risveglio campestre di The White Trash Song, un veloce honk tonk/bluegrass odorante di fieno datato 1972 e rubato al repertorio del songwriter Steve Young con tanto di galline, cinguettii e ululati in sottofondo ad accompagnare il violino e la voce dell'ospite Scott H Biram, un altro personaggio poco raccomandabile a duettare, si capisce di aver di fronte un disco di razzolante e poco convenzionale country/americana, buono per le scorribande estive entrando verso l'oscurità della notte.
Un disco che conferma, come insegnato da papà Waylon, la capacità del figliol prodigo di cambiare spesso aria e registro mantenendo sempre la ventilata e ruspante libertà di muoversi all'interno del pianeta musica (americana) senza temere giudizi o brutte figure: luminose country songs come Wild And Lonesome cantata in coppia con la cantautrice Patty Griffin (ma alla fine si è sposata o no con Robert Plant?), numeri da navigato crooner come la pianistica The Other Life che dà anche il titolo al cortometraggio legato all'album girato con Blake Judd, viaggi temporali e biografici nel passato country di papà come Outlaw You, il southern/rock'n'roll teso e corale di Mama, It's Just My Medicine con il suo finale disturbato, e quello in compagnia della voce "consumata" del sessantacinquenne Jim "Dandy" Mangrum, storico e carismatico cantante dei sempre dimenticati Black Oak Arkansas in 15 Million Light -Years Away, o i rassicuranti folk adulti e cantautorali come Outsider a disegnarne l'eccellenza acquisita dall'ultimo dei fuorilegge.
La finale, dilatata e dalla vena progressiva The Gunslinder, con il sax imperversante suonato da Jonathan Stewart, chiude il disco facendoti capire perchè l'inizio era così inaspettatamente pinkfloydiano. Il cerchio che si chiude.
Un Jennings nella storia della american music ci è già entrato di diritto, ma nulla toglie all'altro la capacità di sfornare dischi non imprescindibili ma dannatamente genuini e piacevoli, con quei non rari guizzi di imprevedibilità che spesso fanno la differenza nel panorama musicale odierno, sempre più livellato sulla stanca riproposizione del passato priva di spunti di originalità.
vedi anche RECENSIONE: SHOOTER JENNINGS-Family Man (2012)
vedi anche RECENSIONE: BILLY BRAGG-Tooth & Nail (2013)
venerdì 15 marzo 2013
RECENSIONE: BILLY BRAGG (Tooth & Nail)
BILLY BRAGG Tooth & Nail (Cooking Vinil, 2013)
Se avete visto almeno una volta Billy Bragg dal vivo durante le sue comparsate in solitaria sopra ad un palco, sapete di quanto non abbia bisogno di troppi artifizi per costruire i suoi spettacoli. Bastano la presenza delle due chitarre, le tante canzoni (repertorio in continua crescita, dal suo debutto Life's a Riot With Spy vs.Spy -1983 ad oggi, siamo al tredicesimo disco), i testi con le parole che "uccidono" e fanno pensare, i suoi aneddotti, le storie di vita e il contagioso e leggero humour british atto a stemperare le pesanti denunce sociali tradotte in musica. Capita, a volte, che tra una canzone e l'altra si fermi per bere una rilassante tazza di the bollente.
Proprio da questa pausa the, si potrebbe partire per raccontare il suo album più "americano" in carriera, il più vicino, musicalmente, al maestro Woody Guthrie che lo stesso Bragg insieme ai Wilco di Jeff Tweedy, omaggiò con le tre uscite Mermaid Avenue, musicandone i preziosi testi perduti. Un legame forte a cui non rinuncia nemmeno in questo disco, proponendo la sua rilettura leggera come un soffio di brezza di Ain't Got No Home di Guthrie, l'unica cover del disco ma anche uno dei pochi graffi sociali dell'album. Canzone del 1938 nel cui testo si legge tutta l'attualità dei nostri giorni:
"My crops I lay into the banker's store/My wife took down and died upon the cabin floor/And I ain't got no home in thisworld anymore...Now as I look around, it's mighty plain to see/This world is such a great and a funny place to be/Oh, the gamblin' man is rich an' the workin' man is poor/ And I ain't got no home in this world anymore."
Per registrarlo è volato a South Pasadena in California a farsi produrre da Joe Henry, anche coautore di due splendidi testi (Over You e la delicataYour Name On My Tongue) e con l'aiuto di notevoli musicisti americani ha costruito, in soli cinque giorni all'interno del seminterrato/studio di registrazione (The Garfield House) di casa Henry, un album in cui le invettive politiche e sociali bussano di rado alla porta delle liriche che preferiscono assorbire l'amara introspezione e la malinconia di un autore che, dopo anni di dura lotta, vuole fermarsi, concedersi una pausa riflessiva, affidandosi: all'amore, nel crescendo avvolgente di Your Name On My Tongue, alla fede non convenzionale in Do Unto Other ("fai agli altri quello che vorresti facessero a te"), alla rimarginazione di cicatrici lasciate dalle perdite umane (l'iniziale January Song), all'ottimismo per il futuro come farebbe un vecchio saggio ancora carico di speranze (Tommorow's Going To Be A Better Day).
"Nel 2011 mi sono guardato dentro a lungo per vedere chi sono e cosa faccio. Questo disco è il risultato". Godersi il the finchè caldo. Ma Billy Bragg è un fuoriclasse della parola, un poeta proletario, nato sì, già combattente nel suo quartiere londinese di Barking (molte delle sue idee politiche e patriottiche finirono nell'ultimo EP Six Songs From Pressure Drop-2010, colonna sonora di uno spettacolo teatrale ricavato dal suo libro The Progressive Patriot), ma ricco di buoni e speranzosi sentimenti. Lo dimostra, arrivando ad autodefinirsi uno "Sherpa Of Heartbreak" (titolo che compare nella copertina del libretto) per descrivere nel migliore dei modi il contenuto delle nuove 12 canzoni che prediligono il lato personale e umano piuttosto che grattare il muro già scrostato delle invettive sociali come hanno fatto per tanti anni. Il muro è ancora lì, in piedi con lo stucco rovinato dalle stridenti unghiate, sempre pronto ad essere colpito in futuro. Nessun nuovo inno alla vecchia maniera, nessuna There is Power In The Union, nessuna Levi's Stubbs'Tears, ma la continuazione musicale, portata all'estremo, dell'ultimo e maturo Mr Love & Justice (2008). E' il miracolo rinnovato del grande potere salvifico della musica.
Ci si immerge quindi in uno stato di apparente e cullante tranqulllità Nashviliana fatta di chitarre acustiche, lap e pedal steel suonate da Greg Leisz (No One Knows Nothing Anymore, nell'autoironia domestica di Handyman Blues, Chasing Rainbows), dal pianoforte leggero e spesso presente di Patrick Warren (Do Unto Others), da un Billy Bragg mai così accomodante, con una vocalità calda anche quando le parole da cantare sono quelle di un triste e doloroso commiato dagli affetti più cari e da una società che sembra aver visto tutto il visibile (Goodbye, Goodbye).
Bisogna arrivare alla nona canzone per avere piccoli guizzi elettrici- che rimarranno gli unici del disco-, quelli che escono da There Will Be A Reckoning (ripescata e risuonata dal precedente EP) dove irrompono le chitarre vivaci, e la sezione ritmica composta da Jay Bellerose alla batteria e David Pitch al basso è più presente che mai. Non è un caso che sia l'unica canzone, insieme alla cover di Guthie, dalla cifra fortemente politica, legata ai suoi quartieri e immersa nella attualità della recessione. Un solo graffio, un solo inno ma ben visibile e rumoroso.
Un disco che scava nell'interiorità con leggiadra leggerezza, garantita da un viaggio nella tradizione country/folk dell' America musicale. Uno dei suoi album più atipici e per certi versi coraggiosi e spiazzanti per chi ha ancora nelle orecchie i chorus di una New England o le invettive barricadere di una All You Fascist sparata in faccia. Queste le ritroveremo ai concerti. Ora si legge: 80% America (Guthrie), 20% Inghilterra (Clash), ma il risultato è ancora 100% Billy Bragg. La sua credibilità (e onestà) è intatta e questo è quel che conta.
Bragg si tiene volutamente fuori dalla rabbia sociale che i tempi vorrebbero imporre ad un combattente con la chitarra come lui. Dribbla a favore della bellezza e della lentezza, come fece Dylan a suoi tempi (Tooth & Nail è il suo Basement Tapes?) rifugiandosi, fischiettando, nel più semplice degli auguri per un domani migliore: Tomorrow's Going To Be A Better Day. Speriamo.
vedi anche BILLY BRAGG reportage-live Spazio 211, Torino, 11 Maggio 211
vedi anche RECENSIONE: BOB DYLAN-Tempest (2012)
Se avete visto almeno una volta Billy Bragg dal vivo durante le sue comparsate in solitaria sopra ad un palco, sapete di quanto non abbia bisogno di troppi artifizi per costruire i suoi spettacoli. Bastano la presenza delle due chitarre, le tante canzoni (repertorio in continua crescita, dal suo debutto Life's a Riot With Spy vs.Spy -1983 ad oggi, siamo al tredicesimo disco), i testi con le parole che "uccidono" e fanno pensare, i suoi aneddotti, le storie di vita e il contagioso e leggero humour british atto a stemperare le pesanti denunce sociali tradotte in musica. Capita, a volte, che tra una canzone e l'altra si fermi per bere una rilassante tazza di the bollente.
Proprio da questa pausa the, si potrebbe partire per raccontare il suo album più "americano" in carriera, il più vicino, musicalmente, al maestro Woody Guthrie che lo stesso Bragg insieme ai Wilco di Jeff Tweedy, omaggiò con le tre uscite Mermaid Avenue, musicandone i preziosi testi perduti. Un legame forte a cui non rinuncia nemmeno in questo disco, proponendo la sua rilettura leggera come un soffio di brezza di Ain't Got No Home di Guthrie, l'unica cover del disco ma anche uno dei pochi graffi sociali dell'album. Canzone del 1938 nel cui testo si legge tutta l'attualità dei nostri giorni:
"My crops I lay into the banker's store/My wife took down and died upon the cabin floor/And I ain't got no home in thisworld anymore...Now as I look around, it's mighty plain to see/This world is such a great and a funny place to be/Oh, the gamblin' man is rich an' the workin' man is poor/ And I ain't got no home in this world anymore."
Per registrarlo è volato a South Pasadena in California a farsi produrre da Joe Henry, anche coautore di due splendidi testi (Over You e la delicataYour Name On My Tongue) e con l'aiuto di notevoli musicisti americani ha costruito, in soli cinque giorni all'interno del seminterrato/studio di registrazione (The Garfield House) di casa Henry, un album in cui le invettive politiche e sociali bussano di rado alla porta delle liriche che preferiscono assorbire l'amara introspezione e la malinconia di un autore che, dopo anni di dura lotta, vuole fermarsi, concedersi una pausa riflessiva, affidandosi: all'amore, nel crescendo avvolgente di Your Name On My Tongue, alla fede non convenzionale in Do Unto Other ("fai agli altri quello che vorresti facessero a te"), alla rimarginazione di cicatrici lasciate dalle perdite umane (l'iniziale January Song), all'ottimismo per il futuro come farebbe un vecchio saggio ancora carico di speranze (Tommorow's Going To Be A Better Day).
"Nel 2011 mi sono guardato dentro a lungo per vedere chi sono e cosa faccio. Questo disco è il risultato". Godersi il the finchè caldo. Ma Billy Bragg è un fuoriclasse della parola, un poeta proletario, nato sì, già combattente nel suo quartiere londinese di Barking (molte delle sue idee politiche e patriottiche finirono nell'ultimo EP Six Songs From Pressure Drop-2010, colonna sonora di uno spettacolo teatrale ricavato dal suo libro The Progressive Patriot), ma ricco di buoni e speranzosi sentimenti. Lo dimostra, arrivando ad autodefinirsi uno "Sherpa Of Heartbreak" (titolo che compare nella copertina del libretto) per descrivere nel migliore dei modi il contenuto delle nuove 12 canzoni che prediligono il lato personale e umano piuttosto che grattare il muro già scrostato delle invettive sociali come hanno fatto per tanti anni. Il muro è ancora lì, in piedi con lo stucco rovinato dalle stridenti unghiate, sempre pronto ad essere colpito in futuro. Nessun nuovo inno alla vecchia maniera, nessuna There is Power In The Union, nessuna Levi's Stubbs'Tears, ma la continuazione musicale, portata all'estremo, dell'ultimo e maturo Mr Love & Justice (2008). E' il miracolo rinnovato del grande potere salvifico della musica.
Ci si immerge quindi in uno stato di apparente e cullante tranqulllità Nashviliana fatta di chitarre acustiche, lap e pedal steel suonate da Greg Leisz (No One Knows Nothing Anymore, nell'autoironia domestica di Handyman Blues, Chasing Rainbows), dal pianoforte leggero e spesso presente di Patrick Warren (Do Unto Others), da un Billy Bragg mai così accomodante, con una vocalità calda anche quando le parole da cantare sono quelle di un triste e doloroso commiato dagli affetti più cari e da una società che sembra aver visto tutto il visibile (Goodbye, Goodbye).
Bisogna arrivare alla nona canzone per avere piccoli guizzi elettrici- che rimarranno gli unici del disco-, quelli che escono da There Will Be A Reckoning (ripescata e risuonata dal precedente EP) dove irrompono le chitarre vivaci, e la sezione ritmica composta da Jay Bellerose alla batteria e David Pitch al basso è più presente che mai. Non è un caso che sia l'unica canzone, insieme alla cover di Guthie, dalla cifra fortemente politica, legata ai suoi quartieri e immersa nella attualità della recessione. Un solo graffio, un solo inno ma ben visibile e rumoroso.
Un disco che scava nell'interiorità con leggiadra leggerezza, garantita da un viaggio nella tradizione country/folk dell' America musicale. Uno dei suoi album più atipici e per certi versi coraggiosi e spiazzanti per chi ha ancora nelle orecchie i chorus di una New England o le invettive barricadere di una All You Fascist sparata in faccia. Queste le ritroveremo ai concerti. Ora si legge: 80% America (Guthrie), 20% Inghilterra (Clash), ma il risultato è ancora 100% Billy Bragg. La sua credibilità (e onestà) è intatta e questo è quel che conta.
Bragg si tiene volutamente fuori dalla rabbia sociale che i tempi vorrebbero imporre ad un combattente con la chitarra come lui. Dribbla a favore della bellezza e della lentezza, come fece Dylan a suoi tempi (Tooth & Nail è il suo Basement Tapes?) rifugiandosi, fischiettando, nel più semplice degli auguri per un domani migliore: Tomorrow's Going To Be A Better Day. Speriamo.
vedi anche BILLY BRAGG reportage-live Spazio 211, Torino, 11 Maggio 211
vedi anche RECENSIONE: BOB DYLAN-Tempest (2012)
lunedì 11 marzo 2013
RECENSIONE: W.I.N.D.(Temporary Happiness)
W.I.N.D. Temporary Happiness (Artesuono , 2013)
Se l'Italia fosse il paese "rock" che non è, un gruppo come i friulani W.I.N.D. suonerebbe in prima serata nei canali della televisione nazionale, come succede in alcuni paesi scandinavi dove il rock (anche quello più estremo) è spesso trattato alla pari del pop, dove un festival di musica Rock tra i migliori d'Europa come lo Sweden Rock Festival è sponsorizzato e sovvenzionato dalla stessa tv di stato. Riuscite a pensare alla Rai fuori dalle logiche sanremesi? Vanno bene i fiori "buoni" raccolti in riviera, ma il resto della flora che cresce intorno alla penisola? In Italia questo non succede, certe logiche sono ancora aliene e il resto della vegetazione sembra quasi erba gramigna da evitare, estirpare o tenere buona con sporadici innesti quando va bene. Per poi sorprendersene: anche in Italia c'è il buon classic rock. Fortunatamente non sempre è così tutto nero, e anche un gruppo come gli W.I.N.D. ha i suoi canali di diffusione, non saranno quelli televisivi ma i loro fan sono stati allevati, cresciuti e viziati con l'intensa attività live che portano avanti da anni, suonando in giro per il mondo insieme all'amico AlvinYoungblood Hart, ai Gov't Mule di Warren Haynes, a Johnny Neel e grazie ai buoni dischi di studio, questo è il quinto senza contare collaborazioni e live. Tutto ciò per dire che una realtà rock consolidata, affermata in tutta Europa come la band friulana qualche spazio in più lo meriterebbe dall'alto di una carriera in continua ascesa. Fine dello sfogo.
Se vi avevano detto che il precedente Walkin' In A New Direction (2010) era il miglior disco della loro carriera, aggiornatevi: Temporary Happyness va oltre. A partire dal titolo, come spiega il bassista, cantante e veterano Fabio Drusin nel video del "making of" che potete trovare in rete: "Temporary Happyness perchè la maggior parte dei testi e delle liriche parlano di questa felicità temporanea che la società sta vivendo. Corsa al sistemarsi, corsa all'inutile, mancanza di valori e gioie nelle piccole cose, l'essere distratti per le cose per cui vale la pena vivere mentre invece si è attratti da una vincita momentanea, da un gratta e vinci...". Insomma il mio sfogo iniziale forse ha ragione d'essere.
Passione contro il vuoto che riempie il nulla. La band ancora una volta vince, anche musicalmente. Appena parte Temporary Happiness (la canzone) si capisce quanto l'amore per il soul, il R & B, il funk di New Orleans coltivato negli anni, giochi un ruolo importante nella loro camminata verso nuove direzioni.Trombe, tromboni e sax (Mauro Ottolini e Daniele D'Agaro) e un avvolgente coro gospel (FVG Gospel Choir) imbrattano i muri di black mischiandosi con il rosso carminio del loro hard blues, mentre la canzone acquista sempre più velocità raggiungendo il rutilante finale. Stessa sorte per la gemella e carnale Stand For Your Brother con il suo crescendo che conquista. Canzoni dai sublimi arrangiamenti che sembrano uscite dai leggendari e defunti Muscle Shoals Studios in Alabama mentre invece arrivano direttamente dall'Artesuono Recording Studio di Udine, nord est Italia. Un buon miracolo italiano.
Un disco figlio della totale libertà compositiva-come sempre-dove la differenza tra studio di registrazione e palco è invisibile e inudibile, permettendo l'avventurarsi in canzoni di nove minuti come More Than Myself che hanno il prezioso dono di finire anche troppo presto. Il divertimento di jammare, improvvisare e registrare le emozioni da (quasi) buona alla prima, con il chitarrista-anche cantante in tre brani- Anthony Basso in grande spolvero, libero di dettare i suoi assoli disseminati di asprezza e feeling, e fluidamente presenti in grande quantità lungo tutto il disco.
"E' un disco suonato veramente, non come le produzioni degli ultimi decenni che sono molto trattate in studio, perfette e senza spazio per l'improvvisazione" dice il batterista Silver Bassi. Tutto vero.
Quasi settanta minuti di musica che sanno: stendere con l'hard rock'n' roll alla vecchia maniera di Waiting For Next Friday, (preceduta dal breve intermezzo "di frontiera" acustico e strumentale Social Paranoia) la più tesa, tosta e pesante del disco insieme alla cavalcata torrenziale di otto minuti Born To Ride cantata da Basso; scaldare il cuore come nella southern e dondolante -alla Black Crowes-Dreaming My Life Away, gravida di umori sudisti che preserva un finale con assolo pirotecnico e cori gospel; smuovere il sedere con il basso di Drusin carico di groove nella purpurea Sun Shines Through The Rain e di scalpitante funk in The First Day Of The Rest Of My Life; coccolare come in The Lonely Place Inside, elegiaca ma tranquilla e radiosa ballata verso le highways della libertà.
Fino al finale liquidamente anestetizzante, psichedelico e dilatato di In The Winter Time che non ha bisogno di troppe parole:"In the winter time, in the winter time you said goodbye ".
Maiuscoli e...da prima serata "rock".
vedi anche INTERVISTA ai W.I.N.D. (Fabio Drusin)
vedi anche RECENSIONE: MOJO FILTER- The Roadkill Songs (2013)
vedi anche RECENSIONE: CHEAP WINE-Based On Lies (2012)
vedi anche RECENSIONE: TEDESCHI TRUCKS BAND-Made Up Mind (2013)
Se l'Italia fosse il paese "rock" che non è, un gruppo come i friulani W.I.N.D. suonerebbe in prima serata nei canali della televisione nazionale, come succede in alcuni paesi scandinavi dove il rock (anche quello più estremo) è spesso trattato alla pari del pop, dove un festival di musica Rock tra i migliori d'Europa come lo Sweden Rock Festival è sponsorizzato e sovvenzionato dalla stessa tv di stato. Riuscite a pensare alla Rai fuori dalle logiche sanremesi? Vanno bene i fiori "buoni" raccolti in riviera, ma il resto della flora che cresce intorno alla penisola? In Italia questo non succede, certe logiche sono ancora aliene e il resto della vegetazione sembra quasi erba gramigna da evitare, estirpare o tenere buona con sporadici innesti quando va bene. Per poi sorprendersene: anche in Italia c'è il buon classic rock. Fortunatamente non sempre è così tutto nero, e anche un gruppo come gli W.I.N.D. ha i suoi canali di diffusione, non saranno quelli televisivi ma i loro fan sono stati allevati, cresciuti e viziati con l'intensa attività live che portano avanti da anni, suonando in giro per il mondo insieme all'amico AlvinYoungblood Hart, ai Gov't Mule di Warren Haynes, a Johnny Neel e grazie ai buoni dischi di studio, questo è il quinto senza contare collaborazioni e live. Tutto ciò per dire che una realtà rock consolidata, affermata in tutta Europa come la band friulana qualche spazio in più lo meriterebbe dall'alto di una carriera in continua ascesa. Fine dello sfogo.
Se vi avevano detto che il precedente Walkin' In A New Direction (2010) era il miglior disco della loro carriera, aggiornatevi: Temporary Happyness va oltre. A partire dal titolo, come spiega il bassista, cantante e veterano Fabio Drusin nel video del "making of" che potete trovare in rete: "Temporary Happyness perchè la maggior parte dei testi e delle liriche parlano di questa felicità temporanea che la società sta vivendo. Corsa al sistemarsi, corsa all'inutile, mancanza di valori e gioie nelle piccole cose, l'essere distratti per le cose per cui vale la pena vivere mentre invece si è attratti da una vincita momentanea, da un gratta e vinci...". Insomma il mio sfogo iniziale forse ha ragione d'essere.
Passione contro il vuoto che riempie il nulla. La band ancora una volta vince, anche musicalmente. Appena parte Temporary Happiness (la canzone) si capisce quanto l'amore per il soul, il R & B, il funk di New Orleans coltivato negli anni, giochi un ruolo importante nella loro camminata verso nuove direzioni.Trombe, tromboni e sax (Mauro Ottolini e Daniele D'Agaro) e un avvolgente coro gospel (FVG Gospel Choir) imbrattano i muri di black mischiandosi con il rosso carminio del loro hard blues, mentre la canzone acquista sempre più velocità raggiungendo il rutilante finale. Stessa sorte per la gemella e carnale Stand For Your Brother con il suo crescendo che conquista. Canzoni dai sublimi arrangiamenti che sembrano uscite dai leggendari e defunti Muscle Shoals Studios in Alabama mentre invece arrivano direttamente dall'Artesuono Recording Studio di Udine, nord est Italia. Un buon miracolo italiano.
Un disco figlio della totale libertà compositiva-come sempre-dove la differenza tra studio di registrazione e palco è invisibile e inudibile, permettendo l'avventurarsi in canzoni di nove minuti come More Than Myself che hanno il prezioso dono di finire anche troppo presto. Il divertimento di jammare, improvvisare e registrare le emozioni da (quasi) buona alla prima, con il chitarrista-anche cantante in tre brani- Anthony Basso in grande spolvero, libero di dettare i suoi assoli disseminati di asprezza e feeling, e fluidamente presenti in grande quantità lungo tutto il disco.
"E' un disco suonato veramente, non come le produzioni degli ultimi decenni che sono molto trattate in studio, perfette e senza spazio per l'improvvisazione" dice il batterista Silver Bassi. Tutto vero.
Quasi settanta minuti di musica che sanno: stendere con l'hard rock'n' roll alla vecchia maniera di Waiting For Next Friday, (preceduta dal breve intermezzo "di frontiera" acustico e strumentale Social Paranoia) la più tesa, tosta e pesante del disco insieme alla cavalcata torrenziale di otto minuti Born To Ride cantata da Basso; scaldare il cuore come nella southern e dondolante -alla Black Crowes-Dreaming My Life Away, gravida di umori sudisti che preserva un finale con assolo pirotecnico e cori gospel; smuovere il sedere con il basso di Drusin carico di groove nella purpurea Sun Shines Through The Rain e di scalpitante funk in The First Day Of The Rest Of My Life; coccolare come in The Lonely Place Inside, elegiaca ma tranquilla e radiosa ballata verso le highways della libertà.
Fino al finale liquidamente anestetizzante, psichedelico e dilatato di In The Winter Time che non ha bisogno di troppe parole:"In the winter time, in the winter time you said goodbye ".
Maiuscoli e...da prima serata "rock".
vedi anche INTERVISTA ai W.I.N.D. (Fabio Drusin)
vedi anche RECENSIONE: MOJO FILTER- The Roadkill Songs (2013)
vedi anche RECENSIONE: CHEAP WINE-Based On Lies (2012)
vedi anche RECENSIONE: TEDESCHI TRUCKS BAND-Made Up Mind (2013)
giovedì 7 marzo 2013
RECENSIONE:THE JEFF HEALEY BAND (House On fire: Demos & Rarities)
Gli archivi di Jeff Healey non saranno mai quelli di sua maestà Jimi Hendrix (imperdibile la freschissima uscita di inediti People, Hell & Angels), ma qualcuno in questi anni deve averlo pensato.
Anche se, pure Jeff Healey ha lasciato molto di sè dopo la prematura scomparsa avvenuta a soli 41 anni nel 2008, causata da un inguaribile cancro che lo ha divorato piano piano. Ci ha consegnato il tenero ricordo di un piccolo bambino adottato da una famiglia canadese, cresciuto nei sobborghi di Toronto, che a soli tre anni di età perse la vista- la retinoblastoma fu tra i primi effetti di una malattia che lo ha perseguitato per tutta la vita-ma guadagnò una chitarra in regalo con la quale riuscì a vedere presto il suo cammino futuro, raggiunto con caparbietà e tanto talento durante gli anni. Un esempio. Ha lasciato anche tanta musica ancora da scoprire, è vero, come si desume dai numerosi dischi postumi che stanno uscendo come barbara consuetudine esemplificativa di un mondo musicale senza più troppe regole-anche se in questo caso sembra ci sia dietro la famiglia, il che rincuora (ma non troppo): molti live, raccolte e ristampe, ora questo nuovo House On Fire, interessante e ricco di demos, inediti di studio, cover risalenti al periodo 1992-1995.
Lanciato dal film Road House (con il "buttafuori" del Double Deuce interpretato da Patrick Swayze) che lo vedeva impersonare se stesso insieme alla band-in quel momento ancora emeriti sconosciuti senza album alle spalle- e dallo strepitoso successo del primo ed inarrivabile disco che uscì poco dopo, quel See The Light (1989), concentrato di blues, hard rock e atmosfere rootsy che gli valse il titolo di nuovo guitar hero del blues. Difficile dimenticare la prima volta che vidi Jeff Healey, giovanissimo, biondo con il taglio di capelli mullet e i suoi due fidi musicisti posizionati dietro, la sua band: Joe Rockman al basso e Tom Stephen alla batteria. Un power trio come quelli di una volta. Era il video di See The Light, la title track del debutto. Difficile dimenticare la sua postura sul palco: seduto con la chitarra in grembo appoggiata orizzontalmente sulle gambe, quasi fosse una creatura da svezzare, accarezzare, coccolare e ogni tanto maltrattare, alzandosi in piedi per farne venir fuori sempre il meglio.
Un successo che tentò di bissare immediatamente con il successivo Hell To Pay (1990), dove però perse per strada l'appoggio dei puristi blues, allontanatisi di fronte ad un suono sempre più cromato e pesante che sposava più volentieri l'hard rock/heavy a scapito della tradizione. Ci guadagnò in blasone ospitando importanti ospiti come George Harrison, Jeff Lynne e Mark Knopfler. Con gli anni la sua attenzione si spostò anche verso l'altro grande amore musicale, il jazz e la tromba, mentre l'attenzione del grande pubblico, più in generale, iniziò a scemare piano piano. Il suo nome sembrava essere scomparso o meglio relegato negli angoli persi ma buoni, frequentati solamente dagli appasssionati più attenti e irriducibili. I tempi di quel video rivelatore che passava su MTV erano ormai un ricordo lontanissimo, anche se l'album che stava registrando prima di morire Mess Of Blues (2008),uscito postumo, era un gradito ritorno al blues dopo otto anni di lontananza. Stava tornando.
Interesse rinato a cinque anni dalla prematura scomparsa. Una prassi che non si smentisce. Questa raccolta di inediti ce lo mostra in uno dei momenti di maggiore forma, consapevolezza dei propri mezzi e fama. Gran parte delle nove tracce originali sono canzoni escluse dal terzo album Feel This del 1992, le restanti due sono cover rimaste fuori dall'album Cover To Cover uscito nel 1995, che metteva in fila tutti i suoi idoli e punti di riferimento musicali, dal blues di Jimi Hendrix al pop/rock dei Beatles, fino al country/rock dei CCWR.
Questa raccolta di inediti riesce a toccare tutto il mondo chitarristico di Healey, dandocene un ritratto veritiero quanto più vicino al personaggio: non manca la componente più viscerale e hard (House On Fire, All The Way, la "purpleiana" Daze Of The Night), quella blues (Who's Been Sleepin' In My Bed sostenuta dall'hammond, You Go Your Way,I'll Go Mine), la strumentale (la jazzata e swing Bish Bang Boof), l'intensa vocalità che esce dalle ballads Too Late Now e soprattutto We've Got Tonight di Bob Seger, perchè era anche un buon cantante, pur non raggiungendo il phatos dell'originale. Infine, il grande rispetto, da vero fan, verso i grandi del rock che questa volta si traduce nella cover di Adam Raised A Cain, uno dei pezzi più tirati, aspri e rock di Bruce Springsteen, vera manna per la sua chitarra incendiaria.
Sicuramente per completisti ma vista la buona eterogeneità delle composizioni potrebbe diventare un buon punto di partenza per chi non conoscesse ancora la sfortunata vita del talentuoso Healey.
vedi anche RECENSIONE: JOHNNY WINTER-Roots (2011)
vedi anche RECENSIONE: GEORGE THOROGOOD AND THE DESTROYERS-2120 South Michigan Avenue (2011)
lunedì 4 marzo 2013
RECENSIONE: STEFANO GALLI BAND (Play It Loud!)
STEFANO GALLI BAND Play It Loud! (Autoproduzione, 2013)
Altro buon mattone a consolidare il muro del blues italiano contemporaneo che si fa sempre più alto, spesso e solido. Questa volta viene posato e cementato da Stefano Galli, talentuoso chitarrista orobico che dopo aver suonato nella Robi Zonca Band per diversi anni, palestra che gli ha permesso di girare il mondo, e in diversi dischi tra cui quelli di personaggi come Ronnie Jones, Luther Kent e nel sostanzioso "Wow" degli ultimi Verdena (la lap steel su Canzone Ostinata è sua), nel 2009 trova la giusta esigenza di mettere in piedi la propria band e di provarci. Lo fa, chiamando con sé Bobo Aiolfi al basso, Marco Sacchitella, ex Morblus Band alla batteria ed il raffinato tastierista di estrazione jazzistica Francesco Chebat.
Dopo alcuni anni di sola attività live esce il primo disco Play It Loud!, un concentrato vario e ben riuscito di buona musica tra canzoni autografe e alcune cover impreziosite dal tocco dell'originalità (Mrs. Robinson conquista anche questa volta), ottimamente suonato e arricchito dalla presenza di validi ospiti tutti italiani: la voce di Veronica Sbergia e la chitarra slide di Max De Bernardi nella swingata e provocante leggerezza di Everybody 's Shuffle, il talentuoso chitarrista Francesco Piu reduce da uno degli album più sorprendenti e freschi del 2012 (Ma-moo Tones) che presta la sua slide in I Ride My Car, malinconico e cullante viaggio tra le strade del country/blues, ed il produttore artistico del disco (insieme a Mauro Galbiati) nonché chitarrista di Giuliano Palma & The Bluebeaters Fabio "Sir" Merigo in Can't Find My way Home, scritta da Steve Winwood, acustica e immaginifica canzone estratta dall'unico album del supergruppo Blind Faith (1969), un capolavoro unico ed irripetibile anche per la scandalosa copertina che all'epoca suscitò non poche polemiche.
Se agli ospiti è stata affidata una quieta e rilassante fetta del disco, Play It Loud è un lavoro che sa anche graffiare e lo dimostra fin dall'hard/blues di partenza No Matter What They Say, elettrica con la chitarra incisiva di Galli in primo piano ed un tappeto fluttuante di hammond ad accompagnare o nelle personali riletture di Personal Jesus (Depeche Mode), che abbiamo imparato a risentire in tutte le salse, dalla minimale e tetra versione di Johnny Cash a quella industriale di Marilyn Manson, mentre qui è imbottita di groove bluesy e della canonicità di un classico come It Hurts Me Too, uno standard del blues di Chicago di Elmore James con il pianoforte di Chebat nuovamentete in primissimo piano. Il tastierista si ritaglia sovente il suo spazio, risultando spesso vincente.
Album cangiante e positivo che sa passare dal funk gigione, sardonico, alticcio e divertente che esce da Bad Luck, anticipata da una piccola intro che recupera la celentanesca Azzurro, alla contrapposizione con una Mrs Robinson (Simon & Garfunkel) suonata in punta di dita ma ammaliante come sempre.
Ancora: il solare e sognante viaggio di Never Forget You che prosegue fluida e serena in direzione America insieme al bel episodio quasi blue-collar di Winner, canzone che potrebbe essere un perfetto singolo e sfavillare nelle stazioni radio statunitensi, la strumentale Cecilia con Stefano Galli che sale in cattedra impartendo "feeling" ed una Stomp! carica di soul e R&B con tanto di fiati (Riccardo"Jeeba" Gibertini e Marco Zaghi).
Stefano Galli Band non si rinchiudono mai nel genere. Quello che mi è piaciuto di più è l'approccio estremamente aperto e positivo, rilassato e radioso, esaltato dalle brevi parentesi malinconiche. Blues, è la parola giusta anche questa volta. Un travelling album perfetto da collaudare immediatamente nei lunghi viaggi che accompagnano una primavera ormai alle porte.
vedi anche RECENSIONE: VERONICA SBERGIA & MAX DEBERARDI-Old Stories From Modern Time (2012)
vedi anche RECENSIONE: FRANCESCO PIU- Ma-moo Tones (2012)
vedi anche RECENSIONE: MOJO FILTER- The Roadkill Songs (2013)
vedi anche RECENSIONE: DANIELE TENCA: Wake Up Nation (2013)
Altro buon mattone a consolidare il muro del blues italiano contemporaneo che si fa sempre più alto, spesso e solido. Questa volta viene posato e cementato da Stefano Galli, talentuoso chitarrista orobico che dopo aver suonato nella Robi Zonca Band per diversi anni, palestra che gli ha permesso di girare il mondo, e in diversi dischi tra cui quelli di personaggi come Ronnie Jones, Luther Kent e nel sostanzioso "Wow" degli ultimi Verdena (la lap steel su Canzone Ostinata è sua), nel 2009 trova la giusta esigenza di mettere in piedi la propria band e di provarci. Lo fa, chiamando con sé Bobo Aiolfi al basso, Marco Sacchitella, ex Morblus Band alla batteria ed il raffinato tastierista di estrazione jazzistica Francesco Chebat.
Dopo alcuni anni di sola attività live esce il primo disco Play It Loud!, un concentrato vario e ben riuscito di buona musica tra canzoni autografe e alcune cover impreziosite dal tocco dell'originalità (Mrs. Robinson conquista anche questa volta), ottimamente suonato e arricchito dalla presenza di validi ospiti tutti italiani: la voce di Veronica Sbergia e la chitarra slide di Max De Bernardi nella swingata e provocante leggerezza di Everybody 's Shuffle, il talentuoso chitarrista Francesco Piu reduce da uno degli album più sorprendenti e freschi del 2012 (Ma-moo Tones) che presta la sua slide in I Ride My Car, malinconico e cullante viaggio tra le strade del country/blues, ed il produttore artistico del disco (insieme a Mauro Galbiati) nonché chitarrista di Giuliano Palma & The Bluebeaters Fabio "Sir" Merigo in Can't Find My way Home, scritta da Steve Winwood, acustica e immaginifica canzone estratta dall'unico album del supergruppo Blind Faith (1969), un capolavoro unico ed irripetibile anche per la scandalosa copertina che all'epoca suscitò non poche polemiche.
Se agli ospiti è stata affidata una quieta e rilassante fetta del disco, Play It Loud è un lavoro che sa anche graffiare e lo dimostra fin dall'hard/blues di partenza No Matter What They Say, elettrica con la chitarra incisiva di Galli in primo piano ed un tappeto fluttuante di hammond ad accompagnare o nelle personali riletture di Personal Jesus (Depeche Mode), che abbiamo imparato a risentire in tutte le salse, dalla minimale e tetra versione di Johnny Cash a quella industriale di Marilyn Manson, mentre qui è imbottita di groove bluesy e della canonicità di un classico come It Hurts Me Too, uno standard del blues di Chicago di Elmore James con il pianoforte di Chebat nuovamentete in primissimo piano. Il tastierista si ritaglia sovente il suo spazio, risultando spesso vincente.
Album cangiante e positivo che sa passare dal funk gigione, sardonico, alticcio e divertente che esce da Bad Luck, anticipata da una piccola intro che recupera la celentanesca Azzurro, alla contrapposizione con una Mrs Robinson (Simon & Garfunkel) suonata in punta di dita ma ammaliante come sempre.
Ancora: il solare e sognante viaggio di Never Forget You che prosegue fluida e serena in direzione America insieme al bel episodio quasi blue-collar di Winner, canzone che potrebbe essere un perfetto singolo e sfavillare nelle stazioni radio statunitensi, la strumentale Cecilia con Stefano Galli che sale in cattedra impartendo "feeling" ed una Stomp! carica di soul e R&B con tanto di fiati (Riccardo"Jeeba" Gibertini e Marco Zaghi).
Stefano Galli Band non si rinchiudono mai nel genere. Quello che mi è piaciuto di più è l'approccio estremamente aperto e positivo, rilassato e radioso, esaltato dalle brevi parentesi malinconiche. Blues, è la parola giusta anche questa volta. Un travelling album perfetto da collaudare immediatamente nei lunghi viaggi che accompagnano una primavera ormai alle porte.
vedi anche RECENSIONE: VERONICA SBERGIA & MAX DEBERARDI-Old Stories From Modern Time (2012)
vedi anche RECENSIONE: FRANCESCO PIU- Ma-moo Tones (2012)
vedi anche RECENSIONE: MOJO FILTER- The Roadkill Songs (2013)
vedi anche RECENSIONE: DANIELE TENCA: Wake Up Nation (2013)
venerdì 1 marzo 2013
RECENSIONE: VIA DEL BLUES (World Out There)
VIA DEL BLUES World Out There (autoproduzione, 2013)
In questi ultimi anni le vie del blues "made in Italy" si sono popolate di tanti nuovi giovani gruppi e autori: chi più fedele al verbo e chi più contaminato dalla modernità, chi più acustico e chi più hard, chi più accessibile e chi più impegnato, chi più vistoso e chi più defilato (da Francesco Piu, a Daniele Tenca, passando per i W.I.N.D., dai The Cyborgs ai Bud Spencer Blues Explosion per rimanere ai primi nomi che mi vengono in mente). Il tutto non può essere che un segnale gradito e positivo. Vie che dopo anni vissuti ai margini, grazie alla passione di pochi ma buoni veterani (da Fabio Treves in avanti) sembrano aver trovato la sbocco principale, quello che attraversa il grande pubblico, magari anche quello più distratto, giovane e poco avvezzo a certi suoni tradizionali. Giovani amanti della musica che fra qualche anno, ne sono certo-è quasi un processo fisiologico-torneranno a camminare a ritroso cercando le radici e l'anima del rock ormonale della loro adolescenza e (magari) sulla loro strada, prima di arrivare alla partenza nei pressi dei crossroads polverosi di Chicago, incroceranno una via dal nome semplice ed esplicito chiamata Via Del Blues, che non è quella che da Chicago porta a New Orleans, ma quella autoctona che porta diritti verso la Puglia.
E' il 1969 quando i giovani Dino Panza e Gino Giangregorio, quella strada, tra la mappa di Bari e la cartina passionale del cuore, l'avevano già trovata tanto da farla diventare il nome del gruppo e della loro esperienza di vita. Perchè il blues è soprattutto vita. Uno dei primi gruppi "blues" del sud Italia, con il solo articolo "La" in più nel monicker.
Certo, negli anni sessanta le proposte originali e i modelli da seguire erano tanti e di prima grandezza, il blues tradizionale americano aveva messo radici anche in Inghilterra contaminandosi con il rock: i Rolling Stones rapiti dai vinili della Chess Records, gli Yardbirds fucina di talenti chitarristici, mentre dagli States anche Jimi Hendrix, che stava allevando i suoi futuri adepti, si sposta a respirare l'aria di Londra. In quell'anno, quasi cruciale per il rock, uscirono dischi importanti e fondamentali. Difficile non legarsi e amare certi dischi e suoni oggi, figuriamoci allora, vivendo il momento in presa diretta. La grande passione fece il resto e fu subito come uno "sparo di pistola" andato a segno (Shot Of A Gun).
World Out There è solamente il quarto disco della band barese (Trouble Trouble-2003, Let The Band play!-2005, Another Way-2009) che con gli anni ha accumulato oltre ad una grande dose di esperienza live (tanti festival alle spalle, tra cui la recente apertura per il "gigantesco" Poppa Chubby nel 2011), anche diverse fasi musicali e formazioni, aggiungendo al proprio blues tutte le sfumature possibili e arrivando alla formula odierna condotta con classe, tra rigore e qualche svisata modernista.
Registrato quasi interamente in presa diretta, si compone di 11 canzoni originali che partono dalla dichiarazione totalitaria d'amore e d'intenti verso il genere nell'iniziale e sussultoria (Like The) Shot Of A Gun, vera carta d'identità del gruppo dove si tirano in ballo (anche nel testo) Stevie Ray Vaughan, Jimi Hendrix e l'amato Rory Gallagher. Lo sparo del blues che colpisce a colpo sicuro.
Dopo aver dato fuoco alle polveri e fatte le presentazioni, seguono la marpiona Big Dave sempre con l'armonica in grande evidenza come in tutto il disco, più di un semplice accompagnamento ma vera protagonista. "Lo strumento più bluesy" secondo il credo di Dino Panza. La chitarra sempre ispirata dell'altro veterano Gino Giangregorio, chitarrista che sa affondare come nella rockata e claptiana dagli umori sudisti Dose, come giocare di fino negli assoli (la canonicità di Just So Blues, la delicata The Fox, la sognante Strong And Wise), la voce profonda e blacky del cantante Gaetano Quarta che ci regala tutte le gradazioni della sua ugola nell'intimista e notturna Strong And Wise, ed una sezione ritmica (gli ultimi entrati in formazione Luigi Catella al basso, Marco Barile alla batteria) presente ed in primissimo piano come riscontrabile in Same Ol'Sound, e nel vivacissimo e veloce funk The Fox (ispirata dalla favola di Esopo "la volpe e l'uva").
I chiaro scuri crepuscolari di I Bent Hit Too Hard, rilettura di un brano dei Doorway (progetto del chitarrista Giangregario) dove un piano fa la sua comparsa, l'omaggio al vecchio suono blues di Same Ol'Sound e la bella Best Friend con il suo breve inizio acustico che richiama verande in legno con paesaggi da Mississippi sullo sfondo, e i boogie più movimentati e scatenati di My Bad Luck e della traccia finale dal tiro rock'n'roll di V.D.B. Boogie che legano il sound alla tradizione, sono l'esempio della versatilità di una band con le idee sempre chiare e la strada ben segnata e rettilinea: la passione prima di tutto, senza eccessi e spreco di voci gridate. Passione che paga sempre se unita all'onestà presente anch'essa in grande quantità, e anche le loro foto sembrano parlare chiaro.
vedi anche RECENSIONE: FRANCESCO PIU-Ma Moo Tones (2012)
vedi anche RECENSIONE: MOJO FILTER-Roadkill Songs (2013)
vedi anche RECENSIONE: HERNANDEZ & SAMPEDRO-Happy Island (2013)
vedi anche RECENSIONE: DANIELE TENCA-Wake Up Nation (2013)
In questi ultimi anni le vie del blues "made in Italy" si sono popolate di tanti nuovi giovani gruppi e autori: chi più fedele al verbo e chi più contaminato dalla modernità, chi più acustico e chi più hard, chi più accessibile e chi più impegnato, chi più vistoso e chi più defilato (da Francesco Piu, a Daniele Tenca, passando per i W.I.N.D., dai The Cyborgs ai Bud Spencer Blues Explosion per rimanere ai primi nomi che mi vengono in mente). Il tutto non può essere che un segnale gradito e positivo. Vie che dopo anni vissuti ai margini, grazie alla passione di pochi ma buoni veterani (da Fabio Treves in avanti) sembrano aver trovato la sbocco principale, quello che attraversa il grande pubblico, magari anche quello più distratto, giovane e poco avvezzo a certi suoni tradizionali. Giovani amanti della musica che fra qualche anno, ne sono certo-è quasi un processo fisiologico-torneranno a camminare a ritroso cercando le radici e l'anima del rock ormonale della loro adolescenza e (magari) sulla loro strada, prima di arrivare alla partenza nei pressi dei crossroads polverosi di Chicago, incroceranno una via dal nome semplice ed esplicito chiamata Via Del Blues, che non è quella che da Chicago porta a New Orleans, ma quella autoctona che porta diritti verso la Puglia.
E' il 1969 quando i giovani Dino Panza e Gino Giangregorio, quella strada, tra la mappa di Bari e la cartina passionale del cuore, l'avevano già trovata tanto da farla diventare il nome del gruppo e della loro esperienza di vita. Perchè il blues è soprattutto vita. Uno dei primi gruppi "blues" del sud Italia, con il solo articolo "La" in più nel monicker.
Certo, negli anni sessanta le proposte originali e i modelli da seguire erano tanti e di prima grandezza, il blues tradizionale americano aveva messo radici anche in Inghilterra contaminandosi con il rock: i Rolling Stones rapiti dai vinili della Chess Records, gli Yardbirds fucina di talenti chitarristici, mentre dagli States anche Jimi Hendrix, che stava allevando i suoi futuri adepti, si sposta a respirare l'aria di Londra. In quell'anno, quasi cruciale per il rock, uscirono dischi importanti e fondamentali. Difficile non legarsi e amare certi dischi e suoni oggi, figuriamoci allora, vivendo il momento in presa diretta. La grande passione fece il resto e fu subito come uno "sparo di pistola" andato a segno (Shot Of A Gun).
World Out There è solamente il quarto disco della band barese (Trouble Trouble-2003, Let The Band play!-2005, Another Way-2009) che con gli anni ha accumulato oltre ad una grande dose di esperienza live (tanti festival alle spalle, tra cui la recente apertura per il "gigantesco" Poppa Chubby nel 2011), anche diverse fasi musicali e formazioni, aggiungendo al proprio blues tutte le sfumature possibili e arrivando alla formula odierna condotta con classe, tra rigore e qualche svisata modernista.
Registrato quasi interamente in presa diretta, si compone di 11 canzoni originali che partono dalla dichiarazione totalitaria d'amore e d'intenti verso il genere nell'iniziale e sussultoria (Like The) Shot Of A Gun, vera carta d'identità del gruppo dove si tirano in ballo (anche nel testo) Stevie Ray Vaughan, Jimi Hendrix e l'amato Rory Gallagher. Lo sparo del blues che colpisce a colpo sicuro.
Dopo aver dato fuoco alle polveri e fatte le presentazioni, seguono la marpiona Big Dave sempre con l'armonica in grande evidenza come in tutto il disco, più di un semplice accompagnamento ma vera protagonista. "Lo strumento più bluesy" secondo il credo di Dino Panza. La chitarra sempre ispirata dell'altro veterano Gino Giangregorio, chitarrista che sa affondare come nella rockata e claptiana dagli umori sudisti Dose, come giocare di fino negli assoli (la canonicità di Just So Blues, la delicata The Fox, la sognante Strong And Wise), la voce profonda e blacky del cantante Gaetano Quarta che ci regala tutte le gradazioni della sua ugola nell'intimista e notturna Strong And Wise, ed una sezione ritmica (gli ultimi entrati in formazione Luigi Catella al basso, Marco Barile alla batteria) presente ed in primissimo piano come riscontrabile in Same Ol'Sound, e nel vivacissimo e veloce funk The Fox (ispirata dalla favola di Esopo "la volpe e l'uva").
I chiaro scuri crepuscolari di I Bent Hit Too Hard, rilettura di un brano dei Doorway (progetto del chitarrista Giangregario) dove un piano fa la sua comparsa, l'omaggio al vecchio suono blues di Same Ol'Sound e la bella Best Friend con il suo breve inizio acustico che richiama verande in legno con paesaggi da Mississippi sullo sfondo, e i boogie più movimentati e scatenati di My Bad Luck e della traccia finale dal tiro rock'n'roll di V.D.B. Boogie che legano il sound alla tradizione, sono l'esempio della versatilità di una band con le idee sempre chiare e la strada ben segnata e rettilinea: la passione prima di tutto, senza eccessi e spreco di voci gridate. Passione che paga sempre se unita all'onestà presente anch'essa in grande quantità, e anche le loro foto sembrano parlare chiaro.
vedi anche RECENSIONE: FRANCESCO PIU-Ma Moo Tones (2012)
vedi anche RECENSIONE: MOJO FILTER-Roadkill Songs (2013)
vedi anche RECENSIONE: HERNANDEZ & SAMPEDRO-Happy Island (2013)
vedi anche RECENSIONE: DANIELE TENCA-Wake Up Nation (2013)