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lunedì 4 marzo 2013

RECENSIONE: STEFANO GALLI BAND (Play It Loud!)

STEFANO GALLI BAND  Play It Loud! (Autoproduzione, 2013)

Altro buon mattone a consolidare il muro del blues italiano contemporaneo che si fa sempre più alto, spesso e solido. Questa volta viene posato e cementato da Stefano Galli, talentuoso chitarrista orobico che dopo aver suonato nella Robi Zonca Band per diversi anni, palestra che gli ha permesso di girare il mondo, e in diversi dischi tra cui quelli di personaggi come Ronnie Jones, Luther Kent e nel sostanzioso "Wow" degli ultimi Verdena (la lap steel su Canzone Ostinata è sua), nel 2009 trova la giusta esigenza di mettere in piedi la propria band e di provarci. Lo fa, chiamando con sé Bobo Aiolfi al basso, Marco Sacchitella, ex Morblus Band alla batteria ed il raffinato tastierista di estrazione jazzistica Francesco Chebat.
Dopo alcuni anni di sola attività live esce il primo disco Play It Loud!un concentrato vario e ben riuscito di buona musica tra canzoni autografe e alcune cover impreziosite dal tocco dell'originalità (Mrs. Robinson conquista anche questa volta), ottimamente suonato e arricchito dalla presenza di validi ospiti tutti italiani: la voce di Veronica Sbergia e la chitarra slide di Max De Bernardi nella swingata e provocante leggerezza di Everybody 's Shuffle, il talentuoso chitarrista Francesco Piu reduce da uno degli album più sorprendenti e freschi del 2012 (Ma-moo Tones) che presta la sua slide in I Ride My Car, malinconico e cullante viaggio tra le strade del country/blues, ed il produttore artistico del disco (insieme a Mauro Galbiati) nonché chitarrista di Giuliano Palma & The Bluebeaters Fabio "Sir" Merigo in Can't Find My way Home, scritta da Steve Winwood, acustica e immaginifica canzone estratta dall'unico album del supergruppo Blind Faith (1969), un capolavoro unico ed irripetibile anche per la scandalosa copertina che all'epoca suscitò non poche polemiche.
Se agli ospiti è stata affidata una quieta e rilassante fetta del disco, Play It Loud è un lavoro che sa anche graffiare e lo dimostra fin dall'hard/blues di partenza No Matter What They Say, elettrica con la chitarra incisiva di Galli in primo piano ed un tappeto fluttuante di hammond ad accompagnare o nelle personali riletture di Personal Jesus (Depeche Mode), che abbiamo imparato a risentire in tutte le salse, dalla minimale e tetra versione di Johnny Cash a quella industriale di Marilyn Manson, mentre qui è imbottita di groove bluesy e della canonicità di un classico come It Hurts Me Too, uno standard del blues di Chicago di Elmore James con il pianoforte di Chebat nuovamentete in primissimo piano. Il tastierista si ritaglia sovente il suo spazio, risultando spesso vincente.
Album cangiante e positivo che sa passare dal funk gigione, sardonico, alticcio e divertente che esce da Bad Luck, anticipata da una piccola intro che recupera la celentanesca Azzurro, alla contrapposizione con una Mrs Robinson (Simon & Garfunkel) suonata in punta di dita ma ammaliante come sempre.
Ancora: il solare e sognante viaggio di Never Forget You che prosegue fluida e serena in direzione America insieme al bel episodio quasi blue-collar di Winner, canzone che potrebbe essere un perfetto singolo e sfavillare nelle stazioni radio statunitensi, la strumentale Cecilia con Stefano Galli che sale in cattedra impartendo "feeling" ed una Stomp! carica di soul e R&B con tanto di fiati (Riccardo"Jeeba" Gibertini e Marco Zaghi).
Stefano Galli  Band non si rinchiudono mai nel genere. Quello che mi è piaciuto di più è l'approccio estremamente aperto e positivo, rilassato e radioso, esaltato dalle brevi parentesi malinconiche. Blues, è la parola giusta anche questa volta. Un travelling album perfetto da collaudare immediatamente nei lunghi viaggi che accompagnano una primavera ormai alle porte.


vedi anche RECENSIONE: VERONICA SBERGIA & MAX DEBERARDI-Old Stories From Modern Time (2012)



vedi anche RECENSIONE: FRANCESCO PIU- Ma-moo Tones (2012)




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