PAOLO NUTINI Last Night In The Bittersweet (Atlantic, 2022)
quando un disco è bello non ha bisogno di etichette. E Last Night In The Bittersweet è bello!
Paolo Nutini ha sempre avuto tutto dalla sua parte: una voce incredibilmente soul (ah quelle voci bluesy scozzesi!), una rara capacità di scrittura pop, l'indole e il carisma per arrivare all'ascoltatore più distratto. La presenza. Nonostante tutto, partendo dalle cose più facili ottenute con il minimo sforzo in gioventù, negli anni non ha mai smesso di crescere, sperimentare, imboccare nuove strade che partendo da una buona base pop potessero raggiungere altri generi. Il percorso inverso di tanti altri. Last Night In Bittersweet esce a ben otto anni dal suo ultimo disco Caustic Love (che fu una dichiarazione d'amore per il soul) e tocca il vertice di questa sua instancabile, preziosa ricerca -e crescita- che se volessimo delimitare da due punti fermi dentro a questo disco si potrebbero visualizzare concretamente nel crescendo soul di 'Through The Echoes' al battito elettro di kraut rock in 'Lose It'. Il passato e il futuro. Tutto il presente dentro.
In mezzo 70 minuti di canzoni scritte in modo sublime che non danno troppi punti di riferimento ma ottengono punti al valore. Scritte e suonate in modo impeccabile nuotando con disinvoltura dentto una vasta gamma di emozioni e turbolenze che ha raccolto negli otto anni di assenza discografica: gli anni settanta di 'Everywhere' e 'Children Of The Stars' con belle chitarre e tutta quella brezza West coast che ci soffia sopra, una 'Radio' che non dispiacerebbe al canzoniere di Ryan Adams, il country folk alla Johnny Cash di 'Abigail', un inno alla felicità da (ri)trovare, la psichedelia di 'Heart Filled Up', la marzialità indie rock di 'Shine A Light', la ballata al pianoforte 'Julienne', una piccola gemma, che potrebbe essere il vero anello di congiunzione tra Paul McCartney e John Lennon più introspettivi, il tranquillo folk finale di 'Writer' che va a cozzare con 'Afterneath' il modo quasi violento e disturbato, con i suoi gorgheggi alla Robert Plant, con il quale il disco si apre e che contiene un dialogo rubato al film True Romance (Una Vita Al Massimo) sceneggiato da Quentin Tarantino.
Un disco in movimento, ricco di spunti, certamente ambizioso, che non contiene tormentoni (come lo furono in passato 'New Shoes' e 'Candy') che potrebbe insegnare molto a tanti nomi più blasonati e sulla breccia da decenni su come si possano portare a termine settanta minuti di musica senza perdersi per strada. Certo ci sono voluti otto anni ma ne è valsa la pena.
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