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lunedì 29 gennaio 2018

RECENSIONE: JOE PERRY (Sweetzerland Manifesto)



JOE PERRY     Sweetzerland Manifesto (Roman Records, 2018)





Il chitarrista manda Terry Reid e David Johansen in prima fila: un piacevole disco virato blues.

Se il primo disco solista di Steven Tyler, uscito due anni fa mi lasciò l’amaro in bocca, perso com’era in un country pop con poco mordente e da sbadiglio facile, con JOE PERRY si è sempre andati sul sicuro (più o meno) fin dal Joe Perry Project nei primi anni ottanta, passando dagli altri due album solisti JOE PERRY (2005) e HAVE GUITAR, WILL TRAVEL (2009). Una chitarra, imitata e che ha lasciato un segno. Basterebbe soffermarsi sui nomi dei cantanti che lo accompagnano in questa nuova avventura fuori dagli AEROSMITH per capire che qui si fa sul serio. Nulla per stupire ma abbastanza per accontentare i rocker duri e puri di vecchia data, orfani da ormai troppo tempo da un disco a nome Aerosmith che meriti. A proposito: ma il futuro della band di Boston qual è? C’è TERRY REID, una voce incredibile (nel bel blues ‘I’ll Do Happiness’ con Zak Starkey dietro le pelli, nella ritmata ‘Sick And Tired’, nel marziale hard rock dominato dalla chitarra ‘ Won’t Let Me Go’in chiusura del disco) personaggio corteggiato dai più grandi gruppi hard rock degli anni settanta ma che ha sempre preferito una carriera defilata, ai margini del rock system. C’è DAVID JOHANSEN (New York Dolls) che non ha bisogno di troppe presentazioni e gioca bene le sue carte da trasformista: fa il crooner nell’acustica ‘I Wanna Roll’, mentre nei canonici Chicago blues ‘Haberdasher Blues’ e ‘I’m Going Crazy’ si trasforma in un vecchio blues man cimentandosi anche all’armonica. Infine ROBIN ZANDER (Cheap Trick) nella traccia più scatenata e divertente del disco, un rock’n’roll ad alto voltaggio ‘Aye, Aye, Aye’ che rimanda agli Aerosmith anni settanta. Rimangono una poco convincente cover di ‘Eve Of Destruction’  portata al successo da Barry Mcguire e cantata dallo stesso Joe Perry con JOHNNY DEPP alla batteria, già compagno di band nei Hollywood Vampires insieme ad Alice Cooper, e le due strumentali (poco riuscite pure queste per la verità) dai forti sapori esotici: l’apertura afro tribale affidata a ‘Rumble In The Jungle’ e la più moderna ‘Spanish Sushi’ carica di synth che trova riuniti anche i due figli di Perry, Tony e Roman. Insomma, quando si va sul sicuro con i cantanti davanti il disco viaggia che è un piacere. E dire che era nato per essere un disco di sole canzoni strumentali…




sabato 20 gennaio 2018

RECENSIONE: CORROSION OF CONFORMITY (No Cross No Crown)

 CORROSION OF CONFORMITY  No Cross No Crown (Nuclear Blast, 2018)









1995. Megadeth in concerto al Forum di Assago. Era il tour di Youthanasia e ad aprire c’erano i CORROSION OF CONFORMITY, ancora reduci da quel Deliverance che non ho difficoltà a indicare come uno dei miei dischi preferiti di tutti gli anni novanta. Devo essere sincero: ero lì più per loro che per Dave Mustaine. Prima dell’inizio mi comprai pure la t.shirt della band di Pepper Keenan e soci, quella originale, pagata salatissima. Ma era proprio figa per lasciarla lì. Con me ho uno zainetto e la t-shirt rimase lì dentro per tutto il concerto, al sicuro, anche quando, dopo sole due canzoni e guadagnato un buon posto nelle prime file, qualcuno si appoggiò a me, aggrappandosi ad una tracolla dello zaino che naturalmente si ruppe, trascinandomi a terra. Presi qualche inevitabile scarpata, qualcuno mi camminò sopra, ma mi rialzai combattivo e vendicativo più che mai. La forza dei vent’anni. Passarono soli pochi secondi e realizzai che con lo zaino rotto non potevo fare molto altro se non piazzarmi in un angolo e godermi i concerti in tutta tranquillità. Ma con la rabbia in corpo. Da allora, per molti anni e concerti dopo, entrò in vigore una legge non scritta: mai più zaini ai concerti!

1996, un solo anno dopo. Concerto dei Metallica sempre al Forum di Assago. Anche questa volta ci sono i Corrosion Of Conformity in apertura. I Metallica a promuovere Load (che per assurdo voleva scimmiottare i COC) i COC hanno il nuovo Wiseblood. Io non ho più lo zainetto con me, ma anche questa volta non riesco a godermi il concerto come vorrei. Il palco dei Metallica era al centro del parterre, occupando di fatto quasi tutta l’area, io lassù in alto nelle tribune, ma più avanti capii il perché. A metà concerto vidi una delle cose più tamarre di sempre: fu simulato un finto incidente con tanto di scoppi, crollo del palco, finti operatori luce che piombavano a terra come marionette e musicisti che se la davano a gambe. Qualcuno tra il pubblico ci cascò e imboccò la via d’uscita. I Metallica riapparvero dopo cinque minuti a centro palco, illuminati da quattro lampadine: un ritorno ai garage days. Cazzo, non potevano fare tutto il concerto così? Sta di fatto che dopo l’11 Settembre una cosa così sarebbe punita con la galera. Sì ma i Corrosion Of Conformity? Mai pervenuti. Visti dalla tribuna, sto ancora aspettando ora che arrivino i suoni. I Metallica si presero tutta la scena, palco compreso.

2012. I Corrosion of Conformity vicino a casa (al Rock And Roll Arena di Romagnano Sesia)! Figo dico io, consapevole del fatto che non sono quelli con Pepper Keenan, impegnato in pianta stabile con i Down di Phil Anselmo, ma la prima formazione a tre, quella legata all’hardcore dei primi album. Poche tracce degli anni novanta, un tour per ricordare gli inizi. Concerto senza infamia e senza lode.

2018. Ritornano con la formazione di Deliverance: Pepper Keenan ritorna alla chitarra e voce dopo quattordici anni, Woody Weatherman, Mike Dean sono sempre al loro posto (chitarra e basso) e Reed Mullin siede alla batteria. Il disco NO CROSS NO CROWN (titolo ispirato da una chiesa inglese del 1700 dove suonarono in tour), registrato in North Carolina in 40 giorni con il fido John Custer alla produzione (sporca e molto differente dagli anni novanta) e Keenan che faceva la spola dalla sua abitazione a New Orleans, dai primi ascolti, sembra promettere bene, sporco e paludoso il giusto: un concentrato di nero sabbathiano anni settanta (‘Wolf Named Crow’, ‘Nothing Left To Say’ cita dichiaratamente Planet Caravan nei momenti di lisergica quiete), doom (‘A Quest To Believe’), accenti southern rock (‘Little Man’) e stoner groove (‘Forgive Me’, ‘Disaster’ ricorda i Trouble) come ai vecchi tempi, ci sono pure i brevi intermezzi acustici tra un brano l’altro e una cover regalata alla fine, ‘Son And Daughter’ dei primissimi Queen. Ma la domanda è una sola: riuscirò finalmente a vederli nelle condizioni ottimali, da headliner, senza zainetto, senza palchi che crollano e setlist perfetta?



mercoledì 17 gennaio 2018

RECENSIONE: THOM CHACON (Blood In The USA)


THOM CHACON    Blood In The USA (Appaloosa/IRD, 2018)





Sangue metà libanese, metà messicano, nato a Sacramento ma proveniente da Durango, un vecchio cugino pugile, Bobby Chacon, avversario di quel Ray “Boom Boom” Mancini cantato da Warren Zevon e un nonno sceriffo nel New Mexico ai tempi di Billy The Kid. Basterebbero tutte queste coordinate per capire quanto per Thom Chacon i confini non siano alti muri invalicabili ma semplici linee da attraversare con curiosità e speranza in cerca di buone opportunità. Questo nuovo disco esce a distanza di ben cinque anni dal precedente. Tanto tempo. Era nel cassetto da ben due anni ma vede la luce solamente ora, non perdendo assolutamente nulla in attualità, anzi, le tematiche delle sue canzoni sembrano ancor più radicate nel presente di questi Stati Uniti targati scelleratamente Donald Trump. Anche questa volta non cerca troppi colpi ad effetto. Preferisce raccontare quell’America che una volta chiamavamo nascosta e invisibile, quella che qualcuno vorrebbe nascondere sotto il tappeto buono delle feste: canzoni corte, stringate (nove canzoni per ventisette minuti), minimali e senza orpelli, costruite intorno ad una chitarra acustica e un’armonica, senza gridare, dove i protagonisti sono sempre gli emarginati, i lavoratori senza più lavoro (‘Union Town’) e quelli con pochi diritti (‘Work At Hand’), la disperazione dei contadini dimenticati nei loro campi (‘Empty Pockets’), gli immigrati messicani erranti tra i confini (‘I Am An Immigrant’), la disillusione, le terre promesse che tradiscono e non accolgono più (‘Blood In The USA’), le speranze (‘Easy Heart’, ‘Big As The Moon’), quelle ci sono ancora, guai se mancassero.. Il suo è un folk antico, agrodolce, cantato con voce aspra e profonda che ricorda l’ultimo John Mellencamp e Ryan Bingham, che guarda al passato, ispirandosi ai più grandi songwriter americani come John Prine, Bob Dylan, Steve Earle, lo Bruce Springsteen di The Ghost Of Tom Joad, Townes Van Zandt, il sempre dimenticato Jim Croce, e Tom Russell. Non sono paragoni, sono punti di riferimento. Nessun colpo ad effetto ( chi li vuole?) ma onesta solidità cantautorale senza scadenze, sempre dura a morire.




lunedì 15 gennaio 2018

RECENSIONE: CHEAP WINE (Dreams)


CHEAP WINE-Dreams (Cheap Wine Records, 2017)






 è ora di sognare
Ormai dei veterani del rock italiano, i pesaresi Cheap Wine non hanno bisogno di troppe presentazioni così come non sono mai venuti a compromessi con niente e nessuno: la scelta di continuare ad autoprodursi, con il basilare aiuto del crowdfunding questa volta, dopo anni (e sono venti!) non può che deporre a loro favore quando si tratta di misurarne il livello d’indipendenza. Anche se mi piace immaginare le lotte con i mostri là fuori, pronti ad avanzare indecenti compromessi per fare il grande salto mainstream nell’epoca in cui un contratto discografico non lo si nega nemmeno all’ultimo dei concorrenti di un talent. I Cheap Wine rimangono duri e puri. Così come la loro musica. DREAMS è il disco che conclude la trilogia iniziata da BASED ON LIES (2012), proseguita con BEGGAR TOWN (2014) e intervallata dall’originale e bel disco dal vivo MARY AND THE FAIRY uscito nel 2015 che metteva completamente a nudo la loro vera anima musicale costruita su un approccio al rock libero e incontaminato che solo i grandi dalla forte personalità possono permettersi, e la band dei fratelli Marco e Michele Diamantini (Andrea Giaro al basso, Alan Giannini alla batteria e con il sempre più riconoscibile e indispensabile tocco di Alessio Raffaelli alle tastiere) rientra a pieno merito nella categoria dei grandi. L’ascolto di due canzoni come ‘Pieces Of Disquiet’ e dell’iniziale ‘Full Of Glow’ potrebbero bastare per descrivere il loro approccio alla musica lontano da qualsiasi etichetta se non un semplice e inclusivo “rock”: la prima avanza con il passo lento, sinuoso, scuro e avvolgente, quasi pinkfloydiana nella struttura, la seconda è un attacco di chitarre fiero e indipendente a metà strada tra gli Heartbreakers di Tom Petty, i Dream Syndicate i gli amati Green On Red. Dopo aver lottato con le menzogne e camminato tra le rovine, i personaggi delle loro canzoni iniziano a lanciare lo sguardo oltre il grigio. Il pezzo mancante della trilogia sono i sogni: il futuro inizia a schiarirsi, colorarsi e fiorire. La copertina del disco , sempre curatissimo il lavoro che c'è dietro, lo annuncia in anticipo. Sognare non è più vietato, sperare è un dovere. Che sia di buon auspicio per il 2018 e oltre.




lunedì 8 gennaio 2018

DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 52: DUST (Dust)

DUST  Dust (1971)







Marc Bell (il futuro Marky Ramone) e Kenny Aaronson sono poco più che adolescenti quando si conoscono tra i banchi di scuola. Uno suona la batteria, l'altro il basso, dai libri alla prima band il passo sarà brevissimo, tanto quanto la nascita dei Dust nel 1969 con i più esperti Richie Wise alla chitarra e voce e Kenny Kerner a fare da guida, mentore, produttore e paroliere. I Dust si formano per le strade di Brooklyn a New York e DUST, il primo disco, è qualcosa di molto potente per l’epoca: “guardando al passato, i Dust possono essere annoverati tra le prime band americane di Heavy Metal, eravamo influenzati da quello che succedeva in Gran Bretagna, ma non c’erano altre band in America che facevano quello che facevamo noi” racconterà Marky Ramone nel 2013.
Ascoltando il sulfureo incedere hard blues di ‘From A Dry Camel’ è impossibile non citare i Black Sabbath tra le principali influenze ma in mezzo ai cangianti dieci minuti della canzone ci sono anche i futuri semi che vent’anni dopo saranno raccolti e seminati nuovamente nei deserti di Palm Springs dal movimento stoner-la canzone che vale il disco- , anche ‘Love Me Hard’ aggredisce di chitarre ma è più snella e veloce, l’apertura ‘Stone Woman’ è un blues urgente dominato dalla slide tanto quanto il più canonico di ‘Goin Easy’. 'Chasin’ Ladies’ sembra seguire le grandi orme lasciate dai Mountain di Leslie West, ‘Open Shadows Felt’ è una ballata che prende forma tra i fumi psichedelici e che cresce nella distanza, mentre la finale ‘Loose Goose’ è un tirato rock'n'roll strumentale suonato alla velocità della luce e aperto alle lunghe jam. “Quando ho incontrato Marc Bell per la prima volta non credevo che qualcuno potesse suonare la batteria in modo così hard e veloce” dirà Kenny Kerner.
Dust sarà replicato l’anno dopo da HARD ATTACK, per certi versi anche meglio del debutto per produzione e scrittura, acquistando pure inaspettati toni epici ben rappresentati anche dalla copertina, opera di Frank Frazetta. Poi, per ogni componente ci sarà un futuro roseo ma non sotto il nome Dust che invece rimarrà solo un culto per pochi racchiuso e impolverato dentro a due soli dischi. Se non li conoscete e avete buon fiato, soffiate sulla polvere e scopriteli.



PUNTATE PRECEDENTI
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #18: BOB DYLAN-Street Legal (1978)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #19- CRAZY HORSE-Crazy Horse (1971)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #20-TOM PETTY-Wildflowes/Echo (1994/1999)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #21-NICOLETTE LARSON-Nicolette (1978)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #22-AMERICA-Silent Letter (1979)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #23-ERIC ANDERSEN-Blue River (1972)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #24-BADLANDS-Voodo Highway (1991)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #25-GEORGE HARRISON-Living In The Material World (1973)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA#26: DAVID CROSBY GRAHAM NASH-Wind On The Water (1975)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #27: DICKEY BETTS & GREAT SOUTHERN (1977)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #28: JUNKYARD-Junkyard (1989)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #29: STEPHEN STILLS (1970)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #30: RITMO TRIBALE-Bahamas (1999)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #31: SUZI QUATRO-Suzi Quatro (1973)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #32: BADFINGER (1970)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #33:RONNIE LANE'S SLIM CHANCE    One For The Road (1976)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #34: EDOARDO BENNATO- Edo Rinnegato (1990)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #35: GENE CLARK-White Light (1971)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #36: JOHNNY WINTER-Second Winter (1969)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #37: CAPTAIN BEYOND-Captain Beyond (1972)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #38: ROD STEWART-Every Picture Tells a Story (1972)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #39: GEORGE THOROGOOD & DESTROYERS-Bad To The Bone (1982)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #40: THE ROLLING STONES-Their Satanic Majesties Request (1967)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #41: ALBERTO FORTIS (1979)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #42: NOMADI-Gente Come Noi (1991)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #43: CROSBY, STILLS & NASH-Daylight Again (1982)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #44: TERRY REID (River)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #45: JACKSON BROWNE-Running On Empty (1977)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #46: THE ROLLING STONES-Emotional Rescue (1980)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #47:TOM PETTY-Highway Companion (2006)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #48:STEVE FORBERT-Alive On Arrival (1978)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #49:CRY OF LOVE -Brother (1993)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #50:THE BLACK CROWES-By Your Side (1999 )
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #51: NEIL YOUNG-Re-Ac-Tor (1980)

giovedì 4 gennaio 2018

RECENSIONE: MAVIS STAPLES (If All I Was Was Black)


MAVIS STAPLES  If All I Was Was Black (ANTI, 2017)





non c'è tempo per piangere
Pochi sanno mettersi in gioco così bene superata una certa soglia di anni (non si svelano gli anni delle signore e comunque c’è sempre wikipedia per i più curiosi). Se poi sei già entrata nella leggenda della musica gospel soul con tutta la famiglia, che bisogno hai di confrontarti con i più giovani? Mavis Staples no, è un’artista che ha sempre vissuto tra le note alte, sa il fatto suo e sembra averci preso mano e (buon) gusto. I lusinghieri riscontri hanno dato coraggio ulteriore e la classe è sempre tanta, tantissima. Dopo le cure di Ry Cooder (WE’LL NEVER TURN BACK rimane per me insuperato), l’anno scorso si mise nelle mani di M. Ward (cantautore e produttore, vi ricordate il progetto Monsters Of Folk con Conor Oberst?) per interpretare canzoni scritte appositamente per lei da diversi autori, tra cui spiccava una ‘Jesus Lay Down Beside Me’ scritta da Nick Cave. Un disco più leggero del solito. Purtroppo, o fortunatamente per l’ispirazione artistica, è capitato che un certo Donald Trump si sia messo sulla strada (proprio lo stesso che pochissimi giorni fa si è messo a scherzare sul riscaldamento del pianeta), ed è sembrato quasi un obbligo ritornare alla cara vecchia canzone di protesta come accadeva negli anni sessanta per rivendicare i propri diritti civili. “Non c'è tempo per piangere, non c'è tempo per le lacrime” canta in ‘No Time For Crying’, è ora di agire. Ritorna il vecchio amico Jeff Tweedy, con il quale aveva già registrato due album (YOU ARE NOT ALONE e ONE TRUE VINE), che porta con sé l’ormai inseparabile figlio Spencer e il compagno di band nei Wilco, Glenn Kotche, scrive dieci canzoni adatte alla voce, alla classe e alla tempra combattiva della Staples, suona e duetta in una canzone, ‘Ain’t No Doubt About It’. Americana (‘Peaceful Dream’), black music (‘If All I Was Was Black’) e funk (‘Who Told You That’) si fondono insieme per la giusta causa e ne esce uno dei dischi più combattivi dell’anno.



40 DISCHI per ricordare il mio 2017


martedì 2 gennaio 2018

RECENSIONE: GUY LITTELL (One Of Those Fine Days)

GUY LITTELL   One Of Those Fine Days (AR Recordings, 2017)




Ho conosciuto Gaetano Di Sarno (in arte Guy Littell) in occasione dell'uscita di LATER, album del 2011. Sono passati sei anni, nel frattempo è uscito l'album WHIPPING THE DEVIL BACK (2014) e finalmente quest'anno l'ho incontrato di persona al concerto di Ryan Adams a Gardone, eravamo pure seduti vicini. Già, Ryan Adams, uno dei suoi punti fermi musicali. Durante una vecchia intervista fatta per Impatto Sonoro a ridosso dell'album Later, gli chiesi se avesse qualche sogno nel cassetto. Mi rispose: "il mio sogno nel cassetto è quello di continuare quello che sto facendo, di suonare il più possibile e incidere dischi, non chiedo altro...". Bene, credo che quel modesto sogno si sia avverato: sta continuando a fare quello che più gli piace, suona ed ha inciso un altro bel disco, andando oltre il sogno, perché ONE OF THOSE DAYS, presentato dalla bella grafica di copertina credo sia un grande passo in avanti, un disco che mette sempre in mostra la peculiarità della sua scrittura che si nutre di forti contrasti ma questa volta sembra funzionare molto meglio che nel recente passato. Se da una parte troviamo canzoni con le chitarre a dominare l’urgenza della bella ‘New Records And Clothes’, di ‘Song From A Dream’, di una ‘Love It’ che sembra penetrare lo spettro sonoro più articolato dei REM o di 'Cheating Morning' che mette bene in fila i suoi gusti musicali dichiarati: c'è il Neil Young più rock, quello accompagnato dai Crazy Horse, ci sono le chitarre elettriche degli amati Dream Syndicate di Steve Wynn del quale ricordiamo la prestigiosa partecipazione nel precedente disco. Dall’altra parte, quella acustica e sensibile, intimista, dominata dalla luce e dalle ombre con queste ultime a prevalere, troviamo l’apparente leggerezza di ‘Better For Me’, ‘Twenty Six’, ‘Don't Hide’ e ’Old Soul’ con la chitarra ospite di Kevin Salem. Il disco, uscito solo pochi giorni fa (14 Dicembre) ha la sua forza nella variabile track list che alterna le montagne elettriche con le pianure acustiche: scaletta in grado di accontentare qualsiasi buon ascoltatore di classic rock.


vedi anche
GUY LITTELL (Whipping The Devil Back) & INTERVISTA a GUY LITTELL

lunedì 1 gennaio 2018

40 DISCHI per ricordare il mio 2017

40 dischi per ricordare il mio 2017 in musica



AFGHAN WHIGS-In Spades
CHRIS STAPLETON-From A Room Vol.1&2
MAGPIE SALUTE
WILLIE NELSON-God’s Problem Child RODNEY CROWELL-Close Ties
SON VOLT-Notes Of Blue
JASON ISBELL-Nashville Sound
BLACK JOE LEWIS-Backlash
ELLIOTT MURPHY-Prodigal Son
GARLAND JEFFREYS-14 Steps To Harlem CHUCK BERRY-Chuck!
DON ANTONIO EDDA-Graziosa Utopia
BRUCE COCKBURN-Bone On Bone
LEE BAINS III and THE GLORY FIRES-Youth Detention
JOHN MURRY-A Short History Of Decay LITTLE STEVENS-Soulfire
MARTY STUART-Way Out West
LUKAS NELSON & The PROMISE OF THE REAL
MICHAEL CHAPMAN-50
ROBERT FINLEY-Goin Platinum!
BLACK SABBATH-The End live
CHEAP WINE-Dreams
RYAN ADAMS-Prisoner
CHUCK PROPHET-Bobby Fuller Die For Your Sins
JOHN MELLENCAMP-Sad Clown & Hillbillies
STEVE EARLE-So You Wanna Be An Outlaw TINARIWEN-Elwan
HUMULUS-Reverently Heading Into Nowhere GREGG ALLMAN-Southern Blood
DAN AUERBACH-Waiting On A Song
RAY WYLIE HUBBARD-Tell The Devil…I’m Gettin’ There As Fast I Can
PARADISE LOST-Medusa
ROBERT PLANT-Carry Fire
DAVID CROSBY-Sky Trails SUPERDOWNHOME MAVIS STAPLES-If All I Was Was Black
ALICE COOPER-Paranormal
NEIL YOUNG-Hitchhiker
GEORGE THOROGOOD-Party Of One