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mercoledì 17 gennaio 2018

RECENSIONE: THOM CHACON (Blood In The USA)


THOM CHACON    Blood In The USA (Appaloosa/IRD, 2018)





Sangue metà libanese, metà messicano, nato a Sacramento ma proveniente da Durango, un vecchio cugino pugile, Bobby Chacon, avversario di quel Ray “Boom Boom” Mancini cantato da Warren Zevon e un nonno sceriffo nel New Mexico ai tempi di Billy The Kid. Basterebbero tutte queste coordinate per capire quanto per Thom Chacon i confini non siano alti muri invalicabili ma semplici linee da attraversare con curiosità e speranza in cerca di buone opportunità. Questo nuovo disco esce a distanza di ben cinque anni dal precedente. Tanto tempo. Era nel cassetto da ben due anni ma vede la luce solamente ora, non perdendo assolutamente nulla in attualità, anzi, le tematiche delle sue canzoni sembrano ancor più radicate nel presente di questi Stati Uniti targati scelleratamente Donald Trump. Anche questa volta non cerca troppi colpi ad effetto. Preferisce raccontare quell’America che una volta chiamavamo nascosta e invisibile, quella che qualcuno vorrebbe nascondere sotto il tappeto buono delle feste: canzoni corte, stringate (nove canzoni per ventisette minuti), minimali e senza orpelli, costruite intorno ad una chitarra acustica e un’armonica, senza gridare, dove i protagonisti sono sempre gli emarginati, i lavoratori senza più lavoro (‘Union Town’) e quelli con pochi diritti (‘Work At Hand’), la disperazione dei contadini dimenticati nei loro campi (‘Empty Pockets’), gli immigrati messicani erranti tra i confini (‘I Am An Immigrant’), la disillusione, le terre promesse che tradiscono e non accolgono più (‘Blood In The USA’), le speranze (‘Easy Heart’, ‘Big As The Moon’), quelle ci sono ancora, guai se mancassero.. Il suo è un folk antico, agrodolce, cantato con voce aspra e profonda che ricorda l’ultimo John Mellencamp e Ryan Bingham, che guarda al passato, ispirandosi ai più grandi songwriter americani come John Prine, Bob Dylan, Steve Earle, lo Bruce Springsteen di The Ghost Of Tom Joad, Townes Van Zandt, il sempre dimenticato Jim Croce, e Tom Russell. Non sono paragoni, sono punti di riferimento. Nessun colpo ad effetto ( chi li vuole?) ma onesta solidità cantautorale senza scadenze, sempre dura a morire.




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