NEIL YOUNG Peace Trail (Reprise Records, 2016)
Un disco di pancia che sacrifica la bellezza per il messaggio. Ora sta a voi scegliere da che parte stare.
Qualche anno fa, in occasione dell' uscita del suo disco Odio I Vivi, feci una breve intervista via internet a Edda (l'ex cantante dei milanesi Ritmo Tribale), in conclusione gli buttai giù qualche botta e risposta tra cui: se ti dico “Meglio bruciarsi subito che arrugginire lentamente” (Neil Young)?
La risposta di Edda fu: “Beh, il vecchio Neil oggi ha il triplo mento, le guance ribizze da avvinazzato e ha fatto un disco di merda. Però sempre meglio di me sarà”.
Non ricordo a quale disco si riferisse, ma credo che quella risposta potrebbe andare bene pure oggi anche se questa ultima fatica, dopo qualche ascolto, non suona proprio come un disco di merda, come peraltro si potrebbe pensare leggendo alcune recensioni sparse in rete che l’hanno già stroncato senza appello.
Cosa si può scrivere di nuovo su Neil Young e le sue compulsive uscite discografiche totalmente coerenti con la sua incoerente carriera discografica? Se dovessimo fermarci alla copertina, Edda avrebbe sicuramente ragione. La voglia di comprarlo non ti assale. Fortunatamente (??) io sono uno di quelli che del proprio idolo compra tutto a prescindere, merda o non merda. Un istant record di protesta come altri della sua discografia recente (LIVING WITH WAR, FORK IN THE ROAD, THE MONSANTO YEARS), registrato agli Shangri-La Studios di Rick Rubin in una sola settimana, per dare sfogo alle innumerevoli battaglie che sta combattendo. Anche se la primordiale 'Ohio’, canzone che diede via al tutto, rimane unica e insuperabile. Un disco di pancia che sacrifica la bellezza per il messaggio. Ora sta a voi scegliere da che parte stare. Le dieci canzoni non fanno altro che rimarcare il forte impegno ambientalista che ha tenuto banco in tutte le recenti mosse con i Crazy Horse e con i Promise Of The Real: la battaglia-poi vinta- dei nativi americani contro l’oleodotto che minacciava le loro terre in North Dakota in 'Indian Givers'-da qui è partito tutto- la storia del contadino 'John Oaks', il mago dell'irrigazione che ha difeso il suo lavoro fino alla morte come ci narra la discorsiva 'John Oaks', aggiungendo qualche altra stoccata alla politica, allo sfrenato consumismo, e pure qualche vetro rotto più intimo e personale (la folkie ‘Glass Accident’) . Un bollettino pieno di notizie e qualche buona speranza come canta nella title track: "continuerò a piantare semi finchè qualcosa è in crescita".
Nulla di nuovo quindi? No. Qualcosa di nuovo c'è: PEACE TRAIL è un disco totalmente acustico, scarno ed essenziale, ma incatalogabile, che suona quasi raffazzonato ad un primo ascolto ma diverso da qualunque cosa fatta prima, dove la base ritmica composta dalla batteria in grande evidenza del veterano Jim Keltner (splendido il suo lavoro percussivo e tribale lungo tutto il percorso) e dal basso di Paul Bushnell sembrano spesso fare da sottofondo alle incontenibili parole di Neil Young, cercando di inseguirlo, ma Young è un fiume in piena che va diritto per la sua strada, e quasi non si fa prendere. Passi jazzati ('Can’t Stop Workin', ‘Indian Givers’), chitarre elettriche che guidano 'Peace Trail' e che spuntano all’improvviso, l'andatura quasi reggae di 'Show Me', folk sbilenchi con un’armonica super satura e amplificata (‘Terrorist Suicide Hang Gliders’), momenti in cui Young sembra veramente avvinazzato in preda a vecchi fantasmi psichedelici (‘Texas Rangers’), vocoder come ai tempi di TRANS nella finale 'My New Robot' e a raddoppiare la voce in 'My Pledge'. Non manca quasi nulla. Nel bene e nel male.
Ecco perché Edda aveva ragione: comunque sia, Neil Young sempre meglio di me sarà. Anche quando butta giù un album in pochi giorni nello studio di registrazione di uno dei produttori più acclamati degli ultimi trent’anni senza badare alla perfezione (buona la prima, ottima la seconda!), con un giornale aperto ad ispirargli i testi o scovando notizie e personaggi che nessuno mette in prima pagina, due session man che lo seguono, e una copertina fatta in casa ma con i testi stampati in un gigantesco poster.
Uno dei pochi vecchi rocker a metterci ancora la faccia nelle battaglie in musica, con tutta la libertà compositiva che può giustamente permettersi. A volte zoppica ma rimane sempre in piedi. Un forte urlo politico e sociale con quella romantica ingenuità che non è mai mancata in cinquant' anni di carriera e che spesso fa la differenza.
Io lo amo già.
★ ★ ★ ★ ☆
n.b. Maneggiare le mie parole con estrema cautela
RECENSIONE: NEIL YOUNG-A Treasure (2011)
RECENSIONE: NEIL YOUNG & CRAZY HORSE- Americana (2012)
RECENSIONE: NEIL YOUNG & CRAZY HORSE-Psychedelic Pill (2012)
RECENSIONE: NEIL YOUNG-Live At The Cellar Door (2013)
RECENSIONE: NEIL YOUNG-Storytone (2014)
NEIL YOUNG & CRAZY HORSE live @ Barolo, 21 Luglio 2014
RECENSIONE: NEIL YOUNG + PROMISE OF THE REAL-The Monsanto Years (2015)
RECENSIONE: NEIL YOUNG-Bluenote Cafè (2015)
RECENSIONE: NEIL YOUNG-Earth (2016)
Più lo ascolto e più mi appassiona. Alla fine l'unica cosa che non amo sono le svisate di armonica, ma le composizioni sono veramente buone. Ben tornato Neil, ci hai messo il cuore, e le ultime tre tracce sembrano scritte da un ventenne.
RispondiElimina