WILLIE NILE American Ride (Blue Rose Records, 2013)
La forza di Willie Nile è tutta raccolta tra il suo metro sessanta e settanta di altezza, un concentrato di nervi e tendini che a sessantacinque anni di età-appena compiuti- sono ancora tesi, vitali, scalpitanti, esplosivi, e chi lo ha visto almeno una volta sul palco, sa di cosa parlo. Un artista proiettato sempre verso il segno positivo dell'ottimismo con il cuore sanguinante, perennemente trafitto da una visione ancora romantica e salvifica della musica. Uno staordinario ed onesto entusiasmo, un'attitudine che molti giovani potrebbero solo invidiargli, mai superare o solo eguagliare, temprata da una carriera ad ostacoli che, se confrontata con la "faciloneria a buon mercato"del music business odierno, sembra appartenere alla preistoria, eppure gli anni ottanta non sembrano poi così lontani. Il piccolo cantautore di Buffalo si è ripreso con forza quel meritato posto che il rock'n'roll gli aveva già promesso fin dal suo strepitoso esordio del 1980, e che problemi legali, totalmente estranei alla "vera" musica, hanno cercato di insidiare fin da subito. Potrà sembrare paradossale ma la seconda parte di carriera, quella della sua vera rinascita artistica, inizia dopo il fatidico 11 Settembre 2001, una data spartiacque che per molti ha significato la fine, la chiusura di un cerchio, per lui, da lì, è iniziata una inarrestabile, meritata escalation. Il suo lento ritorno negli anni novanta, dopo il forzato esilio, prima con Place I Have Never Been (1991), poi con Beautiful Wreck Of The World (1999) di cui si ricorda la commovente dedica a Jeff Buckley in On The Road To Calvary, in seguito, dopo tanti altri anni di silenzio, l'impatto straordinario di Streets Of New York (2006), ritratto definitivo della città, con la ferite ancora aperte, che lo ha visto crescere umanamente e musicalmente, seguito dai successivi House Of A Thousand Guitars (2009) e The Innocent Ones (2010), a cui va aggiunta una carriera live letteralmente riesplosa e tanti attestati di stima da parte dei colleghi musicisti:" ho suonato più concerti in questi ultimi due anni che in tutta la carriera", dice.
Anche questo disco non è sfuggito, purtroppo, alle logiche contorte del mercato discografico, ma i tempi, fortunatamente, sono cambiati. Nile aveva queste dodici canzoni da far uscire, ma non un contratto che se ne prendesse cura; da prima si affida all'aiuto finanziario dei fan attraverso Pledgemusic, poi trova finalmente l'etichetta BlueRose Records ed il disco è ora qui, a girare con tutta la passione che straborda.
Una raccolta di canzoni rock senza tempo, con tutte le caratteristiche di quei vecchi dischi che abbiamo sempre amato, e che conserviamo gelosamente tra le cose più care e preziose, degno di stare accanto ad un The River, a Damn The Torpedoes, Infidels, a London Calling, ai suoi primi due (tutti titoli presi a caso, ma ci siamo capiti). American Ride fa la sua figura e il tempo aiuterà.
Un viaggio confortevole, brioso che esalta nei suoi momenti più spensierati e rock'n'roll, segnali di vita scagliati nell'apertura dal piglio punk, lanciata dopo il ramonesiano "one,two... one, two,three" di This Is Our Time; nel quadretto di ordinaria quotidianità lungo le famigliari strade della grande mela e ben dipinto in Life On Bleecker Street; nelle canzoni di fede -quella ironica, quella trovata, persa e ritrovata-nel rock'roll God Laughts scritta con il cantautore Eric Bazilian che fa il paio con la tesa epicità di If I Ever See The Light; nella cover di People Who Died dello scomparso poeta e musicista Jim Carroll suonata con l'urgenza punk e le chitarre elettriche davanti a tutto; o nell'incedere garage/punk anti-guerra di Holy War che potrebbe essere una outtake perduta del clashiano Sandinista!.
Un disco vario, American Ride. Che si pregia di ballate ad ampio respiro, leggere e romantiche come una carezza alla propria amata, quella che una volta era "troppo fredda" ed ora arde d'amore, She's Got My Heart "lei ha gli occhi di suo padre e il sorriso di sua madre/ma ha il mio cuore, sì ha il mio cuore"; o del country/folk dylaniano di American Ride, dal passo limpido e ben disteso, che sprizza e diffonde vita attraverso il pizzico di un banjo, puntando il dito su una cartina stradale degli States alla ricerca del viaggio salvifico che, partendo dalle strade della sua New York, tocca Menphis e Graceland, Nashville, costeggia il Delta del Mississippi e le coste Californiane, riposa di notte tra i deserti di Santa Fe, prosegue verso il Texas e San Francisco, si imbottisce di possente rock'n'roll, di melmoso blues e di raffinato jazz, si carica di sogni e sembra che non ti resti altro che saltare a bordo e vagabondare. "Come on ride ride ride with me baby come on". Scritta insieme a Mike Peters ex voce dei The Alarm, ora nei Big country. Già tra le mie canzoni dell'anno e da testare subito con il volante in mano.
Poi, la seconda metà del disco che lascia il segno dalla parte delle pure emozioni, percorrendo altre importanti strade musicali: il divertente rock swingato di Say Hey con i fiati e suonato con la tosta zampata rockabilly, il ballroom piano dello swing corale di Sunrise In New York, finendo con due prove cantautorali di valore assoluto come la profonda e struggente ballata per solo pianoforte e viola ( suonata da Suzanne Ornstein) di The Crossing, ed il folk di There's No Place Like Home che riporta ai padri putativi dei folksingers americani, Pete Seeger e Woody Guthrie, e che ha le ruote fumanti puntate verso la direzione del focolare, perché poi "potrai aver girato il mondo e fatto festa con i Rolling Stones" ma non c'è nessun posto come la propria casa.
Non vive più all'ombra di nessun paragone, avendo trovato la propria strada in quell'incrocio che unisce il folk del Greenwich Village con il punk metropolitano della sua amata New York di metà anni settanta ...da lì è partito e lì lo ritroviamo, con tanta vita vissuta nel bagaglio ma con la stessa urgenza comunicativa e la poetica urbana degli esordi.
Suonato con la stessa band che abbiamo imparato a conoscere e che lo accompagna in giro per il mondo e l'Europa, continente che lo ha adottato, da lui conquistato definitivamente con i tanti live: Johnny Pisano al basso, Matt Hogan alle chitarre e Alex Alexander alla batteria (più importanti ospiti come Steuart Smith e James Maddock).
L'annullamento del consueto tour estivo in Italia, una volta tanto, non è da prendere con egoistica rabbia, Nile con questo nuovo lavoro sta ottenendo grandi consensi in madrepatria e sta sfruttando al meglio le carte promozionali a sua disposizione, raccogliendo tutto il buono che gli sta arrivando. Tutto meritato.
vedi anche RECENSIONE: WILLIE NILE-The Innocent Ones (2010)
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