ROD STEWART Time (Capitol Records, 2013)
La notizia da prima pagina c'è: il ritorno ad un disco tutto suo (undici canzoni portano la sua firma pur se condivise con il co-produttore Kevin Savigar e tanti altri, Picture In A Frame è una sentita cover di Tom Waits, l'unica, estrapolata da Mule Variations), cosa che non succedeva da anni, l'ultimo di inediti fu il bruttino Human del 2002, ma per trovare la sua firma consistente in calce alle canzoni bisogna addirittura arrivare a Vagabond Heart del 1991. Nel frattempo ci siamo sorbiti (per chi è riuscito ad ascoltarli tutti) una sfilza infinita di The Great American Songbook, cinque per la precisione, e altri svariati album di cover tra cui l'immancabile pastrocchio natalizio dove si permise di riesumare e cantare con la defunta Ella Fitzgerald (operazione discutibile). Il merito di questo ritorno alla scrittura è tutto dell'autobiografia Rod: The Autobiography uscita nel 2012: scavando tra i ricordi dei suoi primi 68 anni di vita è tornata la voglia di metterne qualcuno anche in musica.
Time, come lo stesso Stewart ha precisato, è uno dei suoi dischi più personali in carriera, che riesce a sviscerare dentro a ricordi lontani e intimi, mettendo in fila i primi amori, i due matrimoni falliti e il terzo in corso, le tante donne amate, la prima figlia avuta da giovanissimo e data presto in adozione, gli altri sette figli, il padre. Tutte cose estremamente personali.
Se da un lato è da elogiare la voglia di tornare a fare musica originale, dall'altro è difficile non notare un autocitazionismo musicale che purtroppo non sempre risulta riuscito: Sexual Religion è un numero dance/elettronico dimesso che rincorre stancamente la sua hit Do Ya Think I'm Sexy e tutti gli anni '80, ma purtroppo i tempi non sono più quelli di tutine e salti on stage, riuscendo anche a stonare con il resto del disco e a nulla serve l'inserimento di un assolo di sax, meglio il rock'n'roll/boogie chitarristico di Finest Woman, anche se sembra naturale associarla a vecchi pezzi come Hot Legs o Stone Cold Sober, nulla di nuovo, unica attenuante è che non si sentiva un Rod Stewart così da molto tempo. Che sia la prova generale verso le reunion (Jeff Beck Group, The Faces) che il buon "Rod the mod" ha in testa da un po' di tempo?
A parte queste parentesi, il resto del disco predilige tuffarsi nel folk/pop o meglio pop/folk, non così rootsy come una volta e nemmeno spartano e unplugged come il riuscito disco con Ron Wood del 1993 (l'ultimo grande disco di Stewart?), ma ricoperto da quel velo di patina modernista e arrangiamenti orchestrali "addolciti" sullo sfondo da far storcere il naso ai puristi e attentare la vita ai diabetici, ma che in fondo convince se, per una volta, ci si accontenta, premiando lo sforzo. Insomma, il vestito elegante della festa c'è ancora. Nessuna illusione.
She Makes Me Happy è un folk evoluto con violino e mandolino che rimandano inevitabilmente ai bei tempi di Maggie May e Mandolin Wind e dedica nemmeno troppo velata alla sua attuale compagna Penny Lancaster (l'ultima?), ma tutto si ferma lì. Brighton Beach è un nostalgico e ben riuscito folk acustico che ricorda l'età dei primi amori immediatamente antecedenti alla fama che arriverà da lì a poco e stravolgerà la sua "normale" vita; It's Over scritta con il chitarrista John 5, sulle (tante) relazioni finite, parte folk e acustica prima di trasformarsi inghiottita in un crescendo orchestrale, Make Love To Me Tonight, la più convincente, uno scottish folk con violino e slide, l'unica scevra di sovrastrutture, limpida e pulita.
Rock/pop adulto e inoccuo esce da Can't Stop Me Now dedicata al padre e da Beautiful Morning, un up tempo con chitarre, dai grandi cori che invitano al ballo. Bella Live The Life, filosofia di vita rivolta ai figli e che musicalmente si tuffa ai tempi di Atlantic Crossing (1975) e A Night On The Town (1976).
Non mancano due numeri da navigato crooner che ripercorrono gli ultimi dieci anni della sua discografia da interprete, ma quantomeno qui le canzoni sono sue: la nostalgica Time dall'anima soul tra hammond e gospel e la finale Pure Love, delicata e leggera ballata pianistica colma di arrangiamenti orchestrali.
La voce ha perso la graffiante efficacia dei tempi d'oro, complice un'operazione alla gola-anche se Stewart sostiene il contrario-ma l'impressione generale è quella di un vecchio rocker soddisfatto della sua vita, dei traguardi raggiunti da quell'ex ragazzo ribelle in cerca di guai, figlio di un umile idraulico scozzese, che dalla vita ha ottenuto più di quello che si fosse mai immaginato. Se li è goduti ("Ne Ho fatte di stronzate" racconta nell'autobiografia) e ora si permette di raccontarceli con sincerità abbandonando per un attimo le vesti da interprete; la stessa sincerità che non nascose nemmeno davanti ad una vittoria del suo suo amato Celtic contro i fenomeni del Barcellona, quando si lasciò andare ad un pianto liberatorio di felicità che fece il giro del mondo.
Comunque sia, Time qualche traccia nella mia estate la lascerà.
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